Sono
riportate dopo la successiva Prop. 13.
Dottrina
Prop.
1.
Il
pensiero è un attributo di Dio, ossia Dio è l’Ente pensante.
Dimostrazione:
I singoli pensieri, cioè questo e quel pensiero, sono modi che
esprimono la natura di Dio in una certa e determinata maniera. Compete
dunque a Dio un attributo, di cui tutti i singoli pensieri implicano il
concetto, e solo con riferimento al quale, anche, essi sono concepiti. Il
Pensiero è pertanto uno degli infiniti attributi di Dio, che di Dio
esprime l’essenza eterna e infinita; ossia Dio è cosa pensante. (P. I,
Def. 5 e 6; P. I, Conseg. d. Prop. 25).
Chiarimento:
Questa proposizione risulta evidente anche dall’essere a noi
possibile il concepire un Ente pensante infinito. Infatti: quante più
cose un essere pensante può pensare, tanto più di realtà, ossia di
perfezione, noi vediamo appartenergli; dunque un Ente, che può pensare in
infinite maniere infinite cose, è necessariamente infinito nel suo potere
di pensare. Dato pertanto che, riferendoci soltanto al pensiero, noi
concepiamo un Essere infinito, il Pensiero è necessariamente uno degli
infiniti attributi di Dio, come volevamo. (P. I, Def. 4 e 6).
Prop.
2.
L’estensione
è un attributo di Dio, ossia Dio è l’Ente esteso.
Dimostrazione:
Questa Proposizione si dimostra con lo stesso procedimento della
precedente.
Prop.
3.
In
Dio c’è necessariamente l’idea tanto della sua propria essenza,
quanto di tutte le cose che dalla sua essenza derivano necessariamente.
Dimostrazione:
Dio può infatti (P. II, Prop. 1) pensare infinite cose in infinite
maniere, ossia, ciò che è lo stesso, può formare l’idea della sua
essenza e di tutte le cose che necessariamente ne derivano. Ma tutto ciò
che è in potestà di Dio è necessariamente: e dunque l’idea predetta
esiste necessariamente, e non altrove che in Dio. (P. I, Prop. 15, 16, 25;
P. II, Prop. 1).
Chiarimento:
Per "potere di Dio" la gente intende la libera volontà di
Dio e il suo diritto su tutto ciò che è, e che per tale ragione viene
ordinariamente considerato contingente. Si dice
infatti che Dio ha il potere di distruggere ogni cosa e di annichilarla; e
spessissimo si paragona la potenza di Dio con la potenza dei Re. Ma io ho
già confutato questa opinione (P. I, Conseg. 1 a e 2a d. Prop. 35), ed ho
mostrato che Dio agisce con la medesima necessità con la quale egli
intèllige se stesso (P. I, Prop. 25): cioè, come per la necessità della
natura divina avviene (cosa che tutti sono unanimi nell’affermare) che
Dio conosce se stesso, per la stessa necessità avviene che Dio fa
infinite cose in infinite maniere. Ho poi mostrato (P. I, Prop. 34) che il
potere (o la potenza) di Dio non è altro che la sua essenza
attiva, cioè operante: al punto che pensare che Dio non
agisca è per noi altrettanto impossibile che pensare che Dio non sia.
Inoltre, se si volesse continuare a svolgere questo argomento, potrei
anche mostrare che la potenza che la gente immagina in Dio non è
soltanto una "potenza" di tipo umano (ciò che mostra come la
gente si figuri Dio somigliante o analogo all’Uomo), ma addirittura
implica un’impotenza; ma non voglio ripetere tante volte lo stesso
discorso. Soltanto, prego istantemente il lettore di riflettere con grande
impegno, tornandovi su se è necessario, sulle cose che ho detto intorno a
questo argomento nella I Parte, dalla Prop. 16 alla fine. Sarà infatti
difficilissimo intendere correttamente ciò che voglio dire se non si
eviti con ogni mezzo di confondere la potenza di Dio con la potenza e col
diritto, umani, che hanno i Re.
Prop.
4.
L’idea
di Dio, dalla quale s’originano infinite cose in infinite maniere, può
essere soltanto unica.
Dimostrazione:
L’intelletto infinito non comprende altro che gli attributi di Dio e le
loro affezioni. Ma Dio è unico (P. I, Conseg. d. Prop. 14): e dunque l’idea
di Dio, dalla quale s’originano infinite cose in infinite maniere, può
essere soltanto unica. (P. I, Conseg. d. Prop. 14; Prop. 30).
Prop.
5.
L’essenza
formale delle idee - o struttura razionale peculiare delle idee
stesse: v. P. I, Chiarim. d. Prop. 17 - ammette Dio come causa solo in
quanto egli è considerato cosa pensante, e non in quanto egli è spiegato
mediante altri attributi. Questo vale a dire che le idee, tanto degli
attributi di Dio quanto delle cose singole, ammettono come causa
efficiente non i loro ideati (cioè i loro oggetti
quali-essi-sono-in-sé, cioè le cose vere che le idee esprimono),
ma Dio stesso in quanto egli è cosa pensante.
Dimostrazione:
L’affermazione è chiarita già dalla Prop. 3 di questa Parte: dove
ho concluso che Dio può formare l’idea della sua propria essenza, e di
tutte le cose che da essa derivano necessariamente, grazie al solo suo
essere cosa pensante, e non perché egli sia l’oggetto
della sua idea. Per questo motivo l’essere formale delle idee riconosce
come causa Dio in quanto è cosa pensante. Ma la cosa si dimostra anche
diversamente, come segue. L’essenza formale delle idee è un modo del
pensare, come è noto di per sé, cioè è un modo che esprime in
maniera certa la natura di Dio in quanto cosa pensante: e pertanto essa
non implica il concetto di alcun altro attributo di Dio, e di conseguenza
è effetto del pensiero e non di alcun altro attributo; e quindi l’essere
formale delle idee ammette Dio come causa in quanto egli è considerato
soltanto come cosa pensante, eccetera. (P. I, Ass. 4; Prop. 10; Conseg. d.
Prop. 25).
Prop.
6.
I
modi di qualsiasi attributo hanno Dio come causa solo in quanto
egli è considerato sotto l’attributo per mezzo del quale i modi
in esame sono concepiti, e non in quanto egli sia considerato sotto
qualsiasi altro attributo.
Dimostrazione:
Ciascun attributo si concepisce per sé, astraendo da ogni altro
attributo: per la qual cosa i modi di qualsiasi attributo implicano il
concetto del loro attributo, e non quello di un altro; e perciò
hanno come causa Dio solo in quanto egli è considerato sotto quell’attributo
del quale essi sono modi, e non in quanto egli sia considerato sotto
qualsiasi altro attributo. (P. I, Ass. 4; Prop. 10).
Conseguenza:
Risulta da quanto sopra che l’essere formale delle cose che non sono
modi del pensare non deriva dalla natura divina perché questa abbia prima
avuto la cognizione di quelle cose: ma le cose di cui nella Cosa pensante
esiste l’idea derivano dagli attributi di competenza nella stessa
maniera e per la stessa necessità con le quali ho mostrato che le idee
conseguono dall’attributo del Pensiero.
Prop.
7.
L’ordine
e la connessione delle idee sono identici all’ordine e alla connessione
delle cose.
Dimostrazione:
La cosa è evidente per 1’Ass. 4 della I Parte. Infatti l’idea di
qualsiasi cosa causata dipende dalla conoscenza della causa di cui
la cosa considerata è effetto.
Conseguenza:
Di qui deriva che la capacità di pensare che ha Dio è eguale alla sua attuale
(ossia attiva-e-in-atto) capacità di agire. Questo significa che
qualunque cosa si origini dall’infinita natura di Dio formalmente,
cioè in maniera riscontrabile nella realtà, la stessa cosa si origina in
Dio dall’idea di Dio, nello stesso ordine e con la stessa connessione, obiettivamente,
cioè come puro pensiero.
Chiarimento:
Qui, prima di procedere oltre, dobbiamo richiamarci alla
memoria quel che ho mostrato poco fa: e cioè che tutto ciò che un
intelletto infinito può percepire come costituente l’essenza di una
sostanza appartiene esclusivamente a un’unica sostanza: e che, di
conseguenza, la sostanza pensante e la sostanza estesa sono la stessa
Sostanza, una sola, alla quale ci si riferisce ora sotto questo attributo,
ora sotto quello. Così anche un modo dell’estensione e l’idea
di quel modo sono la stessa realtà, ma espressa in due maniere: e questa
cosa sembra essere stata intuita, sia pur vagamente, da alcuni pensatori
ebrei, i quali in effetti sostengono che Dio, e l’intelletto di Dio, e
le cose da lui conosciute sono in realtà la stessa unica cosa. Per
esempio, un circolo esistente in natura, e l’idea di quel circolo
esistente, che è anche in Dio, sono la stessa unica cosa, che si
manifesta mediante attributi diversi: e pertanto, che noi concepiamo la
natura sotto l’attributo dell’Estensione, o sotto quello del Pensiero,
o sotto qualsiasi altro, vi troveremo lo stesso unico ordine, ossia la
stessa unica connessione delle cause: cioè, sotto questa o quella forma,
le stesse cose che derivano le une dalle altre. Infatti ho detto che Dio
è causa - per esempio - dell’idea del circolo soltanto in quanto
è cosa pensante, e del circolo "materiale" soltanto in
quanto è cosa estesa, per questa sola ragione, che la struttura razionale
peculiare dell’idea del circolo (modo, evidentemente, del
pensiero) non può essere percepita se non attribuendovi come causa
prossima un altro modo del pensare, e attribuendone a quest’ultimo
un altro, e così all’infinito; in maniera che quanto a lungo
consideriamo le cose come modi del pensare noi dobbiamo
spiegare l’ordine di tutta la natura - ossia la connessione delle cause
- mediante il solo attributo del Pensiero; e in quanto consideriamo
le cose come modi dell’estensione dobbiamo spiegare l’ordine
di tutta la natura mediante il solo attributo dell’Estensione; e
la stessa cosa vale per gli altri attributi, sebbene non li
conosciamo. E quindi Dio, in quanto consta di infiniti attributi, è
realmente causa delle cose come esse sono in sé; e per ora non posso
spiegare la cosa più chiaramente.
Prop.
8.
Le
idee delle cose singole, o modi, che al momento presente non
esistono, debbono essere comprese nell’infinita idea di Dio,
così come le essenze formali - o strutture razionali peculiari -
delle cose singole o modi sono contenute negli attributi di
Dio.
Dimostrazione:
Questa proposizione risulta chiara facendo riferimento alla
Proposizione precedente, e ancor meglio sulla base del suo Chiarimento.
Conseguenza:
Di qui deriva che, per tutto il tempo che le cose singolari non
esistono se non in quanto sono comprese negli attributi di Dio, nemmeno il
loro essere oggettivo -cioè le idee che corrispondono a quelle cose -
esiste, se non in quanto esiste l’infinita idea di Dio; e quando le cose
singolari si dicono esistere - non in quanto sono comprese
negli attributi di Dio, ma anche in quanto sono nel tempo, cioè
durano - le loro idee implicheranno anche quell’esistenza
in virtù della quale si dice che esse durano, cioè continuano ad
esistere.
Chiarimento:
Se qualcuno ora mi chiede di spiegare più chiaramente questa cosa con
un esempio, debbo dirgli che non posso, perché non c’è esempio che
spieghi adeguatamente una cosa che è unica; mi sforzerò tuttavia di
illustrarla meglio, per quanto è possibile.
E’
noto che la natura del circolo è tale, per cui i due rettangoli che hanno
per dimensioni le parti di due corde intersecantisi ortogonalmente sono
equivalenti. Quindi ad un circolo qualsiasi sono connesse infinite coppie
di rettangoli equivalenti: ma nessuna di esse può dirsi esistente,
se non in quanto esiste il circolo; e neanche l’idea di
alcuno di quei rettangoli può dirsi esistente, se non in quanto è
compresa nell’idea del circolo.
Si
concepisca ora che di quegli infiniti rettangoli solo due esistano, quelli
cioè aventi per dimensioni le parti delle corde A e B: xo e oy
l’uno, wo e oz l’altro. Certo, ora, le idee di quei due
rettangoli esistono non solo in quanto sono comprese nell’idea del
circolo, ma anche in quanto esse comportano l’esistenza di quei
due rettangoli: e ciò fa sì che esse siano diverse, e si distinguano,
dalle altre idee degli altri rettangoli.
Prop.
9.
L’idea
di una cosa singolare esistente in atto (cioè esistente attualmente
e in maniera funzionale) ha come causa Dio: non in
quanto egli è infinito, ma in quanto è considerato affetto (cioè
modificato) da un’altra idea di una cosa singolare esistente
in atto, della quale Dio è egualmente causa in quanto affetto da
una terza idea ..., e così via in infinito.
Dimostrazione:
L’idea di una cosa singolare esistente in atto è un modo singolare
del pensare, distinto da tutti gli altri, e quindi ha come causa Dio in
quanto egli è (soltanto) cosa pensante: ma non in quanto egli è cosa
pensante in assoluto, bensì in quanto è affetto da un altro
definito modo del pensare; e anche di quest’ultimo Dio è causa in
quanto affetto da un altro modo ancora, e così in infinito. Ma l’ordine
e la connessione delle idee sono identici all’ordine e alla connessione
delle cause: e dunque la causa di un’idea singolare è un’altra idea,
cioè Dio in quanto considerato affetto da un’altra idea; e anche di
quest’ultima egli è causa in quanto affetto da un’altra ancora, e
così in infinito. (P. I, Prop. 28; P. II, Prop. 6; Prop. 7; Conseg. e
Chiarim. d. Prop. 8).
Conseguenza:
In Dio c’è la cognizione di qualunque cosa che accada nell’oggetto
singolare di un’idea qualsiasi, e questo solamente in quanto Dio ha l’idea
dell’oggetto stesso.
Dimostrazione:
In Dio c’è l’idea di qualunque cosa che accada nell’oggetto di
un’idea qualsiasi non in quanto egli è infinito, ma in quanto è
considerato affetto da un’altra idea di una cosa singolare; ma l’ordine
e la connessione delle idee sono identici all’ordine e alla connessione
delle cose: e dunque la cognizione di ciò che accade in un oggetto
singolare sarà in Dio solo in quanto egli ha l’idea dell’oggetto
stesso. (P. II, Prop. 3; Prop. 7; Prop. 9).
Prop.
10.
Nell’essenza
dei singoli umani non ha parte l’essere della Sostanza: ossia la
Sostanza non costituisce la forma - cioè il fatto di quell’esistenza
propria e singolare - dei singoli umani.
Dimostrazione:
L’essere della Sostanza implica infatti l’esistenza necessaria (P.
I, Prop. 7). Se quindi nell’essenza dell’Uomo avesse parte l’essere
della Sostanza, posta l’esistenza della Sostanza sarebbe posta
necessariamente anche quella dell’Uomo (P. II, Def. 2), e di conseguenza
l’Uomo esisterebbe necessariamente: ciò che è assurdo (P. II, Ass. 1).
Dunque nell’essenza dei singoli umani non ha parte l’essere della
Sostanza, ossia la Sostanza non costituisce la forma dei singoli umani.
Chiarimento:
Questa Proposizione si dimostra anche con riferimento alla Prop. 5
della I Parte, la quale afferma che non possono esserci due sostanze della
stessa natura. Dato invece che esistono più umani (ovviamente omogenei),
ciò che costituisce la forma degli umani non è dunque l’essere della
sostanza. La presente Proposizione appare poi del tutto evidente se ci si
riferisca alle altre proprietà della sostanza (l’infinità, l’immutabilità,
l’indivisibilità, eccetera).
Conseguenza:
Segue da questo che l’essenza dell’Uomo è costituita da
determinate modificazioni di attributi di Dio.
Dimostrazione:
L’essere della Sostanza (v. Prop. prec.) non appartiene all’essenza
dell’Uomo. Quest’ultima è dunque qualche cosa che sussiste in Dio, e
che astraendo da Dio non può essere né esser pensata (P. I, Prop. 15);
ossia è un’affezione, o modo, che esprime la natura di Dio in
una maniera determinata e certa (P. I, Conseg. d. Prop. 25).
Chiarimento:
Tutti debbono ovviamente riconoscere che astraendo da Dio nulla può
essere o esser pensato, dato che tutti riconoscono che Dio è l’unica
causa di tutte le cose, e tanto della loro essenza quanto della loro
esistenza: ossia che Dio è causa delle cose non solo perché fa sì che
esse vengano all’esistere, ma anche perché le fa essere come esse sono.
Ma intanto i più dicono - assolutamente - che l’essenza di una cosa è
ciò senza di cui la cosa non può essere né esser pensata: e dicendo
questo dimostrano di credere o che la natura di Dio appartiene all’essenza
delle cose create, o che le cose create possono essere ed esser pensate
astraendo da Dio; o, quel che è più certo, dimostrano di non essere
abbastanza coerenti. All’origine di questo c’è, credo, il non aver
essi adottato un metodo filosofico corretto. Infatti essi hanno creduto
che la natura divina, la quale doveva essere presa in considerazione prima
di ogni altra cosa perché anteriore ad ogni altra cosa sia nella natura
sia nella conoscenza, fosse l’ultima che si debba cercar di conoscere; e
che le cose oggetto dei sensi, come le chiamano, fossero da conoscersi per
prime. Risultato: mentre si occupavano delle cose naturali, essi non
pensavano affatto alla natura divina; e poi, passando a studiare la natura
divina, non potevano affatto riferirsi alle loro fantasie precedenti,
sulle quali essi avevano costruito la conoscenza delle cose naturali ma
che non riuscivano ad essere di alcun aiuto al conoscere la natura divina:
e così non c’è da stupirsi se di tanto in tanto quei
"filosofi" si sono contraddetti.
Ma
lascio da parte questo argomento, perché qui volevo solo spiegare la
ragione per cui io non ho detto - come dicono i più - che appartenga all’essenza
di una cosa ciò senza di cui la cosa stessa non può essere né esser
pensata. La ragione è questa, che le singole cose non possono essere né
esser pensate astraendo da Dio, e tuttavia Dio non appartiene alla loro
essenza: e allora io dico invece che costituisce necessariamente l’essenza
di una certa cosa ciò per cui, se c’è, c’è quella cosa, e per cui,
se scompare, anche quella cosa scompare; in altre parole, essenza di una
cosa è sì ciò senza di cui la cosa stessa non può essere né esser
pensata, ma anche, viceversa, ciò che senza la cosa considerata non può
essere né esser pensato.
Prop.
11.
La
prima cosa che costituisce l’essere attuale (cioè esplicito e
attivo) della Mente umana non è altro che l’idea di una cosa singolare
che esiste in atto, cioè effettivamente e presentemente.
Dimostrazione:
L’essenza dell’Uomo è costituita da determinati modi di
attributi di Dio: appunto da modi del pensare, di tutti i quali l’idea
è per natura il primo; dato il quale, in un determinato individuo, gli
altri modi si ritroveranno poi. E pertanto un’idea è la prima cosa che
costituisce l’essere della Mente umana. Ma non si tratta di un’idea di
cosa nonesistente, perché allora neanche l’idea in parola avrebbe un’esistenza
effettiva, cioè nella durata; si tratterà dunque dell’idea
di una cosa esistente in atto. Ma questa cosa non sarà infinita, perché
una cosa infinita deve necessariamente esistere sempre - ciò che nella
fattispecie sarebbe assurdo: e dunque la prima cosa che costituisce l’essere
attuale della Mente umana è l’idea di una cosa singolare
esistente in atto. (P. I, Prop. 21 e 22; P. II, Ass. 1 , Ass. 2,
Ass. 3; Conseg. d. Prop. 8; Conseg. d. Prop. 10).
Conseguenza:
Di qui risulta che la Mente umana è una parte dell’infinito
intelletto di Dio; e, perciò, quando diciamo che una Mente umana
percepisce questa o quella cosa non diciamo altro che questo: che in Dio,
non in quanto è infinito, ma in quanto si manifesta nella natura di
quella Mente umana (ossia in quanto costituisce l’essenza di quella
Mente), c’è questa o quella idea. Si tenga presente che la nostra Mente
è sì costituita di pensieri dell’Ente pensante, ma che di quei
pensieri alcuni appartengono alla nostra Mente per intero, alcuni solo in
parte (nella parte restante essi ricadono in altre Menti, di cui Dio
costituisce l’essenza come della nostra); perciò, quando poniamo che in
Dio ci sia questa o quell’idea, non solo in quanto egli costituisce la
natura della nostra Mente, ma in quanto in lui c’è - insieme con la
nostra mente, cioè con l’idea del nostro corpo l’idea anche di un’altra
cosa, allora ci risulta chiaro come la nostra Mente percepisca l’oggetto
di questa o quell’idea di Dio (in Dio perfettamente adeguata, come
vedremo) solo in parte, o in maniera inadeguata.
Chiarimento:
Qui senza dubbio i lettori si troveranno imbarazzati e con le idee un
po’ confuse, tanto da non sapere risolversi a proseguire. Ma li prego di
avanzare pian piano con me, e di non formulare giudizi su questo punto
finché non abbiano letto tutto con gran cura.
Prop.12
Ogni
evento che ha luogo nell’oggetto dell’idea che costituisce la Mente
umana deve essere percepito dalla Mente stessa; ossia di quell’evento si
darà necessariamente, nella Mente, l’idea: questo significa che,
qualora l’oggetto dell’idea che costituisce la Mente sia un corpo,
nulla potrà accadere in quel corpo che non sia percepito dalla Mente.
Dimostrazione:
Di tutto ciò che accada nell’oggetto di un’idea qualsiasi c’è
infatti in Dio, necessariamente, la cognizione, in quanto egli è
considerato affetto (cioè interessato, modificato) dall’idea
dell’oggetto stesso, cioè in quanto egli costituisce la
"mente" di quella certa cosa. Di qualsiasi cosa, quindi, che
accada nell’oggetto dell’idea che costituisce la Mente umana, si dà
necessariamente la cognizione in Dio, ìn quanto egli costituisce la
natura della Mente umana: cioè la cognizione di quella cosa è
necessariamente nella Mente; ossia la Mente percepisce quella cosa. (P. II,
Conseg. d. Prop. 9; Prop. 11 e sua Conseg.).
Chiarimento:
Questa Proposizione risulta dimostrata, e s’intende ancor meglio,
dal Chiarimento della Prop. 7 di questa Parte, alla quale si rimanda.
Prop.
13.
L’oggetto
dell’idea che costituisce la Mente umana è il Corpo, ossia un
determinato modo, esistente in atto (cioè effettivamente
e presentemente), dell’Estensione, e nient’altro. (P. I, Def. 5).
Dimostrazione:
Se, infatti, il Corpo non fosse l’oggetto della Mente umana, le idee
delle affezioni del Corpo sarebbero in Dio non in quanto egli costituisce
la nostra mente, ma in quanto costituisce la mente di un’altra entità:
cioè le idee delle affezioni del Corpo non sarebbero nella nostra Mente.
Ma noi abbiamo le idee delle affezioni del Corpo: e dunque l’oggetto
dell’idea che costituisce la Mente umana è il Corpo; e precisamente il
Corpo esistente in atto. Se poi, oltre al Corpo, l’oggetto della Mente
fosse anche qualcos’altro, dato che niente esiste da cui non derivi un
qualche effetto, dovrebbe necessariamente trovarsi nella nostra Mente un’idea
di qualche effetto di quel qualcosa; ma - secondo 1’Ass. 5 di questa
Parte non si trova nella Mente alcuna idea del genere. Dunque l’oggetto
della nostra Mente è il Corpo esistente in atto, e nient’altro. (P. I,
Prop. 36; P. II, Ass. 4; Conseg. d. Prop. 9; Prop. 11 e sua Conseg.; Prop.
12).
Conseguenza:
Di qui deriva che l’Uomo è costituito di una Mente e di un Corpo, e
che il Corpo umano, nei termini in cui lo sentiamo, esiste.
Chiarimento:
Da quanto sopra noi comprendiamo non solo che la Mente umana è unita
al Corpo, ma anche che cosa si deve intendere per unione della Mente e del
Corpo. Si tenga presente però che nessuno potrà comprendere in maniera
adeguata, cioè con ogni chiarezza, quell’unione, se prima non conosca
in maniera adeguata la natura del nostro Corpo. Infatti le condizioni che
abbiamo esposto fin qui a proposito di Menti e di Corpi sono del tutto comuni,
e non si riferiscono agli umani più che agli altri esseri, i quali
tutti sono animati, sebbene in gradi diversi. Di ciascuna
cosa, infatti, c’è necessariamente in Dio l’idea, della quale Dio è
causa esattamente come è causa dell’idea del Corpo umano: e quindi
tutto ciò che abbiamo detto dell’Idea del Corpo umano deve
necessariamente dirsi dell’idea di ciascun’altra cosa. Non possiamo
però, per essere obiettivi, negare che le idee differiscano tra loro
proprio come differiscono i loro oggetti, e che l’una sia migliore dell’altra
e presenti una realtà maggiore, allo stesso modo che l’oggetto
dell’una è migliore o più reale dell’oggetto dell’altra: e
per questa ragione, se vogliamo determinare in che cosa la Mente umana
differisca dalle altre menti e di esse sia migliore, ossia più
complessa e capace, ci è necessario, come abbiamo detto, conoscere la
natura dell’oggetto della Mente stessa, cioè del Corpo umano. Non posso
ora esporre per esteso i caratteri di quella natura: e del resto questo
non è necessario per ciò che voglio dimostrare. Dico tuttavia che, in
generale, come un Corpo è più idoneo di altri a fare nello stesso tempo
diverse cose o a riceverne l’azione, così proporzionalmente la sua
Mente è più idonea di altre a ricevere nello stesso tempo diverse
informazioni; e quanto più le azioni di un determinato Corpo dipendono da
questo Corpo solo, e quanti meno altri corpi concorrono al suo agire, con
tanto maggiore chiarezza la Mente corrispondente è idonea a comprendere.
Grazie a queste considerazioni possiamo conoscere come una mente eccella
sulle altre; possiamo poi vedere la causa per la quale noi abbiamo
soltanto una cognizione parecchio confusa del nostro Corpo; possiamo
quindi arrivare a numerose altre conoscenze che nelle pagine seguenti
dedurrò da quelle qui esposte o accennate. Proprio per questa
considerazione ho pensato che valesse la pena di spiegare e di dimostrare
più accuratamente le affermazioni precedenti: alla qual cosa è
necessario premettere alcune idee a proposito della natura dei corpi.
II
1.
Il Corpo umano si compone di moltissimi individui di diversa natura,
ognuno dei quali è estremamente composito.
2.
Alcuni degli individui di cui si compone il Corpo umano sono fluidi,
alcuni sono teneri, alcuni, infine, sono duri.
3.
Gli individui che compongono il Corpo umano, e di conseguenza il Corpo
umano stesso, sono interessati (o toccati, o sollecitati,
o stimolati, o modificati), in moltissime maniere, dai corpi
esterni a loro.
4.
Il Corpo umano ha bisogno, per conservarsi, di moltissimi altri corpi, dai
quali esso continuamente viene, per così dire, rigenerato.
5.
Quando una parte fluida del Corpo umano è determinata da un corpo esterno
ad urtare spesso una parte tenera ne modifica la superficie, e vi imprime,
in un certo senso, qualche vestigio del corpo esterno che la spinge.
6.
Il Corpo umano può muovere in moltissimi modi i corpi esterni e disporli
in moltissime maniere.
Dottrina
Prop.
14.
La
Mente umana è atta a percepire moltissime cose, e tanto più atta quante
più sono le maniere in cui il suo Corpo può disporsi o conformarsi.
Dimostrazione:
Il Corpo umano, infatti (Convenz. 3 e 6), è interessato dai corpi
esterni in moltissimi modi, ed è congegnato per interessare in moltissimi
modi i corpi esterni. Ma la Mente umana deve percepire tutto ciò che nel
Corpo umano accade: e dunque la Mente umana è atta a percepire moltissime
cose, e tanto più atta quante più sono le maniere in cui il suo Corpo
può disporsi o conformarsi. (P. II, Prop. 12)
Prop.
15.
L’idea
che costituisce l’essere formale della Mente umana (ossia ciò in cui
propriamente consiste la Mente stessa) non è semplice, ma è composta di
moltissime idee.
Dimostrazione:
L’idea che costituisce l’essere formale della Mente umana è l’idea
di un Corpo, il quale (Convenz. 1) si compone di moltissimi Individui
estremamente complessi. Ma di ciascuno degli Individui che compongono il
Corpo è data necessariamente in Dio l’idea: dunque l’idea complessiva
del Corpo umano è composta di queste moltissime idee delle parti che
compongono il Corpo stesso. (P. II, Prop. 7; Conseg. d. Prop. 8; Prop.
13).
Prop.
16.
L’idea
di qualsiasi maniera in cui il Corpo umano viene interessato da corpi
esterni deve implicare la natura del Corpo umano e insieme la natura del
corpo esterno.
Dimostrazione:
Tutte le maniere, infatti, nelle quali un corpo è interessato da un
altro corpo, risentono, insieme, della natura del corpo interessato e
della natura del corpo che interessa quest’ultimo (P. II, Ass. II B, 1):
perciò l’idea di quelle maniere (P. I, Ass. 4) implicherà
necessariamente la natura di entrambi i corpi; e pertanto l’idea di
ciascuna maniera nella quale il Corpo umano è interessato da un corpo
esterno implica la natura e del Corpo umano e del corpo esterno.
Conseguenza
1a: Deriva da questo che la Mente umana percepisce,
insieme con la natura del suo proprio corpo, la natura di moltissimi
corpi.
Conseguenza
2: Da questo deriva inoltre che le idee che noi abbiamo dei
corpi esterni ci rendono nota la costituzione del nostro corpo più che la
natura dei corpi esterni: ciò che ho spiegato con molti esempi nell’Appendice
della I Parte.
Prop.
17.
Se
il Corpo umano è interessato, o modificato, in una maniera che implica la
natura di un corpo esterno, la Mente umana considererà quel corpo esterno
come esistente in atto, ovvero come presente ad essa, fino a
che il Corpo non risenta di un evento, o di una modificazione, che escluda
l’esistenza o la presenza del corpo esterno considerato.
Dimostrazione:
E’ chiara. Quanto a lungo infatti il Corpo umano è toccato o
interessato in tale maniera, tanto a lungo la Mente umana terrà in
considerazione quell’affezione del Corpo, cioè (v. Prop. preced.)
avrà l’idea di una realtà, interessante il suo Corpo, la quale esiste in
atto, cioè effettivamente e attivamente: idea che implica la natura
del corpo esterno da cui il Corpo è toccato o interessato;
idea dunque che non esclude, ma pone, l’esistenza o la presenza
della natura del corpo esterno: e pertanto la Mente (Conseg. 1 d. Prop.
preced.) considererà il corpo esterno come esistente in atto o
come presente fino a quando essa non risenta di un evento,
interessante il suo Corpo, che escluda l’esistenza o la presenza del
corpo esterno. (P. II, Prop. 12; Conseg. 1 a d. Prop. 16).
Conseguenza:
La Mente potrà tuttavia considerare come se fossero presenti, benché
al momento non esistano né siano presenti, i corpi esterni dai quali il
Corpo umano sia stato in altro tempo interessato una volta.
Dimostrazione:
Quando corpi esterni costringono parti fluide del Corpo umano ad
urtare sovente parti tenere, le superfici di queste ultime ne sono
modificate (Convenz. 5): e da ciò accade (P. II, Ass. II B, 2) che queste
parti fluide siano poi "riflesse" dalle tenere in modo diverso
da quello che solevano prima; e che anche in sèguito, incontrando spontaneamente
quelle stesse nuove superfici, ne siano "riflesse" nello
stesso modo di quando vi erano state spinte dagli urti di un corpo
esterno; e che di conseguenza, mentre continuano a muoversi dopo essere
state "riflesse" nella nuova maniera, le parti fluide in parola
interessino il Corpo umano nello stesso modo di allora: modo del quale la
Mente avrà di nuovo l’idea che aveva già avuto. Questo significa che
la Mente considererà come di nuovo presente quel corpo esterno: e
questo ogniqualvolta le parti fluide del Corpo umano incontreranno
spontaneamente, nel loro moto, le medesime superfici. Ragion per cui,
sebbene i corpi esterni, dai quali il Corpo umano fu interessato una
volta, non esistano (localmente) più, la Mente li considererà presenti
ogni volta che nel Corpo si ripeterà la disposizione interna che fu
provocata dalla prima impressione. (P. II, Prop. 12; Prop. 17).
Chiarimento:
Vediamo in tal modo come può accadere - e accade spesso - che noi
consideriamo come presenti cose che presenti non sono. Può anche darsi
che ciò avvenga per altre cause; ma a me basta averne qui mostrato una
mediante la quale posso spiegare il fenomeno come lo mostrerei mediante la
sua causa effettiva: e non credo di esser molto lontano dal vero, dato che
in tutte le Convenzioni che ho assunto (v. sopra) non c’è praticamente
nulla, mi sembra, che non sia provato dall’esperienza - della quale non
possiamo dubitare, dopo che abbiamo dimostrato che il Corpo umano, nei
termini in cui lo sentiamo, esiste (P. II, Conseg. d. Prop. 13).
Comprendiamo poi chiaramente quale sia la differenza che c’è fra l’idea,
poniamo, di Pietro, idea che costituisce l’essenza della
Mente di Pietro stesso, e l’idea che qualcun altro, poniamo Paolo, ha
del Pietro predetto. La prima, infatti, esprime e spiega direttamente
l’essenza del Corpo di Pietro, e non implica esistenza se non nell’ambito
della durata dell’esistenza di Pietro; la seconda invece manifesta,
piuttosto che la natura di Pietro, la struttura del Corpo di Paolo, e
quindi, fan che questa struttura (o stato) del Corpo di Paolo si conservi
tale, la Mente di Paolo considererà Pietro come presente ad essa, anche
se Pietro non sia presente o non esista più (v. la Conseg. qui sopra; e
P. II, Conseg. 2a d. Prop. 16). Per parlare in termini correnti daremo ora
alle affezioni del Corpo umano (cioè agli eventi di cui il Corpo
risente), le cui idee ci raffigurano i corpi esterni come se ci fossero
presenti, il nome di immagini di cose, anche se in esse non compaia
la figura delle cose; e diremo che la Mente immàgina quando
essa considera i corpi in questa maniera. E qui, per cominciare a indicare
che cosa sia l’errore, vorrei che il lettore notasse come le
immaginazioni della Mente, considerate in sé, non siano affatto erronee:
ossia come la Mente non sia in errore per il fatto di immaginare, ma erri
solo in quanto essa appare priva dell’idea che esclude l’esistenza
delle cose che essa immagina di avere presenti. Se la Mente, mentre
immagina d’aver presenti cose non esistenti, sapesse simultaneamente che
quelle cose in realtà non esistono, senza dubbio riterrebbe che una tale
facoltà d’immaginare non è un difetto, ma un pregio della sua natura;
e ciò soprattutto se questa facoltà d’immaginare dipendesse dalla sua
natura sola, cioè (P. 1, Def. 7) se questa facoltà d’immaginare che ha
la Mente fosse libera.
Prop.
18.
Se
il Corpo umano è stato interessato una volta, simultaneamente, da due o
più corpi esterni, la Mente poi, quando immagini uno di essi, sùbito
ricorderà anche gli altri.
Dimostrazione:
La Mente (v. la Conseg. d. Prop. preced.) immagina un determinato
corpo esterno proprio per questa ragione, che il Corpo umano risente dei
vestigi (o impressioni permanenti) d’un corpo esterno nello stesso modo
in cui risentì degli urti effettivi con cui quel corpo esterno
interessò determinate parti del Corpo umano; ma, nell’ipotesi, il Corpo
fu allora disposto in modo che la Mente immaginasse due corpi insieme (o
simultaneamente): e dunque anche ora la Mente immaginerà due corpi
insieme, e, se ne immaginerà uno qualsiasi, sùbito ricorderà anche l’altro.
Chiarimento:
Da quanto sopra comprendiamo chiaramente che cosa sia la Reminiscenza,
o il Ricordare. Non si tratta d’altro, infatti, che di una
concatenazione di idee implicanti la natura di cose estranee al Corpo
umano, concatenazione che avviene nella Mente nello stesso ordine e con la
stessa concatenazione delle affezioni del suo Corpo. Si noti, 1°,
che si tratta di una concatenazione di quelle sole idee che implicano la
natura di cose estranee al Corpo umano, e non delle idee che spiegano la
natura di quelle stesse cose: si tratta infatti (v. la preced. Prop. 16)
di idee di affezioni del Corpo umano, che implicano tanto la natura
del Corpo umano quanto la natura dei corpi esterni. 2°, si noti che
questa concatenazione avviene nello stesso ordine e con la stessa
concatenazione delle affezioni del Corpo umano, e che quindi essa
deve distinguersi dalla concatenazione delle idee che avviene secondo i
criteri dell’intelletto, grazie ai quali - che sono gli stessi in
tutti gli umani - la Mente percepisce le cose mediante le loro cause
prime. Da queste considerazioni comprendiamo inoltre chiaramente la
ragione per cui nella Mente, dal pensiero di una determinata cosa, sorga
sùbito il pensiero di un’altra cosa che non somiglia in nulla alla
precedente: la ragione per cui, per esempio, dal pensiero del termine pomum
un Romano antico passava sùbito al pensiero del frutto
corrispondente, che non ha alcuna somiglianza con quel suono articolato e
non ha con esso niente in comune - salvo l’avere spesso le due cose, il
suono e il frutto, interessato (o colpito, o sollecitato) insieme
il Corpo (cioè i sensi) di quel Romano: il quale udì spesso la
parola pomum mentre vedeva il frutto corrispondente. Così, allo
stesso modo del Romano, ciascuno passerà da un pensiero all’altro in
conformità dell’ordine con cui la sua propria consuetudine ha disposto
nel suo corpo le impressioni delle cose. Un soldato, in effetti, viste le
orme d’un cavallo impresse nella sabbia passerà sùbito dal pensiero
del cavallo al pensiero del cavaliere, e di qui al pensiero della guerra,
eccetera; un agricoltore passerà invece dal pensiero del cavallo al
pensiero dell’aratro, e poi del campo, eccetera; e così ciascuno, da
uno stesso pensiero, passerà a questo o a quest’altro pensiero secondo
le sue abitudini di collegare e concatenare le immagini delle cose.
Prop.
19.
La
Mente non conosce il suo proprio Corpo né sa che esso esiste se non
mediante le idee delle affezioni che interessano il Corpo stesso.
Dimostrazione:
La Mente umana è infatti l’idea stessa - o la conoscenza - del
Corpo umano: idea che invero è in Dio, in quanto egli è considerato affetto
(o interessato) da un’altra idea di cosa singolare; o, anche,
è in Dio perché (v. qui sopra la Convenz. 4), abbisognando il Corpo
umano di moltissimi corpi dai quali esso è continuamente come rigenerato,
ed essendo l’ordine e la connessione delle idee identici all’ordine e
alla connessione delle cose, Dio è considerato affetto dalle idee
di tali moltissime cose singolari. Dio ha pertanto l’idea del Corpo
umano, ossia conosce il Corpo umano, in quanto egli è interessato da
moltissime altre idee e non in quanto costituisce la natura della Mente
umana: e da ciò deriva che la Mente umana non ha una conoscenza adeguata
del Corpo umano. Ma le idee delle affezioni del Corpo sono in Dio
in quanto egli costituisce la natura della Mente umana, e questo comporta
che la Mente umana percepisce quelle affezioni, e di conseguenza
percepisce lo stesso Corpo umano, e lo percepisce come esistente in
atto. Dunque solo in questi termini la Mente umana percepisce il suo
Corpo. (P. II, Prop. 7; Prop. 9; Conseg. d. Prop. 11; Prop. 12; Prop. 13;
Prop. 16; Prop. 17).
Prop.
20.
In
Dio c’è l’idea, o la conoscenza, anche della Mente umana: idea che
viene a trovarsi in Dio e che si riferisce a Dio nella stessa maniera in
cui si trova in Dio e si riferisce a Dio 1’ idea o conoscenza del Corpo
umano.
Dimostrazione:
Il Pensiero è un attributo di Dio, e pertanto deve necessariamente
trovarsi in Dio tanto l’idea del Pensiero stesso quanto l’idea di ogni
affezione o modo del Pensiero, e di conseguenza anche della
Mente umana. Questa idea o conoscenza della Mente, poi, si trova in Dio
non in quanto egli è infinito, ma in quanto è interessato, o affetto,
da un’altra idea di cosa singolare. Ma l’ordine e la connessione
delle idee sono identici all’ordine e alla connessione delle cose:
dunque questa idea o conoscenza della Mente umana viene a trovarsi in Dio
e si riferisce a Dio nella stessa maniera dell’idea o conoscenza del
Corpo. (P. II, Prop. l; Prop. 3; Prop. 7; Prop. 9; Prop. 11).
Prop.
21.
Questa
idea della Mente è unita alla Mente nella stessa maniera in cui la Mente
in parola è unita al Corpo.
Dimostrazione:
Ho mostrato che la Mente è unita al Corpo in conseguenza di
questo, che il Corpo è l’oggetto della Mente (P. II, Prop. 12 e 13); e
pertanto, per quella medesima ragione, l’idea della Mente deve essere
unita al suo oggetto, cioè alla Mente stessa, nella stessa maniera in cui
la Mente considerata è unita al Corpo.
Chiarimento:
Questa Proposizione si capisce con molto maggiore chiarezza
considerando quanto è detto nel Chiarimento della Prop. 7 qui sopra, dove
ho mostrato che l’idea del Corpo (cioè la Mente: P. II, Prop. 13) e il
Corpo stesso costituiscono un unico Individuo, che è concepito ora come modo
dell’attributo "Pensiero", ora come modo dell’attributo
"Estensione": ragion per cui l’idea della Mente e la Mente
stessa costituiscono una sola e unica cosa, che si concepisce in relazione
a un unico attributo, quello appunto del Pensiero. L’idea della Mente,
dico, e la Mente stessa vengono a trovarsi in Dio, con la medesima
necessità, grazie al medesimo potere del pensare: infatti l’idea
della Mente, cioè l’idea di un’idea, non è in realtà altro che la forma
(cioè la configurazione logica) di un’idea, in quanto quest’ultima
viene considerata come un modo del pensare, senza riferimento al
suo oggetto: non appena infatti noi sappiamo una qualche cosa, per ciò
stesso sappiamo di saperla, e simultaneamente sappiamo di sapere che la
sappiamo, e così in infinito. Ma ne riparleremo più avanti.
Prop.
22.
La
Mente umana percepisce non soltanto le affezioni del Corpo, ma anche le
idee di queste affezioni.
Dimostrazione:
Le idee delle idee delle affezioni (cioè degli eventi che
interessano un modo degli attributi della Sostanza) vengono a
trovarsi in Dio e si riferiscono a Dio nello stesso modo delle idee stesse
delle affezioni: ciò che si dimostra con lo stesso criterio della
Dimostrazione della Prop. 20 qui sopra. Ma le idee delle affezioni del
Corpo sono nella Mente umana, cioè sono in Dio in quanto egli costituisce
l’essenza della Mente umana; dunque le idee di queste idee saranno in
Dio in quanto egli ha la conoscenza (ossia l’idea) della Mente umana,
vale a dire che esse saranno nella stessa Mente umana: la quale pertanto
percepisce non soltanto le affezioni del Corpo, ma anche le idee di tali
affezioni. (P. II, Conseg. d. Prop. 11; Prop. 12; Prop. 21).
Prop.
23.
La
Mente non conosce se stessa se non in quanto percepisce le idee delle
affezioni del Corpo.
Dimostrazione:
L’idea (o conoscenza) della Mente viene a trovarsi in Dio, e si
riferisce a Dio, nella stessa maniera dell’idea (o conoscenza) del
Corpo. Ma poiché la Mente umana non ha la conoscenza del suo
Corpo, o, in altri termini, poiché la conoscenza del Corpo umano non si
riferisce a Dio in quanto egli costituisce la natura della Mente umana,
neanche la conoscenza della Mente si riferisce dunque a Dio in quanto egli
costituisce l’essenza della Mente umana; e perciò la Mente umana, in
questi termini, non conosce se stessa. Ma le idee delle affezioni che
interessano il Corpo umano implicano la natura del Corpo stesso, cioè s’accordano
con la natura della Mente; ragion per cui la conoscenza di queste idee
implica necessariamente la conoscenza della Mente; e siccome (v: la Prop.
precedente) la conoscenza di queste idee si trova effettivamente nella
stessa Mente umana, proprio in questi soli termini la Mente umana conosce
se stessa. (P. II, Conseg. d. Prop. 11; Prop. 13; Prop. 16; Prop. 19; Prop.
20).
Prop.
24.
La
Mente umana non può strutturalmente avere una conoscenza adeguata delle
parti che compongono il Corpo umano.
Dimostrazione:
Le parti che compongono il Corpo umano non sono pertinenti all’essenza
del Corpo stesso, se non in quanto si comunicano a vicenda i loro moti
secondo un certo rapporto (v. la Defin. dopo gli Assiomi II B qui sopra),
e non in quanto esse possano considerarsi come Individuo astraendo dalla
loro relazione col Corpo umano. Le parti del Corpo umano sono infatti
Individui estremamente complessi, i cui componenti possono singolarmente
separarsi dal Corpo umano, e comunicare con altro rapporto il loro moto ad
altri corpi (v. 1’ Ass. II B 1 qui sopra), senza che ciò produca alcuna
variazione nella natura e nella forma del Corpo; e perciò l’idea, o
cognizione, di ognuno dei predetti componenti sarà in Dio, proprio in
quanto egli viene considerato interessato da un’altra idea di cosa
singolare che nell’ordine della natura è anteriore alla
parte-componente in parola. La stessa cosa deve poi dirsi di ogni e
qualsiasi parte dell’Individuo considerato, che concorre a formare il
Corpo umano: e quindi di ciascuna parte che compone il Corpo umano c’è
in Dio la cognizione: ma, questo, in quanto egli è interessato da
moltissime idee di cose, non in quanto egli ha solo l’idea (complessiva)
del Corpo umano - l’idea cioè che costituisce la natura della Mente
umana; e pertanto la Mente umana non ha in sé una conoscenza adeguata
delle parti che compongono il Corpo umano. (P. II, Convenz. 1; Prelim. 4;
Prop. 3; Prop. 7; Prop. 9; Conseg. d. Prop. 11; Prop. 13).
Prop.
25.
L’idea
di una qualsiasi affezione del Corpo umano non ha in sé, cioè non
implica, la conoscenza adeguata del corpo esterno al quale si deve l’affezione.
Dimostrazione:
Ho mostrato - si veda la Prop. 16 qui sopra - che l’idea di un’affezione
del Corpo umano implica (od ha relazione con) la natura del corpo esterno
in quanto questo corpo determina in una certa maniera il Corpo umano. Ma,
in quanto il corpo esterno in parola è un Individuo che non ha relazione
sostanziale col Corpo umano, la sua idea, o cognizione, o conoscenza, è
in Dio in quanto Dio è considerato interessato dall’idea di un’altra
cosa, che è anteriore per natura al corpo esterno stesso. Ragion per cui
una conoscenza adeguata del corpo esterno non è in Dio in quanto egli ha
l’idea della corrispondente affezione del Corpo umano; ossia l’idea
che la Mente umana abbia di un’affezione del suo Corpo non implica la
conoscenza adeguata del corpo esterno che provoca l’affezione. (P. II,
Prop. 7; Prop. 9).
Prop.
26.
La
Mente umana non percepisce alcun corpo esterno come esistente in atto se
non mediante le idee delle affezioni del suo Corpo.
Dimostrazione:
Se il Corpo umano non viene interessato in alcun modo da qualche corpo
esterno è evidente che nemmeno l’idea del Corpo umano, cioè la Mente
umana, è interessata in alcun modo dall’idea dell’esistenza di quel
corpo esterno, ossia essa non percepisce in alcun modo l’esistenza del
corpo esterno in parola. Dunque, solo in quanto il Corpo umano è
interessato (o affetto) in qualche modo da qualche corpo esterno,
in tanto la Mente percepisce quel corpo esterno. (P. II, Prop. 7; Prop.
13; Prop. 16 e sua Conseg. la).
Conseguenza:
In quanto la Mente umana immagina un corpo esterno, in tanto non ne ha una
cognizione adeguata.
Dimostrazione:
Quando la Mente umana considera i corpi esterni mediante le idee delle
affezioni del suo Corpo, allora noi diciamo che essa immagina; e la
Mente non ha altro modo di "conoscere" i corpi esterni come
esistenti in atto. E quindi la Mente, in quanto immagina corpi
esterni, non ha di essi una cognizione adeguata. (P. II, Chiarim. d. Prop.
17; Prop. 25).
Prop.
27.
L’idea
di una qualsiasi affezione del Corpo umano non implica la conoscenza (o la
cognizione) adeguata dello stesso Corpo umano.
Dimostrazione:
Un’idea qualsiasi di una qualsiasi affezione del Corpo umano implica la
natura del Corpo umano in quanto quello stesso Corpo umano è considerato affetto
(o interessato) da un corpo esterno in una determinata maniera.
Ma, in quanto il Corpo umano è un Individuo che può essere interessato
in molte altre maniere, la sua idea sarà percepita dalla Mente, in ogni affezione,
in maniera parziale e connessa all’evento specifico: e dunque l’idea
della singola affezione non implica la conoscenza adeguata del
Corpo umano. Si veda anche la Dimostraz. della Prop. 25 qui sopra.
Prop.
28.
Le
idee delle affezioni del Corpo umano, in quanto si riferiscono soltanto
alla Mente umana, non sono chiare e distinte, ma confuse.
Dimostrazione:
Le idee delle affezioni del Corpo umano, infatti, implicano tanto la
natura dei corpi esterni quanto la natura dello stesso Corpo umano, e
debbono implicare non solo la natura del Corpo umano ma anche quella delle
sue parti. Le affezioni sono infatti maniere (Convenz. 3 qui sopra)
in cui sono interessate da fattori esterni le parti del Corpo umano, e di
conseguenza è interessato l’intero Corpo umano: ma una cognizione
adeguata sia dei corpi esterni sia delle parti che compongono il Corpo
umano è in Dio non in quanto egli viene considerato affetto, o
interessato, dalla Mente umana, ma in quanto egli viene considerato
affetto da altre idee. Queste idee delle affezioni sono dunque, in quanto
riferite alla sola Mente umana, come conseguenze senza premesse, cioè,
come è noto di per sé, idee confuse. (P. II, Prop. 16; Prop. 24; Prop.
25).
Chiarimento:
Nella stessa maniera si dimostra che l’idea che costituisce la natura
della Mente umana, considerata in sé sola, non è chiara e distinta; come
non sono chiare e distinte anche l’idea della Mente umana e le idee
delle idee delle affezioni del Corpo umano, in quanto si riferiscono alla
sola Mente: ciò che ciascuno può facilmente vedere.
Prop.
29.
L’idea
dell’idea di una qualsiasi affezione del Corpo umano non implica (o non
ha in sé) una cognizione adeguata della Mente umana.
Dimostrazione:
L’idea di un’affezione del Corpo umano non implica infatti la
cognizione adeguata del Corpo stesso, ossia non esprime adeguatamente la
sua natura: cioè non s’accorda adeguatamente con la natura della Mente;
e pertanto l’idea dell’idea ora esaminata non esprime adeguatamente la
natura della Mente umana, ossia non ne implica una cognizione adeguata.
(P. I, Ass. 6; P. II, Prop. 13; Prop. 27).
Conseguenza:
Deriva da quanto sopra che la Mente umana, ogniqualvolta percepisce delle
cose secondo l’ordine comune della natura, ha di se stessa, e del suo
Corpo, e dei corpi esterni una cognizione non adeguata, ma soltanto
confusa e mutila. La Mente infatti non conosce se stessa se non in quanto
percepisce le idee delle affezioni del Corpo; e non percepisce il suo
Corpo se non mediante le stesse idee delle affezioni, idee mediante le
quali, soltanto, essa percepisce anche i corpi esterni; e pertanto la
Mente, in quanto ha tali idee, non ha una cognizione adeguata né di se
stessa, né del suo Corpo, né dei corpi esterni, ma di tutto ciò ha
soltanto una conoscenza mutila e confusa. (P. II, Prop. 19; Prop. 23; Prop.
25; Prop. 26; Prop. 27; Prop. 28 e suo Chiarim.; Prop. 29).
Chiarimento:
Specifico qui che la Mente ha di sé e del suo Corpo e dei corpi esterni
una cognizione non adeguata ma soltanto confusa e mutila ogniqualvolta
essa percepisce le cose secondo il comune ordine della natura, cioè
ogniqualvolta essa è determinata a considerare questa o quella cosa al
difuori di se stessa e per il fortuito presentarsi di tali cose: non
ogniqualvolta essa nel suo interno, prendendo in considerazione più cose
simultaneamente, si determina a capire in che cosa esse s’accordino, o
differiscano, o s’oppongano; perché in questo caso, cioè ogniqualvolta
la Mente si dispone da se stessa, nel suo interno, in questo o in quel
modo, allora essa contempla le cose chiaramente e distintamente, come
mostrerò più avanti.
Prop.
30.
Della
durata del nostro Corpo noi non possiamo avere alcuna conoscenza che non
sia molto inadeguata.
Dimostrazione:
La durata del nostro Corpo non dipende dalla sua essenza, e nemmeno dalla
natura di Dio considerata in sé, o assoluta. Il Corpo umano è
invero determinato ad esistere e ad operare da cause cosiffatte che sono
anch’esse determinate ad esistere e ad agire - con criteri certi e
specifici - da altre cause, e queste a loro volta determinate da altre, e
così in infinito. La durata del nostro Corpo dipende quindi dall’ordine
generale della natura e dalla struttura delle cose. Del criterio poi della
struttura e dell’organizzazione delle cose c’è in Dio una cognizione
adeguata, ma in quanto egli ha le idee di tutte le cose, e non in quanto
ha solo l’idea del Corpo umano; per la qual cosa la cognizione della
durata del nostro Corpo è, in Dio - in quanto egli è considerato
soltanto come costituente la natura della Mente umana -, assai inadeguata:
vale a dire che tale cognizione è assai inadeguata nella nostra Mente.
(P. I, Prop. 21; Prop. 28; P. II, Ass. I 1; Conseg. d. Prop. 9; Conseg. d.
Prop. 11).
Prop.
31.
Della
durata delle cose singolari, che sono fuori di noi, noi non possiamo avere
alcuna conoscenza che non sia molto inadeguata.
Dimostrazione:
Come il Corpo umano, infatti, così ciascuna cosa singolare dev’essere
determinata ad esistere e ad operare, con criteri certi e specifici, da un’altra
cosa singolare, e questa da un’altra, e così in infinito (P. I, Prop.
28). Dato che nella Proposizione precedente abbiamo dimostrato che noi non
possiamo avere se non una cognizione assai inadeguata della durata del
nostro Corpo sulla base di questa proprietà comune delle cose, dobbiamo
trarne la stessa conclusione a proposito della durata delle cose singolari
in genere: cioè che di tale durata noi non possiamo avere che una
cognizione molto inadeguata.
Conseguenza:
Di qui si comprende che tutte le cose particolari sono, in termini
correnti, contingenti e corruttibili. Come appare dalla
Proposizione precedente, infatti, noi non possiamo avere alcuna cognizione
adeguata della durata delle cose: e solo questo è ciò che dobbiamo
intendere qualificando le cose di contingenti e suscettibili di corruzione
(P. I, Chiarim. d. Prop. 33); perché, in senso proprio, di contingente
non c’è nulla. (P. I, Prop. 29).
Prop.
32.
Tutte
le idee, in quanto si riferiscono a Dio, sono vere.
Dimostrazione:
Tutte le idee che sono in Dio, infatti, convengono (o s’accordano)
appieno con i loro oggetti-quali-essi-sono-in-sé (P. II, Conseg.
d. Prop. 7); e quindi sono tutte vere (P. I, Ass. 6).
Prop.
33.
Nelle
idee che chiamiamo "false" non c’è nulla di positivo che
costituisca la ragione o la causa di tale "falsità" .
Dimostrazione:
Chi nega questa affermazione pensi, se è possibile, un modo positivo
del pensare (cioè un’idea effettivamente esistente) che costituisca la forma
(cioè l’espressione e la giustificazione logica) di un errore o di
una falsità. Questo modo del pensare, secondo la Proposizione precedente,
non può essere in Dio; e neanche fuori di Dio può essere o esser
pensato (P. I, Prop. 15). E dunque in un’idea non può esserci nulla di positivo
per cui essa sia detta falsa.
Prop.
34.
Ogni
idea che è in noi assoluta, ossia adeguata e perfetta, è vera.
Dimostrazione:
Quando diciamo che in noi c’è un’idea adeguata e perfetta
(cioè corrispondente a una concezione razionale e logica nell’ambito
di ciò che è nelle possibilità della Sostanza, e strutturalmente
completa) noi non diciamo altro che questo, che un’idea adeguata e
perfetta è in Dio in quanto egli costituisce l’essenza della nostra
Mente (P. II, Conseg. d. Prop. 11); e di conseguenza non diciamo se non
che una tale idea è vera (P. II, Prop. 32), ossia che essa, oltre
a possedere i caratteri di idea adeguata, conviene appieno con il
suo oggetto-quale-esso-è-in-sé.
Prop.
35.
La
falsità che la nostra Mente attribuisca a un’idea con la quale
essa viene in relazione consiste invero in una privazione (o in un
difetto) di conoscenza di cui la Mente soffre, privazione che è il
portato peculiare delle idee inadeguate, ossia mutile e confuse.
Dimostrazione:
Nelle idee non c’è nulla di positivo che costituisca la
forma della "falsità" (P. II, Prop. 33); d’altronde la
falsità che appartenga a un’idea non può corrispondere a una totale
privazione di conoscenza della Mente riguardo all’oggetto considerato
-privazione che sconvolgerebbe anche i rapporti della Mente col suo Corpo
(e infatti si dice che la Mente, non il Corpo, sbagli o s’inganni); e
nemmeno può corrispondere a una totale ignoranza, perché ignorare ed
errare sono due cose diverse. Dunque l’esser falsa di un’idea
consiste in un difetto di conoscenza che è implicito nella cognizione
inadeguata delle cose, ossia nelle idee inadeguate e confuse.
Chiarimento:
Ho spiegato nel Chiarimento della Proposizione 17 di questa
Parte per quale ragione l’errore consiste in un difetto di conoscenza.
Per rendere più piena la spiegazione di questo fatto, tuttavia, darò un
chiarimento: questo: che gli umani s’ingannano quando credono d’esser
liberi, cioè di poter agire liberamente secondo il proprio volere e
di poter fare o non fare una determinata cosa: perché questa credenza si
fonda sulla consapevolezza che gli umani hanno delle proprie azioni e sull’ignoranza
delle cause dalle quali sono mossi ad agire. Ciò che essi chiamano
libertà non è dunque altro che il non-conoscere alcuna causa delle loro
azioni; e quel che dicono, che l’agire umano dipende dalla volontà,
sono parole alle quali non corrisponde alcun concetto vero: perché tutti
quelli che affermano di saperla lunga, e che immaginano per l’anima sedi
preferenziali e cabine di comando, in realtà ignorano che cosa sia la volontà,
e in qual modo essa muova il Corpo; e soltanto suscitano il riso o il
fastidio. Un altro tipo di errore è quello in cui cadiamo quando,
guardando il Sole, l’immaginiamo distante da noi 200 piedi, più o meno
(60-80 metri). Questo errore non consiste solo in quell’immaginazione,
ma nel nostro ignorare - mentre immaginiamo il Sole in tal modo -sia
quanto esso disti veramente, sia la causa di quella nostra immaginazione.
Infatti, anche se in sèguito veniamo a sapere che il Sole dista da noi
più di 600 [(in realtà, circa 12.000)] diametri terrestri, noi
continuiamo ad immaginarlo assai più vicino: e ciò non perché ignoriamo
la sua vera distanza, ma perché l’affezione del nostro Corpo
(cioè l’impressione che gli organi di senso ricevono da un corpo
esterno) implica l’essenza del Sole in quanto (o nel modo, o nei
termini, in cui) il Corpo ne è interessato.
Prop.
36.
Le
idee inadeguate e confuse si producono e si svolgono con la stessa
necessità delle idee adeguate o chiare e distinte.
Dimostrazione:
Tutte le idee sono in Dio (P. I, Prop. 15); e, in quanto si
riferiscono a Dio, sono tutte vere e adeguate (P. II, Prop. 32; Conseg. d.
Prop. 7); e pertanto non ci sono affatto idee inadeguate né idee confuse,
se non per le relazioni che esse hanno con la particolare Mente dì
qualcuno (si veda su questo le Prop. 24 e 28 della corrente II Parte); e
dunque tutte le idee, tanto le adeguate quanto le inadeguate, si
producono e si svolgono con la medesima necessità (P. II, Conseg. d.
Prop. 6).
Prop.
37.
Ciò
che è comune a tutte le cose (vedi qui sopra il Prelim. A 2), e che si
trova egualmente nella parte e nel tutto, non costituisce l’essenza di
alcuna cosa singolare.
Dimostrazione:
Poniamo che una realtà comune c.s., per esempio A,
costituisca l’essenza di una qualche cosa singolare, per esempio di B.
In questo caso (P. II, Def. I 2) A senza B non potrà essere né esser
pensato: ma ciò è contro l’ipotesi. Dunque A non pertiene all’essenza
di B, né costituisce l’essenza di alcun’altra cosa singolare.
Prop.
38.
Le
entità che sono comuni a tutte le cose, e che si trovano egualmente nella
parte e nel tutto, non possono essere concepite se non in maniera
adeguata.
Dimostrazione:
Sia A un qualcosa comune a tutti i corpi e presente egualmente in
qualsiasi parte e nella totalità di un Corpo qualsiasi (P. I, a ¼ del
2° Chiarim. d. Prop. 8). Dico che A non può concepirsi se non in maniera
adeguata. L’idea di A, infatti, in Dio sarà necessariamente adeguata,
sia in quanto egli ha l’idea del Corpo umano, sia in quanto egli ha
le idee delle affezioni del Corpo stesso (idee, queste ultime, che
implicano (parzialmente) tanto la natura del Corpo umano quanto la natura
dei corpi esterni): e ciò significa dunque che in Dio l’idea di A sarà
necessariamente adeguata in quanto egli costituisce la Mente umana,
ossia ha le idee che si trovano nella Mente umana. La Mente,
pertanto, percepisce A necessariamente in maniera adeguata, e ciò sia in
quanto essa percepisce se stessa, sia in quanto essa percepisce il suo
Corpo o qualsiasi corpo esterno; ed A non può esser concepito altrimenti.
(P. II, Conseg. d. Prop. 7; Conseg. d. Prop. 11; Prop. 12; Prop. 13; Prop.
16; Prop. 25; Prop. 27).
Conseguenza:
Da questo deriva che ci sono alcune idee o nozioni comuni a tutti gli
umani (v. P. I, il sopra citato Chiarim. d. Prop. 8). Infatti (v. qui
sopra, Prelim. A 2) tutti i corpi convengono - cioè s’accordano
- in alcune cose o proprietà, le quali (Prop. preced.) debbono esser
percepite da tutti adeguatamente, cioè in maniera chiara e distinta.
(Anche le Menti, peraltro, convengono tra loro, p. es. nell’implicare
tutte il concetto di uno stesso attributo divino: il Pensiero).
Prop.
39.
Anche
di ciò che è comune e proprio al Corpo umano e a certi corpi esterni dai
quali il Corpo umano suole essere interessato, e che si trova egualmente
nella parte e nel tutto di uno qualsiasi di questi corpi qui considerati,
ci sarà nella Mente un’idea adeguata.
Dimostrazione:
Poniamo che A sia una cosa comune e propria al Corpo umano e ad alcuni
corpi esterni, la quale si trovi egualmente nel Corpo umano e nei predetti
corpi esterni, e che in uno qualsiasi dei corpi esterni in parola si trovi
nella parte e nel tutto. Di A ci sarà in Dio un’idea adeguata, sia in
quanto egli ha l’idea del Corpo umano, sia in quanto egli ha le
idee dei corpi esterni che abbiamo preso in considerazione. Poniamo ora
che il Corpo umano sia interessato da un corpo esterno mediante quella
cosa (o quell’aspetto) che entrambi hanno in comune, cioè mediante A; l’idea
di questa affezione implicherà la proprietà A: e quindi l’idea
di questa affezione, in quanto essa implica la proprietà A, sarà
adeguata in Dio in quanto egli è interessato (o affetto, o modificato)
dall’idea del Corpo umano, cioè in quanto egli costituisce la natura
della Mente umana: e pertanto l’idea dell’affezione considerata, che
implica l’entità (o proprietà) A, sarà adeguata anche nella Mente
umana. (P. II, Conseg. d. Prop. 7; Conseg. d. Prop. 11; Prop. 13; Prop.
16).
Conseguenza:
Di qui deriva che la Mente è tanto più atta a percepire molte cose
adeguatamente quante più proprietà il suo Corpo ha in comune con altri
corpi.
Prop.
40.
Tutte
le idee, che nella Mente si svolgono o seguono o derivano da idee che
nella Mente stessa sono adeguate, sono anch’esse adeguate.
Dimostrazione:
La cosa è evidente. Quando infatti diciamo che nella Mente umana un’idea
segue da idee che nella Mente sono adeguate, noi non diciamo che
questo (P. II, Conseg. d. Prop. 11): che nell’Intelletto divino si
produce una nuova idea, della quale Dio è causa: e ciò non in quanto
egli è infinito, né in quanto egli è interessato o affetto dalle
idee di moltissime cose singolari, ma solo in quanto egli costituisce l’essenza
della Mente umana.
Chiarimento
1°: Con ciò che precede ho spiegato la causa delle nozioni
dette comuni, che sono il fondamento del nostro raziocinio -
poiché, con le percezioni dei sensi, esse costituiscono i fattori
elementari, o primari, del nostro conoscere. Ma ci
sono altre ragioni o cause dalle quali s’originano certi assiomi (o
verità evidenti per se stesse; o, anch’esse, nozioni comuni),
ragioni che sarebbe il caso di spiegare con questo nostro metodo: e dalle
quali infatti risulterebbe, in tal modo, quali nozioni siano più utili
delle altre, e quali invece non servano quasi a nulla; quali sono
realmente comuni, e quali sono chiare e distinte soltanto per coloro che
non soffrono di pregiudizi, e quali infine non hanno buon fondamento.
Altro risultato del nuovo esame e della nuova spiegazione sarebbe l’accertamento
dell’origine di quelle nozioni che son dette seconde (perché l’intelletto
le costruisce in base alle prime o elementari o comuni) e di
quegli "assiomi" più complessi che sulle nozioni seconde si
fondano. Questi ed altri risultati, sui quali talvolta ho meditato,
potrebbero trarsi dalla nuova considerazione delle origini della nostra
conoscenza; ma poiché ho dedicato a queste cose un altro Trattato, e
anche per non stancare nessuno con un argomento prolisso come questo, qui
non me ne occupo oltre. Tuttavia, per non trascurare di queste cose nulla
che sia necessario sapere, dirò ancora brevemente delle cause che hanno
originato i termini chiamati Trascendentali (cioè così generali
da trascendere le definizioni di specie e di genere e di
categoria), quali Ente, Cosa, Qualcosa. Questi termini nascono dall’essere
il Corpo umano limitato, e perciò capace di formare in se stesso,
simultaneamente, soltanto un certo numero di immagini distinte (che cosa
sia un’immagine è spiegato nel Chiarimento della Prop. 17 di questa
Parte); se tale numero sia superato, queste immagini cominceranno a
confondersi; e se il numero delle immagini che il Corpo è capace di
formare in se stesso in maniera simultanea e distinta sia superato di
molto, tutte le immagini si confonderanno tra di loro senza rimedio.
Stando cosi le cose, è evidente - come risulta dalle Proposizioni 17 (Conseg.)
e 18 di questa Parte - che una Mente umana potrà immaginare in maniera
distinta e simultanea tanti oggetti quante immagini possono formarsi
simultaneamente nel suo Corpo. Ma quando le immagini formate nel Corpo
arrivino a confondersi, anche la Mente immaginerà tutti quegli oggetti in
maniera confusa e senza distinzione, e per così dire applicherà a tutti
un’unica etichetta: appunto la denominazione di Ente, Cosa, eccetera.
Questo può anche dipendere dalla diversa vivezza che hanno le singole
immagini, e da altre cause analoghe che non c’è bisogno di spiegare
qui; per lo scopo a cui miriamo è sufficiente considerarne solo una, dato
che tutte convengono ad avvalorare questa affermazione: che i termini
generici suddetti coprono idee estremamente confuse. Da cause simili a
quelle suaccennate sono sorte anche le nozioni chiamate Universali,
quali Uomo, Cavallo, Cane, eccetera: infatti, quando nel Corpo umano si
formino insieme tante immagini - poniamo di umani - che la capacità d’immaginare
ne sia sopraffatta (non del tutto, ma abbastanza perché la Mente non
riesca a registrare le piccole peculiarità di ciascun umano (p. es.
colore, statura) o il numero preciso degli umani immaginati), la Mente
immaginerà distintamente solo quegli aspetti in cui tutti gli umani
considerati assomigliano, cioè quegli aspetti dei quali il Corpo riceve
la stessa percezione da tutti quegli umani e da ciascuno di loro; e tali aspetti,
o caratteri, la Mente esprime col termine Uomo; ed applica il
termine ad infiniti umani singoli (abbiamo detto che in queste condizioni
la Mente non riesce ad immaginare il numero preciso degli individui
umani). Si noti che queste nozioni universali non sono formate da
tutti allo stesso modo: ma in ciascun soggetto esse sono diverse in
ragione della cosa (o dell’aspetto di una cosa) da cui il Corpo è stato
interessato più spesso, o che la Mente ricorda o immagina più
facilmente. Per esempio, chi ha considerato più spesso con meraviglia lo stare
peculiare dell’Uomo intenderà col nome di Uomo un animale a
stazione eretta; chi è stato abituato a considerare altri caratteri dell’Uomo
se ne formerà un’altra immagine collettiva: l’animale capace di
ridere, il bipede implume, l’animale ragionevole. In questa maniera,
anche di tutte le altre cose ciascuno si formerà immagini universali
secondo le peculiarità del suo corpo (o del suo organismo). Ragion per
cui non ci si deve meravigliare che tra i Filosofi, i quali hanno voluto
spiegare la natura basandosi soltanto sulle immagini delle cose, siano
sorte tante controversie.
Chiarimento
2°: Da quanto ho detto qui sopra appare chiaramente che noi
percepiamo molte informazioni e formiamo nozioni universali da tre gruppi
di cose o di eventi: I, Da cose singole, che dai sensi ci vengono proposte
all’intelletto in maniera mutila e confusa e disordinata o casuale:
ragion per cui io son solito chiamare tali percezioni conoscenza per
esperienza vaga (o superficiale). II, Da segni, o
rappresentazioni convenzionali di cose, come le parole
pronunciate o scritte, che ci richiamano alla mente le cose
corrispondenti: cose di cui noi ci formiamo certe idee simili a quelle
mediante le quali immaginiamo le cose. Da questo momento in poi chiamerò
ambo i predetti modi di considerare le cose conoscenza del primo genere,
o opinione, o immaginazione. III, Infine, dal nostro
avere nozioni comuni e idee adeguate delle proprietà delle cose: modo di
considerare le cose, questo, che chiamerò Ragione, e conoscenza
del secondo genere. Oltre a questi due generi di conoscenza ce n’è,
come in sèguito mostrerò, un terzo, che chiamerò scienza intuitiva,
ossia conoscenza per visione diretta: perché esso procede
dall’idea adeguata dell’essenza formale di certi attributi di
Dio alla conoscenza adeguata dell’essenza delle cose; od anche - con
procedimento inverso - perché esso risulta dal vedere come la
peculiare struttura razionale vera di una cosa o di un evento s’inserisce
adeguatamente nello schema funzionale razionale dell’intera
Natura. Spiegherò tutto questo prendendo esempio da una sola cosa. Siano
dati tre numi, e si voglia trovarne un quarto che stia col terzo nello
stesso rapporto in cui il secondo sta col primo. I mercanti son sicuri che
il numero cercato si ottiene moltiplicando il secondo per il terzo e
dividendone il prodotto per il primo: e ciò o perché non hanno ancora
dimenticato la regola assoluta che appresero dal maestro, o perché
hanno spesso sperimentato questo metodo su numeri molto semplici, o
perché accettano la dimostrazione di Euclide, Libro 7°, Prop. 19a, che
riguarda appunto la proprietà comune dei numi proporzionali. Ma con
numeri davvero molto semplici non c’è bisogno di Euclide né di altro:
dati p. es. i numeri 1, 2, 3, ognuno sa immediatamente che il
quarto numero proporzionale è 6; perché dallo stesso rapporto che c’è
fra il primo numero e il secondo, e che basta un solo sguardo a conoscere,
ognuno capisce quale dev’essere il quarto numero. (P. I, Chiarim. d.
Prop. 17; P. II, Chiarim. d. Prop. 18; Conseg. d. Prop. 29; Conseg. d.
Prop. 38; Prop. 39 e sua Conseg.; Prop. 40).
Prop.
41.
La
conoscenza del primo genere è l’unica causa di "falsità",
mentre la conoscenza del secondo e del terzo genere è necessariamente
vera.
Dimostrazione:
Abbiamo detto nel Chiarimento precedente che alla conoscenza del primo
genere appartengono tutte quelle idee che sono inadeguate e confuse: e
quindi questa conoscenza è l’unica cagione di cognizioni false. Alla
conoscenza del secondo e del terzo genere abbiamo detto invece che
appartengono le idee che sono adeguate: e quindi essa è necessariamente
vera. (P. II, Prop. 34; Prop. 35).
Prop.
42.
La
conoscenza del secondo e del terzo genere ci insegna a distinguere il vero
dal falso; non così la conoscenza del primo genere.
Dimostrazione:
Questa Proposizione è evidente per se stessa. Chi infatti sa
distinguere fra il vero e il falso deve avere un’idea adeguata del vero
e del falso, cioè (P. II, Chiarim. 2° d. Prop. 40) deve conoscere il
vero e il falso mediante il secondo o il terzo genere di conoscenza.
Prop.
43.
Chi
ha un’idea vera sa nello stesso tempo di avere un’idea vera, e non
può dubitare della verità di ciò che conosce.
Dimostrazione:
In noi un’idea vera è quella che in Dio, in quanto egli si
esprime mediante la natura della Mente umana, è un’idea adeguata (P.
II, Conseg. d. Prop. 11). Poniamo pertanto che in Dio, in quanto egli si
esprime mediante la natura della Mente umana, ci sia l’idea adeguata A.
Anche di questa idea deve necessariamente essere in Dio l’idea, che -si
veda la Prop. 20 qui sopra, la cui Dimostrazione è universale - si
riferisce a Dio nella stessa maniera in cui gli si riferisce l’idea A.
Ma abbiamo posto che l’idea A si riferisca a Dio in quanto egli è
espresso mediante la natura della Mente umana: dunque anche l’idea dell’idea
A deve riferirsi a Dio nella stessa maniera: cioè (v. ancora la Conseg.
della Prop. 11) anche questa idea adeguata dell’idea A sarà nella Mente
che ha l’idea adeguata A. E pertanto chi ha un’idea adeguata, cioè
chi conosce veramente una cosa, deve nello stesso tempo avere un’idea
adeguata - ossia una conoscenza vera della sua conoscenza: cioè (come è
evidente di per sé) deve essere certo di sapere davvero quel che
sa. (P. II, Prop. 34)
Chiarimento:
Che cosa sia l’idea di un’idea è spiegato nel Chiarimento della
Prop. 21 di questa Parte; ma si deve notare che la Proposizione precedente
è abbastanza chiara di per sé. Infatti chiunque abbia un’idea vera sa
che un’idea vera implica una certezza somma: perché avere un’idea
vera non significa null’altro che conoscere una cosa perfettamente,
o nella maniera migliore; e sicuramente nessuno può dubitare di questo, a
meno che concepisca l’idea come una rappresentazione senza vita,
muta come una figura dipinta, e non invece come un modo del pensare - appunto
l’atto stesso dell’intelligere. Dico: come si può
sapere di conoscere una cosa qualsiasi, se prima non si conosce quella
cosa? ossia, chi può sapere di esser sicuro di una data cosa se prima non
è sicuro di quella cosa? Inoltre, che cosa può esserci più chiara e
più certa - così da essere garanzia di verità - di un’idea vera?
Proprio come la luce manifesta se stessa e le tenebre, così la verità è
norma (o regola, o misura, o garanzia) di se stessa e
di ciò che è falso. E con quanto ho detto credo d’avere
risposto a diverse domande: p. es., se un’idea vera si distingue da un’idea
falsa solo in quanto la prima conviene (o s’accorda) con
il suo oggetto-quale-esso-è-in sé, un’idea vera non ha dunque una realtà
o una perfezione superiore a quella di un’idea falsa, dato che
esse si distinguono soltanto - potendo essere entrambe adeguate - per
una peculiarità estrinseca, cioè per la predetta convenienza
dell’idea vera col suo oggetto vero? e di
conseguenza, un Uomo che ha idee vere non è migliore di un Uomo che ha
soltanto idee false? E inoltre, da che cosa dipende che gli umani abbiano
idee false? E infine, da quali condizioni obiettive un Uomo può sapere
con certezza d’avere delle idee che convengono coi loro ideati
(od oggetti-quali-essi-sono-in-se’), ossia delle idee vere?
Direi che mi sembra d’avere già risposto a queste questioni.
Infatti, per quanto concerne la differenza tra idea vera e idea falsa,
risulta dalla Prop. 35 di questa Parte che l’idea vera ha con l’idea
falsa la stessa relazione che l’essere ha col non-essere. Nelle
Proposizioni 19-35 (compreso il Chiarimento di quest’ultima) ho invece
mostrato con ogni chiarezza le cause della "falsità": e dalle
Proposizioni citate appare anche quale differenza ci sia tra l’Uomo che
ha idee vere e l’Uomo che non ne ha che false. Quanto all’ultimo
problema suaccennato, cioè da che cosa un Uomo possa sapere con certezza
di avere un’idea che s’accorda col suo ideato, ossia un’idea vera,
ho appena finito di dimostrare più che a sufficienza che una tale
certezza sorge nell’Uomo dal solo avere un’idea che conviene col
suo oggetto-quale-esso-è-in-sé, ossia dall’essere la stessa
verità la norma (o la regola, o la misura, o la garanzia)
della verità stessa. S’aggiunga a questo che la Mente, in quanto
percepisce le cose nella loro verità, cioè come esse sono veramente, è
parte dell’infinito intelletto di Dio (P. II, Conseg. d. Prop. 11); e
quindi le idee chiare e distinte della Mente debbono essere vere per la
stessa necessità per cui sono vere le idee di Dio.
Prop.
44.
È
proprio della natura della Ragione considerare le cose non come
contingenti ma come necessarie.
Dimostrazione:
E’ proprio della natura della Ragione percepire le cose secondo
verità, o appunto come esse sono in sé, cioè
non come contingenti (o casuali), ma come necessarie (o tali
da non potere non essere quali sono). (P. I, Def. 7; Ass. 6; Prop. 29; P.
II, Prop. 41).
Conseguenza
1a: Di qui deriva che il nostro considerare le
cose come contingenti, tanto rispetto al passato quanto
rispetto al futuro, dipende solo dall’immaginazione.
Chiarimento:
In quale maniera ciò accade? Lo spiegherò in poche parole. Ho
mostrato nella Prop. 17 qui sopra e nella sua Conseguenza come la Mente
immàgini sempre determinate cose, anche se esse non esistono, come
presenti, a meno che intervengano cause dalle quali la presente esistenza
di quelle cose sia esclusa. Nessuno poi dubita che noi immaginiamo anche
il tempo, immaginando, come immaginiamo, che i corpi si muovano alcuni
più lentamente di altri, o più velocemente, o con eguale velocità.
Poniamo pertanto che un bambino abbia visto per la prima volta, ieri
mattina, Pietro, e poi a mezzodi Paolo, e al tramonto Simeone; e stamane,
di nuovo, abbia visto Pietro. Dalla Prop. 18 di questa Parte risulta che
quel bambino, come vedrà la luce del mattino, tosto immaginerà il sole
che percorre la stessa parte del cielo percorsa il giorno precedente,
cioè immaginerà il giorno intero; e insieme col mattino immaginerà
Pietro, e col mezzo di Paolo, e col tramonto Simeone: immaginerà cioè l’esistenza
di Paolo e di Simeone riferita al futuro; al contrario, se veda al
tramonto Simeone, egli riferirà Pietro e Paolo al passato, immaginandoli,
come sarà, insieme col tempo passato; e ciò accadrà tanto più
regolarmente quanto più spesso egli avrà visto quegli uomini in questo
stesso ordine. Se invece accada che in un altro tramonto il bambino veda
Giacomo anziché Simeone, il mattino successivo egli immaginerà collegati
col tramonto ora Simeone, ora Giacomo, ma non mai entrambi insieme:
perché si suppone che al tramonto egli abbia visto soltanto l’uno o l’altro
dei due, ma non ambedue insieme. La sua immaginazione dunque ondeggerà, e
collegherà coi tramonti avvenire ora l’uno, ora l’altro: cioè egli
non considererà di poter rivedere con certezza o Simeone o Giacomo, ma
riterrà che il rifarsi vivo sia un evento contingente sia per l’uno sia
per l’altro. E questo ondeggiare sarà lo stesso anche nel caso che l’immaginazione
riguardi altre cose che noi consideriamo nello stesso modo con relazione
al passato o al presente; e di conseguenza immagineremo come contingenti
(ovvero suscettibili di essere o di nonessere, o suscettibili di essere
state o di non-essere state) quelle cose, siano esse riferite al presente
o al passato o al futuro.
Conseguenza
2a: E’ proprio della natura della Ragione percepire le
cose nella loro peculiare eternità, ossia considerare gli aspetti anche
transitori della Sostanza come partecipi, in un modo loro peculiare, dell’essere
eterno della Sostanza stessa.
Dimostrazione:
Secondo la Proposizione precedente, è proprio della natura della
Ragione considerare le cose come necessarie e non come contingenti. La
Ragione, poi, percepisce questa necessità delle cose secondo verità,
cioè come essa è in sé. Ma questa necessità delle cose è la
stessa necessità dell’eterna natura di Dio: dunque è proprio e
peculiare della natura della Ragione considerare le cose, anch’esse,
come eterne, ma in una maniera particolare e loro propria;
ossia secondo una loro peculiare eternità. S’aggiunga che i
fondamenti della Ragione sono le nozioni che spiegano quelle entità o
quelle caratteristiche che sono comuni a tutte le cose: entità o
caratteristiche che non danno ragione dell’essenza di alcuna cosa
singolare; e che perciò debbono essere pensate al difuori di qualsiasi
relazione temporale, e sotto una specie - per così dire -
di eternità: appunto, l’eternità che è loro peculiare
secondo quanto affermato nella Conseguenza 2a qui sopra. (P. I,
Ass. 6; Prop. 16; P. II, Prop. 37; Prop. 38; Prop. 41).
Prop.
45.
Ciascuna
idea di un qualsiasi corpo o cosa singolare esistente in atto implica
necessariamente l’eterna e infinita essenza di Dio.
Dimostrazione:
L’idea di una cosa singolare che esiste in atto (cioè
attualmente e attivamente) implica necessariamente tanto
l’essenza quanto l’esistenza della cosa stessa. Ma le cose singolari
non possono esser pensate astraendo da Dio: ed, avendo esse Dio come causa
- in quanto egli è considerato sotto l’attributo del quale le
cose in parola sono modi -, le idee di quelle cose debbono
necessariamente implicare il concetto del loro attributo, cioè l’infinita
ed eterna essenza di Dio. (P. I, Def. 6; Ass. 4; Prop. 15; P. II, Conseg.
d. Prop. 3; Prop. 6).
Chiarimento:
Qui per esistenza non intendo la durata, cioè
l’esistenza in quanto è concepita superficialmente e come un
caso particolare di quantità. Parlo infatti della natura
stessa dell’esistenza che le cose singolari si trovano a possedere per
questa sola ragione, che dall’eterna necessità della natura di Dio si
producono infinite cose in infinite maniere (v. P. I, Prop. 16). Parlo
quindi dell’esistenza stessa delle cose singolari in quanto esse sono
in Dio: infatti, anche se ogni cosa singolare è determinata da
un’altra cosa singolare ad esistere in quella certa maniera, la forza
per cui ciascuna cosa persevera nell’esistere proviene però dalla
necessità eterna della natura di Dio. Sulla qual cosa si veda nella P. I
la Conseguenza della Prop. 24.
Prop.
46.
La
conoscenza dell’eterna e infinita essenza di Dio, che ogni idea implica
(v. la Prop. preced.), è adeguata e perfetta.
Dimostrazione:
La Dimostrazione della Proposizione precedente è universale,
e, sia che noi consideriamo una cosa come una parte, sia che la
consideriamo come un tutto, l’idea di quella cosa - sia essa l’idea di
un tutto, sia essa l’idea di una parte -implicherà (v. la Prop. preced.)
l’eterna e infinita idea di Dio. Ragion per cui, se ciò che è comune a
tutte le cose e si trova egualmente nel tutto e nella parte è ciò, che
dà la conoscenza dell’eterna e infinita essenza di Dio, la conoscenza
implicata da ogni idea come sopra sarà adeguata (P. II, Prop.
38). Ciò, s’intende, limitatamente alla conoscenza che noi possiamo
avere di Dio: del quale non conosciamo certo tutto, né la maggior parte.
Ma la nostra ignoranza della maggioranza degli attributi di Dio non ci
impedisce affatto di conoscerne alcuni con certezza.
Prop.
47.
La
Mente ha una conoscenza adeguata dell’eterna e infinita essenza di Dio.
Dimostrazione:
La Mente umana ha delle idee, mediante le quali percepisce se stessa e
il proprio Corpo, e i corpi esterni coi quali essa entra in relazione,
come esistenti in atto; e quindi - secondo le due precedenti Proposizioni
- ha una conoscenza adeguata dell’eterna e infinita essenza di Dio. (P.
II, Conseg. la d. Prop. 16; Prop. 17; Prop. 19; Prop. 22; Prop. 23 ;
Prop. 45 e Prop. 46)
Chiarimento:
Di qui vediamo che l’essenza infinita di Dio e la sua eternità sono
note a tutti. Ora, tutte le cose sono in Dio, e sono pensate grazie
a Dio, ossia in grazia del loro esistere in Dio: e stando così la
questione ne risulta che da questa conoscenza che tutti hanno noi possiamo
dedurre moltissime conseguenze, che arriveremo poi a conoscere adeguatamente,
formandoci così quel terzo genere di conoscenza di cui abbiamo detto
nel Chiarimento 2° della Prop. 40 di questa Parte; e di cui nella V Parte
avremo luogo di descrivere l’eccellenza e l’utilità. Che però gli
umani ordinari non abbiano di Dio la stessa conoscenza chiara che hanno
delle nozioni comuni dipende da questo, che essi non possono immaginare
Dio come immaginano i corpi, ed hanno legato il nome Dio alle
immagini delle cose che son soliti vedere: esito, questo, che gli umani
possono evitare difficilmente, interessati di continuo, come sono, da
corpi esterni. E invero il più degli errori consiste solo nel nostro
applicare non-correttamente i nomi alle cose. Chi, per esempio, dica che
le linee condotte dal centro di un cerchio alla sua circonferenza non sono
segmenti di eguale lunghezza, indubbiamente intende per cerchio -
almeno in questo caso - qualcosa di diverso da quello che intendono
i Matematici. Così pure, quando qualcuno sbaglia dei calcoli, ha in mente
certi numeri, mentre sulla carta ce n’è altri: quindi, se consideriamo
soltanto i meccanismi della sua Mente, non vi troveremo certo alcun
errore; ma per la considerazione ordinaria ci sembra che egli sbagli,
perché crediamo che abbia nella mente gli stessi numeri che sono sulla
carta. Se ciò non fosse, noi sapremmo bene che quegli non sbaglia; come
non ho creduto che sbagliasse - sebbene le sue parole fossero
assurde - un tale che or ora ho udito gridare che il suo cortile era
volato nella gallina del vicino: perché m’è sembrato che il suo pensiero
fosse abbastanza chiaro. Come dicevo, la maggior parte delle
controversie nasce appunto dall’incompleta e non-corretta esposizione
che la gente dà del proprio pensiero, o dalla cattiva interpretazione che
la gente dà del pensiero altrui. Spesso infatti, mentre ritengono di
trovarsi in pieno disaccordo, in realtà gli umani pensano le stesse cose
che pensa l’avversario, o pensano cose diverse da quelle che credono di
pensare: e così quel che nell’avversario sembra erroneo o assurdo in
realtà non è tale.
Prop.
48.
Nella
Mente non c’è alcuna volontà indipendente o libera: ma nel volere
questa cosa o quella la Mente è determinata da una causa, che è
determinata anch’essa da un’altra causa, la quale a sua volta è
determinata da un’altra, e così in infinito.
Dimostrazione:
La Mente è un modo certo e determinato del pensare, e pertanto
non può essere causa libera delle sue azioni, ossia non
può avere una facoltà assoluta, o indipendente, di volere e di
non-volere; ma a volere questa o quella cosa deve essere determinata da
una causa che anch’essa è determinata da un’altra causa, che a sua
volta è determinata da un’altra, eccetera (P. I, Conseg. 2 d. Prop. 17;
Prop. 28; P. II, Prop. 11).
Chiarimento:
In questo stesso modo si dimostra che nella Mente non c’è alcuna
facoltà assoluta, o indipendente, di capire, di desiderare, di
amare, eccetera: da cui segue che queste e altre simili facoltà o sono
del tutto fittizie, o non sono altro che enti metafisici, o universali,
che noi abitualmente formiamo partendo dalle cose particolari. Con questo
criterio l’intelletto e la volontà stanno con questa o quell’idea, o
con questa o quella volizione, nella stessa relazione in cui la petreità
sta con questa o quella pietra, o in cui 1’Uomo sta con Pietro e
con Paolo. La causa, poi, per cui gli umani si credono liberi, è spiegata
nell’Appendice della Parte I. Prima però di procedere oltre viene qui
opportuno notare che per volontà io intendo la facoltà,
non il desiderio (o il volere connesso al desiderare), di
affermare e di negare: la facoltà, dico, mediante la quale la Mente
afferma, o nega, che cosa sia vero e che cosa sia falso; non la voglia,
o cupidità, con la quale la Mente appetisce le cose o le rifugge.
Ora, dopo aver affermato che le predette "facoltà" sono nozioni
universali, indistinguibili dalle cose singolari sulle quali noi le
costruiamo, si deve ricercare se le volizioni in parola siano qualche cosa
oltre alle idee stesse delle cose; si deve ricercare, dico, se nella Mente
ci sia un’affermazione e una negazione oltre a quella che l’idea,
in quanto è idea, implica. (Si veda su questo argomento la Proposizione
successiva, e anche la Def. 3 di questa Parte). Bisogna evitare, infatti,
di identificare il pensiero con le immagini: e a
questo proposito io intendo, per idee, non le figure che si
formano sul fondo dell’occhio, o, se preferiamo, nel mezzo del cervello,
ma i concetti del Pensiero, ossia la struttura
razionale delle cose in quanto essa è realizzata soltanto nel pensiero.
Prop.
49.
Nella
Mente non c’è alcuna volizione, cioè non c’è alcuna affermazione o
negazione, oltre a quella che un’idea, in quanto è idea, implica.
Dimostrazione:
Nella Mente, secondo la Proposizione che precede, non c’è alcuna
facoltà assoluta di volere e di non-volere, ma ci sono
soltanto singole volizioni: appunto, questa e quella
affermazione, questa e quella negazione. Concepiamo, adesso, una volizione
singola - poniamo, il modo del pensare col quale la Mente afferma
che la somma dei tre angoli interni d’un triangolo corrisponde a due
angoli retti. Questa affermazione implica il concetto - o idea - del
triangolo: e ciò significa che essa non può essere pensata senza avere l’idea
del triangolo. (E’ infatti lo stesso dire che A deve implicare il
concetto B e dire che A non può concepirsi senza B). Inoltre l’affermazione
precedente non può neanche essere senza l’idea del triangolo.
Dunque, senza l’idea del triangolo questa affermazione non può essere
né esser concepita, o pensata. Questa idea del triangolo, poi, deve
implicare la medesima affermazione predetta: appunto, che la somma dei
suoi tre angoli corrisponde a due angoli retti. Per la qual cosa, anche
inversamente, questa idea del triangolo non può essere né esser pensata
astraendo dall’affermazione in parola: e pertanto la detta affermazione
appartiene all’essenza dell’idea del triangolo, e non è altro che
questa. Quello che abbiamo detto di questa volizione (dato che l’abbiamo
presa a piacere) deve dirsi anche di qualsiasi altra volizione: ossia deve
appunto dirsi che ogni volizione non è nulla all’infuori dell’idea
nella quale essa è implicata. (P. II, I, Def. 2; I, Ass. 3).
Conseguenza:
La volontà e l’intelletto sono la stessa e unica cosa.
Dimostrazione:
La volontà e l’intelletto non sono nulla all’infuori delle stesse
singole volizioni e idee (P. II, Prop. 48 e suo Chiarim.). Ma per la
Proposizione precedente - una volizione singola e un’idea sono la stessa
cosa, un’unica cosa: dunque volontà e intelletto sono la stessa cosa,
un’unica cosa.
Chiarimento:
Con quanto precede ho tolto via la causa comunemente ammessa dell’errore.
Poco fa (Prop. 35 di questa Parte) ho mostrato che la "falsità"
consiste nella sola privazione di vero (o difetto di vero)
che le idee mutile e confuse implicano: per cui un’idea falsa, in
quanto è falsa, non implica certezza. Pertanto, quando diciamo che
qualcuno si contenta di idee false e non ne dubita, non diciamo con questo
che quegli sia certo di quello che pensa, ma soltanto che non ne
dubita - o sta contento di idee false -perché non si verificano cause che
facciano fluttuare la sua immaginazione (vedi a questo proposito il
Chiarimento della Prop. 44 qui sopra). Per quanto fortemente dunque si
supponga che un uomo sia affezionato a idee false, mai tuttavia diremo che
egli sia certo: perché per certezza noi intendiamo qualcosa
positivo (v. P. II, Prop. 43 con il suo Chiarim.), non una
semplice assenza (o privazione) di dubbio; allo stesso modo in cui
intendiamo la falsità come privazione (o difetto) di certezza (o di
vero). Ma ora, per una più abbondante spiegazione della Proposizione
precedente, restano a darsi alcuni avvertimenti; e resta anche da
rispondere alle obiezioni che possono porsi a questo insegnamento; e
infine, per togliere al lettore ogni scrupolo, mi sembra che valga la pena
di indicare alcuni vantaggi dell’insegnamento in parola (dico alcuni,
perché i vantaggi principali saranno messi meglio in luce da ciò che
diremo nella V Parte).
Comincio
pertanto col primo avvertimento, e raccomando ai Lettori di fare un’accurata
distinzione fra l’Idea (o concezione della Mente) e le immagini delle
cose che immaginiamo; e anche - ciò che è necessario - di distinguere le
idee dalle parole con le quali indichiamo le cose. Molti, infatti, per
aver totalmente confuso queste tre entità - le immagini, le parole, le
idee - o per non averle distinte abbastanza accuratamente o con
sufficiente cautela, hanno ignorato appieno questa dottrina concernente la
volontà: dottrina che invece è necessarissimo conoscere, sia a fini
speculativi, sia per organizzare saggiamente la propria vita. Coloro,
infatti, che pensano che le idee consistano nelle immagini che si
formano in noi quando siamo interessati da corpi esterni, sono convinti
che le idee delle cose (o delle entità) di cui non possiamo
formarci alcuna immagine che vi somigli non siano idee, ma
soltanto fantasmi, che costruiamo grazie ad un libero arbitrio della
volontà; essi considerano dunque le idee come figure dipinte, incapaci di
moto e di parola, e, posseduti da questo pregiudizio, non vedono che un’idea,
in quanto è idea o concezione della Mente, implica un’affermazione
o una negazione. Coloro poi che confondono le parole con l’idea, o con l’affermazione
stessa implicita nell’idea, credono di poter volere contrariamente
a ciò che sentono; mentre soltanto a parole affermano
o negano qualcosa che contrasta a ciò che sentono. Ma chi
fa attenzione alla natura del pensiero, che non implica per nulla il
concetto dell’estensione, potrà facilmente spogliarsi di questi
pregiudizi: e così capirà chiaramente che l’idea, essendo un
modo del pensare, non consiste né nell’immagine di qualche cosa, né in
parole. L’essenza delle parole e delle immagini, infatti, consiste
soltanto in moti del corpo, che non implicano per nulla il concetto del
pensiero. Basti ora aver dato sull’argomento queste poche indicazioni;
passo perciò alle obiezioni di cui ha fatto cenno qui sopra.
Prima
obiezione: è quella di coloro che credono evidente che la volontà si
estenda su un territorio più ampio di quello dell’intelletto, e che
quindi sia diversa dall’intelletto. La ragione per cui essi credono che
la volontà si estenda più in largo dell’intelletto è questa, che noi
sappiamo per esperienza - dicono - di aver bisogno, per assentire a
(cioè per affermare e negare) infinite cose che non percepiamo, non di
una facoltà di assentire maggiore di quella che abbiamo, ma di una
maggiore facoltà di conoscere. La volontà si distinguerebbe
dunque dall’intelletto perché questo è finito, e quella, invece,
infinita.
Seconda
obiezione: l’esperienza non sembra insegnare nulla più chiaramente di
questo: che noi possiamo sospendere il nostro giudizio, così da
non impegnarci sulle cose che ci si presentano; il che è anche confermato
dall’asserzione di tutti, che, qualora s’ingannino, attribuiscono l’inganno
non alla percezione dell’oggetto considerato, ma all’avervi dato o
rifiutato il loro assenso. P. es., chi immagina un cavallo
alato non concede per questo che un cavallo alato ci sia;
cioè non per questo s’inganna, a meno che insieme ammetta che il
cavallo alato esiste: e pertanto sembra che l’esperienza
non insegni alcunché più chiaramente di questo - che la volontà,
o facoltà di assentire, è libera, ed è diversa dalla facoltà di
conoscere.
Terza
obiezione: una data affermazione non sembra contenere una realtà
maggiore di quella di un’altra affermazione: ossia, noi vediamo che l’affermare
che ciò che è vero è vero non abbisogna di una potenza maggiore di
quella che occorre per affermare che ciò che è falso è vero; mentre
invece percepiamo che una determinata idea abbia una maggiore realtà,
ossia una perfezione maggiore, di un’altra idea: perché, come ci sono
oggetti evidentemente migliori di altri, così le idee dei primi sono più
perfette di quelle dei secondi. E anche da queste considerazioni sembra
risultare evidente una differenza tra la volontà e l’intelletto.
Quarta
obiezione: se l’operare degli umani non è prodotto dalla libertà della
loro volontà, che cosa accadrà quando un Uomo si trovi in una situazione
di equilibrio, come l’asina di Buridano? Morirà forse di fame e
di sete? Se io ammettessi questo esito, sembrerei aver preso in
considerazione un asino, o una statua, non un uomo vero; se lo negassi,
vorrebbe dire che quell’uomo si è determinato da sé, ed ha quindi la
facoltà di muoversi e di agire come vuole.
Oltre
a queste si può forse porre altre obiezioni; ma poiché non sono tenuto a
replicare a tutte le fantasticherie della gente, cercherò ora di
rispondere alle sole obiezioni sopra riferite, e nella maniera più breve
che potrò.
Quanto
dunque alla prima obiezione, io posso ammettere che la volontà si estenda
più in largo dell’intelletto, se per intelletto s’intenda solamente
le idee chiare e distinte; ma nego che la volontà si estenda al di là
delle percezioni, cioè della facoltà di rendersi conto delle cose; e
nemmeno riesco a vedere perché si debba dire infinita la facoltà di volere
piuttosto che la facoltà di sentire, o percepire: infatti,
come possiamo, sempre con la stessa facoltà di volere, affermare
infinite cose (l’una però dopo l’altra, perché è impossibile
affermare infinite cose simultaneamente), cosi anche possiamo,
sempre con la stessa facoltà di sentire, percepire (o sentire)
infiniti corpi, beninteso l’uno dopo l’altro. Se qualcuno dica che
esistono infinite cose che noi non arriviamo a percepire, risponderò che,
non potendo noi fare oggetto quelle cose di alcun pensiero,
conseguentemente non possiamo nemmeno volerle o non-volerle. Però, dice
quegli, se Dio volesse che noi percepissimo anche quelle cose dovrebbe
invero darci una più estesa facoltà di percepire, ma non una facoltà di
volere più estesa di quella che ci ha dato: il che equivale a dire che,
se Dio volesse far si che noi conoscessimo infiniti altri enti, sarebbe
certo necessario - perché potessimo renderci conto di tutti quegli enti -
che egli ci desse un intelletto maggiore, ma non un’idea dell’Essere più
universale di quella che ci ha dato. Abbiamo infatti mostrato che
la volontà è un ente universale, ossia un’idea mediante
la quale gli umani spiegano tutte le singole volizioni, cioè quello che
tutte esse hanno comune. Siccome essi credono che questa idea comune o
universale di tutte le volizioni sia una facoltà, non c’è
affatto da meravigliarsi se gli umani dicano che una tale facoltà
si estende all’infinito oltre i limiti dell’intelletto. Ciò che è universale
può infatti dirsi di uno, e di molti, e di infiniti individui.
Alla
seconda obiezione rispondo negando che noi possiamo liberamente sospendere
il giudizio. Quando infatti diciamo che qualcuno sospende il suo
giudizio non diciamo altro che questo, che egli vede di non avere del
problema una percezione adeguata. Quindi la sospensione del giudizio è in
realtà una percezione, e non un libero volere. Per capire meglio la cosa
pensiamo a un bambino che immagina un cavallo alato, e non ha percezione
di alcunché d’altro. Dato che questa immaginazione implica l’esistenza
del cavallo (P. II, Conseg. d. Prop. 17), e che il bambino non percepisce
alcunché che escluda l’esistenza del cavallo, il bambino stesso
considererà necessariamente il cavallo come presente, e non potrà
dubitare della sua esistenza, sebbene non ne sia certo: noi lo
sperimentiamo tutti i giorni nei sogni, e credo che nessuno pensi di
potere, mentre sogna, sospendere il suo giudizio sugli eventi del sogno, e
di riuscire a non sognare ciò che sogna di vedere; e nondimeno accade che
anche nei sogni noi sospendiamo il nostro giudizio - appunto quando
sogniamo di sognare. Si capisce che io concedo che nessuno s’inganna in
quanto percepisce, cioè concedo che le immaginazioni della Mente,
considerate in sé, non implicano alcun errore (v. il Chiarim. d. Prop. 17
di questa Parte); ma nego che lo stesso nostro percepire non sia un
affermare. Che cos’è infatti avere la percezione di un cavallo
alato, se non affermare che un cavallo ha le ali? Se, infatti, la Mente
non percepisse nulla oltre al cavallo alato, essa lo considererebbe
presente, e non avrebbe alcuna causa di dubitare della sua esistenza né
alcuna possibilità di pensare diversamente: salvo il caso in cui l’immagine
del cavallo alato fosse collegata a un’idea che esclude l’esistenza
del cavallo stesso, o il caso in cui la Mente percepisse che l’idea del
cavallo alato, che essa ha, è inadeguata; nel qual caso la
Mente dovrebbe o necessariamente negare l’esistenza del cavallo, o
necessariamente dubitarne.
Con
questo credo d’avere risposto anche alla terza obiezione. La volontà,
dico, è un qualcosa universale, che troviamo presente in ogni idea, e con
cui indichiamo soltanto ciò che è comune a tutte le idee: appunto, l’affermazione.
Di questa affermazione l’essenza adeguata, in quanto si
concepisce astrattamente in questo modo, deve pertanto trovarsi in
ciascuna idea, e solo a questo riguardo dev’essere in tutte la stessa;
ma non in quanto essa si consideri costituire l’essenza dell’idea:
dato che le singole affermazioni differiscono tra di loro tanto, quanto
differiscono le idee stesse - p. es., l’affermazione implicita nell’idea
del circolo differisce da quella implicita nell’idea del triangolo
esattamente come l’idea del circolo differisce dall’idea del
triangolo. Nego poi in modo assoluto che ci occorra un’eguale potenza di
pensiero per affermare che ciò che è vero è vero e per affermare che
ciò che è falso è vero: infatti queste due affermazioni, se badiamo
soltanto alla mente che pensa e non alle parole, stanno fra di esse come l’essere
sta al non-essere; perché nelle idee false non c’è alcunché di
positivo che costituisca la forma della "falsità" (P. II,
Prop. 35 e suo Chiarim., e Chiarim. d. Prop. 47). Quindi è qui
particolarmente il caso di notare quanto facilmente c’inganniamo, quando
confondiamo gli universali con le cose singole, e gli enti di ragione e le
cose astratte con la realtà.
Quanto
alla quarta obiezione, io ammetto senza riserve che un Uomo, posto nella
condizione di equilibrio che abbiamo detto (nella condizione appunto di
non percepire che la fame e la sete, e quel cibo e quella bevanda
egualmente distanti da lui), morirà di fame e di sete. Se qualcuno mi
chiede se un tale Uomo debba giudicarsi un Uomo, o piuttosto un asino,
dico che non lo so; come nemmeno so che giudizio si debba dare di chi s’impicca,
e quanto siano da valutarsi i bambini, gli stupidi, i pazzi, eccetera.
Resta
infine da far notare quanto la conoscenza della dottrina qui esposta giovi
alla buona gestione della vita: cosa che risulterà facilmente da ciò che
segue.
I:
Questa dottrina ci insegna infatti che noi operiamo grazie soltanto al
volere di Dio e che siamo partecipi della natura divina, e questo tanto
più quanto più perfette sono le azioni che compiamo e quanto più e più
profonda è la nostra conoscenza di Dio. Questa dottrina, dunque, oltre a
rendere l’animo perfettamente tranquillo, ha il pregio di insegnarci in
che cosa consista la nostra suprema felicità, o Beatitudine: appunto
nella sola conoscenza di Dio, dalla quale siamo indotti a compiere
soltanto quelle azioni a cui ci persuadono l’amore e il senso del
dovere. Di qui comprendiamo chiaramente quanto siano lontani da una
corretta valutazione della virtù coloro che s’aspettano d’esser
magnificamente premiati da Dio per la loro virtù e le loro opere buone,
compiute per forza, con spirito di schiavi: quasi che l’esser virtuosi e
il servire Dio non fossero la stessa felicità e la libertà suprema.
II.
Questa dottrina c’insegna come dobbiamo comportarci riguardo alle cose fortuite
ossia estranee al nostro potere, cioè riguardo alle cose che non
dipendono dalla nostra natura e dalle sue facoltà: appunto, aspettare e
vivere senza alcun patema d’animo le manifestazioni della
"fortuna" e della "sfortuna": cosa del tutto
ragionevole, poiché tutti gli eventi procedono dall’eterna
determinazione di Dio con la stessa necessità con cui dalla natura del
triangolo procede che la somma dei suoi tre angoli interni equivalga a due
angoli retti.
III.
Questa dottrina giova alle relazioni sociali in genere in quanto insegna a
non odiare né disprezzare né deridere alcuno, e a non adirarsi con
alcuno, e a non invidiare alcuno; e inoltre in quanto insegna che ognuno
sia contento del suo, e sia d’aiuto al prossimo non per una pietà
sentimentale o per parzialità o per superstizione, ma soltanto in
conformità di quel che suggerisce la Ragione secondo le esigenze del
tempo e dei casi: come mostrerò nella Quarta Parte.
IV.
Questa dottrina, infine, giova non poco alla collettività organizzata o
comunità politica, in quanto insegna con quale criterio i cittadini
debbano essere governati e diretti: appunto non perché agiscano da
schiavi, ma perché scelgano liberamente di compiere ciò che è il
meglio.
Con
questo ho finito ciò che avevo deliberato di trattare nel presente
Chiarimento: e quindi concludo questa Seconda Parte, nella quale ritengo d’avere
spiegato la natura della Mente umana e le sue proprietà con la larghezza
e - per quanto lo comporta la difficoltà dell’argomento - con la
chiarezza sufficienti; nella quale, anche, ritengo d’avere proposto al
lettore cognizioni tali che da esse si possa trarre molte conclusioni
eccellenti, che non è solo utilissimo ma è necessario conoscere,
come risulterà partitamente da quanto segue.