LIBRO
QUARTO
I mezzi esteriori e ausili, di cui Dio si serve per chiamarci a Gesù Cristo suo figlio e mantenerci uniti a lui
CAPITOLO I DELLA VERA CHIESA CON CUI DOBBIAMO MANTENERCI UNITI, IN QUANTO È MADRE DI TUTTI I CREDENTI 1. È stato illustrato nel libro precedente in qual modo, mediante la fede nell'evangelo, Gesù Cristo diventi nostro e noi siamo resi partecipi della salvezza da lui recata e della beatitudine eterna. Ma, poiché la nostra pigrizia, la nostra ignoranza, e altresì la vanità dei nostri spiriti, necessitano di aiuti esterni, mediante cui la fede sia generata in noi, cresca e progredisca, Dio non ha dimenticato di fornirceli a sostegno della nostra debolezza. Affinché la predicazione dell'evangelo proseguisse il suo corso, egli ha affidato questo tesoro in deposito alla sua Chiesa: ha istituito dei pastori e dei dottori (Ef. 4.2) , per bocca dei quali rivolgerci i suoi insegnamenti; non ha insomma trascurato nulla che potesse produrre fra noi un santo consenso di fede ed un buon ordine. Ha istituito anzitutto i sacramenti, che sappiamo essere, per esperienza, strumenti particolarmente utili ad alimentare e confermare la nostra fede. Dato che, rinchiusi nella nostra carne come in un carcere, non siamo ancora pervenuti ad un livello angelico Dio, adeguandosi alle nostre capacità, ha scelto, nella sua mirabile provvidenza, questo procedimento per permetterci di accedere a lui quantunque siamo lontani. La disposizione della materia richiede che tratti ora della Chiesa e del suo regime, degli uffici connessi con la sua opera, della sua autorità, dei sacramenti ed infine della disciplina ecclesiastica; e cerchi di liberare i lettori dalla corruzione e dagli abusi con cui Satana ha cercato di imbastardire nel papismo quanto Dio aveva prescelto per la salvezza nostra. Inizierò con la Chiesa, in seno alla quale Dio ha voluto raccogliere i suoi figli, affinché non solo fossero nutriti dal ministero di lei in età infantile ma affinché essa eserciti una cura materna costante nel guidarli sino al raggiungimento della maturità, anzi della meta finale della fede. Non è lecito infatti scindere queste due realtà, che Dio ha congiunte: essere la Chiesa madre di tutti coloro di cui egli è padre. Questo fatto non si è verificato soltanto sotto la Legge, ma permane tuttora valido, anche dopo l'avvento di Gesù Cristo; lo attesta san Paolo dichiarando che siamo figli della nuova Gerusalemme celeste (Ga 4.20). 2. Allorquando nel Credo confessiamo di credere la Chiesa, questo articolo di fede non si riferisce solo alla Chiesa visibile, di cui stiamo ora parlando, ma a tutti gli eletti di Dio, fra cui sono inclusi coloro che sono già trapassati. Perciò viene adoperato il termine "credere", spesso infatti non siamo in grado di discernere chiaramente la differenza tra i figli di Dio e la gente profana, tra il suo santo gregge e le bestie selvatiche. In quanto alla preposizione "in", che alcuni inseriscono a questo punto, essa non è motivata da validi argomenti. Ammetto che si tratti della forma oggi maggiormente in uso e sia stata adoperata anche nell'antichità; lo stesso simbolo di Nicea, citato nella storia ecclesiastica, dice "credere nella Chiesa ". Risulta tuttavia dai testi degli antichi Padri, che era altresì accolta senza difficoltà l'espressione "credere la Chiesa ", anziché "credere nella Chiesa". Sant'Agostino, infatti, e l'autore del trattato sul Simbolo, attribuito a san Cipriano, non solo si esprimono in questi termini, ma sostengono anzi che l'espressione risulterebbe. Impropria qualora vi fosse aggiunta la preposizione "in ". E questa loro tesi poggia su un argomento per nulla frivolo. Infatti noi confessiamo di credere "in Dio ", in quanto a lui il nostro cuore si affida, sapendolo veritiero, ed in lui ripone la sua fiducia. Questo non si addice alla Chiesa, né alla remissione dei peccati, né alla risurrezione dei morti. Pur non volendo polemizzare su questioni formali, preferisco dunque far uso di termini appropriati, che permettano di chiarire il problema, anziché ricorrere ad espressioni che inducano in errore senza necessità. Il senso dell'espressione "credere" è di garantirci che, malgrado le macchinazioni del Diavolo e la congiura dei nemici di Dio e i loro sforzi violenti in vista di annullare la grazia di Cristo, questa non può essere soffocata, e il sangue di Gesù Cristo, non può essere reso sterile si che non produca i suoi frutti. È perciò necessario, a questo punto, fare riferimento all'elezione di Dio e altresì alla sua vocazione interiore, mediante la quale egli trae a se i suoi eletti, perché lui solo conosce coloro che gli appartengono e li custodisce nascosti sotto il suo sigillo, come dice san Paolo (Il Timoteo 2.19) , finché portino i suoi segni, mediante cui si possano discernere dai reprobi. Trattandosi però soltanto di una manciata di uomini, per di più spregevoli e frammisti ad una grande moltitudine, nascosti come un po' di grano sotto un mucchio di paglia sull'aia, è d'uopo lasciare a Dio solo il privilegio di conoscere la sua Chiesa, a fondamento della quale sta la sua elezione eterna. In realtà, non è sufficiente avere in mente il concetto che Dio ha i suoi eletti, occorre realizzare nello stesso tempo il fatto dell'unità della Chiesa, avendo la convinzione di essere realmente inseriti in essa. Se non siamo infatti uniti a tutte le altre membra sotto il comune Capo, cioè Gesù Cristo, non possiamo in alcun modo sperare nell'eredità futura. La Chiesa è perciò detta cattolica o universale, in quanto non se ne possono costituire due o tre, qualora la cosa fosse a noi possibile, senza lacerare Gesù Cristo. Anzi, gli eletti di Dio essendo così strettamente uniti in Gesù Cristo, in quanto dipendono tutti da uno stesso capo, sono resi tutti insieme uno stesso corpo, legati da quel vincolo che esiste tra le membra di un corpo umano. Sono dunque tutti uno, viventi della medesima fede, speranza e carità per lo Spirito di Dio, essendo chiamati non solo ad una stessa eredità, ma a diventare partecipi della gloria di Dio e di Gesù Cristo. Quantunque la terribile desolazione, che ovunque si riscontra, lasci supporre che nulla sussista della Chiesa, riteniamo dunque come un fatto certo che la morte di Cristo continua a recare frutto e Dio custodisce miracolosamente la sua Chiesa come in un nascondiglio, come fu detto ad Elia riguardo al suo tempo: "mi sono riservato settemila uomini, che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal " (3Re 19.18). 3. L'articolo del simbolo si riferisce però anche alla Chiesa nel suo aspetto esteriore, affinché ognuno di noi sia condotto a mantenersi in fraterno accordo con tutti i figli di Dio, ad attribuire alla Chiesa l'autorità che le compete e infine a comportarsi come una pecora del gregge. Perciò viene aggiunta "la comunione dei santi ", elemento questo da non sottovalutarsi, quantunque risulti trascurato dagli antichi, in quanto esprime molto bene la natura della Chiesa. Viene fatto così allusione al fatto che i santi sono raccolti nella comunità di Cristo in modo tale, che si debbono scambiare mutuamente i doni dati da Dio. Tuttavia non viene con questo annullata la diversità delle manifestazioni della grazia; vediamo infatti che i doni dello Spirito sono distribuiti in modi diversi, e altresì l'ordine dei rapporti non è sovvertito al punto che ognuno non abbia facoltà sue personali, poiché è necessario per il mantenimento della pace fra gli uomini che ognuno disponga delle sue facoltà. Questa comunità deve essere intesa nel senso dell'espressione di san Luca: "Non vi era che un cuore e un'anima nella moltitudine dei credenti " (At. 5.32) , e parimenti di san Paolo, quando esorta gli Efesini ad essere un corpo e uno spirito, in quanto sono chiamati ad un'unica speranza (Ef. 4.4). Persone convinte del fatto che Dio è loro padre comune e Cristo loro signore, non possono non essere unite fra loro dall'amore fraterno sì da scambiarsi reciproca. Mente i propri beni a vantaggio l'uno dell'altro. Giustamente ci è richiesto, ed è per noi utile, intendere quali frutti derivino da questo fatto; poiché dobbiamo credere la Chiesa, avendo la certezza di farne parte. La nostra salvezza sarà saldamente fondata e stabilita, in modo che quand'anche tutto il mondo fosse sconvolto, ne permarrebbe la certezza intatta quando avremo inteso che essa poggia sull'elezione di Dio e non può venir meno senza che l'eterna provvidenza sia distrutta. Che inoltre riceve conferma dal fatto che Cristo deve permanere nella sua interezza e non permetterà che i suoi credenti siano separati da lui più di quanto tollererà che siano disperse le sue membra. Che abbiamo inoltre la certezza, che la verità permane con noi fintantoché dimoriamo in seno alla Chiesa. E infine sentiamo che sono rivolte a noi le promesse quando ci vien detto che vi sarà salvezza in Sion Dio dimorerà in perpetuo in Gerusalemme e non si allontanerà mai da essa (Gl. 2.32; Ob. 17; Sl. 16.6). Tale è infatti la forza della comunione della Chiesa da mantenerci nella comunione con Dio. Parimenti il termine "comunione ", è in grado di procurarci grande conforto: dato che tutta quanta la grazia conferita dal nostro Signore alle sue membra e alle nostre ci appartiene, tutti i beni che possediamo risultano conferma della speranza nostra. Del resto non è necessario per mantenerci nella comunione di quella Chiesa il vedere una comunità visibile e toccarla con mano. Anzi ci viene ricordato che, essendo oggetto di fede, la dobbiamo riconoscere quando è invisibile non meno che quando siamo in grado di riconoscerla chiaramente. E la nostra fede non risulta in nulla sminuita dal fatto di dover riconoscere alla Chiesa, una esistenza che la nostra intelligenza non può percepire. Tanto più che non ci viene richiesto in questo caso di distinguere gli eletti dai reprobi (giudizio che appartiene a Dio e non a noi ) , ma di avere nei nostri cuori la certezza che tutti coloro che, per clemenza di Dio padre e virtù dello Spirito Santo, sono resi partecipi di Cristo, sono messi a parte per costituire l'eredità di Dio; e che essendo noi nel numero di costoro siamo eredi di tale grazia. 4. Essendo ora mia intenzione discorrere della Chiesa visibile, impariamo dal solo titolo di madre quanto utile, anzi necessaria, sia la conoscenza di lei; non c'è infatti alcuna possibilità di entrare nella vita eterna, se questa madre non ci ha concepiti nel suo seno e non ci partorisce, ci allatta, ci custodisce infine sotto la sua direzione e la sua autorità finché, spogliati di questa carne mortale, siamo resi simili agli angeli (Mt. 22.30) . La nostra debolezza infatti non ci consente, durante tutto il corso della nostra vita, di sottrarci all'apprendimento. È altresì da notare che fuori dal suo grembo non si può sperare di ottenere remissione dei peccati o salvezza alcuna come attestano Isaia e Gioele (Is. 37.32; Gl. 2.32); con cui Ez.chiele concorda affermando che coloro che Dio vuole escludere dalla vita celeste non faranno parte del suo popolo (Ez. 13.9). Viceversa è detto che coloro che si convertono al servizio di Dio e alla vera religione verranno ad accrescere il numero dei cittadini di Gerusalemme. Per questa ragione è affermato in un altro salmo: "O Eterno ricordati di me con la benevolenza che usi verso il tuo popolo; visitami con la tua salvazione; affinché io veda il bene dei tuoi eletti, mi rallegri dell'allegrezza della tua nazione, e mi glori con la tua eredità " (Sl. 106.4-5). Queste parole limitano la benevolenza paterna di Dio e le manifestazioni particolari della vita spirituale al gregge di Dio a ricordarci quanto sia pernicioso e mortale il distaccarsi o l'allontanarsi dalla Chiesa. 5. Proseguiamo ora nell'esame di questo argomento. San Paolo dice che Gesù Cristo per compiere ogni cosa ha stabilito gli uni apostoli, gli altri profeti, gli altri evangelisti, gli altri pastori e dottori per il perfezionamento dei santi, per l'opera del ministero al fin di edificare il corpo di Cristo finché tutti siamo. Arrivati all'unità della fede e della piena conoscenza del figlio di Dio, allo stato di uomini fatti, all'altezza della statura perfetta di Cristo (Ef. 4.2). Constatiamo che Dio, pur potendo far giungere in un momento i suoi alla perfezione, vuole invece farli crescere a poco a poco sotto le cure della Chiesa. Ne costituisce prova il fatto che la predicazione sia affidata ai pastori; ed a tutti è richiesto di lasciarsi con spirito docile ed umile condurre dai pastori a ciò preposti. Perciò il profeta Isaia aveva molto tempo innanzi descritto in questi termini il Regno di Cristo: "Il mio spirito che riposa su te e le mie parole che ho messe nella tua bocca non si dipartiranno mai dalla tua bocca né dalla bocca della tua progenie né dalla bocca della progenie della tua progenie " (Is. 59.21). Onde si deduce che coloro che rifiutano di essere nutriti dalla Chiesa, o respingono il cibo spirituale che essa offre loro, sono degni di morire di fame. Certo è Dio che ci ispira la fede, ma egli lo fa mediante lo strumento del suo Evangelo, come ricorda san Paolo dicendo che la fede viene dall'udire (Ro. 10.17) , così come in Dio risiede la potenza della salvezza ma egli la manifesta nella predicazione dell'evangelo, come lo stesso apostolo ricorda in altri testi. Per questo Dio volle al tempo della Legge che il suo popolo si raccogliesse nel santuario affinché la dottrina insegnata dai sacerdoti mantenesse l'unità della fede. Espressioni singolari ed eccezionali riferite al tempio quali: il luogo del riposo di Dio (Sl. 132.14) , il SUO santuario e domicilio, il luogo dove egli siede fra i cherubini (Sl. 80.2) , hanno lo scopo di far amare e tenere in dovuta considerazione la predicazione della dottrina celeste e garantirne la dignità che potrebbe essere sminuita qualora ci si limitasse a considerare gli uomini mortali che ne sono messaggeri. Ed affinché prendiamo coscienza del fatto che quanto ci viene presentato in vasi di terra (2 Co. 4.7) e un tesoro inestimabile, Dio stesso interviene e chiede che venga riconosciuta la sua presenza in ciò che ha istituito perché egli è autore di queste disposizioni. Per questo motivo, dopo aver proibito al suo popolo, di occuparsi di divinazione, arti magiche, negromanzia ed altre superstizioni (Le 9.31) aggiunge che gli darà come unica possibilità di essere istruito la presenza costante di profeti. Così come non ha innalzato il popolo antico sino agli angeli, ma gli ha suscitato. Dottori in terra che avessero l'ufficio di messaggeri nei suoi confronti, egli intende oggi ammonirci mediante uomini. E come in antico Dio non si è limitato a dare per iscritto la sua Legge, ma ha stabilito i sacerdoti per esserne commentatori, ed ha voluto che venisse proclamata per bocca loro, così egli vuole oggi che non solo ognuno si impegni in una lettura personale, ma vi siano maestri e dottori per esserci guida ed aiuto. Il vantaggio che ne deriva è duplice. Da un lato è prova opportuna per saggiare l'obbedienza della nostra fede il dover ascoltare i maestri che Dio ci manda come se fosse lui stesso a parlare. In secondo luogo egli si adegua, così facendo, alla nostra debolezza e preferisce rivolgersi a noi in modo umano mediante i suoi messaggeri per attirarci con dolcezza anziché spaventarci tuonando nella sua maestà. Ed in realtà ogni credente sente quanto questo modo familiare di insegnare sia confacente alla nostra natura dato che è impossibile non essere spaventati quando Dio parla nella sua maestà. Coloro che considerano l'autorità della parola annullata dalla spregevole e misera condizione dei ministri che l'annunziano si rivelano ingrati, poiché, fra i molti doni eccellenti con cui Dio ha arricchito il genere umano, risulta eccezionale il fatto che egli degni consacrare la bocca e la lingua degli uomini al suo servizio, acciocché in esse la sua voce risuoni. Non ci sia dunque gravoso accogliere con piena obbedienza la dottrina della salvezza che per suo esplicito comandamento ci viene offerta in questa forma. Poiché, quantunque la sua potenza non sia vincolata ad alcun strumento esterno, il voler rifiutare, come fanno molti insensati, questa forma ordinaria a cui ha voluto assoggettarci, significa immobilizzarsi in lacci mortali. Non sono pochi coloro che, per orgoglio, presunzione, disprezzo o invidia, sono indotti a pensare che ricaveranno sufficiente profitto da una lettura ed una meditazione privata della Scrittura e sono perciò indotti a disprezzare le assemblee pubbliche ed a considerare superflua la predicazione. Ora, in quanto sciolgono e spezzano, così facendo, quel vincolo unitario che Dio vuole sia mantenuto inviolabile, è giusto che essi raccolgano il frutto di questa rottura autosuggestionandosi con sogni e fantasticherie. Che li conducono alla confusione. Affinché una pura semplicità di fede permanga fra noi non ci sia gravoso e fastidioso il ricorrere a questo esercizio pedagogico che Dio ha considerato necessario, avendolo istituito, e che ci raccomanda così insistentemente. Non si è mai trovato alcuno, neppure fra quei cani rabbiosi che si abbandonano senza ritegno alla beffa, che osi affermare che ci si possa tappare le orecchie quando Dio parla. Ma i profeti ed i santi dottori hanno spesso sostenuto lunghi ed impegnativi combattimenti contro i malvagi per sottometterli alla dottrina da loro predicata, perché costoro, nella loro arroganza, non possono tollerare il giogo rappresentato dal fatto di dover ricevere insegnamenti dalla bocca e per mezzo del ministero degli uomini. Fare questo significa cancellare l'immagine di Dio che risplende nella predicazione. Per questo è stato anticamente comandato ai credenti di cercare Dio nel tempio (Sl. 105.4) , comandamento ripetuto altresì spesso nella Legge: perché l'insegnamento e le esortazioni dei profeti rappresentavano per loro la vivente immagine di Dio, nel senso delle espressioni di Paolo quando si vanta del fatto che la gloria di Dio apparsa sul volto di Cristo risplende nella sua predicazione (2 Co. 4.6). Tanto più odiosi ci debbono apparire quegli apostati che si sforzano di disperdere le chiese, quasi volessero cacciare le pecore dai loro recinti o dalle loro stalle, per gettarle nelle fauci dei lupi. Per quanto ci concerne ricordiamo il detto di san Paolo secondo cui la Chiesa può essere edificata solo mediante la predicazione esterna e il solo legame che sussiste fra i santi è quello di imparare e ricevere istruzioni di comune accordo secondo l'ordine stabilito da Dio. A questo scopo essenzialmente, come già abbiamo detto, Dio ha ordinato, un tempo, ai credenti sotto la Legge di raccogliersi nel santuario. Mosè lo chiama, per questa ragione, il luogo del nome di Dio, perché egli ha voluto che quivi fosse celebrato il suo ricordo (Es. 20.24). Con questo egli insegna chiaramente che l'uso del tempio risultava nullo senza l'insegnamento della verità. Non vi è dubbio che in questosenso deve intendersi la lagnanza angosciata ed amara di Davide perché l'accesso del tabernacolo gli è precluso dalla tirannia e dalla malvagità dei suoi nemici (Sl. 84.2). Alcuni giudicano puerili queste espressioni: il non potersi avvicinare al santuario non dovrebbe essere privazione eccessiva, in quanto egli gode pur sempre dei suoi agi e piaceri. La tristezza ed il dolore che lo brucia e lo tormenta, anzi lo consuma interamente, nasce dal fatto che, per i credenti, nulla deve essere maggiormente apprezzato di questo mezzo mediante cui Dio li innalza a se quasi di grado in grado. Si deve anche notare che Dio si è rivelato anticamente ai padri nello specchio della sua dottrina in modo tale che risultasse chiaro che egli voleva essere conosciuto spiritualmente. Il tempio perciò non è solo detto suo volto ma anche suo sgabello al fine di evitare ogni superstizione (Sl. 132.7; 99.5; ). È l'incontro benedetto, di cui parla san Paolo, che ci procura la perfezione nell'unità della fede, quando tutti dal maggiore al minore si volgono al capo. Per quanto concerne i templi che i pagani hanno edificato a Dio, con altro fine ed altre intenzioni, essi non hanno servito ad altro che a profanare il suo culto. Gli stessi Ebrei sono caduti in tale errore, sia pure in forma meno grossolana, e non sono mancate colpe da parte loro, come dice santo Stefano ricordando loro, per bocca di Isaia, che Dio non abita in edifici fatti da mano d'uomini (At. 7.48); lui solo ha l'autorità di consacrarsi dei templi con la sua parola e santificarli ad uso legittimo. Non appena assumiamo iniziative in modo sconsiderato, senza suo ordine, immediatamente ad un male ne segue un altro e molte fantasticherie vengono ad aggiungersi al principio già in se errato, talché la corruzione si moltiplica a dismisura. Tuttavia Serse, re dei Persiani, agì stoltamente, ed in modo irresponsabile, distruggendo, dietro suggerimento dei filosofi del suo paese, tutti i templi della Grecia, con la scusa che gli dei, essendo liberi, non debbono essere rinchiusi fra le mura e sotto le tegole! Quasi Dio non avesse il potere di scendere sino a noi per mostrarsi più vicino, pur senza muoversi o cambiare sede, o vincolarsi ad alcuna forma terrestre, ma, anzi, per farci salire sino alla gloria celeste che riempie ogni cosa della sua grandezza infinita, sorpassando anzi in altezza i cieli. 6. Non possiamo evitare a questo punto, di affrontare il problema che ha suscitato, in tempi recenti, violenti dispute riguardo all'efficacia del ministero; alcuni infatti, volendo estenderne la dignità, hanno ecceduto oltrepassando i limiti ed altri hanno ritenuto che si giunge ad un generale pervertimento Cl. Trasferire all'uomo mortale ciò che è peculiare dello Spirito Santo, affermando che ministri e dottori penetrano nell'intendimento e nei cuori per porre rimedio sia alla cecità che alla durezza che vi si trovano. Si stabilirà facilmente un accordo fra le due tesi esaminando con attenzione la duplice serie dei testi in cui da un lato Dio, in qualità di autore della predicazione, congiungendo a quest'ultima il suo Spirito, promette che essa non passerà senza frutto, e d'altra parte, svincolandosi da ogni intervento esterno, attribuisce a se stesso sia l'inizio che il compimento della fede. La missione del secondo Elia è consistita, secondo il profeta Malachia, nell'illuminare gli spiriti, convertire i cuori dei padri ai figli, e gli increduli alla sapienza dei giusti (Ma.6.4). Gesù Cristo afferma che manda i suoi apostoli acciocché traggano frutto dalla loro fatica (Gv. 15.16). San Pietro, dal canto suo, definisce brevemente in che consiste questo frutto dicendo che siamo rigenerati dalla parola predicata che è semenza incorruttibile di vita (1 Pi. 1.23). Paolo si gloria perciò di aver generato i Corinzi al Signore mediante l'Evangelo (1 Co. 4.15) , e del fatto che essi sono il suggello del suo apostolato (1 Co. 9.2) , e di non esser stato ministro di lettera, che ha colpito solo le orecchie Cl. Suono della voce, ma che l'efficacia dello Spirito gli è stata conferita affinché la sua dottrina non risultasse inutile (2 Co. 3.6). Secondo lo stesso concetto egli afferma altrove che il suo evangelo non ha consistito in parole ma in potenza di Spirito (1 Co. 2.4). Dice anche che i Galati hanno ricevuto lo Spirito Santo mediante l'ascolto della fede (Ga 3.2). Insomma non solo si considera cooperatore di Dio ma, in molti testi si attribuisce l'ufficio di amministratore della salvezza (1 Co. 3.9). È indubbio che egli non ha inteso con tali parole usurpare per se una sia pur minima parte di lode svincolandosi da Dio, come altrove afferma: "la nostra fatica non è stata vana in Dio in virtù della sua forza che ha operato potentemente in me " (1 Ts. 3.5). E ancora: "Colui che aveva agito in Pietro per farlo apostolo della circoncisione ha anche agito in me per farmi apostolo dei Gentili " (Ga 2.8). Anzi in altri testi è evidente che egli non concede nulla ai ministri quando siano considerati in se stessi: "colui che pianta e colui che annaffia non sono nulla, ma Dio che fa crescere è tutto " (1 Co. 3.7): "ho fatica più di loro tutti; non già io, però, ma la grazia di Dio che è con me " (1 Co. 15.10). È necessario considerare con attenzione, e ricordare, quelle espressioni in cui Dio, attribuendosi l'illuminazione dei nostri spiriti ed il rinnovamento dei nostri cuori, dichiara sacrilega ogni persona che si vanti di aver parte a quest'opera. Ciò nonostante, nella misura in cui saprà comportarsi docilmente nei riguardi dei ministri che Dio stabilisce, ognuno sperimenterà, a suo profitto, che in realtà questo modo di insegnare non è piaciuto a Dio invano, e non è senza ragione che egli ha imposto questa norma di modestia a tutti i suoi credenti. 7. Ritengo sufficientemente chiarito, in base a quanto è stato detto, come si debba considerare la Chiesa visibile che siamo in grado di conoscere. Abbiamo notato infatti che la sacra Scrittura parla della Chiesa in duplice modo. A volte il termine indica la Chiesa quale essa è nella sua realtà dinanzi a Dio, in cui sono inclusi soltanto coloro che per grazia di adozione sono figli di Dio e, mediante la santificazione dello Spirito, sono veramente membra di Gesù Cristo. In tal caso non solo fa allusione ai santi che abitano in terra, ma a tutti gli eletti che hanno vissuto sin dall'inizio del mondo. Spesso invece col nome di Chiesa è indicata la moltitudine degli uomini che, sparsa in diverse parti del mondo, fa professione comune di amare Dio e Gesù Cristo, ha il battesimo come attestazione di fede, e partecipando alla Cena dichiara avere unità nella dottrina e nella carità, dà il suo assenso alla Parola di Dio e ne vuole mantenere la predicazione secondo il comandamento di Gesù Cristo. In questa Chiesa parecchi sono gli ipocriti frammisti ai buoni che non hanno nulla di Gesù Cristo fuorché il nome e l'apparenza, ambiziosi gli uni, avari gli altri, maldicenti alcuni, dissoluti altri, tollerati per un certo tempo sia perché non si possono convertire con provvedimenti giuridici, sia perché la disciplina non è sempre esercitata con la fermezza che sarebbe richiesta. Pure, come è necessario credere quella Chiesa, a noi invisibile e nota solo a Dio, così ci è chiesto di onorare questa Chiesa visibile e di mantenerci in comunione con essa. 8. Il Signore perciò l'ha indicata con indizi e prove evidenti essendo per noi opportuno conoscerla. È bensì vero che a lui soltanto appartiene il privilegio di sapere chi siano i suoi, come ho già mostrato nella citazione di san Paolo (2Ti 2.19). Egli infatti, affinché la temerarietà degli uomini non si spingesse sino a quel punto, ha provveduto opportunamente a ricordarci, con esperienze quotidiane, quanto i suoi giudizi superino nostri sensi Poiché, da un lato, coloro che sembravano doversi considerare del tutto perduti e in situazioni disperate sono ricondotti sulla retta via, e d'altro lato inciampano quelli che sembravano sicuri. Perciò secondo la segreta e nascosta predestinazione di Dio, come dice sant'Agostino, si trovano molte pecore fuori della Chiesa e molti lupi dentro. È fra coloro che esteriormente recano il suo contrassegno i suoi occhi soltanto sono in grado di discernere chi siano i santi senza finzione e coloro che debbono perseverare sino alla fine secondo la sostanza stessa della nostra fede. Tuttavia poiché il Signore sapeva che ci è utile conoscere quali debbano essere considerati suoi figli, si è adattato, su questo punto, alla nostra capacità di intendimento. E per il fatto che non si richiedeva per questo una certezza di fede ha stabilito un giudizio di carità, in base al quale dobbiamo riconoscere quali membri della Chiesa tutti coloro che per confessione di fede, vita esemplare, partecipazione ai sacramenti, confessano con noi un medesimo Dio ed un medesimo Cristo. Essendo per noi necessario riconoscere il corpo della Chiesa per unirci ad esso egli lo ha indicato con segni per noi evidenti. 9. Ecco i dati in base ai quali riconosciamo l'esistenza della Chiesa visibile: ovunque riscontriamo la Parola di Dio essere predicata con purezza, ed ascoltata, i sacramenti essere amministrati secondo l'istituzione di Cristo, non deve sussistere alcun dubbio che quivi sia la Chiesa; non può infatti venir meno la promessa che Cristo ci ha fatto: "dovunque due o tre sono radunati nel nome mio, quivi sono io in mezzo a loro " (Mt. 18.20). Per intendere rettamente questa materia nella sua complessità occorre procedere per gradi considerando i seguenti punti: la Chiesa universale è costituita dalla moltitudine di coloro che sono concordi nella accettazione della verità di Dio e della dottrina della sua Parola, malgrado le diversità di nazionalità e le distanze geografiche che possano sussistere, in quanto è unita da un vincolo di fede. Le Chiese sparse in ogni città e villaggio sono partecipi di questa Chiesa universale, in modo che ognuna di esse ha il titolo e l'autorità di Chiesa, e le persone che sono dichiarate appartenervi per professione di fede, quantunque possano in realtà non costituire la Chiesa, sono da considerarsi appartenenti ad essa finché non ne siano state escluse per giudizio pubblico. Diverso è infatti il criterio di valutazione della Chiesa e dei singoli. Può infatti accadere, che in virtù del comune consenso della Chiesa che le tollera nel corpo di Cristo, siamo chiamati a considerare fratelli e credenti persone che non riteniamo tali. Non riconosceremo a queste persone la qualità di membri della Chiesa dal punto di vista di una valutazione personale, ma concederemo loro di aver posto nel popolo di Dio finché questo non sia loro tolto legalmente. Nei confronti di una comunità invece occorre procedere diversamente. Quando essa possieda il ministero della Parola e lo onori, e mantenga l'amministrazione dei sacramenti, deve essere riconosciuta quale Chiesa in quanto è un fatto certo che la Parola ed i sacramenti non possono sussistere senza frutti. In tal modo noi manterremo quell'unità della Chiesa universale che spiriti diabolici hanno sempre tentato di spezzare, e non annulleremo l'autorità che spetta alle assemblee ecclesiastiche, stabilite in ogni luogo per il bene degli uomini. 10. Abbiamo considerati segni della Chiesa la predicazione della Parola di Dio e l'amministrazione dei sacramenti. Non si può verificare il caso infatti che sussistano questi due elementi senza che fruttifichino con la benedizione di Dio. Non intendo dire che automaticamente ovunque c'è predicazione se ne manifestino i frutti, ma che laddove essa è ricevuta in modo stabile risulta efficace. Perché ovunque la predicazione dell'evangelo è ascoltata con rispetto ed i sacramenti non sono trascurati quivi appare, Cl. Tempo, una forma di Chiesa evidente che non è lecito contestare e di cui non è lecito discutere l'autorità, disprezzare gli ammonimenti, rifiutare le decisioni o avere in non cale le punizioni; e da cui ancor meno è lecito separarsi spezzandone l'unità. Perché Dio tiene in tale conto la comunione con la sua Chiesa da considerare traditore della cristianità ed apostata colui che si estranei da una comunità cristiana in cui siano presenti il ministero della Parola ed i sacramenti. In tanta considerazione tiene la di lei autorità da identificarla con la sua quando sia violata. Poiché non è titolo di poca importanza l'esser definita colonna e base della verità; e la casa di Dio (1 Ti. 3.15). Con questi termini san Paolo afferma che la Chiesa è stabilita custode della verità di Dio affinché questa non venga meno nel mondo, che Dio si serve del ministero ecclesiastico per custodire e mantenere la pura predicazione della sua Parola e mostrarsi paterno nei nostri riguardi, nutrendosi del cibo spirituale e procurandoci con amore quanto risulta necessario alla nostra salvezza. Né si tratta di lode di poco conto quando è detto che Gesù Cristo ha eletto e presa la sua Chiesa quale sposa per renderla pura e senza macchia (Ef. 5.27) , anzi che è il suo compimento (Ef. 1.23). Ne consegue che chiunque si diparte dalla Chiesa rinuncia a Dio ed a Gesù Cristo. Tanto più dobbiamo evitare una così grave rottura con cui, per parte nostra, causiamo la rovina della verità di Dio, rendendoci meritevoli di essere distrutti dai fulmini scagliati con tutto l'impeto della sua ira. Non c'è infatti delitto più odioso che spezzare con la nostra slealtà il santo matrimonio che il figlio unico di Dio si è degnato contrarre con noi. 11. Occorre pertanto osservare diligentemente i contrassegni suddetti e tenerli in dovuta considerazione secondo il giudizio di Dio. Perché le macchinazioni di Satana a nulla mirano con tanto sforzo quanto condurci a una di queste due posizioni: toglierci ogni possibile discernimento della Chiesa, abolendo o cancellando quei segni autentici a cui si possa distinguere, ovvero indurci a disprezzarli alla scopo di separarci dalla comunità della Chiesa e porci in stato di ribellione nei suoi confronti. Il fatto che la pura predicazione dell'evangelo sia stata nascosta per lunghi anni è opera della sua astuzia, e la stessa malizia si manifesta ora nello sforzo di abbattere il ministero che Gesù Cristo ha connesso con la sua Chiesa in modo tale che l'edificazione ne sia compromessa quando esso venga a mancare. Non è forse una tentazione pericolosa anzi perniciosa, che si insinua nel cuore dell'uomo, quando nasce il pensiero di separarsi da una congregazione in cui siano presenti i segni in base ai quali nostro Signore ritiene sia chiaramente evidenziata la sua Chiesa? Ben si vede quanto risulti necessario il vigilare sia da una parte che dall'altra. Onde evitare di essere tratti in inganno dal solo termine di Chiesa occorre perciò saggiare ogni comunità che rivendica questo titolo mediante la prova offertaci dalla Parola di Dio, così come si saggia l'oro. Qualora essa possieda nella Parola di Dio e nei suoi sacramenti l'ordine da lui stabilito, non ci inganneremo nel tributarle l'onore che spetta alla Chiesa. Qualora invece, indipendentemente dalla parola di Dio e dai suoi sacramenti, essa pretenda essere riconosciuta quale Chiesa, ci è chiesto di smascherare questo inganno con chiarezza come ci viene chiesto di evitare, nell'altro caso, la temerarietà. 12. Il fatto che il ministero della Parola rettamente esercitato e la pura amministrazione dei sacramenti siano pegno sicuro e valida garanzia per attestare la presenza della Chiesa in una comunità, è di fondamentale importanza, perché ci ricorda che non dobbiamo respingere alcuna assemblea che mantenga l'uno e l'altra quand'anche sia inficiata da molti difetti. Gli errori, anzi, che si potranno riscontrare nella stessa dottrina o nel modo di amministrare i sacramenti non dovranno allontanarci dalla comunione di una Chiesa in modo definitivo. Gli articoli della dottrina divina infatti non sono tutti dello stesso tipo. La conoscenza di alcuni è fondamentale talché non è lecito avere al loro riguardo il minimo dubbio, in quanto costituiscono i princìpi e gli statuti stessi della cristianità. Vi è un solo Dio, ad esempio, Gesù Cristo è Dio e Figlio di Dio, la nostra salvezza si fonda sulla sua misericordia soltanto e altri simili. Altri sono oggetto di discussione fra le Chiese e non di meno non rompono l'unità della fede. Facciamo un esempio: qualora una Chiesa ritenesse che le anime, separate dal corpo, sono trasferite immediatamente in cielo, ed un'altra, senza voler dare determinazioni precise, pensasse semplicemente che esse vivono in Dio, e questa diversità di opinioni fosse priva di testardaggine e di contestazione, perché dovrebbero queste due Chiese dividersi l'una dall'altra? Se vogliamo essere perfetti dobbiamo avere uno stesso sentimento, e per il rimanente, se abbiamo qualche divergenza, Dio ci rivelerà la soluzione: sono parole dell'apostolo. Non dimostra forse con questo che l'esistenza di qualche dissenso fra i cristiani nelle materie non fondamentali non deve essere fra loro motivo di contrasto e di rottura? È bensì vero che la cosa principale è un accordo in tutto e su tutto ma, considerando che tutti sono contaminati da qualche elemento di ignoranza occorrerà: ovvero negare ogni Chiesa, ovvero perdonare l'ignoranza di coloro che sbagliano in quelle cose che si possano ignorare, senza pericolo per la propria salvezza, e senza che la fede venga meno. Non intendo affatto giustificare gli errori, sia pure minimi, e non vorrei che aumentassero con il relativizzarli o lodarli; affermo però che non si deve per un lieve dissenso abbandonare una Chiesa in cui siano mantenuti, nella loro integrità, la dottrina fondamentale della nostra salvezza ed i sacramenti così come il Signore li ha istituiti. Sforzandoci però di porre rimedio agli errori che in essa ci dispiacciono compiamo solo il nostro dovere. A questo ci induce la parola di san Paolo: se una rivelazione è data a uno di quelli che stanno seduti, si alzi a parlare e il precedente si taccia (1 Co. 14.30). Risulta così in base a questo testo che ad ogni membro della Chiesa è affidato il compito di edificare gli altri secondo la misura della grazia che ha in lui, purché questo sia fatto con ordine e decoro, e che non dobbiamo rinunciare alla comunione della Chiesa ma anzi dimorare in essa senza turbarne l'ordine e la disciplina. 13. Nel caso di manchevolezze di natura etica si richiede una sopportazione ancor maggiore. Perché è facile cadere in questo campo ed il Diavolo ricorre a macchinazioni straordinariamente abili per sedurci. Sono sempre esistiti quelli che dando ad intendere di possedere una santità perfetta, quasi fossero angeli di paradiso hanno disprezzato ogni comunità umana in cui si riscontrasse qualche debolezza. Tali furono anticamente i Catari, i sedicenti puri i Donatisti, che si avvicinarono alla follia di costoro. Qualche cosa di simile si verifica al giorno d'oggi fra gli Anabattisti fra quelli che si considerano più abili e più dotti degli altri. Altri peccano per uno sconsiderato zelo di giustizia più che per presunzione. Quando infatti constatano che fra coloro cui l'Evangelo è annunziato i frutti non corrispondono alla dottrina ne deducono subito che quivi non c'è Chiesa. Questo loro risentimento è pienamente giustificato e certo forniamo da parte nostra anche troppi argomenti, né possiamo in alcun modo giustificare la nostra maledetta pigrizia, che Dio non lascia impunita, che anzi ha già iniziato a castigare con terribili verghe. Guai a noi dunque che causiamo scandalo e turbamento, con la nostra sregolata licenza, a quelle coscienze più deboli. Tuttavia anche costoro cadono in errore in quanto oltrepassano i limiti. Laddove il Signore richiede sia adoperata clemenza essi la mettono da parte ed assumono un atteggiamento di intransigenza e di severità. Giudicando non esservi alcuna Chiesa, ove non si riscontri una purezza ed una santità di vita perfette, Cl. Pretesto di odiare il vizio si allontanano dalla Chiesa di Dio, pensando allontanarsi dalla compagnia dei malvagi. Dicono che la Chiesa di Gesù Cristo è santa (Ef. 5.26). Dovrebbero però prestare ascolto a quanto dice egli stesso: È commista di buoni e di malvagi. Corrisponde infatti a realtà la parabola che paragona la Chiesa ad una rete che raccoglie ogni sorta di pesci che permangono indistinti finché non sono tutti giunti a riva (Mt. 13.47). Prestino attenzione a quanto è detto in un'altra parabola: la Chiesa è simile ad un campo seminato a frumento rovinato però dalla zizzania da cui la messe non può essere liberata finché non sia stata portata nel granaio (Mt. 13.24). Ascoltino infine quanto ci è detto in un'altra parabola: È simile ad un'aia su cui il grano è ammucchiato e nascosto sotto la paglia finché non sia riposto nel granaio dopo essere stato passato al vaglio (Mt. 3.12). Il Signore dichiara che sino al giorno del giudizio la sua Chiesa sarà nella triste situazione di essere sempre gravata dalla presenza di uomini malvagi, risultano dunque vani i loro sforzi di volerla in assoluto pura e limpida. 14. Non si può tollerare, affermano costoro, che i vizi regnino ovunque in questo modo. Voglio ammettere che sarebbe augurabile una situazione diversa ma citerò in risposta il ragionamento di san Paolo. Tra i Corinzi le persone che avevano errato non si riducevano ad un piccolo gruppo ma tutto il corpo era quasi interamente corrotto, né vi era solo un tipo di mali ma parecchi. Riguardo alle colpe non si trattava di piccole trasgressioni ma di errori gravissimi. La corruzione non risultava solo di natura morale ma altresì dottrinale. Come si comporta in questa situazione il santo Apostolo, uno strumento cioè scelto dallo Spirito Santo, sulla cui testimonianza è fondata la Chiesa? Cerca forse di separarsi da loro? Li esclude dal Regno di Cristo? Proclama una maledizione definitiva per sterminarli? Nulla di tutto ciò, anzi riconosce in essi la Chiesa di Dio e la comunione dei santi. Se la Chiesa permane fra i Corinzi, quantunque regnino contese, sette, gelosie, si verifichino in gran numero liti e processi, trionfi la malizia, si dia aperta adesione ad un atteggiamento di malvagità che dovrebbe essere esecrato fra gli stessi pagani, quantunque san Paolo sia diffamato, lui che dovrebbe essere riverito come un padre, alcuni si beffino della risurrezione dei morti, distrutta la quale tutto l'Evangelo risulta annientato, quantunque le grazie di Dio siano volte non a favorire la carità ma l'ambizione e molte cose siano fatte in modo disonesto e disdicevole (1 Co. 1.2; 3.3; 5.1; 6.7; 9.1; 15.12) , se dunque la Chiesa permane fra di loro malgrado tutto ciò, e permane in quanto mantengono la predicazione della Parola ed i sacramenti, chi oserà rifiutare il titolo di Chiesa a coloro cui non si può rimproverare neppure la decima parte di quelle colpe? Coloro che giudicano le Chiese attuali con tanto rigore che avrebbero fatto ai Galati che si erano quasi ribellati all'evangelo? Anche fra loro tuttavia san Paolo riconosce l'esistenza di una qualche forma di comunità cristiana. 15. Obiettano altresì che san Paolo rimprovera aspramente ai Corinzi di tollerare nella loro comunità un uomo dalla condotta immorale (1 Co. 5.2); ed aggiunge la considerazione generale secondo cui non è lecito bere e mangiare con un uomo di cattivi costumi. Da questo deducono: se non è lecito mangiare il pane con un peccatore, a maggior ragione non sarà lecito mangiare con lui il pane del Signore che è sacro. Riconosco che è certo grandemente disonorevole che i cani ed i porci abbiano posto fra i figli di Dio, e ancor più lo è il fatto che il sacro corpo di Cristo sia loro offerto. E infatti quando una Chiesa ha norme adeguate non tollera nel suo seno i malvagi per nutrirli né riceve alla Cena buoni e cattivi indifferentemente. Ma poiché i pastori non esercitano sempre una vigilanza rigorosa, ed a volte sono anche più accondiscendenti e tolleranti di quanto converrebbe, o si trovano impediti nell'esercitare la necessaria severità accade che i malvagi non siano sempre esclusi dalla compagnia dei buoni. Ammetto trattarsi di un grave errore né lo voglio sminuire, visto che san Paolo lo condanna con severità, il fatto però che la Chiesa non compia il suo dovere non significa che ognuno debba sentirsi libero di separarsi dagli altri. Ammetto anche che sia compito dei buoni credenti l'astenersi da ogni familiarità con i malvagi, ed il non associarsi, per quanto possibile, ad essi in qualsiasi affare. Una cosa è però il fuggire la compagnia dei malvagi, un'altra il rinunciare la comunione della Chiesa per odio nei loro confronti. Considerando sacrilego il partecipare con i malvagi alla Cena di nostro Signore, si dimostrano molto più intransigenti di San Paolo. Quando infatti egli ci esorta a prendere la Cena con purezza non chiede di procedere all'esame del proprio compagno o della Chiesa tutta ma di se stessi (1 Co. 11.28). Dovessimo considerare peccato il partecipare alla Cena con un uomo indegno, certamente ci avrebbe ordinato di guardarci attorno per controllare che nessuno ci contamini con la sua impurità; limitandosi però ad ordinare che ognuno esamini se stesso egli intende indicare con ciò che la presenza dei malvagi non è tale da nuocere. Conforme a questo è il seguito del suo ragionamento quando afferma che chi mangia indegnamente mangia la sua condanna (nello stesso versetto 29). Non dice la condanna altrui ma la propria; giustamente. Poiché non spetta alla decisione del singolo stabilire chi debba essere accolto o respinto. Questa autorità compete alla Chiesa in quanto una decisione di questo tipo non si può attuare senza legittimo ordinamento, come sarà detto appresso. Sarebbe dunque assurdo che un singolo risultasse contaminato dalla indegnità di un altro visto che non ha né la facoltà né l'autorità di respingerlo. 16. Ora, quantunque la tentazione di uno zelo sconsiderato di giustizia minacci anche i migliori, constatiamo che è l'orgoglio e l'errata opinione di essere più santi degli altri a muovere quelli che si dimostrano così pignoli e scrupolosi più che una autentica santità o il desiderio di essa. Coloro che si dimostrano più degli altri audaci nel separarsi dalla Chiesa e si fanno vessilliferi di questi atteggiamenti scismatici non hanno, il più delle volte, altra preoccupazione che mostrarsi migliori di tutti, disprezzando gli altri. Sant'Agostino si esprime con molto buon senso dicendo: "Visto che la norma di una disciplina ecclesiastica concerne essenzialmente l'unità dello Spirito nel vincolo della pace, che l'Apostolo ci esorta a serbare sopportandoci gli uni gli altri, quando questa unità non sia mantenuta non solo il rimedio risulta superfluo ma dannoso e pertanto non è più rimedio. I maligni, che spinti dalla brama di contesa, più che dall'odio verso l'iniquità, si sforzano di attrarre al loro esempio i semplici ovvero di dividerli e sono in realtà gonfi d'orgoglio, ostinati, astuti nello sparger calunnie, bramosi di sedizioni, fanno appello alla severità, per nascondersi, ed usano, per dividere le Chiese, di questi strumenti che debbono adoperarsi con moderazione per correggere i vizi dei fratelli serbando sincerità di affetto e unità di pace ". In seguito egli dà questo consiglio ai credenti che hanno a cuore la pace e la concordia: correggano con umanità quanto sarà possibile e quanto risulterà impossibile correggere lo sopportino con pazienza, tollerando con sentimento di carità gli errori del prossimo, finché Dio li corregga o strappi la zizzania e le cattive erbe e ventili il suo grano eliminandone la paglia. Ogni credente deve tenere a mente questi ammonimenti affinché, volendo essere troppo zelante in quest'opera di giustizia, non si allontani dal Regno dei cieli, il solo vero regno di giustizia. Se Dio vuole che manteniamo comunione con la sua Chiesa, rimanendo inseriti nella comunità ecclesiastica quale esiste fra noi, colui che se ne separa corre il grave pericolo di separarsi dalla comunione dei santi. Chi è tentato di agire in questo modo pensi che nella massa si trovano molti credenti nascosti, e a lui sconosciuti, che pure sono realmente santi davanti a Dio. In secondo luogo consideri che molti fra coloro che gli sembrano viziati, non traggono dai loro vizi motivi di compiacimento o di vanto, ma sono spesso presi dal timore di Dio e si sentono spinti a desiderare una vita migliore e più perfetta. In terzo luogo pensi che non si deve valutare un uomo sulla base di una sola azione perché anche ai più santi accade di cadere gravemente. In quarto luogo consideri che la parola di Dio ha maggior peso ed importanza nel mantenimento della Chiesa di quanto possa avere nel distruggerla la colpa di alcuni malviventi. Consideri infine che il giudizio di Dio e da anteporsi a quello degli uomini quando si tratta di sapere dove è la vera Chiesa.
17. Fanno osservare che, non senza ragione, la Chiesa è detta santa. Dobbiamo però valutare di quale santità si tratti. Se non vogliamo pensare che la Chiesa esista solo laddove è perfetta in ogni sua parte dobbiamo ammettere che non ne troveremo mai una siffatta. È ben vero quanto dice san Paolo, che Gesù Cristo si è dato per la Chiesa al fine di santificarla e dopo averla purificata Cl. Lavacro dell'acqua mediante la Parola, affin di far comparire dinnanzi a se questa Chiesa gloriosa, senza macchia, senza ruga, o cosa alcuna simile, ma santa ed irreprensibile (Ef. 5.25). Ma non è men vero che il Signore è all'opera ogni giorno per cancellare le sue rughe e purificarla da ogni macchia. Ne consegue che la sua santità non è ancora perfetta. La Chiesa deve dunque considerarsi santa nel senso che quotidianamente ricerca ma non possiede ancora la sua perfezione; quotidianamente progredisce e non è ancora giunta al termine della santità, come verrà ampiamente illustrato altrove. Pertanto ciò che i profeti dissero, riguardo a Gerusalemme: che sarà santa e gli stranieri non entreranno in essa (Gl. 4.17) , e il tempio di Dio sarà santo cosicché gli impuri non vi entreranno (Is. 35.8) , non si deve intendere nel senso che non vi sia macchia alcuna nei membri della Chiesa; ma nel senso che ai credenti, in quanto aspirano con sincerità ad una santità e purezza integrale, è attribuita, per bontà divina, quella perfezione che ancora non hanno. Ora quantunque non accada spesso di riscontrare fra gli uomini molti segni di questa santificazione, dobbiamo tuttavia ricordarci che non vi è stata età, dall'inizio del mondo, in cui il Signore non abbia avuto la sua Chiesa, né mai vi sarà. Poiché, quantunque l'intero genere umano, dall'inizio del mondo, sia stato corrotto e pervertito a causa del peccato di Adamo, pure Dio non ha mai cessato di scegliere in questa massa corrotta degli strumenti al suo onore, cosicché non v'è stato periodo della storia che non abbia sperimentato la sua misericordia. È quanto egli ha attestato con promesse sicure dicendo: "Io ho fatto un patto Cl. Mio eletto; ho fatto questo giuramento a Davide mio servo: io stabilirò la tua progenie in eterno, ed edificherò il tuo trono per ogni età" (Sl. 89.4) "Poiché l'Eterno ha scelto Sion, l'ha desiderata per sua dimora: questo e il mio luogo di riposo in eterno " (Sl. 132.13) , ed ancora: "Così parla l'Eterno, che ha dato il sole come luce del giorno e la luna e le stelle perché siano luce alla notte: se quelle leggi vengono a mancare dinanzi a me allora anche la progenie d'Israele cesserà di essere una nazione nel mio cospetto " (Gr. 31.35-36) 18. Di questo atteggiamento ci hanno dato esempio sia Gesù Cristo che gli apostoli, e quasi tutti i profeti. Orribile impressione suscita la lettura di ciò che scrivono Isaia, Geremia, Gioele, Habacuc e gli altri circa il disordine che regnava, ai loro tempi, nella Chiesa di Gerusalemme. La corruzione, sia nel popolo che fra i governanti ed i preti, era tale che Isaia non esita a chiamare gli uni prìncipi di Sodoma e gli altri popolo di Gomorra (Is. 1.10). La religione stessa appare disprezzata o corrotta. Nel campo morale si registrano rapine, saccheggi, slealtà, delitti ed altri simili male azioni. Non di meno i profeti non fondavano nuove Chiese per se e non erigevano nuovi altari per offrire i propri sacrifici a parte; ma quali fossero gli uomini, considerando che Dio aveva posto quivi la sua Parola ed aveva prescritto le cerimonie in uso, adoravano anche fra i malvagi con cuore puro ed alzavano le loro mani pure al cielo. Avrebbero preferito morire cento volte piuttosto che partecipare a queste cerimonie se così facendo avessero pensato di contaminarsi in qualche modo. Nessun altro motivo li induceva dunque a rimanere nella Chiesa, in mezzo ai malvagi, se non il desiderio di mantenere l'unità. Se dunque i santi profeti hanno avuto scrupolo ad allontanarsi dalla Chiesa a motivo dei gravi peccati, non solo di singoli, ma di quasi tutto il popolo, che regnavano allora, troppo grande sarebbe la nostra presunzione qualora osassimo separarci dalla comunione della Chiesa non appena la vita di qualcuno ci sembrasse insoddisfacente, secondo il nostro giudizio, o risultasse non conforme alla professione di fede cristiana. 19. Similmente che dovremmo dire dei tempi di Gesù e dei suoi apostoli? Né l'empietà radicata dei farisei né la vita dissoluta del popolo hanno impedito loro di partecipare ai sacrifici con costoro, recarsi al Tempio per adorare Dio e fare preghiere solenni; azioni che non avrebbero mai compiute se non avessero avuto la certezza che chi partecipa ai sacramenti di Dio con coscienza pura non è contaminato dalla compagnia dei malvagi. Qualcuno si dichiara insoddisfatto dell'esempio dei profeti e degli apostoli? Riconosca almeno l'autorità di Gesù Cristo. Molto bene si esprime san Cipriano quando dice: "quantunque vi sia del grano cattivo nella Chiesa e dei vasi impuri non dobbiamo per questo ritirarci da essa, al contrario dobbiamo impegnarci ad essere buon frumento e vasi d'oro o d'argento; il compito di spezzare i vasi di terra spetta a Gesù Cristo solo cui è stato affidata, a questo scopo, la verga di ferro. Nessuno si attribuisca ciò che spetta al solo figlio di Dio: strappare la zizzania, pulire l'aia, ardere la paglia per separarla dal buon grano, sulla base di un giudizio umano è valutazione orgogliosa e sacrilega presunzione ". Ci siano pertanto chiari questi due punti: colui che abbandona di sua spontanea volontà la comunione esterna con una Chiesa in cui la Parola di Dio sia predicata ed i sacramenti di Dio amministrati, non ha giustificazione alcuna. Secondo, i vizi altrui, quantunque numerosi, non ci impediscono di professare quivi la nostra fede cristiana facendo uso, con costoro, dei sacramenti di nostro Signore, poiché una retta coscienza non è ferita dall'altrui indegnità, fosse del pastore stesso, né cessano di essere salutari per un uomo puro ed integro i sacramenti di nostro Signore, anche se ricevuti da cattivi ed impuri. 20. L'arroganza e la presunzione di costoro va oltre, in quanto non riconoscono nessuna Chiesa se non pura da ogni minima traccia di mondanità; anzi si scagliano con violenza contro i pastori che si sforzano di compiere il loro dovere perché, nell'esortare i credenti a migliorare, ricordano loro che saranno, durante tutta la loro vita, macchiati da qualche vizio e li incitano perciò ad umiliarsi davanti a Dio per ottenere perdono. Questi autorevoli censori, infatti, muovono l'obiezione che così facendo si allontana il popolo dalla perfezione. Riconosco certo che nell'incitare gli uomini a santità non si deve essere né tiepidi né vili, ma anzi ci si deve impegnare con energia. Il far credere però agli uomini che la perfezione sia raggiunta mentre sono ancora per strada significa pascerli di sogni diabolici. È pertinente il nesso stabilito nel Simbolo apostolico tra la remissione dei peccati e la Chiesa; quella infatti non può essere ottenuta se non da coloro che sono membri di questa, come dice il profeta (Is. 33.14). Questa Gerusalemme celeste deve essere anzitutto edificata perché possa attuarsi, in un secondo tempo, questa grazia: che cioè a tutti coloro che ne saranno cittadini siano rimessi i peccati. Dicendo che la Chiesa deve essere edificata per prima non penso che essa possa esistere in qualche modo senza la remissione dei peccati, ma nel senso che il Signore non ha offerto la sua misericordia se non alla comunione dei santi. Il nostro ingresso nella Chiesa e nel Regno di Dio è dunque rappresentato dalla remissione dei peccati (senza la quale non abbiamo alcun patto né alcuna comunione con Dio ) , come è dimostrato dal profeta Osea: "In quel giorno io farò per loro un patto con le bestie dei campi, con gli uccelli del cielo e spezzerò l'arco e la spada e farò cessare ogni guerra sulla terra e farò riposare gli uomini in pace. Ed io ti fidanzerò a me per l'eternità: ti fidanzerò a me in giustizia, in equità, in misericordia e in compassione " (Os 2.20). Vediamo come nostro Signore ci riconcilia a se mediante la sua misericordia. Similmente in un altro testo quando annunzia che raccoglierà il popolo che aveva disperso nella sua ira: "Io li purificherò di tutta l'iniquità con la quale hanno peccato contro di me " (Gr. 33.8). Siamo pertanto accolti nella comunione della Chiesa mediante il segno della purificazione e ci è così mostrato che non abbiamo alcun accesso alla famiglia di Dio se non sono prima, per sua bontà, nettate le nostre sozzure. 21. Di fatto la remissione dei peccati non rappresenta solo la forma con cui Dio ci accoglie nella sua Chiesa una volta, ma lo strumento con cui ci mantiene e conserva in essa. A che scopo infatti nostro Signore ci offrirebbe un perdono che non recasse alcuna utilità? In realtà la misericordia di Dio risulterebbe vana ed inefficace se ci venisse concessa solo una volta. Di questo ogni credente può rendersi conto visto che non c'è nessuno che non si senta durante tutta la vita colpevole di molte manchevolezze, bisognoso della misericordia di Dio. Non è senza ragione che Dio promette ai suoi servi, in modo particolare, di essere sempre misericordioso ed ordina che questo messaggio sia loro quotidianamente annunziato. È perciò chiaro che perennemente gravati dai residui del peccato non potremmo, finché viviamo, sussistere un solo istante nella Chiesa se non ci soccorresse assiduamente la grazia di Dio Cl. Perdono dei nostri peccati. Ma il Signore ha chiamato i suoi a salvezza eterna; essi devono dunque sapere che la sua grazia e costantemente pronta a perdonare i loro peccati. Si deve perciò ritenere questo punto fermamente stabilito: in virtù della misericordia di Dio, i meriti di Gesù Cristo, la santificazione dello Spirito Santo, ci è stata procurata la remissione dei peccati e essa ci è quotidianamente data in quanto siamo uniti al corpo della Chiesa. 22. Per questo il Signore ha dato le chiavi alla sua Chiesa affinché avesse la dispensazione di questa grazia per farcene partecipi. Quando infatti Gesù Cristo ha dato istruzioni ai suoi apostoli ed ha trasmesso loro potestà di rimettere i peccati (Mt. 16.19; 18.18; Gv. 20.23) , non era solo affinché sciogliessero coloro che si convertivano alla fede cristiana e facessero questo una volta soltanto, ma affinché esercitassero questo ufficio in modo costante nel riguardo dei credenti. Questo insegna san Paolo quando scrive che Dio ha affidato ai ministri della sua Chiesa la missione della riconciliazione, per esortare quotidianamente il popolo a riconciliarsi con Dio nel nome di Cristo (Il Corinzi 5.18.20). Pertanto è nella comunione dei santi che i peccati ci sono continuamente rimessi mediante il ministero della Chiesa quando i preti ed i vescovi, cui è affidato questo incarico, confermano le coscienze dei credenti mediante le promesse dell'evangelo attestando loro che Dio vuole perdonare ed usare misericordia, sia in forma pubblica che privata, secondo le necessità. Vi sono credenti così deboli da richiedere una consolazione in forma privata e con un carattere particolare e san Paolo afferma di aver ammaestrato il popolo nella fede in Gesù Cristo non solo con discorsi pubblici ma anche nelle case ricordando ad ognuno la sua salvezza (At. 20.20). Occorre a questo punto prendere nota di tre elementi. I credenti non possono sussistere davanti a Dio, finché abitano in questo corpo mortale, se non in virtù della remissione dei loro peccati in quanto permangono sempre miseri peccatori qual sia il grado di santificazione da essi raggiunto. Il secondo fatto è che tale beneficio è affidato in custodia alla Chiesa cosicché non possiamo ottenere perdono delle nostre colpe dinanzi a Dio se non perseverando nella comunione con essa. Il terzo fatto è che la distribuzione e la elargizione di questo beneficio avvengono per mezzo dei ministri e dei pastori sia nella predicazione dell'evangelo che nei sacramenti, anzi consiste essenzialmente in questo il potere delle chiavi. Ad ognuno è dunque chiesto di ricercare la remissione dei peccati laddove Dio l'ha posta. Il problema della riconciliazione pubblica, che fa parte della disciplina, sarà esaminato a suo tempo. 23. È necessario confermare le coscienze nei riguardi di questo errore così pestilenziale, in quanto gli spiriti irrequieti, di cui stiamo discorrendo, si sforzano di sottrarre alla Chiesa questa unica garanzia di salvezza. Nella Chiesa antica i Novaziani hanno recato turbamento con questa falsa dottrina; ma nel tempo presente alcuni Anabattisti assomigliano loro non poco in questo genere di fantasticherie. Immaginano che il popolo di Dio sia rigenerato mediante il battesimo ad una vita pura ed angelica, che non deve essere contaminata da alcuna macchia carnale. Qualora accada che dopo il battesimo i credenti scadano dalla grazia non rimane loro altra possibilità che l'attesa dell'inesorabile rigore di Dio. Non lasciano in sostanza alcuna speranza di perdono e di misericordia a quei peccatori che siano incorsi a qualche peccato dopo aver ricevuto la grazia di Dio. Questo perché non ammettono nessun'altra remissione dei peccati, se non quella mediante cui siamo rigenerati all'inizio della vita cristiana. Non c'è menzogna più chiaramente confutata nella Scrittura, tuttavia poiché questa gente trova persone semplici da ingannare (come Novaziano che ebbe anticamente non pochi seguaci) dimostriamo brevemente quanto tale errore sia pericoloso per loro e per gli altri. Primo: tutti i santi, formulando quotidianamente, secondo il comandamento di Dio, la richiesta che i loro peccati siano perdonati (Mt. 6.12) , confessano esplicitamente di essere peccatori. E non chiedono invano, ché il Signore Gesù non ci ha ordinato di domandare cose che non intenda darci. Anzi, avendo promesso che la preghiera da lui insegnataci sarebbe stata esaudita dal Padre nella sua totalità, formula una specifica promessa per questa particolare richiesta. Che potremmo chiedere di più? Il Signore desidera che tutti i santi si riconoscano peccatori quotidianamente durante tutto il corso della loro vita e promette il suo perdono. Non è forse presunzione il voler negare che siano peccatori o il volerli escludere da ogni grazia quando abbiano errato? Chi dobbiamo perdonare settanta volte sette, cioè sempre? (Mt. 18.22). Non sono forse i nostri fratelli? Perché ci verrebbe chiesto questo perdono se non affinché fossimo imitatori di Dio nella sua clemenza? Dio perdona dunque non una o due volte ma ogni qualvolta il misero peccatore si volge a lui prostrato e turbato dalla coscienza delle sue colpe. 24. Volendo risalire alle origini della Chiesa: i patriarchi erano circoncisi, accolti nel patto di Dio, erano indubbiamente stati educati dai loro padri a seguire giustizia ed integrità eppure tramarono di uccidere il loro fratello (Ge 37.18) : delitto abominevole, degno dei peggiori briganti del mondo. Moderati infine dalle raccomandazioni di Giuda lo vendettero (37.18). Si trattava però sempre di una crudeltà intollerabile. Simeone e Levi, per vendicare la sorella, massacrarono tutta la popolazione di Sichem, provvedimento che non spettava loro di prendere e fu perciò deplorato dal padre (34.25). Ruben commise un esecrabile incesto con la moglie di suo padre (35.22). Giuda, contravvenendo alla naturale moralità, si prostituì con la nuora (38.16). Eppure lungi dall'essere cancellati dal popolo eletto furono stabiliti a capo di esso. Che diremmo di Davide? Di qual offesa si rese responsabile per soddisfare la sua concupiscenza, spargendo il sangue di un uomo innocente, lui magistrato responsabile della giustizia? (2 Re 11.4-5). Si tratta di un uomo già rigenerato che aveva dato una prova eccellente, al di sopra degli altri figli di Dio. Eppure commise un delitto di cui si sarebbero vergognati i pagani. Questo non impedì che ottenesse misericordia (1 Re 12.13). Per non soffermarci troppo a lungo su casi particolari quante prove abbiamo della misericordia di Dio verso gli Israeliti? Quante volte ci è mostrato che il Signore fu loro propizio! Quale e infatti la promessa di Mosè al popolo quando ritornerà a Dio dopo essere caduto in idolatria ed aver abbandonato il Dio vivente?: "l'Eterno farà ritornare i tuoi dalla schiavitù, avrà pietà di te, e ti raccoglierà di nuovo di fra tutti i popoli, fra i quali l'Eterno ti aveva disperso. Quand'anche i tuoi esuli fossero all'estremità dei cieli l'Eterno ti raccoglierà di là " (De 30.3-4) 25. Non intendo iniziare un elenco che non avrebbe fine. I profeti infatti sono pieni di queste promesse che annunciano misericordia al popolo che pur si era reso colpevole di infiniti delitti.
Esiste forse iniquità maggiore della ribellione, detta appunto per questo divorzio fra Dio e la sua Chiesa? Non di meno essa pure è perdonata dalla bontà di Dio: "Chi è l'uomo, dice Dio per bocca di Geremia, la cui moglie si prostituisca che la accoglie nuovamente? Ora tutto il paese è contaminato dalla tua prostituzione, popolo di Giuda; la terra ne è piena. Non di meno torna a me e ti accoglierò poiché sono santo e non serbo l'ira in perpetuo " (Gr. 3.1.12). Certo non vi può essere altro sentimento in colui che dichiara non desiderare la morte del peccatore ma la sua conversione e la sua vita (Ez. 18.23.32). Perciò Salomone, dedicando il Tempio, lo consacrava a questo uso: vi fossero esaudite le preghiere fatte per ottenere la remissione dei peccati: "Quando peccheranno contro di te (poiché non v'è uomo che non pecchi ) e tu ti sarai mosso a sdegno contro di loro e li avrai abbandonati in balia del nemico che li menerà in cattività in un paese ostile e lontano, se, nel paese dove saranno schiavi, rientrano in se stessi, se tornano a te e ti rivolgono supplicazioni e dicono Signore abbiamo peccato, abbiamo agito iniquamente, siamo stati malvagi, e così pregando guardano al loro paese, il paese che tu desti ai loro padri, alla casa in cui siamo esaudisci dal cielo le loro preghiere e sii propizio verso il tuo popolo che ha peccato contro di te e perdona le trasgressioni di cui si è reso colpevole verso di te " (3Re 8.46-50) E non è invano che Dio, nella Legge, ha ordinato sacrifici regolari per il peccato del popolo (Nu. 28.3); egli non avrebbe suggerito questo rimedio se non avesse saputo che i suoi servitori sono costantemente contaminati da vizi. 26. Ora domando se, a causa della venuta di Cristo in cui è stata manifestata ogni pienezza di grazia, i credenti siano stati privati del privilegio di poter chiedere perdono per le loro colpe e ottenere perdono quando abbiano offeso Dio? Questo equivarrebbe ad affermare che Cristo è venuto per la rovina anziché per la salvezza dei suoi in quanto la bontà di Dio, sempre offerta ai santi dell'antico Testamento, risulterebbe ora annullata. Se però prestiamo fede alla Scrittura che afferma in modo chiaro ed esplicito che in Cristo la grazia di Dio ed il suo amore per gli uomini sono stati pienamente manifestati, sono state messe in evidenza le ricchezze della divina misericordia (Tt 1.9; 3.4; 2Ti 1.9) e la riconciliazione con gli uomini è stata realizzata, non v'è dubbio che la sua clemenza sia ora esplicata in modo più abbondante di prima, anziché essere sminuita ed impoverita. Possediamo anche chiari esempi di questo fatto. San Pietro, pur avendo udito dalla bocca di Gesù Cristo che chiunque non avrebbe confessato il suo nome davanti agli uomini sarebbe stato da lui disconosciuto davanti agli angeli del cielo (Mt. 10.33; Mr. 8.38) , lo rinnegò tre volte, e con imprecazioni (Mt. 26.74). Eppure non è stato escluso dal perdono. Quelli fra i Tessalonicesi che vivevano disordinatamente sono puniti da Paolo, in modo tale però da essere condotti al pentimento (2 Ts. 3.11-12.15). Anche san Pietro non respinge in una situazione disperata Simon Mago ma gli offre una valida speranza invitandolo a pregare Dio per il suo peccato (At. 8.22). 27. Non si dà forse anzi il caso che gravi errori abbiano anticamente dominato interamente una Chiesa? Che faceva san Paolo in tal caso se non ricondurre tutto il popolo sulla retta via piuttosto che abbandonarlo in una situazione di maledizione senza scampo? Il sovvertimento compiuto dai Galati non era colpa leggera (Ga 1.6; 3.1; 4.9). Ancora meno scusabili erano i Corinzi in quanto avevano peccati altrettanto gravi e più numerosi dei Galati. Ciò nonostante né gli uni né gli altri sono esclusi dalla bontà di Dio. Al contrario, quelli che più degli altri avevano gravemente peccato per immoralità, dissolutezza vengono esplicitamente invitati al ravvedimento (2 Co. 12.21). Poiché il patto che nostro Signore ha stabilito con Cristo e con tutte le sue membra permane e permarrà inviolabile; e questo viene dichiarato quando e detto: che se i suoi figli abbandonano la mia legge e non camminano secondo i miei ordini, se violano i miei statuti e non osservano i miei comandamenti io punirò la loro trasgressione con la verga, e la loro iniquità con percosse; ma non ritirerò loro la mia benignità e non smentirò la mia fedeltà " (Sl. 89.31-34) Infine nell'ordine del Simbolo ci è mostrato che questa grazia e questa clemenza permangono ed hanno sede nella Chiesa, per sempre; dopo aver posto il fondamento della Chiesa viene infatti aggiunta come conseguenza la remissione dei peccati. Bisogna dunque che essa si attui in coloro che sono nella Chiesa. 28. Altri più astuti, rendendosi conto che la dottrina di Novaziano è riprovata dalla Scrittura in modo così evidente, considerano senza remissione non tutti i peccati ma solo le trasgressioni volontarie in cui si incorre coscientemente ed in modo volontario. Così dicendo pensano che siano perdonati solo i peccati commessi per ignoranza. Affermazione temeraria cotesta che non lascia alcuna speranza di perdono per un peccato commesso volontariamente, mentre nella Legge il Signore ha stabilito dei sacrifici per cancellare i peccati del suo popolo compiuti volontariamente, ed altri per cancellare quelli compiuti per ignoranza (Le 4). Ribadisco che non vi è nulla di più chiaro del fatto che il sacrificio unico di Gesù Cristo ha virtù di rimettere i peccati volontari dei credenti, dato che Dio lo ha dichiarato nei sacrifici animali che ne erano prefigurazione. Chi potrebbe discolpare Davide col pretesto dell'ignoranza visto che è chiara la sua conoscenza della Legge? Ignorava forse qual peccato fosse l'adulterio, l'omicidio, lui che ogni giorno li puniva nei suoi sudditi? Forse che i patriarchi pensavano compiere opera buona ed onesta ammazzando un fratello? I Corinzi avevano così poco appreso da poter considerare gradite a Dio, l'incontinenza, la scostumatezza, l'odio, le contese? San Pietro dopo esser stato così premurosamente ammonito ignorava che fosse delitto rinnegare il Maestro? Non chiudiamo dunque per nostra mancanza di umanità la porta alla misericordia divina che così liberalmente si offre a noi. 29. Non ignoro che alcuni dottori antichi hanno visto nei peccati quotidianamente perdonati le colpe lievi che si verificano per debolezza della carne. Erano invece d'avviso che la penitenza solenne, richiesta allora per i peccati gravi, non dovesse essere ripetuta più di quanto sia ripetuto il battesimo. Questa opinione non significa che volessero gettare in uno stato di disperazione colui che fosse ricaduto dopo esser stato accolto una volta a penitenza, o che intendessero sminuire le colpe quotidiane, quasi si trattasse di realtà insignificante davanti a Dio. Sapevano bene che i santi inciampano o cadono spesso in qualche infedeltà, che accade loro di giurare senza necessità, di adirarsi oltre misura, giungendo anzi a volte sino ad ingiurie esplicite, e cadere in altri vizi che nostro Signore non considera piccole debolezze. Si esprimevano in questo modo per mettere in evidenza la differenza tra le colpe private e quelle pubbliche che comportano maggior scandalo nella Chiesa. Il fatto che fossero così restii a perdonare coloro che avevano commesso qualche colpa degna di censura ecclesiastica non deriva dal fatto che essi pensassero che i peccati ottengono difficilmente il perdono divino, con questa severità intendevano creare timore negli altri affinché non cadessero in queste colpe meritevoli della scomunica ecclesiastica. La Parola di Dio però che dobbiamo tenere normativa a questo riguardo richiede maggior moderazione e umanità. Essa infatti insegna che nella disciplina ecclesiastica il rigore non deve spingersi sino al punto da opprimere di tristezza quello di cui si deve procacciare il bene come abbiamo più sopra dimostrato.
CAPITOLO 2 CONFRONTO TRA LA FALSA E LA VERA CHIESA 1. È stato illustrato precedentemente quale importanza debba avere fra noi il ministero della parola di Dio e dei sacramenti, e di quanto onore debbano essere circondati in quanto segno e prova della Chiesa, al punto che ovunque esso permanga nella sua integrità, nessun vizio nel campo dei costumi può impedire che quivi sia la Chiesa. In secondo luogo è stato dimostrato che anche qualora si riscontri, nella dottrina o nei sacramenti, qualche piccolo errore questi non perdono la loro efficacia, ma si debbono anzi perdonare e tollerare tali errori nella misura in cui non intaccano il principio fondamentale della nostra religione e non contraddicono gli articoli di fede cui deve sottostare ogni credente. Per quanto concerne i sacramenti si possono tollerare errori che non cancellano o sovvertono l'istituzione del Signore. Qualora avvenga invece che l'errore si faccia strada sì da distruggere i punti fondamentali della dottrina cristiana e dei sacramenti, talché l'uso ne sia corrotto, la rovina della Chiesa segue così come accadrebbe nella vita di un uomo qualora gli si tagliasse la gola o lo si colpisse al cuore. Lo dimostra san Paolo, affermando che la Chiesa è fondata sulla dottrina dei profeti e degli apostoli, essendo Gesù Cristo la pietra angolare (Ef. 2.20). Se il fondamento della Chiesa è rappresentato dalla dottrina degli apostoli e dei profeti, che insegna ai credenti a porre la loro salvezza in Gesù Cristo soltanto, come potrà l'edificio stare in piedi quando si elimini questa dottrina? È inevitabile dunque che la Chiesa cada quando sia sovvertita la dottrina che la sostiene. Se la Chiesa è colonna e base della verità (1 Ti. 3.15) non v'è dubbio che essa risulti assente ove regnano falsità e menzogna. 2. Essendosi questo verificato in tutto il papismo, è facile dedurre quale Chiesa vi sussista. Il ministero della Parola, sostituito da un governo perverso e farcito di menzogne, che spegne e soffoca la pura luce della dottrina. La santa Cena di nostro Signore, sostituita da un esecrabile sacrilegio. Il servizio di Dio, interamente deturpato da forme di varia superstizione. Sepolto o respinto quell'insegnamento senza cui la cristianità non può sussistere. Le assemblee pubbliche ridotte a scuole di idolatria e di empietà. Non dobbiamo dunque temere, rifiutando di partecipare a questi sacrilegi, di rompere i legami con la Chiesa di Dio. La comunione con la Chiesa non è stata istituita per diventare un vincolo che ci leghi all'idolatria, all'empietà, all'ignoranza di Dio e ad altre infedeltà, ma piuttosto per mantenerci nei timor di Dio e nell'obbedienza alla sua verità. So bene quanto gli adulatori del Papa magnificano la loro Chiesa per far credere che non ve ne sia altra al mondo. E subito concludono, quasi avessero già vinta la loro causa, che tutti coloro che si sottraggono alla sua obbedienza sono scismatici, tutti coloro che osano aprir bocca per contestare la sua dottrina sono eretici. Con quali argomenti provano costoro di essere la vera Chiesa? Si appellano alla storia antica, riferendosi alle situazioni un tempo esistenti in Italia, Spagna, Gallia e rivendicano la loro discendenza da quei santi personaggi che, in queste nazioni, sono stati fondatori delle Chiese ed hanno sopportato lotte e morte per mantenere le loro dottrine. Sostengono che per questo la Chiesa, stabilita fra loro in virtù sia dei doni spirituali di Dio che del sangue dei santi martiri, è stata conservata per successione perpetua dei vescovi in modo da non scadere. Citano l'alta considerazione in cui questa successione è stata tenuta da Ireneo, Tertulliano, Origene, sant'Agostino e gli altri antichi dottori. Sono tuttavia in grado di dimostrare, a chiunque voglia prestare ascolto, quanto siano frivoli e privi di fondamento tali riferimenti. Vorrei altresì esortare coloro che ne fanno uso a prestare attenzione ai miei argomenti, se pensassi poter recare loro un qualche aiuto. Ma poiché essi non hanno alcun riguardo per la verità e cercano solo di mantenere il loro utile privato mi rivolgerò essenzialmente agli uomini onesti e desiderosi di conoscere la verità e mostrerò loro come possano districarsi in tutti questi cavilli. Domando in primo luogo ai nostri avversari perché non fanno riferimento alla situazione dell'Africa, dell'Egitto, dell'Asia. Semplicemente perché è stata quivi interrotta quella successione episcopale, in base alla quale pretendono che la Chiesa sia stata conservata fra loro. Si ribadisce così la tesi che essi hanno la vera Chiesa, in quanto non è mai stata senza vescovi sin dall'inizio, e visto che si sono susseguiti gli uni agli altri ininterrottamente. Che risponderanno se, per parte mia, mi riferisco alla Grecia? In base a quale considerazione, domando, si può affermare che in Grecia la Chiesa è morta, proprio là dove quella successione, che secondo la loro fantasia è l'unico mezzo per conservare la Chiesa, non è mai stata interrotta? Considerano i Greci scismatici; per quale motivo? In quanto, replicano, hanno perso i loro privilegi ribellandosi alla santa Sede apostolica di Roma. E che? Non meriterebbero forse, a più forte ragione, di perderli coloro che si ribellano a Cristo? Da questo deriva che la garanzia fornita dalla loro successione risulta vana quando la verità di Cristo non venga mantenuta, nella sua interezza, così come si è ricevuta dai padri. 3. Si dà così il caso che i difensori della Chiesa romana si valgano oggi degli stessi argomenti cui ricorrevano gli Ebrei nel rispondere ai profeti di Dio, quando questi li redarguivano per la loro cecità, empietà, idolatria. Come quelli si vantavano di possedere il Tempio, le cerimonie, il sacerdozio, realtà in cui ritenevano dovesse ravvisarsi la Chiesa, questi, al posto della Chiesa, ci presentano una esteriorità che spesso si può riscontrare anche dove non vi sia Chiesa, e senza la quale la Chiesa può esistere benissimo. Non è perciò necessario ricorrere, per abbattere costoro, ad altro argomento che a quello adoperato da Geremia per distruggere la vana fiducia degli Ebrei invitandoli a non gloriarsi con parole menzognere dicendo: È il tempio del Signore, è il tempio del Signore, è il tempio del Signore! (Gr. 7.4). Dio infatti non riconosce quale tempio un luogo dove la sua Parola non sia udita od onorata. Perciò, quantunque anticamente la gloria di Dio risiedesse nel Tempio fra i cherubini (Ez. 10.4) ed egli avesse promesso di stabilire quivi la sua sede in perpetuo, quando i sacerdoti ebbero corrotto il suo culto con superstizioni si allontanò e lasciò il luogo privo di gloria. Se quel tempio che sembrava essere destinato a perpetua dimora di Dio è stato invece da lui abbandonato e reso profano non dobbiamo pensare che Dio sia vincolato a luoghi o a persone o determinato da cerimonie esterne in modo da esser quasi costretto a dimorare con coloro che hanno soltanto il titolo e l'apparenza di Chiesa. A questo argomento si riferisce la polemica di Paolo nella lettera ai Romani dal capitolo 9 al 12. Le coscienze deboli erano infatti assai turbate dal fatto che gli Ebrei, pur essendo, apparentemente, il popolo di Dio, non solo respingessero l'Evangelo ma anche lo perseguitassero. L'Apostolo perciò, dopo aver trattato i problemi dottrinali, risponde a questo interrogativo contestando che gli Ebrei, nemici della verità, siano la Chiesa, anche se non manca loro nulla di quanto ci è esteriormente richiesto. L'unica motivazione a cui ricorre è questa: essi non accolgono Gesù Cristo. Egli si esprime in termini ancora più espliciti nella lettera ai Galati, laddove, paragonando Isacco ed Ismaele, dice che parecchi occupano nella Chiesa un posto senza tuttavia possedere l'eredità in quanto non sono stati generati da una madre libera (Ga 4.22). Di qui passa a parlare di due Gerusalemme contrapposte l'una all'altra; come infatti la Legge è stata promulgata sul monte Sinai mentre l'Evangelo è uscito da Gerusalemme così parecchi, pur essendo nati in condizione servile e nutriti in dottrine servili, si vantano sfacciatamente di essere figli di Dio e della Chiesa; anzi, pur non essendo che figliolanza bastarda disprezzano i veri e legittimi figli di Dio. Quanto a noi, poiché è stato una volta proclamato dal cielo: "la serva sia scacciata con i suoi figli " (Ge 21.10) , Ci prevaliamo di tale inviolabile decreto per calpestare tutte le loro stolte millanterie. Perché se pensano potersi inorgoglire della loro professione di fede esteriore, Ismaele, per parte sua, era circonciso; se si fondano sull'antichità, egli era primogenito della casa di Abramo: eppure vediamo che è stato cancellato. San Paolo ce ne rivela il motivo affermando che dobbiamo considerare figli di Dio autentici soltanto coloro che sono stati generati dal puro seme della Parola e sono perciò legittimi. Per questa ragione Dio afferma non essere affatto vincolato a sacerdoti indegni anche se ha promesso nel patto, stabilito con il padre loro Levi, che questi sarebbe suo messaggero. Anzi rivolge contro a loro la gloria a cui falsamente si appellavano contro i profeti asserendo che la dignità della carica sacerdotale deve essere onorata e stimata in modo singolare; dignità questa che ammette volentieri, ma per rendere la loro situazione ancor più grave, visto che per parte sua è pronto a mantenere fedelmente le sue promesse ma sono essi che non ne tengono conto e meritano così di essere rinnegati a causa della loro slealtà. Il valore di una successione di padre in figlio si riduce a questo, qualora manchi una impostazione comune ed una conformità di atteggiamento atte a dimostrare che i successori seguono coloro che li hanno preceduti. In mancanza di questo elemento coloro che hanno imbastardito la loro origine dovranno essere esclusi da ogni onore e cacciati, a meno che si intenda dare il titolo e l'autorità di Chiesa ad una sinagoga, così perversa e degenere quale era ai tempi di Gesù Cristo, Cl. Pretesto che Caifa era successore di molti ottimi sacerdoti, che anzi la successione si era mantenuta ininterrotta da Aronne sino a lui. Questo atteggiamento è così lontano dalla realtà che non sarebbe tollerabile neppure nel caso di un governo civile. È infatti senza senso affermare che la tirannia di Caligola, Nerone, Elagabalo ed i loro simili abbia rappresentato la condizione autentica della città di Roma per il solo fatto che costoro succedettero ai saggi governi stabiliti dal popolo. Nulla è soprattutto più superficiale del voler far riferimento alla successione degli uomini, per valutare lo stato della Chiesa, dimenticando la realtà dottrinale. Gli stessi santi dottori, che a sproposito queste canaglie citano contro di noi, non hanno mai inteso stabilire una sorta di diritto ereditario in campo ecclesiastico ovunque i vescovi si siano succeduti gli uni agli altri. Ma poiché era ris.puto ed evidente che, dall'età apostolica sino al tempo loro, non si era verificato alcun cambiamento di dottrina né a Roma né in altre città essi considerano questo fatto come sufficiente per reprimere ogni errore sorto in tempi recenti: in quanto risultava contrario alla verità che si era mantenuta in modo costante e di comune accordo dal tempo degli apostoli. Questi pasticcioni non ricavano alcun vantaggio dall'imbellettare la loro sinagoga col Nome di Chiesa. Per quanto ci concerne questo termine è certo degno di grande onore, si tratta però di distinguere e sapere che cosa sia la Chiesa. Riguardo a questo non si trovano solo imbarazzati ma immersi nel loro pantano perché scambiano la santa sposa di Gesù Cristo con una prostituta infetta e corrotta. Per non lasciarci ingannare da siffatto travestimento ricordiamo, fra gli altri, quell'avvertimento di sant'Agostino quando dice che la Chiesa è a volte ottenebrata o avvolta da fitte e dense nubi di scandali; a volte appare libera e tranquilla, a volte turbata e sommersa dai flutti dell'afflizione e della tentazione. E ricorda a mo' di esempio che spesso coloro che rappresentano le più solide colonne della Chiesa sono proscritti per la fede o si tengono nascosti qua e là in regioni appartate. 4. Così oggi i difensori della Sede romana, rozzi ed ignoranti quali sono, ci aggrediscono e stordiscono prevalendosi del termine "Chiesa"mentre risulta evidente che Gesù Cristo non ha nemici peggiori del Papa e della sua cricca. La menzione del Tempio, del sacerdozio e di altre simili esteriorità non ci deve impressionare al punto di farci ammettere l'esistenza della Chiesa laddove non sia presente la Parola di Dio. Perché questo è il segno perpetuo con cui il Signore ha segnato i suoi: "chiunque è per la verità, dice, ascolta la mia voce " (Gv. 18.37). E ancora: "io sono il buon Pastore, e conosco le mie pecore, e le mie mi conoscono. Le mie pecore ascoltano la mia voce, e io le conosco, ed esse mi seguono " (Gv. 10.14-27). Poco prima aveva detto che le pecore seguono il loro pastore in quanto conoscono la sua voce e non seguono un estraneo, anzi lo sfuggono perché non riconoscono la voce di estranei (Gv. 10.4). Perché dunque voler volontariamente correre il rischio di errare andando in cerca della Chiesa, mentre Gesù Cristo ce ne ha dato un segno infallibile? Ovunque infatti riscontriamo questo segno possiamo essere certi che quivi è la Chiesa e dovunque esso risulta assente nessun altro elemento ci può fornire indizi sicuri della sua esistenza. San Paolo infatti dice che la Chiesa è fondata non su opinioni umane, né sul sacerdozio ma sulla dottrina dei profeti e degli apostoli (Ef. 2.20). Dobbiamo inoltre discernere Gerusalemme da Babilonia, la Chiesa di Dio dalla congregazione degli infedeli e dei perversi, in base a quell'unico criterio stabilito da Gesù Cristo dicendo: chi è da Dio ascolta la parola di Dio; al contrario chi non la vuole ascoltare non è da Dio (Gv. 8.47). Insomma poiché la Chiesa è il Regno di Dio e Gesù Cristo regna solo mediante la sua Parola chi non comprende che si usano parole menzognere quando si vuol far credere che il Regno di Gesù Cristo sia presente, laddove il suo scettro risulta assente, dove manca cioè quella santa Parola mediante la quale egli governa? 5. Riguardo all'accusa di eresia e di scisma che ci muovono, per il fatto che predichiamo una dottrina diversa dalla loro, non obbediamo alle loro leggi e ai loro regolamenti e teniamo assemblee per conto nostro, sia per quanto concerne le preghiere pubbliche che per l'amministrazione dei sacramenti, si tratta indubbiamente di una accusa grave non tale però da richiedere lunga confutazione. Sono detti eretici e scismatici coloro che creando una rottura nella Chiesa ne spezzano l'unità. Questa unità è costituita da un duplice legame: accordo dottrinale e carità fraterna. È per questa ragione che sant'Agostino opera una distinzione fra eretici e scismatici, affermando che i primi sono coloro che corrompono la purezza della verità con false dottrine, i secondi coloro che rompono i legami con la comunità dei credenti pur mantenendo con essi un accordo riguardo la fede. Occorre anche sottolineare un altro fatto: il legame che dobbiamo mantenere nella carità è condizionato dalla unità di fede in modo tale che questa rappresenta il fondamento, la norma ed il fine di quella. Ci si ricordi pertanto che quando Dio ci raccomanda l'unità della Chiesa questo significa semplicemente che come siamo uniti in Gesù Cristo riguardo alla dottrina così siano congiunti in lui i nostri sentimenti nella carità. Pertanto san Paolo, nell'esortarci all'unità, pone a suo fondamento il fatto che vi sia un solo Dio, una fede ed un battesimo (Ef. 4.5). Ed anche laddove ci esorta ad essere uniti, sia nella dottrina che nella volontà, egli aggiunge subito che questo deve avvenire in Gesù Cristo (Fl. 2.2-5); affermando così che ogni accordo stabilito all'infuori della Parola di Dio è un'associazione di infedeli e non un consenso di credenti. 6. Analogamente san Cipriano, seguendo san Paolo, dichiara che la fonte dell'unità della Chiesa consiste nel fatto che Gesù Cristo è solo vescovo: e aggiunge, come conseguenza, che vi è una sola Chiesa sparsa ovunque così come il sole ha molti raggi ma la luce è una sola, in un albero vi sono molti rami ma vi e un tronco solo che poggia sulle radici, da una sorgente fluiscono parecchi ruscelli che non sottraggono tuttavia alla sorgente la sua unità. I raggi si separino dal nucleo del sole, l'unità che è in esso non verrà spezzata. Si tagli il ramo di un albero, seccherà. Così la Chiesa, essendo illuminata dalla luce di Dio è sparsa in tutto il mondo; nondimeno vi è una sola luce che si estende ovunque e l'unità del corpo non è rotta. Dopo queste considerazioni egli conclude che tutte le eresie e gli scismi provengono dal fatto che non si torna alla fonte della verità, non si cerca il Capo, non si custodisce la dottrina del maestro celeste. Gli avvocati del Papa ci accusino ora di eresia per il fatto che abbiamo abbandonato la loro Chiesa; questo abbandono è semplicemente determinato dal fatto che non vi si tollera, in alcun modo, che la verità sia predicata. Non sottolineo il fatto che sono stati loro a espellerci con i fulmini delle loro scomuniche, la motivazione è però sufficiente ad assolverci, a meno che non si intenda condannare come scismatici gli stessi apostoli visto che la situazione è identica. Ricordo che Gesù Cristo ha preannunciato ai suoi apostoli l'espulsione dalle sinagoghe a causa del suo nome (Gv. 16. 2) , e quelle sinagoghe erano considerate, al loro tempo, vere e legittime Chiese. Poiché dunque è evidente che siamo stati buttati fuori dalla Chiesa del Papa e siamo pronti a dimostrare che questo è accaduto per il nome di Cristo, è necessario ricercarne la causa, prima di poter affermare a nostro riguardo qualcosa sia in un senso che nell'altro. Concedo loro questo punto, se lo vogliono, poiché ritengo sufficiente questa considerazione: era necessario che ci allontanassimo da costoro per avvicinarci a Cristo. 7. Come si debbano valutare le Chiese soggette alla tirannia papale risulterà ancor più evidente quando le si paragoni con l'antica Chiesa di Israele quale la conosciamo dalle descrizioni dei profeti. Nel tempo in cui i Giudei e gli Israeliti osservavano fedelmente il patto con Dio esisteva fra loro una vera Chiesa in quanto, per grazia di Dio, possedevano le realtà costitutive della Chiesa: la dottrina della verità contenuta nella Legge era predicata dai sacerdoti e dai profeti; venivano accolti nella Chiesa mediante il segno della circoncisione; gli altri sacramenti avevano la funzione di esercizi per confermarli nella fede. Non v'è dubbio che possano essere loro riferite per quanto concerne quel tempo tutte le lodi con cui nostro Signore ha onorato la sua Chiesa. Da quando però, allontanandosi dalla legge di Dio, si volsero all'idolatria ed alla superstizione furono parzialmente privati di tale dignità. Chi oserebbe infatti negare il titolo di Chiesa a coloro ai quali Dio ha affidato la sua parola e l'uso dei suoi sacramenti? D'altra parte però chi oserebbe riconoscere, senza riserve, questo titolo ad un'assemblea in cui la parola di Dio fosse apertamente calpestata e fosse annullata la predicazione della verità, che della Chiesa è la forza basilare e l'anima? 8. Come, dirà qualcuno, non è più esistito alcun elemento di Chiesa fra i Giudei da quando si sono volti all'idolatria? La risposta è facile. In primo luogo osserveremo che non sono caduti di colpo nell'eccesso, ma sono andati progressivamente decadendo. Per questo fatto non possiamo affermare che le responsabilità di Israele e di Giuda siano state identiche in questo processo iniziale di allontanamento dal puro culto di Dio. Quando Geroboamo fuse i vitelli, contro l'esplicito divieto di Dio, e scelse per i sacrifici un luogo che non era lecito scegliere, egli condusse la religione di Israele alla corruzione totale. Fu invece per cattiva condotta e superstizioni che i Giudei si contaminarono prima di giungere ad una qualche forma palese di idolatria. Infatti, quantunque avessero già dal tempo di Roboamo introdotte parecchie cerimonie perverse, tuttavia, dato che a Gerusalemme si manteneva ancora la dottrina della Legge, l'ordine del sacerdozio e le cerimonie, quali Dio le aveva istituite, i credenti si trovavano in una condizione ecclesiastica tollerabile. In Israele da Geroboamo sino al regno di Achab non vi fu alcun miglioramento. Anzi, da quel momento, le cose presero ad andare di male in peggio. I suoi successori, sino alla distruzione del regno, furono in parte simili a lui e i migliori seguirono l'esempio di Geroboamo. Comunque si giudichi furono, nel complesso, pessimi idolatri. In Giuda si ebbero molti cambiamenti. Poiché alcuni dei re corrompevano il culto di Dio con false superstizioni, gli altri si sforzavano di riformare gli abusi che si erano verificati. I sacerdoti stessi infine, contaminarono il tempio di Dio con idolatrie evidenti. 9. Neghino ora, se lo possono, i papisti, nello sforzo di trovar giustificazioni ai loro errori, che la Chiesa sia men corrotta e depravata fra loro di quanto fosse il regno di Israele sotto Geroboamo. La loro idolatria e assai più grave, e non sono più puri, riguardo alla dottrina, neppure di un'oncia, anzi sono forse ancor più corrotti. Dio mi è testimone, e lo saranno tutti coloro che sono dotati di retto giudizio, che non esagero su questo punto, e la realtà stessa lo dimostra. Volendo costringerci alla comunione con la loro Chiesa richiedono da noi due cose. In primo luogo che prendiamo parte a tutte le loro preghiere, sacramenti, cerimonie. In secondo che attribuiamo alla loro Chiesa tutto l'onore, il potere, i diritti che Gesù Cristo attribuisce alla sua Chiesa. Riguardo al primo punto riconosco che i profeti, che hanno vissuto a Gerusalemme nei tempi in cui la situazione generale era già fortemente corrotta, non hanno offerto sacrifici a parte, e per pregare non hanno costituito assemblee autonome separandosi dagli altri. Infatti avevano il comandamento di Dio che ordinava di recarsi al tempio di Salomone. Sapevano che i sacerdoti leviti, quand'anche indegni di tale ufficio, dovevano tuttavia essere riconosciuti quali ministri legittimi nell'ordine sacerdotale essendo stati ordinati da Dio (Es. 29.9) e non essendo ancora deposti. Inoltre, ed è questo il punto centrale del nostro problema, non erano obbligati ad assumere nessun atteggiamento superstizioso. Anzi non facevano nulla che non fosse istituito da Dio. Si riscontra forse fra i papisti una situazione simile? Difficilmente potremmo adunarci con essi senza essere costretti a contaminarci con atti di palese idolatria. Il vincolo essenziale della comunione che si può avere con essi è rappresentato dalla messa che rifiutiamo come sommo sacrilegio. Se a torto o a ragione è quanto vedremo in altra sede. È sufficiente dimostrare ora che ci troviamo in una situazione diversa da quella in cui si trovavano i profeti, che non erano costretti ad assistere o compiere alcuna cerimonia se non istituita da Dio, anche quando offrivano sacrifici con i malvagi. Se vogliamo trovare un caso analogo al nostro dobbiamo ricavarlo dalla storia del regno di Israele. Secondo l'ordine di Geroboamo la circoncisione era mantenuta, si offrivano sacrifici, la legge continuava ad essere considerata valida, si invocava il Dio adorato dai padri (3Re 13.31). Tuttavia, a causa delle cerimonie inventate e messe in atto contro il divieto di Dio, tutto ciò che vi si faceva doveva essere riprovato come condannabile. Mi si citi infatti il caso di un solo profeta o un credente fedele che abbia adorato o sacrificato in Bethel. Evitavano di farlo, sapendo che non lo avrebbero potuto fare senza contaminarsi con qualche azione sacrilega. Constatiamo dunque che la comunione con la Chiesa non deve essere estesa al punto di richiedere una adesione che implichi forme di culto profane o errate. 10. Un motivo ancor più valido per resistere loro ci è però fornito dal secondo punto. In quanto si afferma che si deve riverenza alla Chiesa e se ne deve riconoscere l'autorità, riceverne le ammonizioni, sottoporsi al suo giudizio, essere in accordo con essa, ne consegue che non possiamo concedere il nome di Chiesa ai papisti senza necessariamente sottoporci ed ubbidire loro. Sono disposto tuttavia a concedere loro volentieri quanto i profeti hanno concesso ai Giudei ed Israeliti del loro tempo, quando la situazione era simile all'odierna o forse migliore. Vediamo che i profeti denunciarono in ogni occasione le assemblee di costoro come conventicole profane (Is. 1.14) che non sarebbe lecito approvare più di quanto sarebbe lecito rinunciare a Dio. Ed in realtà, se tali assemblee fossero state Chiese, Elia, Michea e gli altri profeti di Israele sarebbero stati estranei alla Chiesa; similmente in Giudea, Isaia, Geremia, Osea e gli altri che, agli occhi sia dei profeti e dei preti del loro tempo sia del popolo, apparivano più esecrabili dei pagani. Analogamente, qualora si dovessero considerare Chiese quelle assemblee, risulterebbe che la Chiesa di Dio non è affatto colonna di verità (1 Ti. 3.15) ma sostegno di menzogna, non santuario di Dio ma covo di idoli. Si richiedeva dunque che i profeti non avessero alcuna comunione con tali assemblee poiché questo avrebbe significato un cospirare contro Dio. Per questa stessa ragione sbaglia grandemente chi consideri Chiesa le assemblee che sono sotto la tirannia del Papa, contaminate dall'idolatria, da molte superstizioni, da pessime dottrine, pensando che si debba mantenere questa comunione con esse sino al punto da accettarne le dottrine. Se sono Chiese hanno la potestà delle chiavi; le chiavi sono però legate da un vincolo perenne con la Parola che risulta invece annullata. Anzi se sono Chiese, deve essere riferita loro quella promessa di Gesù Cristo secondo cui tutto quello che avranno legato in terra sarà legato nei cieli (Mt. 16.19; 18.18; Gv. 20.23). Mentre tutti coloro che senza infingimenti fanno professione di essere servi di Gesù Cristo ne sono espulsi. Da questo risulta, ovvero che la promessa di Gesù Cristo è inconsistente, ovvero che queste non sono Chiese, almeno sotto questo aspetto. Il ministero della Parola infine è sostituito da scuole di empietà e da un oceano di errori di ogni genere. Per cui neppure sotto questo profilo sono da considerarsi Chiese, oppure non avremo nessun elemento in base al quale le assemblee sante dei credenti risultino diverse dalle conventicole dei Turchi. 11. Tuttavia come sussistevano fra i Giudei alcune prerogative appartenenti alla Chiesa, così non neghiamo che permangano anche oggi fra i papisti tracce della Chiesa, che sussistono, per grazia di Dio, anche in seguito alla scomparsa della Chiesa. Dio aveva stabilito anticamente il suo patto con i Giudei e questo si manteneva fra loro garantito dalla parola di lui più che dalla loro osservanza. La loro empietà risultava essere un impedimento che il Patto doveva sormontare e, quantunque meritassero, per la loro slealtà, che Dio lo annullasse, nondimeno egli manteneva in mezzo a loro la sua promessa in quanto è costante e fermo nel manifestare la sua bontà. Così la circoncisione non poteva essere corrotta dalle loro mani al punto di non essere più segno e sacramento del patto di Dio. Per questa ragione Dio chiama suoi i figli che nascevano in quel popolò (Ez. 16.20) , che non gli appartenevano affatto se non in virtù d'una speciale benedizione. Nello stesso modo avendo anticamente posto il suo patto in Francia, in Italia, in Germania e in altri paesi, quantunque tutti siano stati in seguito oppressi dalla tirannia dell'anticristo, ha voluto che il battesimo permanesse a testimonianza di quel patto inviolabile il cui valore sussiste malgrado l'empietà degli uomini in quanto è stabilito e deciso dalla sua bocca. Similmente ha fatto sì, nella sua provvidenza, che permanessero altri segni affinché la Chiesa non scomparisse del tutto. Come a volte permangono visibili le fondamenta di edifici demoliti, così nostro Signore non ha permesso che la Chiesa fosse dall'anticristo rasa al suolo al punto che non rimanesse nulla dell'edificio. Perciò pur lasciando che, a motivo dell'ingratitudine degli uomini che avevano disprezzato la sua parola, si producesse una così grande distruzione, ha voluto però che permanesse ancora un qualche residuo a prova e testimonianza che tutto non era abolito. 12. Quando rifiutiamo pertanto ai papisti il titolo di Chiesa, non intendiamo affatto negare che abbiano fra loro qualche elemento di Chiesa; contestiamo soltanto che abbiano la condizione autentica della Chiesa che richiede comunione sia nella dottrina che in tutto quanto appartiene alla professione della nostra fede cristiana. Daniele e san Paolo hanno preannunziato che l'Anticristo si sarebbe seduto nel tempio di Dio (Da 9.27; 2 Ts. 2.4). Noi affermiamo che il Papa è il capo di quel maledetto ed esecrabile dominio, almeno nella Chiesa occidentale. Quando è detto che la sede dell'anticristo sarà il tempio di Dio viene con ciò dimostrato che il suo regno non sarà tale da cancellare il nome di Cristo e della sua Chiesa. Ne consegue che non neghiamo che le Chiese su cui egli esercita la sua tirannia permangano Chiese; ma diciamo che le ha profanate con la sua empietà, le ha tormentate con il suo dominio disumano, avvelenate con false e perniciose dottrine, quasi assassinate cosicché Cristo vi è mezzo sepolto, l'Evangelo soffocato, la fede cristiana bandita, il servizio di Dio abolito. In breve ogni cosa vi si trova sotto sopra al punto che l'aspetto è piuttosto quello di Babilonia che della santa città di Dio. Concludendo, affermo che si tratta di Chiese, in primo luogo perché Dio vi mantiene miracolosamente le tracce del suo popolo anche se miseramente disperse. In secondo luogo in quanto vi permangono alcuni elementi della Chiesa, principalmente quelli la cui efficacia non può essere abolita né dall'astuzia del Diavolo né dalla malizia degli uomini. D'altra parte però, essendo cancellati quegli elementi che, in questo dibattito si debbono prendere in considerazione, affermo che non c'è autentica forma di Chiesa né nelle singole membra né nell'insieme del corno.
CAPITOLO 3 DEI DOTTORI E MINISTRI DELLA CHIESA, DELLA LORO ELEZIONE E DEL LORO UFFICIO 1. È necessario esaminare ora con quale ordine Dio abbia voluto fosse governata la sua Chiesa. Quantunque, infatti, lui solo abbia a governare e regnare su di essa e avere in essa ogni preminenza, il suo dominio e il suo regno si debbano esercitare mediante la sua parola soltanto, egli tuttavia non dimora in mezzo a noi con una presenza visibile (Mt. 26.2) , in modo tale che possiamo udire dalla sua bocca stessa qual sia la sua volontà, perciò si serve, a questo scopo, del servizio di uomini, facendoli suoi luogotenenti; non per rassegnare il suo onore e la sua autorità nelle loro mani, ma soltanto per compiere, per mezzo loro, la sua opera come un artigiano si serve di uno strumento. Sono costretto a ripetere quanto detto sopra. E bensì vero che egli potrebbe compiere questo da solo, senza aiuto o strumento alcuno, o mediante i suoi angeli, sussistono però alcuni motivi per cui egli preferisce agire per mezzo di uomini. In primo luogo egli mostra così quale considerazione abbia per noi, in quanto sceglie fra gli uomini coloro che vuole suoi ambasciatori, con la missione di annunziare la sua volontà al mondo, i quali anzi, rappresentano la sua persona; in questo dimostra che in effetti non è senza ragione che ci chiama frequentemente "suoi templi ", visto che ci parla per bocca degli uomini come da cielo. In secondo luogo si tratta di un esercizio utile e profittevole in vista dell'umiltà, in quanto ci abituiamo ad obbedire alla sua parola anche quando sia predicata da uomini simili a noi; a volte anzi inferiori in dignità. Se egli stesso parlasse dal cielo non desterebbe stupore il fatto che tutti accoglierebbero il suo dire con riverenza e timore. Chi infatti non sarebbe stupito dalla sua potenza qualora la vedesse palese dinanzi agli occhi? Chi non sarebbe spaventato al primo sguardo della sua maestà? Chi non sarebbe confuso vedendo la sua luce infinita? Quando però parla nel nome di Dio un uomo di misera condizione e senza autorità alcuna quanto alla sua persona, in tal caso diamo prova autentica e certa della nostra umiltà e dell'onore che abbiamo per Dio, non facendo difficoltà a mostrarci sottomessi al suo ministero, quantunque la sua persona non abbia alcuna superiorità nei nostri confronti. Dio nasconde così il tesoro della sua celeste sapienza in fragili recipienti di terra (2 Co. 4.7) allo scopo di sperimentare meglio quale sia l'affetto che abbiamo per lui. In terzo luogo, nulla poteva essere più atto a mantenere fra noi uno spirito di fraterna carità che il legarci con questo vincolo, ordinando che uno fosse pastore per ammaestrare gli altri e facendo sì che questi ricevano da lui insegnamento e istruzione. Perché, se ognuno avesse in se tutto ciò che gli occorre, senza aver bisogno degli altri, dato il carattere orgoglioso della nostra natura, ognuno di noi disprezzerebbe il suo prossimo e sarebbe da lui disprezzato. Dio pertanto ha collegato la sua Chiesa con un legame che considerava essere il più idoneo, per conservarne l'unità, affidando ad uomini la salvezza e la vita eterna affinché fosse mediata agli altri per mezzo loro. Questo considerava san Paolo quando, scrivendo agli Efesini, diceva: "Vi è un corpo unico ed un unico Spirito, come pure siete stati chiamati ad un'unica speranza, quella della vostra vocazione. 5'è un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un Dio unico e Padre di tutti, che è sopra tuttora tutti ed in tutti. Ma a ciascuno di noi la grazia è stata data secondo la misura del dono largito da Cristo. È detto perciò che, essendo salito ha condotto i suoi nemici prigionieri, e ha fatto dei doni agli uomini. Colui che e salito era innanzi sceso, ed è ris.lito per compiere ogni cosa. Perciò ha ordinato gli uni apostoli, gli altri profeti, gli altri evangelisti, gli altri pastori e dottori per il perfezionamento dei santi, per l'opera del ministero, in vista di edificare il corpo di Cristo, finché giungiamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del figlio di Dio, allo stato di uomini fatti; affinché non siamo dei bambini sballottati da ogni vento di dottrina, ma che, seguitando verità in carità, noi cresciamo in colui che è il Capo, cioè Cristo, da cui il corpo essendo ben collegato mediante le sue giunture prende accrescimento nella carità, secondo la grazia che è data a ciascun membro " (Ef. 4.4) 2. Con queste parole viene affermato in primo luogo che il ministero degli uomini, di cui Dio si serve per governare la sua Chiesa, è come il legame dei nervi per unire in un corpo i credenti. In secondo luogo è dimostrato che la Chiesa non si può mantenere nella sua interezza se non valendosi di questi mezzi che il Signore ha istituiti per la sua conservazione: "Gesù Cristo "dice "è salito in alto per compiere o riempire ogni cosa " (Ef. 4.10). Ora, il mezzo per raggiungere questa pienezza è la dispensazione e la distribuzione alla Chiesa delle sue grazie, mediante i suoi servi, che ha insediato in questo ufficio, e a cui ha dato la facoltà di assolvere; anzi, in loro, egli si rende presente alla Chiesa dando efficacia al loro ministero per virtù del suo Spirito affinché la loro opera non risulti vana. Così dunque si compie il perfezionamento dei santi, così viene edificato il corpo di Cristo (Ef. 4.12) , così cresciamo in ogni cosa in colui che è il capo, e siamo fra noi uniti, così siamo tutti ricondotti all'unità di Cristo: quando cioè la profezia si attua fra noi, riceviamo gli apostoli, non disprezziamo a dottrina che ci viene offerta. Chiunque intenda abolire tale ordinamento e tale governo, ovvero lo disprezzi, considerandolo non necessario lavora dunque a disperdere la Chiesa anzi a ditruggerla interamente. Non v'è infatti luce solare, cibo o bevanda che sia così necessario alla conservazione della vita del corpo quanto lo è il ministero degli apostoli e dei pastori, per la conservazione della Chiesa. 3. Perciò ho già stabilito che nostro Signore ha esaltata la dignità di tale ufficio con ogni lode, affinché lo tenessimo in considerazione quale realtà eccellente fra tutte. Quando ordina ai profeti di gridare che sono belli i piedi degli evangelisti e che la loro venuta è motivo di felicità (Is. 52.7) , quando chiama gli apostoli "luce del mondo "e "sale della terra " (Mt. 5.13-14) dimostra con ciò di voler fare agli uomini una grazia singolare dando loro dei dottori. E infine non avrebbe potuto tenere in maggior considerazione questo stato che dicendo agli apostoli: "Chi vi ascolta mi ascolta; chi vi respinge mi respinge " (Lu 10.16). Nessun testo però è più chiaro di quello della epistola ai Corinzi dove Paolo affronta di proposito questa questione. Egli afferma che non v'è nulla di più degno ed eccellente nella Chiesa che il ministero dell'evangelo, in quanto ministero dello Spirito, della salvezza, della vita eterna (2 Co. 4.6; 3.9). Tutte queste dichiarazioni, ed altre simili, hanno lo scopo di ammonirci a non disprezzare o annullare, per noncuranza nostra, il governo della Chiesa mediante il ministero degli uomini che Gesù Cristo ha istituito per durare sempre. Anzi ha dichiarato non solo a parole ma con l'esempio quanto ciò fosse necessario. Volendo illuminare in modo completo, nella conoscenza dell'evangelo, il centurione Cornelio gli mandò un messaggero per metterlo in contatto con san Pietro (At. 10.3). Quando volle chiamare a se san Paolo e riceverlo nella sua Chiesa gli parlò direttamente, nondimeno lo rimandò ad un uomo mortale per ricevere la dottrina della salvezza ed il sacramento del battesimo (At. 9.6). Se non è accaduto a caso che un angelo, messaggero di Dio ben altrimenti qualificato, si sia trattenuto dall'annunziare l'Evangelo ma sia andato in cerca di un uomo per farlo, che Gesù Cristo, unico maestro dei credenti, anziché istruire san Paolo lo abbia inviato alla scuola di un uomo, quel san Paolo, si noti, che intendeva rapire al terzo cielo per rivelargli segreti ineffabili (2 Co. 12.2) chi oserà, dopo questo, disprezzare il ministero umano o lasciarlo come cosa superflua, visto che nostro Signore ne ha approvato in questo modo l'uso e la necessità. 4. Facendo menzione di coloro che nella Chiesa occupano un posto di preminenza per reggerla secondo l'ordine di Cristo, san Paolo parla in primo luogo degli apostoli, poi dei profeti, in terzo luogo degli evangelisti, poi i pastori e infine i dottori (Ef. 4.2). Fra tutti costoro, pero, due sono gli uffici a carattere ordinario nella Chiesa cristiana, gli altri sono stati suscitati per grazia di Dio, all'inizio, quando cioè l'Evangelo cominciò ad essere predicato, quantunque a volte ne susciti oggi ancora quando se ne presenta la necessità. Quale sia l'ufficio di apostolo ) appare evidente dall'ordine che è stato loro rivolto: "Andate, predicate l'Evangelo ad ogni creatura " (Mr. 16.15). Non vengono assegnati a ciascuno precisi limiti territoriali, ma è affidato loro l'incarico di ridurre all'obbedienza di Cristo il mondo intero, affinché, seminando l'Evangelo ovunque sia possibile, stabiliscano il suo Regno in ogni nazione. Perciò san Paolo, volendo garantire il suo apostolato, non dice di aver acquisito a Cristo luoghi determinati, ma di aver annunziato l'Evangelo qua e là, e non costruendo sul fondamento degli altri, ma fondando Chiese dove il nome del Signore Gesù non era ancora stato udito (Ro 15.19-20). Gli apostoli dunque sono stati inviati per ricondurre il mondo dalla dissipazione in cui si trovava, all'obbedienza di Dio ed edificare ovunque il suo Regno, mediante la predicazione dell'evangelo, ovvero, se si preferisce esprimere la cosa diversamente, porre le fondamenta della Chiesa in tutto il mondo come capo mastri della costruzione. San Paolo chiama profeti non ogni commentatore della volontà divina in generale, ma colui che aveva fra gli altri qualche rivelazione particolare. Or di profeti siffatti non ne esistono ai tempi nostri oppure non hanno la notorietà che avevano allora. Col nome di evangelisti egli intende un ufficio simile a quelli degli apostoli, quantunque inferiore a dignità, come furono Luca, Timoteo, Tito e altri simili. Possiamo forse includere in questa categoria i settanta discepoli che Gesù Cristo elesse per essere ministri in secondo grado, dopo i suoi apostoli (Lu 10.1). Se si accetta questa interpretazione del testo di Paolo, come penso debba farsi, questi tre uffici non vennero istituiti per essere perpetui nella Chiesa ma solo per il tempo in cui era necessario organizzare le Chiese laddove non esistevano, o annunciare Gesù Cristo agli Ebrei affin di condurli a lui quale loro Redentore. Non escludo che Dio abbia ancora suscitato degli apostoli, in seguito, o degli evangelisti in loro vece, come vediamo essere accaduto ai nostri giorni. Poiché era necessario che vi fossero tali uomini per ricondurre sulla retta via il misero popolo della Chiesa traviato dall'anticristo. Non dimeno si tratta, lo riaffermo, di un ufficio straordinario che non ha motivo di essere laddove le Chiese siano rettamente organizzate. Seguono i dottori e pastori di cui la Chiesa non può mai fare a meno. Considero che la differenza tra queste due categorie di ministeri consista nel fatto che i dottori non hanno incarico disciplinare, né di amministrazione dei sacramenti, né di fare esortazioni o ammonizioni, ma solo di esporre la Scrittura affinché sia sempre conservata nella Chiesa una dottrina pura e sana. La carica di pastore invece ricomprende tutte queste mansioni. 5. Abbiamo così definito quali siano gli uffici stabiliti per un tempo nella Chiesa e quali siano destinati a durare in perpetuo. Se congiungiamo evangelisti e apostoli siamo in presenza di due coppie di ministeri corrispondenti l'una all'altra. Le affinità tra dottori e profeti si riscontrano tra apostoli e pastori. L'ufficio dei profeti è stato più eccelso, a motivo del dono singolare di rivelazione fatto loro ma l'ufficio di dottore ha in ogni cosa il medesimo scopo e si attua quasi con i medesimi mezzi. Nello stesso modo i dodici apostoli che Gesù Cristo ha scelto per annunziare il suo Evangelo hanno superato in dignità e importanza tutti gli altri. Poiché, quantunque secondo il significato del termine ogni ministro dell'evangelo possa dirsi apostolo (per il fatto di essere inviato da Dio e messaggero ) , tuttavia, poiché richiedevasi che fosse approvato da testimonianze sicure la vocazione di quelli che dovevano annunziare l'Evangelo, In tempi in cui risultava sconosciuto, era opportuno che i dodici che avevano tale incarico (Lu 6.13) , e Paolo aggiuntosi appresso a loro (Ga 1.1) , fossero insigniti di un titolo più eccelso degli altri. San Paolo fa bensì ad Andronico e Giunio l'onore di chiamarli Cl. Nome di "apostoli ", anzi dicendoli eccellenti fra gli altri (Ro 16.7) , quando però intende parlare in senso proprio non attribuisce questo titolo se non a coloro che godevano della suddetta preminenza; tale risulta essere l'uso comune della Scrittura. Tuttavia i pastori ricoprono una carica simile a quella degli apostoli, con l'eccezione che ognuno di essi ha la sua Chiesa particolare. È: necessario esaminare più ampiamente questo punto. 6. Nostro Signore inviando i suoi apostoli in missione ordinò loro, come abbiamo già detto 8, di predicare l'Evangelo e di battezzare ogni credente nella remissione dei peccati (Mt. 28.19). Aveva però ordinato loro, in precedenza, di distribuire, seguendo il suo esempio, il sacramento del suo corpo e del suo sangue (Lu 22.19). Ecco una norma inviolabile imposta a tutti coloro che si dicono successori degli apostoli e che sono tenuti ad osservare in perpetuo: predicare l'Evangelo e amministrare sacramenti. Ne deduco che chi trascuri l'uno o l'altro non ha diritto di rifarsi agli apostoli. Che diremo riguardo ai pastori? San Paolo non parla di se stesso ma di tutti loro quando afferma: "Ci si consideri servi di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio " (1 Co. 4.1). Parimenti, in un altro testo: "Bisogna che il vescovo sia attaccato alla Parola, onde sia capace di esortare nella sana dottrina e di convincere i contraddittori " (Tt 1.9). A queste due citazioni e da altre consimili possiamo dedurre che l'ufficio dei pastori comprende questi due elementi: annunziare l'Evangelo e l'amministrare i sacramenti L'insegnare non consiste solo nella predicazione pubblica, ma comprende altresì le ammonizioni individuali. San Paolo pertanto si appella alla testimonianza degli Efesini affermando che non li ha lasciati senza annunziare loro quanto era utile sapere, insegnando pubblicamente e nelle case, esortando Giude. E Gentili al ravvedimento e alla fede in Gesù Cristo (At. 20.20). Parimenti, poco appresso, dichiara che non ha cessato dall'ammonire tutti con lacrime. Non è mia intenzione esporre in questa sede tutte le qualità di un buon pastore ma di illustrare, brevemente, quale impegno assumano coloro che si dicono pastori e pretendono essere considerati tali: è loro domandato di presiedere nella Chiesa in modo tale da non rivestire una dignità inutile ma di istruire il popolo nella dottrina cristiana, amministrare i sacramenti, correggere gli errori con sagge ammonizioni usando la disciplina paterna usata da Gesù Cristo. Poiché Dio ricorda a tutti coloro che ha posti quali sentinelle della Chiesa che se alcuno perisce nella sua ignoranza a causa della loro negligenza il sangue di costoro verrà loro richiesto (Ez. 3.17). Similmente è da riferirsi a tutti la parola di san Paolo, quando afferma che sono maledetti se non predicano l'Evangelo dato che ne è stata loro rivolta vocazione (1 Co. 9.16. Infine, quanto gli apostoli hanno fatto attraverso il mondo, ogni pastore è tenuto a farlo nella Chiesa che gli è stata affidata. 7. Assegnando ad ogni pastore la propria Chiesa non intendiamo negare che chi si trova impegnato in un luogo non possa utilmente aiutare altre Chiese, sia che vi sorga qualche crisi, che possa essere risolta dalla loro presenza, sia che nascano delle difficoltà, in cui si richieda il loro consiglio. Ma poiché è necessario, per il mantenimento della pace nella Chiesa, che ognuno assolva il suo compito affinché tutti non accorrano nel medesimo luogo recandosi fastidio l'un l'altro e provocando confusione, e, similmente, affinché coloro che tengono il proprio profitto e la propria comodità in maggior considerazione che l'edificazione della Chiesa non abbandonino la loro sede, seguendo la propria fantasia, si deve mantenere, per quanto possibile, questa suddivisione geografica affinché ognuno, mantenendosi nei propri confini, non si immischi degli incarichi altrui. Questa non è invenzione umana ma istituzione di Dio stesso. Leggiamo infatti che Paolo e Barnaba hanno ordinati preti in tutte le Chiese di Listra, di Antiochia e di Iconio (At. 14.22). San Paolo perciò ordina a Tito di consacrare dei vescovi in ogni luogo (Tt 1.5) - Secondo questi princìpi egli menziona i vescovi di Filippi (Fl. 1.1). Ed in un altro testo Archippo, vescovo dei Colossesi (Cl. 4.17). Similmente san Luca riferisce la predicazione che egli fece ai preti della Chiesa di Efeso (At. 20.18). Chi assume pertanto la carica di una Chiesa, sappia che è obbligato a servirla secondo la vocazione divina. Non già che egli sia legato in modo tale da non potersi muovere quando la necessità lo richieda, purché ciò avvenga con ordine. Intendo però che chi è chiamato in un luogo non deve pensare ad effettuare cambiamenti o prendere ogni giorno nuove decisioni secondo il proprio vantaggio. In secondo luogo quando sia utile che qualcuno cambi di sede, vorrei che egli non facesse questo di sua propria iniziativa ma lasciandosi guidare dall'autorità generale della Chiesa. 8. Ho seguito, nell'adoperare indifferentemente i termini: vescovo, prete, pastore, ministro, l'uso della Scrittura che se ne serve per indicare la stessa funzione. Tutti coloro che hanno il compito di amministrare la Parola sono quivi detti vescovi. San Paolo, dopo aver ordinato a Tito di stabilire preti in ogni luogo, aggiunge subito: "bisogna che il vescovo sia irreprensibile " (Tt 1.5-7). Parimenti rivolge il suo saluto ai vescovi di Filippi (Fl. 1.1) , che risultano essere parecchi in un solo luogo. E san Luca, dopo aver detto che san Paolo convocò i preti di Efeso, li chiama vescovi. Si noterà che abbiamo menzionato sin qui solo uffici aventi attinenza con l'amministrazione della Parola, gli unici cui san Paolo si riferisce nel già citato capitolo quarto degli Efesini. Nell'epistola ai Romani e nella I Corinzi però ne elenca altri, quali: "autorità, dono delle guarigioni, governo, interpretazione delle lingue, responsabilità della cura dei poveri ". Tralasciamo quelli che sono stati istituiti solo per un tempo e su cui non occorre per il momento soffermarci. Vi sono però due tipi destinati a durare: il governo e la cura dei poveri. Sono d'avviso che egli indichi, con l'espressione "governo ", gli anziani che venivano eletti nel popolo per assistere i vescovi nell'esercizio della disciplina. Non si può infatti interpretare in altro modo l'affermazione: "Colui che governalo faccia con diligenza " (Ro 12.8). Risulta pertanto che ogni Chiesa ha avuto, sin dall'inizio, un consiglio o concistoro di uomini retti, di condotta santa, rivestiti di autorità per correggere i vizi come appresso vedremo. L'esperienza dimostrando che tale situazione non è stata solo per un tempo, si deve ritenere che questo incarico di governo è necessario in ogni tempo. 9. La cura dei poveri è stata affidata ai diaconi, quantunque san Paolo nell'epistola ai Romani ne menzioni due tipi: "Quello che dà dia con semplicità, e quello che esercita la misericordia lo faccia con gioia ". Riferendosi indubbiamente agli uffici pubblici della Chiesa si deve ritenere che siano state due forme di diaconato. Se non mi inganno, nel primo caso, egli allude ai diaconi che distribuivano le elemosine, nel secondo a quelli incaricati di provvedere ai poveri e servirli, come ad esempio le vedove, di cui accenna scrivendo a Timoteo (1 Ti. 5.10). Poiché le donne non potevano esercitare pubblico ufficio all'infuori del servizio dei poveri. Se accogliamo questa tesi, fondata su valide motivazioni, risulteranno esserci due tipi di diaconi: i primi al servizio della Chiesa nell'amministrazione e distribuzione dei beni ai poveri, i secondi nel provvedere agli ammalati ed agli altri indigenti. Quantunque il concetto di diaconia abbia un significato assai più ampio, tuttavia la Scrittura definisce diaconi in modo particolare coloro che sono costituiti dalla Chiesa per distribuire l'elemosina ed hanno la funzione quasi di esattori e procuratori dei poveri, la cui origine, istituzione, carica è descritta da san Luca negli (At. 6.3). Era sorta, infatti, fra i Greci una lamentela per il fatto che le loro vedove non erano tenute da conto nella distribuzione dei doni ai poveri, gli apostoli, giustificando l'impossibilità di provvedere a due uffici, quali la predicazione e la cura dei poveri, chiesero al popolo di eleggere sette uomini di buona fama che assumessero tale incarico. Questi furono i diaconi dell'età apostolica, e tali uomini dobbiamo avere oggi seguendo l'esempio della Chiesa primitiva. 10. Poiché ogni cosa, nella Chiesa, deve essere fatta con ordine e decoro (1 Co. 14.40) si applicherà questa regola in modo particolare nel campo del governo; considerando che in questo settore i pericoli sono maggiori che in ogni altro, qualora si verifichi qualche disordine. Ad evitare perciò che spiriti superficiali e turbolenti si introducessero con temerarietà nell'ufficio di insegnamento o di governo della Chiesa, nostro Signore ha esplicitamente ordinato che nessuno assumesse un ministero pubblico senza aver ricevuto vocazione. Perché un uomo debba essere considerato vero ministro della Chiesa è pertanto richiesto, in primo luogo, che egli sia chiamato nel modo dovuto (Eb. 5.4); in secondo luogo che egli adempia la sua vocazione, cioè esegua l'incarico assunto, come si può ricavare da parecchi testi di san Paolo. Poiché, volendo giustificare il suo apostolato, menziona comunemente sia la vocazione che la fedeltà del suo impegno. Se un ministro di Gesù Cristo di tale levatura non si vuole attribuire autorità alcuna, se non in virtù dell'essere stabilito per ordine del Signore e dell'adempimento fedele della sua missione, quale mancanza di pudore risulterà esservi quando alcuno, chiunque sia, intenda usurpare questo stesso onore senza vocazione o senza adempiere il compito del suo ufficio. Avendo noi però trattato più sopra della carica ecclesiastica, occorre menzionare ora la sola vocazione. 11. Il problema consta di quattro elementi: quali debbano essere i ministri che si eleggono, come debba avvenire l'elezione, a chi spetti il diritto di eleggerli, con quali cerimonie debbano essere insediati nel loro ufficio. Mi riferisco qui alla sola vocazione esteriore, che fa parte della disciplina ecclesiastica, passando sotto silenzio la vocazione segreta di cui ogni ministro deve avere coscienza davanti a Dio e di cui gli uomini non possono essere testimoni. Questa vocazione segreta è la ferma certezza che dobbiamo avere, nel cuor nostro, del fatto che la scelta di questa condizione non è stata determinata da cupidigia o ambizione ma da un autentico timore di Dio e dal desiderio di edificare la Chiesa. Questo è richiesto, come ho detto, a tutti noi ministri se vogliamo che il nostro ministero sia approvato da Dio. Tuttavia se qualcuno vi entrasse con cattive intenzioni, non per questo verrebbe meno la vocazione per quanto riguarda la realtà ecclesiastica finché la sua malvagità non diventi palese. Siamo soliti dire che un uomo è chiamato al ministero, quando lo consideriamo adatto ad esso, in quanto la scienza, il timor di Dio e le altre qualità di un buon pastore sono come una preparazione per il ministero. Poiché, a coloro che sono chiamati a questo ufficio, Dio fornisce in precedenza gli strumenti necessari per assolverlo affinché non vi giungano sprovvisti ed impreparati. San Paolo pertanto nella I lettera ai Corinzi volendo trattare degli uffici ecclesiastici, inizia con l'elencare i doni che debbono possedere coloro che sono chiamati (1 Co. 12.7). Essendo questo il primo dei quattro argomenti che ho menzionato iniziamo la trattazione con questo. 12. Quali debbano essere coloro che vengono eletti vescovi è illustrato ampiamente da san Paolo in due testi (1 Ti. 3.1 ; Tt 1.7). Il pensiero fondamentale tuttavia si riassume in questo: non si eleggano persone che non abbiano sana dottrina e vita santa, o siano inficiati da qualche vizio palese che li renda spregevoli e renda il loro ministero oggetto di critica. Considerazioni analoghe valgano per i diaconi e i preti. Per prima cosa occorre considerare che non siano inetti o incapaci a reggere la carica loro affidata, siano cioè provveduti dei doni necessari per adempiere il loro incarico. In questo modo nostro Signore Gesù Cristo, volendo inviare i suoi apostoli, li ha anzitutto dotati e riforniti di quelle armi e di quegli strumenti di cui non potevano fare a meno (Lu 21.15; 24.49; At. 1.8). E san Paolo avendo descritto un buon vescovo, esorta Timoteo a non contaminarsi eleggendo persone che non abbiano tali requisiti (1 Ti. 5.22). Il problema della elezione non consiste nella cerimonia ma nella vigilanza e nella sollecitudine di cui si deve usare nel procedere a tale elezione. In questo contesto si spiegano i digiuni e le preghiere che, a dire di san Luca, facevano i credenti prima di nominare dei preti (At. 14.23). Poiché, consci del fatto che trattavasi di una decisione di grande importanza, non osavano prendere iniziativa alcuna se non con estremo timore, meditando lungamente su quanto avevano da fare. Ed in modo principale si sentivano in dovere di pregare Dio per chiedere lo spirito di consiglio e di discernimento. 13. Il terzo punto della nostra trattazione riguarda le persone a cui spetta il diritto di eleggere i ministri non è possibile ricavare una regola normativa dall'istituzione o elezione degli apostoli, per il fatto che non fu affatto simile alla vocazione comune degli altri ministri. Trattandosi, nel caso loro, di un ufficio eccezionale, che implicava una qualche preminenza sugli altri, dovevano essere eletti per bocca stessa. Del Signore. Gli apostoli dunque non sono stati ordinati nella loro carica mediante una elezione umana, ma dal solo ordine di Dio e di Gesù Cristo. Da ciò deriva altresì il fatto che quando vollero sostituire Giuda non osarono procedere alla nomina di alcuno ma ne scelsero due, pregando Dio di dichiarare mediante la sorte quale avesse scelto (At. 1.23). Nello stesso senso deve essere inteso quanto dice san Paolo ai Galati negando di essere stato creato apostolo per volontà di uomini, o da uomini, ma da Gesù Cristo e da Dio Padre (Ga 1.12). Per quanto concerne il primo punto: il non essere stato eletto per decisione umana, questo gli fu comune con tutti i buoni ministri. Poiché nessuno può esercitare il santo ministero della Parola qualora non sia chiamato da Dio. Riguardo all'altro fatto: il non essere eletto da uomini, si tratta di un elemento caratteristico e particolare. Quando pertanto egli si vanta di non essere stato eletto da uomini non intende solo gloriarsi di ciò che ogni buon pastore deve avere, ma intende altresì garantire il suo apostolato. Vivevano infatti fra i Galati persone che si sforzavano di sminuire la sua autorità, affermando non essere l'apostolo che un discepolo insignificante ordinato dagli apostoli; per mantenere la divinità della sua predicazione, che quei malvagi volevano sminuire, era necessario che egli mostrasse di non essere in nulla inferiore agli altri apostoli. Egli afferma pertanto non esser stato eletto sulla base del giudizio di uomini, come erano i pastori comuni, ma per ordine e decreto di Dio. 14. Che la vocazione legittima di un vescovo richieda la sua elezione da parte degli uomini, nessuna persona di buon senso vorrà contestarlo, considerando le numerose testimonianze della Scrittura al riguardo. Né questo risulta contraddetto da quel testo di san Paolo che abbiamo esaminato, dove dice che non è stato eletto né dagli uomini né per mezzo di uomini (Ga 1.1) , dato che in questo non parla dell'elezione ordinaria dei ministri ma del privilegio particolare degli apostoli. E quantunque egli sia stato eletto dal Signore in modo eccezionale, è tuttavia presente nella sua vocazione l'ordinamento ecclesiastico. Narra infatti san Luca che, quando gli apostoli pregavano e digiunavano, lo Spirito Santo disse loro: "Mettetemi da parte Paolo e Barnaba per l'opera alla quale li ho chiamati " (At. 13.2). Che significato può avere questa messa a parte e l'imposizione delle mani quando già lo Spirito Santo aveva attestato la sua elezione, se non per garantire la norma ecclesiastica che i ministri fossero eletti dagli uomini? Né Dio poteva dare la sua approvazione a quest'ordine in modo più evidente e con un esempio più notevole, che richiedendo l'ordinazione di san Paolo da parte della Chiesa dopo aver dichiarato che lo costituiva apostolo delle genti. Il medesimo fatto si può altresì notare nella elezione di Mattia (At. 1.23). Essendo il ministero apostolico così elevato la Chiesa non ebbe l'ardire di porvi un uomo, a suo giudizio, ma ne scelse due da presentare alla sorte. In tal modo il governo della Chiesa si esercitava in questa elezione eppure si lasciava a Dio di mostrare quale dei due avesse eletto. 15. Un problema da affrontare ora è quello di sapere se un ministro debba essere eletto da tutta la Chiesa o dagli altri ministri e anziani, oppure se debba essere ordinato da un uomo solo. Quelli che vogliono affidare questo compito all'autorità di uno solo citano le parole di san Paolo a Tito: "Ti ho lasciato a Creta affinché tu istituisca dei preti in ogni città " (Tt 1.5). Parimenti a Timoteo: "Non imporre le mani ad alcuno con precipitazione " (1 Ti. 5.22). Chi immaginasse che Timoteo abbia esercitato in Efeso una sorta di autorità monarchica, disponendo a suo piacimento ogni cosa, e che Tito abbia fatto lo stesso in Creta si ingannerebbe grandemente. Entrambi hanno presieduto alle elezioni per condurre il popolo con saggi consigli e non certo per fare e decidere ciò che a loro piaceva ad esclusione degli altri. Dimostrerò, con un esempio, che questo non è frutto di mia invenzione. San Luca narra che Paolo e Barnaba hanno creato nella Chiesa dei preti, ma nel menzionare questi fatti ne sottolinea subito le modalità; li hanno creati mediante suffragio o, come dice il termine greco, mediante la voce del popolo (At. 14.23). Non erano dunque loro a scegliere, ma il popolo, che esprimeva, secondo l'uso del paese, la sua scelta, con alzata di mano come testimoniano gli storici. Si tratta di un'espressione comune, come quando gli storici dicono che un console creava gli ufficiali raccogliendo i suffragi popolari e presiedendo alle elezioni. Non è certo pensabile che Paolo abbia concesso a Tito e a Timoteo di prendere delle iniziative che egli stesso non 5i era sentito di prendere. Ora sappiamo che avevano l'abitudine di creare i ministri sulla base del consenso e dei suffragi del popolo. Si devono dunque interpretare i testi summenzionati nel senso che la libertà e il diritto della Chiesa non debbano essere in nulla cancellati o sminuiti. San Cipriano afferma giustamente che in base all'autorità di Dio un prete viene eletto in presenza di tutti, affinché sia considerato degno ed idoneo in base della testimonianza del popolo. Vediamo infatti che questo è stato prescritto dal comandamento divino per i sacerdoti levitici presentati al popolo prima della consacrazione (Le 8.6 ; Nu. 20.26). In questo modo Mattia fu aggiunto al gruppo degli apostoli, e non diversamente furono creati i sette diaconi (At. 1.15 ; 6.2). Questi esempi ci mostrano, afferma san Cipriano, che un sacerdote non deve essere creato se non coll'assistenza del popolo affinché l'elezione risulti valida e legittima in quanto vagliata dalla testimonianza di tutti. Ne risulta che la vocazione di un ministro ordinato dalla parola di Dio è dunque da ritenersi valida quando colui che è stato ritenuto idoneo sia stato creato tale Cl. Consenso e la approvazione del popolo. Del rimanente i pastori presiedano alle elezioni affinché non vengano effettuate dal popolo con leggerezza, intrighi o tumulti. 16. Ci rimane da trattare ora il quarto punto: la cerimonia dell'ordinazione. Risulta evidente che gli apostoli non ne ebbero altre all'infuori dell'imposizione delle mani. Ritengo abbiano ricevuto questo uso dalla tradizione dei Giudei che presentavano a Dio, mediante l'imposizione delle mani, ciò che volevano benedire e consacrare. Così Giacobbe, volendo benedire Efraim e Manasse, pose le sue mani sul suo capo (Ge 48.14). Altrettanto fece nostro Signore Gesù con i bambini per cui pregava (Mt. 19.15). Per lo stesso motivo, penso, la Legge prescriveva di imporre le mani ai sacrifici che si offrivano. Gli apostoli pertanto, mediante l'imposizione delle mani, intendevano significare che colui che introducevano nel ministero era offerto a Dio, quantunque abbiano anche imposto le mani a coloro ai quali conferivano i doni visibili dello Spirito Santo (At. 19.6). Comunque sia hanno ricorso a questa cerimonia solenne ogni qualvolta hanno ordinato nel ministero ecclesiastico qualcuno, come constatiamo nel caso di pastori, dottori e diaconi. Ora, quantunque manchi un comandamento esplicito concernente la imposizione delle mani, constatando che gli apostoli hanno costantemente seguito quella prassi, dobbiamo ritenere normativo ciò che hanno fatto con tanta diligenza. È certo cosa utile onorare dinnanzi al popolo la dignità del ministero mediante tali cerimonie e ricordare in tal modo a colui che è ordinato che non appartiene più a se stesso ma è consacrato al servizio di Dio e della Chiesa. Anzi, non siamo in presenza di un segno privo di contenuto e di forza quando venga ripristinato nella sua autenticità originaria. Poiché se lo Spirito di Dio non ha istituito nella Chiesa alcunché di inutile dobbiamo pensare che tale cerimonia, procedendo da lui, non è insignificante, non venga pervertita da forme superstiziose. Dobbiamo infine notare che tutto il popolo non poneva la mano sui ministri ma solo gli altri ministri, quantunque non risulti chiaramente se questo venisse fatto da parecchi o da uno solo. È, chiaro che questo fu fatto per i sette diaconi, per Paolo e Barnaba e per alcuni altri (At. 6.6). Ma san Paolo ricorda di aver imposto lui solo le mani a Timoteo: "Ti ricordo "dice "di ravvivare il dono di Dio che è in te per la imposizione delle mie mani " (2Ti 1.6). Riguardo a quanto egli afferma in un altro testo, circa l'imposizione delle mani del sacerdozio (1 Ti. 4.14) , non lo interpreto come alcuni fanno, nel senso che egli alluda al corpo degli anziani, ma come un'allusione all'ufficio e al ministero, quasi dicesse: vigila affinché non risulti vana la grazia da te ricevuta mediante l'imposizione delle mie mani quando ti elessi nell'ordine del sacerdozio.
CAPITOLO 4 DELLE CONDIZIONI DELLA CHIESA ANTICA E DELLA FORMA DI GOVERNO IN USO PRIMA DEL PAPATO 1. Abbiamo sin qui parlato del governo della Chiesa, seguendo le indicazioni dateci dalla sola parola di Dio. Abbiamo altresì esaminato il problema dei ministri secondo l'istituzione di Gesù Cristo. A far sì che questo sia più chiaramente formulato e impresso nella nostra mente, sarà utile considerare a questo punto, quale sia stata, in questa materia, la prassi seguita dalla Chiesa antica, visto che può offrirci, come in uno specchio, l'immagine di quella istituzione divina di cui abbiamo parlato. Poiché i vescovi antichi, pur avendo emanato molti canoni e molte norme, che possono fare pensare si siano spinti nel legiferare oltre ciò che Dio aveva espresso nella Scrittura, hanno tuttavia conformato in modo così rigoroso le loro norme disciplinari e il loro governo all'unica norma della parola di Dio che si deve ammettere non esservi in essi alcun elemento estraneo. Quantunque il loro modo di agire susciti, sotto alcuni aspetti, riserve nondimeno, dato che si sono impegnati a mantenere l'istituzione del Signore con onestà, e non se ne sono allontanati in modo eccessivo, gioverà esporre brevemente, a questo punto, quale sia stata la loro prassi. La Scrittura, come abbiamo detto, divide i ministri in tre ordini, così la Chiesa antica ha diviso in tre categorie tutti i suoi ministeri. Dall'ordine dei preti si sceglievano pastori e dottori, gli altri si consacravano alla disciplina ecclesiastica. I diaconi avevano l'incarico di provvedere ai poveri e distribuire le offerte. "Lettori "e "accoliti "non indicavano uffici precisi, ma quei giovani che venivano accolti nel clero e impegnati, molto presto, nel servizio della Chiesa con precisi incarichi, affinché si rendessero pienamente conto a quali compiti sarebbero stati destinati e si preparassero ad assumerli a suo tempo, come illustreremo in seguito. San Girolamo, perciò, dopo aver suddiviso la Chiesa in cinque ordini, menziona i vescovi, poi i preti, in terzo luogo i diaconi, poi i fedeli e infine coloro che non erano ancora battezzati ma si erano presentati per essere istruiti nella fede cristiana in vista del battesimo. Egli non fa dunque riferimento ne ad altri ordini nel clero né ai monaci. 2. Erano considerati preti tutti coloro che avevano l'incarico di insegnamento. Costoro eleggevano, in ogni città, uno di loro, cui attribuivano il titolo di vescovo, affinché, come spesso accade, l'eguaglianza non suscitasse dispute; tuttavia la superiorità del vescovo sui nuovi compagni, in onore e dignità, non era di natura tale da farlo signoreggiare, ma il suo ufficio, in relazione agli altri preti, era paragonabile a quello della presidenza in un consiglio cioè: fare proposte, raccogliere pareri, condurre gli altri con saggi consigli e ammonizioni, impedire con la sua autorità che sorgano disordini, e mettere in esecuzione quanto deliberato da tutti. I Padri antichi ammettono che questo è stato introdotto per necessità, Cl. Consenso degli uomini. San Girolamo, nel commento all'epistola a Tito, dice: "Il prete e un vescovo erano la stessa cosa, e prima che per istigazione del Diavolo si creassero partiti nella cristianità e uno dicesse: "sono di Cefa, e l'altro: "io sono di Apollo ", le Chiese erano rette, in forma comunitaria, dal consiglio dei preti ": "In seguito, per sradicare la radice dei dissensi la carica fu affidata ad uno solo. Perciò come i preti sanno di essere sottoposti al vescovo che presiede su loro, secondo le consuetudini della Chiesa, così questi sappia che è in virtù di consuetudine, più che per disposizione del Signore, che egli è maggiore dei preti e che deve governare la Chiesa con questi ". In un altro testo dimostra però l'antichità di questa prassi; egli dice infatti che in Alessandria i preti, dai tempi di san Marco evangelista, avevano eletto sempre uno di loro cui affidare le presidenza, che chiamavano "vescovo ". Ogni città aveva così un'assemblea di preti che erano pastori e dottori. Tutti infatti avevano l'incarico di insegnare al popolo, esortare e correggere, come ordina san Paolo ai vescovi, e per lasciare dopo di loro continuità di azione, istruivano i giovani, accolti nel clero, per essere loro successori. Ogni città aveva la sua diocesi in cui inviava i preti. Gli abitanti della città e della campagna formavano così un solo corpo ecclesiastico. Il fatto che ogni comunità avesse il suo vescovo è motivato unicamente da ragioni di ordine e per il mantenimento della pace. Il vescovo aveva sugli altri preminenza, in dignità però e non al punto da non essere sottoposto all'assemblea. Se la diocesi risultava così vasta da impedirgli di compiere ovunque il suo ufficio, egli eleggeva, in determinati luoghi, dei preti per rappresentarlo nel disbrigo delle pratiche di scarsa importanza. Costoro venivano detti "vescovi foranei "in quanto rappresentavano il vescovo nelle campagne. 3. Tuttavia per quanto concerne il loro ufficio, sia il vescovo che i preti, erano dispensatori della parola di Dio e dei sacramenti. Solo in Alessandria fu ordinato ai preti di non predicare, a causa della crisi provocata da Ario nella Chiesa, come narra Socrate nella storia tripartita al nono libro. Decisione che, giustamente, san Girolamo disapprova. Sarebbe del resto parsa cosa mostruosa inorgoglirsi della carica di vescovo senza assolverne l'incarico. La disciplina, che vigeva in quel tempo, era tale che ogni ministro si trovava impegnato ad assolvere il suo incarico nel modo ordinato da Dio. Né questo si verificò solo per qualche tempo, ma sempre. Poiché anche nell'età di san Gregorio, quando già la Chiesa era molto decaduta, o per lo meno si era fortemente allontanata dalla sua condizione iniziale, non si sarebbe tollerato che un vescovo si dispensasse dal predicare. Egli afferma, in un testo, che un prete è reo di morte, quando non parli, poiché provoca l'ira di Dio su di se non predicando. E in un altro testo afferma: "quando san Paolo protesta di essere puro del sangue di tutti (At. 20.26) questa parola ammonisce, incolpa, minaccia noi che siamo preti, In quanto siamo colpevoli oltre che delle nostre colpe anche della morte degli altri. Poiché ne uccidiamo altrettanti quanti muoiono quotidianamente mentre ci riposiamo e taciamo". L'affermazione che egli e gli altri tacciano deve intendersi nel senso che non sono impegnati nel proprio compito come dovrebbero. Considerando che egli non perdona a chi adempie il suo incarico solo a metà, ci si può domandare come avrebbe reagito se qualcuno l'avesse trascurato del tutto. Questo principio dunque è stato per lungo tempo chiaro nella Chiesa: il compito essenziale del vescovo è di pascere il popolo con la parola di Dio, o edificare la Chiesa, sia pubblicamente che privatamente con puro insegnamento. 4. Il fatto che ogni provincia avesse il suo arcivescovo, e che il Concilio di Nicea ordinasse dei patriarchi superiori ai vescovi in dignità e onore, sono provvedimenti attuati in vista del mantenimento dell'ordine. Potremmo dispensarci dal parlarne, dato l'uso poco frequente di questo ordinamento, è però opportuno farne menzione a questo punto. Questi gradi gerarchici furono istituiti essenzialmente allo scopo di demandare al sinodo provinciale le questioni sorte in una Chiesa e non risolvibili fra poche persone. Qualora il problema si fosse rivelato di tale importanza o difficoltà da richiedere un ulteriore esame, veniva notificato ai patriarchi che convocavano il concilio dei vescovi dipendenti dalla loro giurisdizione, rimaneva quale istanza di appello superiore il concilio generale. Alcuni hanno definito questa forma di governo gerarchia ricorrendo ad un termine che mi pare improprio, o per lo meno non riscontrabile nella Scrittura; lo Spirito Santo ha infatti voluto evitare, che nel governo della Chiesa, si introducessero fattori di autorità o di dominio. Considerando tuttavia la realtà, senza soffermarci sul termine, constatiamo che i vescovi antichi non hanno inteso creare una forma di governo ecclesiastico diversa da quella che Dio ha stabilito nella sua parola. 5. Similmente i diaconi non risultano, in quel tempo, diversi da come erano stati al tempo degli apostoli. Raccoglievano infatti sia le offerte fatte quotidianamente dai credenti, che le rendite annue per impiegarle al loro vero scopo; in parte al sostentamento dei ministri, in parte all'aiuto dei poveri, tutto sotto l'autorità del vescovo a cui rendevano conto ogni anno del proprio operato Quando infatti i canoni ecclesiastici ordinano che il vescovo sia dispensatore dei beni della Chiesa, questo non si deve intendere nel senso che egli debba assolvere questo incarico da solo, ma nel senso che gli spetta il compito di indicare al diaconi quali persone debbano essere sostentate con i beni comuni, a chi distribuire il rimanente; abbiano insomma la sovrintendenza per controllare come vadano le cose. Fra i canoni detti "apostolici "ve n'è uno che prescrive: ordiniamo che i vescovi abbiano in loro potere i beni della Chiesa; poiché, se le anime molto più preziose sono state loro affidate, a maggior ragione possono avere il governo del denaro, affinché tutto sia distribuito dai preti e dai diaconi con timore e sollecitudine, sotto la loro responsabilità. Ed il concilio di Antiochia decretò che si ammonissero i vescovi che disponevano dei beni ecclesiastici senza la collaborazione dei preti e dei diaconi. Non è il caso di dibattere più oltre questo argomento, risultando da parecchie epistole di san Gregorio che, nel suo tempo, in cui l'ordinamento della Chiesa risultava già fortemente corrotto, permaneva in vigore la prassi che i diaconi fossero dispensatori dei beni della Chiesa, sotto l'autorità del vescovo. È verosimile che i suddiaconi siano stati aggiunti, da principio, per aiutare i diaconi nel servizio dei poveri; ma questa differenza è stata a poco a poco annullata. Gli arcidiaconi furono creati quando aumentarono i beni e la responsabilità divenne maggiore e si richiese una forma di governo più differenziata.
San Girolamo afferma che ve n'erano già al suo tempo. Avevano responsabilità tanto dei redditi e possedimenti, quanto degli utensili e delle elemosine quotidiane. Pertanto san Gregorio scrive dell'arcidiacono di Salona che sarà tenuto responsabile dei beni della Chiesa che si perdessero per negligenza o frode. L'ordinazione a leggere l'Evangelo, esortare il popolo alla preghiera, offrire il calice al popolo nella Cena, aveva lo scopo di conferire onore al loro stato; con queste cerimonie li si invitava a non considerare profana la loro condizione ma a sentirsi rivestiti di una carica spirituale e consacrata a Dio. 6. Da questo risulta facile dedurre qual sia stato l'uso dei beni ecclesiastici e la loro dispensazione. Viene spesso affermato nei canoni ecclesiastici e negli scritti degli antichi dottori che tutto il patrimonio della Chiesa in terreni o in denaro appartiene ai poveri. Viene perciò spesso ricordato ai vescovi ed ai diaconi che le ricchezze da loro amministrate non sono di loro proprietà, ma sono destinate all'assistenza dei poveri ed essi risulteranno colpevoli di omicidio qualora le dissipino malamente o se ne impadroniscano. Sono altresì ammoniti a fare la distribuzione di quanto è loro affidato, a coloro cui spetta di diritto, con timore e riverenza come in presenza di Dio, senza parzialità. Da qui traggono origine le dichiarazioni di san Crisostomo, sant'Ambrogio, sant'Agostino e gli altri per attestare al popolo la loro integrità. Ora però essendo cosa giusta e stabilita da Dio nella Legge che la comunità provveda al sostentamento di coloro che si impegnano totalmente al servizio della Chiesa e poiché molti preti, in quel tempo, facevano dono a Dio del loro patrimonio, facendosi volontariamente poveri, la distribuzione dei beni ecclesiastici avveniva in modo tale che si poteva provvedere al mantenimento di ministri pur non tralasciando i poveri. Quantunque, secondo una norma molto saggia, i ministri cui è chiesto di essere esemplari in sobrietà e temperanza, non ricevessero stipendi tali da poter vivere in eccessi di fasto e di piaceri, ma sufficienti ad una vita di condizioni modeste. Perciò secondo san Girolamo i chierici che, pur essendo in grado d'assicurare il loro sostentamento con i beni di famiglia, sottraggono denari ai poveri, commettono sacrilegio e mangiano la propria condanna . 7. Dapprima l'amministrazione fu libera, in quanto si poteva fare pieno affidamento sulla integrità dei vescovi e dei diaconi e l'onestà rappresentava per loro la legge. In seguito, Cl. Passare del tempo, la concupiscenza di alcuni e la cattiva amministrazione, da cui ebbero origine non pochi scandali, hanno richiesto una serie di norme precise in base alle quali è stato suddiviso il patrimonio ecclesiastico in quattro parti: una prima attribuita al clero, una seconda ai poveri, una terza alla riparazione delle Chiese e altre spese affini, una quarta agli stranieri o alle necessità a carattere eccezionale. Il fatto che, in alcuni canoni, quest'ultima parte sia attribuita al vescovo, non contrasta con la suddivisione summenzionata, poiché non si intende con questo dargliela in modo che la divori da solo o la dissipi a suo piacimento, ma affinché possa disporre di quanto è necessario per esercitare la liberalità verso gli stranieri, secondo l'ordine di san Paolo (1 Ti. 3.2). Questa è l'interpretazione di Gelasio e di san Gregorio. Gelasio infatti ricorre a questo argomento per motivare il fatto che al vescovo non debba attribuirsi nulla più di quanto occorra per provvedere agli stranieri ed ai prigionieri. E san Gregorio si esprime ancora più chiaramente: "il primo provvedimento della Sede apostolica, quando sia istituito un vescovo, è di ordinargli di procedere alla suddivisione in quattro parti di tutto il reddito della Chiesa, di cui una vada al vescovo ed alla sua famiglia per provvedere all'assistenza degli stranieri e degli ospiti, la seconda al clero, la terza ai poveri, la quarta alla riparazione delle Chiese ". Non era dunque lecito al vescovo prendere se non quanto gli occorreva per vivere, per vestirsi sobriamente e senza sfarzo. Se qualcuno eccedeva, conducendo una vita lussuosa e dispendiosa, veniva immediatamente ammonito dagli altri vescovi e deposto qualora non avesse assunto modi più castigati. 8. I fondi consacrati all'ornamento dei templi erano, da principio, poca cosa; ed anche quando la Chiesa ebbe raggiunto una certa ricchezza si mantenne, al riguardo, una grande sobrietà. E tuttavia anche il denaro destinato a quest'uso era accantonato nell'eventualità di necessità particolarmente gravi. Per questo Cirillo, vescovo di Gerusalemme, non potendo provvedere alle necessità dei poveri nel corso di una carestia, vendette tutti i recipienti ed altri ornamenti per darli in elemosine. Analogamente Acacio, vescovo d'Amida, vedendo una moltitudine di Persiani in grande difficoltà, convocò il suo clero e dopo aver fatto una bella allocuzione, dimostrando che il nostro Dio non ha bisogno di piatti o calici poiché né mangia né beve, vendette ogni cosa per salvare o nutrire i poveri . E san Girolamo, criticando la tendenza al superfluo che già si manifestava al tempo suo nell'ornare i templi, loda Esuperio, vescovo di Tolosa, allora vivente, che amministrava il sacramento del corpo di nostro Signore in un piccolo recipiente di vimini ed il sacramento del sangue in un bicchiere, dando però ordine che nessun povero si trovasse nel bisogno . Quanto ho ricordato più sopra di Acacio sant'Ambrogio lo narra di se stesso. Essendo stato criticato dagli Ariani, per aver distrutto recipienti sacri, in vista di pagare il riscatto dei prigionieri caduti in mano agli infedeli, egli ricorre a questa giustificazione degna di essere menzionata: "Colui che ha inviato i suoi apostoli senza oro ha anche raccolto la sua Chiesa senza oro. La Chiesa possiede dell'oro non per tesaurizzare ma per distribuirlo e servirsene in caso di necessità. Perché tenere in serbo ciò che non serve? Sappiamo la quantità di oro e d'argento predata dagli Assiri nel tempio del Signore. Non è forse meglio che i pastori ne ricavino denaro per nutrire i poveri anziché lasciare che un ladro sacrilego se ne impadronisca? Dio non dice forse: perché hai lasciato tanti poveri morire di fame quando avevi l'oro necessario per nutrirli? Perché hai lasciato andare in cattività tanta povera gente senza riscattarli? Perché ne hai lasciati uccidere? Molto meglio serbare i corpi di creature viventi piuttosto che i metalli morti. Che potremo rispondere a questo? Se diciamo: temevo mancassero gli ornamenti nel tempio, Dio risponderà: i sacramenti non hanno bisogno di oro. Come non si procurano con oro così non si rendono preziosi con l'oro. L'ornamento dei sacramenti è la salvezza dei prigionieri ". Vediamo insomma che in quel tempo si metteva in pratica ciò che egli stesso dice, in un altro testo, che tutto quanto possedeva la Chiesa serviva al mantenimento di poveri. Parimenti tutto quanto possedeva un vescovo apparteneva ai poveri . 9. Questi i ministeri o uffici della Chiesa antica. Gli altri gradi del clero infatti, di cui è spesso fatta menzione nei testi dei dottori e nei concili rappresentano stadi preparatori più che veri uffici. Infatti per evitare che la Chiesa si ritrovasse ad essere sprovvista di ministri, quei giovani che, Cl. Consenso dei loro genitori, si presentavano Cl. Proposito di servire, venivano accolti nel clero e prendevano il nome di chierici. Venivano perciò istruiti ed educati in ogni opera buona affinché non risultassero inesperti e ignoranti quando sarebbe stato il momento di affidare loro qualche incarico. Preferirei certo si fosse scelto un altro termine più adatto visto che san Pietro chiama la Chiesa tutta "clero del Signore ", cioè sua eredità (1 Pi. 5.3). Questo termine non si doveva perciò riferire ad un ordine solo. Tuttavia era buona ed utile prassi che, coloro che intendevano consacrare alla Chiesa la propria vita, fossero educati sotto la guida del vescovo ad evitare che qualcuno assumesse una carica senza essere stato adeguatamente preparato e cioè istruito nella buona e santa dottrina, abituato alla disciplina, all'umiltà, all'obbedienza, e parimenti dedito a cose sante per dimenticare ogni occupazione profana e mondana. Come si allenano le reclute, con manovre e esercizi affinché sappiano come comportarsi di fronte al nemico, vi erano nel clero esercizi in vista di preparare coloro che non erano ancora in carica. In primo luogo si dava loro l'incarico di aprire e chiudere i templi ed in tal caso si chiamavano "portieri ". In seguito venivano ordinati, con l'incarico di dimorare Cl. Vescovo ed accompagnarlo, sia per la serietà della carica, che per evitare sospetti affinché in nessun luogo egli fosse senza scorta e senza testimoni. In seguito, affinché risultassero noti al popolo e acquistassero autorità e sicurezza nel presentarsi in pubblico e nel parlare, si affidava loro la lettura dei Sl. Al pulpito, per evitare che, trovandosi nella necessità di predicare, fossero turbati o confusi. Promossi in tal modo di grado in grado venivano valutati in ogni esercizio prima di essere fatti suddiaconi. Intendo far notare che si trattava di una preparazione e un apprendistato più che di uffici precisi, come già abbiamo detto sopra. 10. Riguardo all'elezione dei ministri abbiamo detto che il primo elemento concerne la persona che deve essere eletta, e il secondo la matura riflessione con cui si deve provvedere alla elezione; in questa materia la Chiesa antica ha osservato diligentemente ciò che ordina san Paolo. Era infatti consuetudine di convocare una assemblea, con grande serietà e invocando il nome di Dio, per eleggere i vescovi. Si ricorreva anzi, per effettuare l'esame della vita e della dottrina dei candidati, ad un formulario che seguiva la regola data da san Paolo (1 Ti. 3.2) . Un solo errore vi è stato in questo campo: Cl. Tempo si è assunto un atteggiamento di eccessiva severità, richiedendo ad un vescovo più di quanto avesse chiesto san Paolo. Principalmente quando si è stabilito, Cl. Passare del tempo, che si astenesse dal matrimonio. Per il rimanente ci si è attenuti alle indicazioni di san Paolo che abbiamo menzionato. Riguardo al terzo punto: a chi spetti l'elezione e la istituzione dei ministri, gli antichi non hanno seguito una prassi costante. Dapprima nessuno poteva essere accolto nel clero senza il consenso di tutto il popolo, al punto che san Cipriano, avendo nominato un lettore senza chiedere il parere della Chiesa, si fa premura di scusarsi perché questo si era fatto, egli dice, contro la prassi, anche se esistevano valide ragioni per farlo. Formula dunque così il suo esordio: "Fratelli miei carissimi, siamo soliti chiedere il vostro parere prima di ordinare i chierici, e dopo aver udito i suggerimenti della Chiesa, valutare i meriti di ognuno ". Queste le sue parole. Per il fatto che i gradi minori quali il lettore, l'accolita, non rappresentavano pericoli gravi, trattandosi di cariche poco importanti ed essendo il periodo di prova piuttosto lungo si tralasciò, Cl. Passare del tempo, di interpellare il popolo. In seguito il popolo accettò che per gli altri gradi, eccetto il vescovado, il vescovo e i preti scegliessero i candidati giudicando essi della loro idoneità, fuorché il parroco di una parrocchia per cui si richiedeva il consenso del popolo. Non deve stupire che il popolo abbia rinunciato al suo diritto in queste elezioni: nessuno infatti era eletto suddiacono senza essere stato provato per lungo tempo e con la severità che abbiamo detto. Dopo esser stato ancora messo alla prova in questo grado veniva fatto diacono, e giungeva al sacerdozio solo quando aveva fedelmente assolto il suo compito. In tal modo nessuno veniva eletto senza essere stato precedentemente esaminato a lungo anche alla presenza del popolo. Vi erano anzi molti canoni per correggere i difetti dei chierici, cosicché la Chiesa non poteva essere gravata da cattivi sacerdoti o cattivi diaconi, senza che fossero trascurati i rimedi a sua disposizione. Nell'elezione dei preti si richiedeva però espressamente il consenso degli abitanti del luogo; come attesta un canone attribuito ad Anacleto citato nel Decreto, distinctio 77. E si effettuavano le nomine in periodi fissi dell'anno, affinché nessuno venisse introdotto nascostamente senza il consenso popolare e fosse promosso con leggerezza senza avere ottenuto buona testimonianza . 2. Nell'elezione vescovile fu lasciata per lungo tempo libertà al popolo di richiedere che venissero nominate persone gradite a tutti. Il Concilio di Antiochia proibisce pertanto che si ordini un vescovo contro il parere del popolo; decreto che Leone primo conferma dicendo: "si elegga quello che sarà stato richiesto dal clero e dal popolo, o per lo meno dalla maggioranza ". E similmente: "colui che deve presiedere su tutti sia eletto da tutti. Poiché chi è stato ordinato senza essere conosciuto ed esaminato è introdotto con la forza ", ed ancora: "si elegga quello che sarà stato votato dal clero e richiesto dal popolo e sia consacrato dai vescovi della provincia, con l'autorità del metropolita ". Tanta fu la cura dei santi Padri affinché non fosse violata in alcun modo questa libertà popolare che lo stesso concilio ecumenico, riunito a Costantinopoli, non volle ordinare vescovo Nettario senza l'approvazione del clero e del popolo, come risulta dalla lettera inviata al vescovo di Roma . Pertanto quando un vescovo ordinava il suo successore, l'ordinazione era priva di valore, qualora non fosse ratificata dal popolo. Possediamo non solo esempi storici di questi atteggiamenti, ma un documento nel formulario adoperato da sant'Agostino per la nomina di Eradio a suo successore . E lo storico Teodoreto narrando che Atanasio ordinò Pietro qual suo successore, aggiunge subito che questo fu ratificato dal clero, con l'approvazione della magistratura, delle autorità politiche, del popolo. 12. Ammetto che la decisione presa al concilio di Laodicea, di non lasciare al popolo l'elezione del vescovo fu saggia, perché difficilmente si possono mettere d'accordo tante persone per condurre a buon fine una impresa. E quasi sempre corrisponde a verità il proverbio che dice: il popolo, per natura volubile, si fraziona secondo desideri contrari . Ottimo era poi il provvedimento adoperato per rimediare a questo difetto. In prima istanza il clero solo procedeva all'elezione, presentava colui che aveva eletto ai signori ed ai magistrati. Costoro, dopo una deliberazione comune, ratificavano l'elezione se la giudicavano buona, in caso contrario procedevano ad una nuova elezione. Infine ci si appellava al popolo che pur non essendo vincolato ad accettare l'elezione già fatta, non aveva tuttavia occasione di provocare tumulti; oppure prendendo l'avvio da una decisione popolare si effettuava un sondaggio per sentire chi fosse maggiormente desiderato, e, dopo aver saggiato le preferenze popolari, il clero provvedeva all'elezione. In tal modo non era lasciata al clero libertà di scegliere a suo piacimento, e tuttavia non era soggetto ai desideri disordinati del popolo. Questa procedura è illustrata da Leone in un testo che dice: "si debbono avere le voci della borghesia, le testimonianze del popolo, l'autorità dei governanti, l'elezione del clero, ", e parimenti: "Si abbiano le testimonianze dei governanti, l'approvazione del clero, il consenso del senato e del popolo . La ragione vuole che non si proceda altrimenti ". I decreti di Laodicea, che abbiamo citato in realtà non dicono altro. Poiché intendono chiedere solo al clero e ai governanti di non lasciarsi trasportare dalla volontà sconsiderata del popolo, ma anzi reprimere piuttosto la sua folle bramosia, quando sia necessario, con la propria serietà e prudenza. 13. Questo modo di eleggere era ancora in uso al tempo di san Gregorio, ed è verosimile che abbia durato ancora a lungo in seguito. Ne danno conferma parecchie epistole della sua produzione. Ogniqualvolta infatti si tratta di ordinare un vescovo in qualche luogo, è solito scrivere al clero, al consiglio, al popolo, a volte al signore, a seconda del tipo di governo della città a cui si rivolge. E quando egli delega, a motivo di qualche disordine o crisi, un vescovo vicino a provvedere ad una elezione, richiede sempre la stesura di un atto pubblico garantito dalla sottoscrizione di tutti . Anzi, essendo stato eletto una volta un vescovo a Milano, in assenza di molti milanesi, ritiratisi a Genova a causa della guerra, egli non considerò legittima l'elezione fintantoché un'assemblea di questi profughi non l'ebbe approvata . Non sono trascorsi 500anni da quando un papa di nome Nicola emanò un decreto riguardo all'elezione del Papa chiedendo che i cardinali fossero i primi ad esprimersi, indi si convocasse il rimanente clero ed infine l'elezione fosse ratificata dal consenso popolare. Cito il decreto di Leone che ho ricordato più sopra chiedendone l'applicazione in avvenire. Nel caso che i malvagi provocassero tali disordini da costringere il clero ad uscire dalla città per procedere ad una valida elezione, stabilisce che alcuni membri del popolo siano presenti per approvare . Il consenso dell'imperatore era richiesto per due sole città, secondo quanto sappiamo, Roma e Costantinopoli, trattandosi di sedi imperiali. Il caso di sant'Ambrogio, inviato a Milano dall'imperatore Valentiniano in qualità di luogotenente imperiale, per presiedere all'elezione del vescovo fu eccezionale e motivata dalle gravi tensioni esistenti fra i cittadini. A Roma l'autorità imperiale aveva anticamente tale peso nella creazione del vescovo che san Gregorio scrisse all'imperatore Maurizio di essere stato ordinato con il suo consenso, quantunque fosse stato richiesto solennemente dal popolo . La prassi prescriveva che il vescovo eletto a Roma dal clero, il senato e il popolo, notificasse la sua nomina all'imperatore che l'approvava o la invalidava . Né contrastano questa tradizione le decretali raccolte da Graziano; vi si afferma solo che non deve essere tollerata la soppressione dell'elezione canonica permettendo al sovrano di stabilire i vescovi a suo piacimento e che i metropoliti non debbono consacrare un candidato imposto con la forza. Una cosa è privare la Chiesa del suo diritto, permettendo che una sola persona agisca a suo piacimento, altra è rendere al sovrano o all'imperatore l'onore di convalidare una legittima elezione. 14. Ci resta ora da illustrare le cerimonie con cui, dopo la loro elezione, si ordinavano i vescovi nella Chiesa antica. I Latini hanno chiamato questa cerimonia "ordinazione "o "consacrazione". I Greci usarono due termini che significano "imposizione delle mani ". Un decreto del concilio di Nicea stabilisce che il metropolita e tutti i vescovi della provincia devono riunirsi per l'ordinazione del vescovo che è stato eletto. Se qualcuno risultasse impedito per malattia, o difficoltà di viaggio i convenuti non siano meno di tre e gli assenti dichiarino per iscritto il loro consenso . Ed essendo questo canone caduto in disuso Cl. Passare del tempo, fu ribadito in molti concili. Era dunque fatto obbligo a tutti, o per lo meno a coloro che non avevano impedimenti, di riunirsi affinché l'esame sia della dottrina che dei costumi, desse garanzie di serietà. Infatti non si procedeva alla consacrazione senza preventivo esame. Anzi è evidente dalle epistole di san Cipriano che anticamente i vescovi non erano convocati dopo l'elezione ma erano presenti quando il popolo eleggeva per assistere e sovrintendere a che non si facesse nulla in base ad agitazioni popolari. Perché, dopo aver affermato che il popolo ha il potere di eleggere coloro che ritiene degni o rifiutare coloro che riconosce indegni, aggiunge: "Dobbiamo pertanto serbare fedelmente quanto ci è stato lasciato dal Signore e dagli apostoli suoi, e viene praticato da noi e quasi in tutte le province che i vescovi viciniori si radunino laddove si deve eleggere un vescovo e questi venga eletto in presenza del popolo ". Tali assemblee però si convocavano con difficoltà e gli ambiziosi avevano modo di darsi da fare, si ritenne perciò sufficiente l'assemblea dei vescovi per procedere alla consacrazione di quello che era stato eletto dopo averlo esaminato. 15. Questa prassi era seguita ovunque, senza eccezioni. In seguito venne introdotto un diverso sistema: il candidato eletto doveva recarsi nella città metropolitana, per essere confermato; trattasi di un procedimento attuato più per ambizione o degenerazione che per motivi validi. In seguito all'accresciuta autorità della Sede romana si creò l'abitudine ancor peggiore di convocare a Roma i vescovi d'Italia per essere quivi consacrati, come si può vedere dalle epistole di san Gregorio. Solo poche città mantennero il loro diritto antico non volendo sottomettersi. Milano, per esempio, come si ricava da una epistola di Gregorio . Probabilmente furono le sole città metropolitane a mantenere questo privilegio. Poiché l'uso antico era che tutti i vescovi della provincia convenissero quivi per consacrare il metropolita. Per il rimanente la cerimonia consisteva nell'imposizione delle mani. Non sono infatti a conoscenza di altre particolarità se non che i vescovi avevano un particolare abbigliamento per distinguersi dagli altri preti. Similmente ordinavano i preti e i diaconi con la sola imposizione delle mani. Ogni vescovo ordinava però i preti della diocesi con il consenso degli altri preti. Siccome questo, pur facendosi in comune, avveniva sotto la presidenza del vescovo e sotto la sua direzione, l'autorità è detta vescovile. Perciò è detto spesso, nei testi degli antichi dottori, che un prete differisce da un vescovo solo per il fatto che non ha autorità di ordinare.
CAPITOLO 5 COME L'ANTICA FORMA DEL GOVERNO ECCLESIASTICO SIA STATA ANNIENTATA DALLA TIRANNIDE PAPALE 1. È necessario, a questo punto, esaminare qual sia la forma di governo ecclesiastico oggi in uso nel papato e presso tutti coloro che ne dipendono, paragonandola con quella che abbiamo riscontrato nella Chiesa antica. Questo raffronto rivelerà, infatti, quale Chiesa abbiano tutti costoro che si vantano e glorificano di quel solo titolo e dove traggono motivo di orgoglio per opprimerci, anzi per annientarci. È opportuno prendere l'avvio dal problema della vocazione, e chiarire quali persone siano quivi chiamate al ministero e con quali mezzi essi vi siano introdotte. Esamineremo appresso come assolvono il loro mandato. Ai vescovi sarà dato il primo posto nel nostro esame senza però che ne ricavino un primato di onore. Sarebbe certo mio desiderio che l'apertura del dibattito risultasse ad onore loro, purtroppo è impossibile trattare il nostro argomento senza che ne derivi per loro motivo di vergogna, e un biasimo severo al loro indirizzo. Voglio tuttavia ricordarmi del mio proposito: insegnare con semplicità e non fare lunghe diatribe; cercherò perciò, nei limiti del possibile, di essere breve. Desidererei, per entrare in argomento, che una persona onesta mi dicesse quale tipo di persone è oggigiorno eletta alla carica di vescovo. È inutile scegliere come metro di valutazione la dottrina; quando infatti venga presa in considerazione si elegge un uomo di legge cui si addice il perorar cause più che il predicar nei templi. È notorio che da un centinaio di anni a questa parte si trova a mala pena un vescovo su cento che abbia qualche nozione di Sacra Scrittura. Non mi riferisco alla situazione anteriore, non tanto perché fosse migliore ma perché dobbiamo parlare dello stato attuale della Chiesa. Passando a considerare la loro vita se ne trovano ben pochi, anzi nessuno, che in base agli antichi canoni non si dovrebbero giudicare indegni. Chi non è ubriacone è scapestrato; se ne trova uno non macchiato da questi vizi? Eccolo dedito al gioco o alla caccia o dissoluto in qualche altro aspetto della sua vita. I canoni antichi escludono dalla carica di vescovo per vizi ben minori di quelli! Ancor più assurdo è il fatto che i ragazzi di dieci anni siano stati ordinati vescovi e si sia scaduti ad un tale livello di stupidità e sfacciataggine da tollerare, senza difficoltà, tali turpitudini in contrasto Cl. Buon senso. Da ciò risulta il carattere di santità di elezioni del genere, in cui si son tollerate così gravi negligenze. 2. Anzi si è interamente abolita la libertà del popolo nella elezione del vescovo. Sono scomparse le votazioni, i suffragi, i referendum e cose simili. L'autorità è stata interamente trasferita ai canonici e costoro attribuiscono i vescovati a chi piace loro. Colui che viene eletto è presentato al popolo, certo, ma per essere adorato, non per essere esaminato. Leone si dichiara contrario a questa prassi affermando che non è giustificata da nessun motivo e si tratta di un arbitrio. San Cipriano, dichiarando che deve essere considerato di diritto divino il fatto che una elezione si faccia in base al consenso popolare, attesta implicitamente che una elezione fatta in forma diversa è contraria alla parola di Dio. I decreti di molti concili vietano questo perentoriamente e dichiarano nulle le elezioni fatte in tal modo. Se le cose stanno così oggi in tutto il papato non Si trova una sola elezione canonica, che possa legittimamente approvarsi sulla base del diritto divino o di quello umano. Quand'anche si riscontrasse questo solo inconveniente possono forse giustificarsi di aver spogliato la Chiesa del suo diritto così facendo? Fu la malvagità dei tempi a richiederlo, replicano; lasciandosi il popolo trasportare nella elezione dei vescovi da odio e favoritismi, più di quanto si lasciasse ispirare da un retto giudizio, era necessario trasferire questa autorità al corpo dei canonici . Pur ammettendo che si debba ravvis.re in questo provvedimento il rimedio per un male gravissimo, mi domando tuttavia perché non si ponga rimedio a questo nuovo guaio, quando Si deve riconoscere che la medicina è molto più nociva del male stesso? Rispondono che i loro decreti proibiscono severamente ai canonici di far uso del loro potere a danno della Chiesa seguendo il proprio interesse. Dobbiamo forse mettere in dubbio il fatto che anticamente il popolo si sia sentito vincolato da sante leggi considerando le regole che gli erano proposte dalla parola di Dio per la elezione dei vescovi? Una sola parola di Dio infatti aveva un valore incomparabilmente superiore a cento milioni di canoni ecclesiastici. Corrotto invece da cattivi sentimenti non teneva in considerazione alcuna né la ragione né le leggi. In questa materia le leggi odierne scritte, quantunque buone, sono nascoste e sepolte nelle carte mentre si accoglie e pratica l'uso di ordinare quali pastori della Chiesa solamente barbieri, cuochi, tavernieri e mulattieri, bastardi e simile gente. Anzi, dir questo è dir poco: i vescovati e le canoniche vengono assegnati quale premio di dissolutezza e di ruffianeria. Quando siano dati a uccellatori e guardiacaccia la cosa va benissimo, non è certo il caso di proibire tali abominazioni con regolamenti. Anticamente, ripeto, il popolo aveva ottimi canoni essendogli dimostrato dalla parola di Dio che un vescovo deve essere irreprensibile sotto il profilo dottrinale, non essere litigioso, non avaro ecc. . . . . Perché dunque l'incombenza di eleggere i ministri è stata sottratta al popolo e affidata a questi prelati? Non hanno risposta alcuna se non affermare che il popolo, con le sue partigianerie e i suoi intrighi non prestava attenzione alla parola di Dio. Se questo è realmente il caso perché non si toglie oggi quest'incarico ai canonici, che non solo violano ogni legge, ma confondono senza vergogna e senza pudore cielo e terra con la loro avarizia, ambizione, sregolatezza, cupidigia? 3. Che tale sistema sia stato introdotto quale rimedio è falso. Certo le città furono spesso agitate a causa dell'elezione del loro vescovo, tuttavia nessuno pensò mai di dover sottrarre al popolo la libertà di elezione. Altri provvedimenti erano a disposizione per evitare quel male e porvi rimedio, qualora fosse stato commesso. La verità, invece, è un'altra: col passar del tempo il popolo disinteressandosi a questa elezione ne ha lasciato l'incombenza ai preti. Costoro, abusando dell'occasione, hanno usurpato quel potere assoluto che esercitano tuttora, e lo hanno ribadito con nuovi canoni . Il modo di ordinare o consacrare vescovi è una beffa bella e buona. La finzione di esame, a cui ricorrono, è così frivola e ridicola da non aver neppure le premesse per ingannare la gente. Nelle trattative che i prìncipi conducono oggigiorno Cl. Papa per la nomina dei vescovi, la Chiesa non ha nulla da perdere; è infatti semplicemente sottratto ai canonici il diritto di elezione che possedevano contrariamente ad ogni legge, che anzi avevano usurpato. È evidentemente disonorevole e deplorevole che i vescovati vengano così offerti in preda a cortigiani e sarebbe compito di un buon principe il sottrarsi a tali corruzioni. Siamo infatti in presenza di una sopraffazione iniqua: un vescovo viene posto a capo di un popolo che non lo ha richiesto o per lo meno liberamente accolto. La confusa e disordinata prassi in uso, da lungo tempo, nella Chiesa, ha offerto ai prìncipi il destro per rivendicare la presentazione dei vescovi. Hanno preferito che la riconoscenza fosse dovuta a loro anziché al clero che in questa elezione non aveva maggiori diritti di quanti ne abbiano loro e agiva in modo altrettanto abusivo. 4. In base dunque a questa bella vocazione i vescovi si vantano di essere successori degli apostoli. Riguardo alla creazione dei preti ne rivendicano bensì il diritto ma in questo corrompono l'uso antico in quanto non ordinano preti in vista del governo o dell'insegnamento ma in vista del sacrificio. Analogamente non consacrano i diaconi in vista del loro vero ufficio, ma solo per adempiere alcune cerimonie quali presentare il calice o la patena. Il concilio di Calcedonia ha proibito di accogliere qualcuno nel ministero in forma generica, senza cioè assegnare un luogo preciso in cui detto ministero si debba esercitare. Questa norma risulta molto opportuna sotto un duplice profilo. In primo luogo affinché la Chiese non siano aggravate da spese superflue e denari destinati ai poveri non siano spesi per il mantenimento di persone oziose. In secondo luogo affinché coloro che sono ordinati si rendano conto di non essere chiamati ad una carica onorifica ma ad una missione all'adempimento della quale si impegnano con questa solenne cerimonia. I dottori papisti, che di nulla hanno cura se non del ventre, e pensano non si debba nella cristianità aver riguardo ad altro, sostengono che i titoli occorrenti per essere accolti siano le rendite per il proprio sostentamento; si tratti di benefici o del proprio patrimonio. Quando perciò nel sistema papista si ordina un diacono o un prete non ci si dovrà preoccupare che abbia un luogo dove servire; lo si accoglierà senza difficoltà purché sia sufficientemente ricco da potersi mantenere. Chi può accettare però questa interpretazione secondo cui il titolo richiesto dal Concilio siano le rendite annue per il sostentamento? Anzi, poiché i canoni posteriori hanno ingiunto ai vescovi di provvedere essi stessi a coloro che, senza titoli sufficienti, fossero stati accolti, per mettere freno alla eccessiva facilità nell'accogliere tutti i candidati, si è trovato un nuovo sotterfugio per eludere quella clausola pericolosa. Colui che pone la sua candidatura, avendo un qualche beneficio, dichiara di accontentarsene. In base a questa dichiarazione si trova nell'impossibilità di porgere querela, in un secondo tempo, contro il vescovo riguardo al suo sostentamento. Tralascio dal menzionare i mille sotterfugi in uso quali l'attribuir benefici immaginari di cappelle da quattro soldi o di vicariati privi di valore, il chiedere in prestito un beneficio con la clausola di restituirlo, quantunque poi molti finiscano Cl. Tenerlo, ed altri simili accorgimenti. 5. Quand'anche fossero eliminati questi abusi maggiori, non risulta pur sempre assurdo l'ordinare un prete senza assegnargli una sede? Sono ordinati per compiere sacrifici soltanto, mentre il governo della Chiesa è il legittimo fondamento per la consacrazione di un sacerdote come lo è la cura dei poveri per un diacono. Rivestono, è vero, di gran pompa e di molti gesti le loro nomine per indurre i semplici a devozione, che significato può però avere, per le persone di buon senso, questa finizione visto che risulta del tutto priva di sostanza e di valore? Ricorrono infatti a cerimonie che hanno in parte ereditate dagli Ebrei e in parte inventate essi stessi, da cui sarebbe stato meglio astenersi. Riguardo al consenso popolare e agli altri elementi necessari non c'è nulla da aggiungere perché non prendo in considerazione il loro teatro. Chiamo teatro tutti quegli stupidi riti cui ricorrono per far credere che seguono le tradizioni antiche. I vescovi hanno dei vicari per vagliare le conoscenze dei candidati. Ma possiamo parlare di esame? Ti richiedono la conoscenza della messa, la declinazione di qualche termine comune, la coniugazione di un verbo o il significato di una parola, come si potrebbe fare con un ragazzo a scuola. L'eventualità di far tradurre una parola dal latino in francese neppure gli passa per la testa. C'è di più! Coloro che zoppicheranno in queste sia pur modeste conoscenze, non saranno infatti respinti purché rechino qualche dono o si muniscano di qualche raccomandazione. Non diversamente avviene la presentazione all'altare del candidato promosso. Viene chiesto, a tre riprese, se si debba ritenere degno, in latino, e qualcuno che non lo ha mai neppur visto o un garzone che ignora del tutto il latino risponde: ne è degno, in latino, così come si recita una parte in qualche farsa. Che rimproveri potremmo muovere a questi santi padri e venerabili prelati se non che, recitando sì orribili sacrilegi, si fanno apertamente beffa di Dio e degli uomini? Ma poiché hanno seguito questo andazzo già da lungo tempo, tutto sembra essere loro lecito. Se qualcuno ha l'ardire di aprire bocca contro azioni così esecrabili è in pericolo di vita quasi avesse commesso un delitto capitale. Agirebbero così se pensassero che vi è un Dio in cielo? 6. Riguardo al conferimento di benefici, anticamente congiunti con l'ordinazione, la situazione è forse migliore? Diverse sono, fra loro, le modalità dell'attribuzione. Non soltanto i vescovi, infatti, conferiscono benefici; e quando lo fanno non è sempre di loro esclusiva autorità. In realtà ognuno arraffa quello che può. Vi sono inoltre le nomine ai gradi ecclesiastici, le remissioni dei benefici per cessazione o permute, le assegnazioni, i diritti di prelazione e tutta quella congerie di cavilli. Comunque sia, Papa e legati, vescovi e abati, priori, canonici e laici si comportano in modo tale che nessuno è in grado di muovere al suo compagno un qualche rimprovero.
Sono d'avviso che oggi come oggi, in tutto il papismo, si conferisce a mala pena l'un per cento dei benefici senza simonia, se applichiamo la definizione che gli antichi hanno dato di simonia. Non vorrei affermare che tutti acquistino benefici, denaro alla mano; mi si dimostri però che più di uno su cinquanta non ha ottenuto benefici per vie traverse. Gli uni fanno carriera valendosi dei vari legami di parentela, gli altri del credito dei famigliari o dei loro servizi. Insomma questi benefici non sono conferiti per provvedere alle Chiese ma agli uomini. Son detti "benefici "proprio per questo, e il termine dimostra che vengono considerati unicamente quali doni gratuiti o ricompense. Tralascio dal sottolineare il fatto che spesso si tratta di rimunerare barbieri, cuochi, mulattieri o simili canaglie. Anzi, non c'è oggi campo giuridico in cui i processi siano così frequenti come in quello dei benefici, al punto da suggerire il paragone con la selvaggina su cui si precipitano i cani. È tollerabile il fatto che si dica pastore di una Chiesa un individuo che l'ha occupata quasi come un territorio nemico conquistato, oppure l'ha ottenuta con una azione legale, a caro prezzo, o in virtù di servigi disonesti? Che dire infine dei bambini che ricevono benefici da zii e cugini quasi si trattasse di una eredità?, O addirittura di bastardi che li ricevono dai loro padri? 7. Il popolo stesso, per quanto corrotto e depravato, avrebbe mai osato spingersi a sì disordinata licenza? Mostruosità ancora più grave è però il fatto che un uomo, non faccio nomi, un uomo che non è in grado di governare se stesso abbia la responsabilità di cinque o sei Chiese. Si incontrano al giorno d'oggi giovani buffoni alla corte dei prìncipi in possesso di un arcivescovato, due vescovati, tre abbazie. È realtà quotidiana incontrar canonici titolari di sei o sette benefici di cui tuttavia non si curano affatto, se non per riceverne la rendita. Evito di far notare che la parola di Dio, è nella sua totalità, contraria a tali cose, dato il poco conto in cui la tengono da lunga data. Né ricorderò che i concili antichi hanno emanato molte leggi per porre un freno a tali abusi, in quanto disprezzano canoni e decreti ogni qualvolta fa loro comodo. Affermo però trattarsi di due fatti esecrabili e riprovevoli che ripugnano a Dio, alla natura e al governo della Chiesa che briganti e ladri occupino da soli parecchie Chiese, o sia detto pastore un uomo che non ha la possibilità di essere in mezzo al suo gregge anche quando ne abbia il desiderio. E tuttavia tale è la loro sfrontatezza che, per non essere biasimati, mascherano queste abominevoli lordure Cl. Nome di Chiesa. Ciò che è peggio, quella famosa successione di cui si prevalgono, per sostenere che dal tempo degli apostoli la Chiesa si è mantenuta fra loro sino ad oggi, sta rinchiusa in queste perversioni. 8. Esaminiamoli ora alla luce del secondo elemento con cui si valuta un pastore autentico: cioè la fedeltà con cui esercita il suo ufficio. I preti che costoro ordinano sono, per ricorrere alla loro terminologia, in parte religiosi, in parte secolari. I primi sono stati del tutto sconosciuti nella Chiesa antica. E in realtà l'ufficio del sacerdozio e in contrasto così aperto con i voti monastici che, anticamente, un monaco eletto nel clero usciva dallo stato primitivo; lo stesso san Gregorio, al cui tempo già si manifestavano molti vizi, non tollera questa confusione. Egli chiede infatti a chi è eletto abate, di abbandonare il clero, nessuno potendo essere allo stesso tempo monaco e chierico perché una condizione esclude l'altra. Se a questo punto chiedessi loro come possa assolvere il suo compito chi non risulti idoneo al suo ufficio in base ai canoni, che potranno rispondere? Citeranno, immagino, quegli aborti di decretali di Innocenzo e Bonifacio che accolgono al sacerdozio un monaco pur lasciandolo ancora nel chiostro . Ma è forse ragionevole che un asino del tutto privo di conoscenza e di esperienza annulli, non appena ha occupato la Sede romana, tutti gli ordinamenti antichi con una parola? Di questo avremo occasione di parlare in seguito. Per ora è sufficiente ricordare che nei tempi in cui la Chiesa era pura si considerava somma assurdità che un monaco entrasse nel sacerdozio. San Girolamo infatti nega di essere in veste di prete quando si intrattiene coi monaci, ma si considera laico bisognoso della guida dei preti. Quand'anche perdonassimo questo errore, in che modo esercitano però il loro ufficio? Qualche mendicante, qualche predicatore, pochi; il rimanente non ha altra funzione che recitar o cantar messa nelle loro spelonche quasi Gesù Cristo avesse creato i sacerdoti a questo scopo o lo richiedesse la natura dell'ufficio. La Scrittura vede, al contrario, nel governo della Chiesa la funzione propria dei preti (At. 20.28). Non è forse dunque profanazione pestilenziale il volgere ad altro fine, anzi il sovvertire interamente la santa istituzione di Dio? Quando infatti sono ordinati si proibisce loro esplicitamente di fare ciò che il Signore ordina ad ogni prete. Infatti si dichiara loro: un monaco si accontenti del chiostro, non presuma né di insegnare, né amministrare i sacramenti, né esercitare altro pubblico incarico. Possono forse negare che il creare un prete, con l'intenzione di allontanarlo dall'ufficio o il conferire un titolo senza che si assolva l'incarico, non sia beffarsi esplicitamente di Dio? 9. Passiamo al clero secolare, in parte munito di benefici, come dicono, cioè sistemato per quanto riguarda il ventre, praticoni che si procurano il pane cantando, biascicando preghiere, raccogliendo confessioni, portando morti in terra e altre simili cose. I benefici? Alcuni, quali i vescovati o le canoniche implicano cura d'anime, altri sono occupazioni di gente delicata che trascorre la vita cantando: le prebende, i canonicati, le dignità varie, le cappelle e altre cose simili. Tutto procede però in modo così arbitrario che abbazie e priorati vengono attribuiti non solo a preti regolari ma a bambini, e questo diventa prassi corrente, sulla base di privilegi. Che dire di quei preti mercenari, facchini che si affittano a giornata? Che altro potrebbero fare se non ciò che fanno? Esercitare, prostituendosi, un vergognoso e peccaminoso mercato di tale ampiezza. Vergognandosi però di mendicare apertamente o temendo di non trovare, così facendo, sufficiente profitto, van correndo qua e là come cani famelici e importuni, strappano abbaiando, con la forza, dagli uni e dagli altri qualche boccone da cacciarsi in pancia. Volessimo dimostrare, a questo punto, qual disonore rappresenti per la Chiesa questa degradazione dello stato sacerdotale, il discorso non avrebbe mai fine. Non ricorrerò dunque a lunghe querimonie per illustrare la vastità di tali turpitudini. Dico solo, in breve, che se l'ufficio di prete consiste nel pascere la Chiesa e amministrare il regno spirituale di Cristo, come ordina la parola di Dio e richiedono i canoni antichi, tutti i preti, che non hanno altra occupazione o retribuzione che far mercato di messe e preghiere, non solo si sottraggono al loro compito ma non esercitano alcun ufficio legale. Non si attribuisce infatti loro un luogo dove insegnare. Non hanno alcun gregge da governare. Non rimane, loro in sostanza nulla fuorché l'altare per offrire Gesù Cristo in sacrificio; il che significa, come vedremo in seguito, sacrificare al Diavolo, non a Dio. 10. Non faccio in questa sede riferimento ai vizi dei singoli ma al male così radicato nelle istituzioni loro da non poter essere eliminato. Aggiungo questo, che sarà sgradito alle loro orecchie, ma va pur detto perché corrisponde a verità: le considerazioni suddette valgono per tutti i canonici, decani, cappellani, preti e tutti coloro che vivono oziosamente di benefici. Quale ministero o servizio possono adempiere nella Chiesa? Si sono scaricati della predicazione della Parola, della responsabilità della disciplina, dell'amministrazione dei sacramenti quasi fossero compiti gravosi. Che rimane loro per cui possano dirsi veri sacerdoti? Hanno il canto e la pompa delle cerimonie, ma tutto questo non significa nulla in questo caso. Qualora facciano riferimento alla tradizione, all'uso stabilito mi appellerò alla parola di Cristo in cui ha dichiarato quali siano i veri preti e quali debbano essere le caratteristiche di coloro che si vogliono tali. Non sono in grado di sopportare una condizione così pesante quale quella di sottostare alla regola stabilita da Gesù Cristo? Permettano almeno che questa questione venga risolta sulla base dell'autorità della Chiesa antica; la loro situazione non risulterà migliore affatto se la si giudica sulla base degli antichi canoni. Quelli che sono diventati i canonici attuali erano in origine i preti della città con funzione di governare la Chiesa, unitamente al vescovo, e fungere da suoi assessori nell'ufficio pastorale. Tutte le dignità dei capitoli non hanno attinenza alcuna con il governo della Chiesa, e ancor meno ne hanno cappellanie e simili immondizie prive di valore. In che considerazione dovremo tenerle noi? In modo indubitabile sia la parola di Cristo che la prassi della Chiesa antica respinge tali cose dall'ordinamento sacerdotale. Ciò nonostante insistono nella pretesa di essere preti. Occorre smascherarli e si vedrà che la loro professione è assolutamente diversa ed estranea al sacerdozio quale è stato definito dagli apostoli e richiesto dalla Chiesa antica. Tutti questi ordini pertanto, e queste condizioni religiose, di qualsivoglia titolo si rivestano, per essere magnificate, visto che risultano essere di creazione recente, o per lo meno senza fondamento nell'istituzione del Signore, né nell'uso della Chiesa antica, non debbono essere prese in considerazione nella trattazione del regno spirituale quale è stato stabilito per bocca di Dio stesso e accolto dalla Chiesa. Vogliono un discorso più esplicito? Visto che tutti i cappellani, canonici, decani, prevosti, cantori e altri ventri oziosi non toccano neppure Cl. Mignolo quanto è richiesto dall'ufficio sacerdotale, non si deve tollerare in alcun modo che violino la sacra istituzione di Gesù Cristo usurpandone indebitamente l'onore. 11. Ci rimane da considerare ora i vescovi e i curati; gran piacere ci recherebbero costoro se mettessero impegno all'adempimento del loro compito, poiché riconosciamo volentieri che il loro incarico è santo e onorevole quando venga eseguito. Quando però, abbandonando le Chiese loro affidate e lasciandone ad altri la cura, hanno, nondimeno, la pretesa di essere considerati pastori, vogliono proprio farci credere che l'ufficio pastorale consista nel non far nulla. Se un usuraio, mai uscito dalle cerchia delle mura cittadine, si spaccia per contadino, o vignaiolo, o un soldato, che ha trascorso la vita in guerra e non ha mai visto un libro né mai è entrato in un'aula giudiziaria, si vanta di essere avvocato o dottore? Nessuno tollererebbe tali ridicolaggini. Costoro si trovano in una condizione ancor più ridicola avendo la pretesa di essere considerati pastori legittimi della Chiesa e non volendo essere tali. Quanti sono fra loro infatti quelli che fanno anche solo finta di eseguire il compito loro? Parecchi divorano, durante la loro vita, il reddito di Chiese a cui neppure si sono accostati per degnarle di uno sguardo. Gli altri vi si recano una volta all'anno o vi mandano un procuratore per ritirare i loro benefici. Quando ebbe inizio questa corruzione coloro che volevano ottenere questa dispensa la richiedevano come un privilegio ma oggi e un caso raro incontrare un curato che risieda nella sua parrocchia. Le considerano infatti come date a mezzadria e delegano i loro vicari a fungere da esattori. Alla stessa natura ripugna che si consideri un uomo pastore di un gregge di cui non ha mai visto neppure una pecora. 12. A quanto pare già ai tempi di san Gregorio cominciava a diffondersi questa mala abitudine di venir meno, da parte dei pastori, alla predicazione ed all'insegnamento del popolo. Egli se ne duole fortemente in alcuni scritti: "il mondo "dice "è pieno di preti e tuttavia se ne trovano pochi operai nella messe . Poiché ricevono sì l'ufficio ma non assolvono l'incarico ". E ancora: "Non avendo carità i preti vogliono essere considerati signori e non si sentono padri. Mutano così l'umiltà in orgoglio e dominio " "Che facciamo noi pastori che riceviamo la mercede e non siamo operai "?: "Ci consacriamo a compiti che non ci competono. Facciamo professione di una cosa e ci impegnamo in altre. Abbandoniamo la carica della predicazione e siamo, a quanto vedo, detti vescovi per nostra sventura in quanto possediamo il titolo in modo onorifico ma non per l'adempimento del mandato ". Considerando questo suo rigore e questa sua severità nei riguardi di coloro che non adempiono il loro dovere, quantunque lo facessero, almeno in parte, che dovrebbe dire oggi, vi domando, vedendo vescovi che non sono saliti neppure una volta in vita loro sul pulpito per predicare? E fra i curati dove a mala pena se ne troverebbe uno fra cento? Poiché si è giunti ad un punto di tale insensatezza da considerare la predicazione cosa disdicevole e inadatta alla dignità episcopale. Ai tempi di san Bernardo la situazione era già peggiorata ma vediamo quali rimproveri, e di quale tenore, egli muova al clero. Ed è verosimile supporre che vi fosse allora una serietà e una autorità maggiore di quanto vi siano oggi. 13. Se si considera ora, e si valuta attentamente, la forma di governo oggi vigente nel papismo si constaterà non esservi al mondo ribalderia maggiore. Siamo in presenza, evidentemente, di una realtà così lontana dall'istituzione di Cristo, anzi in aperto contrasto con essa, lontana e opposta alla prassi antica, contraria alla ragione e alla natura, che non si potrebbe recare maggior ingiuria a Gesù Cristo che rivendicandone il nome per giustificare un regime così confuso e corrotto: "Siamo colonne della Chiesa "affermano "prelati della cristianità, vicari di Gesù Cristo, a capo dei credenti in quanto depositari per successione della potenza e dell'autorità apostolica! ". Si vantano di queste fandonie, quasi si rivolgessero a pezzi di legno; ogniqualvolta pero ricorrono a queste millanterie domando loro: che avete in comune con gli apostoli? In questo caso non si tratta infatti di una dignità ereditaria, che venga ad un uomo mentre sta dormendo, ma del compito della predicazione da cui rifuggono così ostinatamente. Quando affermiamo che il loro governo rappresenta la tirannia dell'anticristo replicano subito: "è la santa e venerabile gerarchia che i Padri antichi hanno magnificato e venerato ". Quasi i santi Padri nel lodare e apprezzare la gerarchia ecclesiastica o il governo spirituale, come era stato tramandato dagli apostoli, avessero in mente questo abisso di confusione, in cui i vescovi sono il più delle volte asini che ignorano i rudimenti più elementari della fede cristiana, che dovrebbero essere noti al popolino, o sono a volte ragazzini usciti appena da bailatico, oppure, quando si tratti di una persona dotta, il che accade di rado, considera il vescovato titolo onorifico e di prestigio; una situazione in cui i pastori non si curano di pascere il loro gregge più di quanto un calzolaio si curi di arare dei campi, e ogni cosa risulta così confusa che a mala pena si riscontra una traccia minima di quell'ordine che ebbero i Padri ai loro tempi. 14. Che dovremmo dire passando ad esaminare i costumi? Dove è quella luce del mondo richiesta da Gesù Cristo? (Mt. 5.14). Dove è il sale della terra? Dove quella santità che costituisce norma perenne di vita? Non si incontra oggi condizione umana che più del clero appaia sregolata nelle vanità, nei piaceri, nella dissolutezza di ogni specie. In nessuna condizione umana si annoverano uomini più attivi ed esperti nell'arte dell'inganno, della frode, del tradimento, della slealtà, più audaci ed accorti nel fare il male. Tralascio di far menzione dell'orgoglio, dell'alterigia, dell'avarizia, delle rapine, della crudeltà. Né farò cenno alla sregolata licenza che regna nella loro esistenza. Tutto questo è stato sopportato da lungo tempo dalla gente ma oggi ne è così stufa che non c'è da temere che esageri tracciando questo quadro. Faccio una affermazione che non sono in grado di contestare: si trova forse un vescovo fra tutti gli attuali e un curato su cento che non sia degno di scomunica, o per lo meno di essere sospeso dall'ufficio, qualora si debbano giudicare i loro costumi secondo gli antichi canoni? Questo perché la disciplina anticamente vigente è da lungo tempo caduta in disuso e quasi del tutto sepolta. Quanto sto dicendo sembra incredibile ed è invece realtà. Si glorino ora, tutti i fautori della Sede romana e i partigiani del Papa dell'ordinamento sacerdotale esistente fra loro. È chiaro che né da Gesù Cristo, né dai suoi apostoli, né dai santi Padri, né dalla Chiesa antica lo hanno ricevuto quale è oggi. 15. Passiamo ad esaminare, ora, il caso dei diaconi e la distribuzione dei beni ecclesiastici come la praticano. In realtà, i loro diaconi non sono creati per questo; infatti non chiedono loro che di servire all'altare, cantare l'evangelo e non so quali altre cose inutili. Delle elemosine, la cura dei poveri, dei compiti che avevano nei tempi antichi non se ne sente più parlare. Mi riferisco alla loro istituzione nella forma in cui essi la considerano valida, perché dovessimo parlare della realtà, dovremmo concludere che l'ordine dei diaconi non è fra loro un ufficio ma solo un grado in vista della promozione al sacerdozio. C'è un momento nella messa in cui questi attori, che recitano la parte del diacono, mimano la tradizione antica: quando ricevono le offerte che si fanno prima della consacrazione. Secondo la prassi antica i fedeli prima di prendere parte alla Cena si baciavano l'un l'altro, indi offrivano la loro offerta sull'altare. In tal modo rendevano testimonianza della loro carità anzitutto con un segno e poi con una dimostrazione concreta. Il diacono, che fungeva da procuratore dei poveri, riceveva quanto veniva offerto per distribuirlo. Attualmente, di tutte queste elemosine, ai poveri non giunge neppure un soldo, come se si gettasse tutto in fondo al mare. Si fanno perciò beffa della Chiesa con questa apparenza menzognera di ufficio diaconale. Non c'è evidentemente in questo diaconato nulla che ricordi l'istituzione apostolica o l'uso antico. L'amministrazione dei beni è stata trasferita interamente ad altro uso e disposta in modo tale che non se ne potrebbe inventare di più disordinata. Simili a ladroni che, dopo aver sgozzato un povero viandante, si spartiscono il bottino, questi valent'uomini, dopo aver spenta la luce della parola di Dio, e avendo, se così può dirsi, sgozzato la Chiesa, hanno pensato che tutto ciò che era destinato ad uso sacro fosse loro abbandonato affinché lo potessero depredare e saccheggiare. 16. Pertanto nella spartizione del bottino ognuno ha rubato quanto poteva. È stata così, non solo mutata, ma interamente capovolta la tradizione antica. La maggior parte è caduta in mano ai vescovi e ai preti delle città che, arricchiti da quel bottino, si sono mutati in canonici. A quanto ci è dato sapere, però, questa spartizione di bottino non è avvenuta affatto in modo pacifico perché non vi è capitolo che non stia tuttora litigando con il proprio vescovo. Comunque sia hanno preso provvedimenti perché una cosa fosse chiara: i poveri non ricevono neppure il becco d'un quattrino mentre avrebbero dovuto, per lo meno, ricevere la metà, come era il caso anticamente. I canoni ne assegnano loro esplicitamente la quarta parte e un altro quarto è affidato al vescovo affinché possa provvedere agli stranieri ed altri indigenti. Ognuno intende facilmente quale uso dovessero fare i membri del clero della quarta parte loro assegnata e a che uso dovessero destinarla. Il rimanente quarto, destinato alla riparazione dei templi o altre spese straordinarie, abbiamo visto che in caso di necessità era interamente destinato ai poveri. Vi chiedo ora, potrebbero costoro, se solo avessero in cuor loro un briciolo di timor di Dio, vivere in pace un'ora sola considerando che il loro cibo, la loro bevanda e ciò di cui si vestono proviene non solo da un furto ma da un sacrilegio? Vorrei almeno, che pur restando imperturbabili dinnanzi al giudizio di Dio, si convincessero che le persone, cui cercano di dimostrare che la loro gerarchia è ordinata in modo sì meraviglioso, sono persone che hanno la testa sul collo e sono in grado di giudicare. Mi dicano insomma se l'ordine dei diaconi è la licenza per commettere furti e sacrilegi. Lo negano? In tal caso sono costretti ad ammettere che questo ordine non esiste più fra loro visto che l'amministrazione dei beni ecclesiastici è palesemente mutata in sacrilega ruberia. 17. Ricorrono, a questo punto, ad un argomento fantasioso; affermano, infatti, che la magnificenza di cui fanno uso è un mezzo lecito, atto a salvaguardare la dignità della Chiesa. Altri esponenti di quella cricca sono così spudorati da affermare che quando gli ecclesiastici sono simili ai prìncipi nella magnificenza e nella pompa vengono adempiute le profezie che promettono questa gloria per il regno di Cristo. "Non invano "dicono: Dio ha così parlato alla sua Chiesa: "I re verranno e ti adoreranno, ti recheranno doni " (Sl. 72.10) : "Risvegliati, risvegliati, rivestiti della tua gloria, o Sion, rivestiti dei vestimenti della tua magnificenza, o Gerusalemme; quelli di Saba verranno tutti quanti, porteranno oro ed incenso; e predicheranno le lodi del Signore. Tutte le greggi di Chedar si raduneranno presso di te " (Is. 52.1; 60.6). Divertirsi a polemizzare contro queste spudoratezze significherebbe fare la figura dello sciocco; non spenderò pertanto parole inutili. Chiedo loro tuttavia: che risponderebbero ad un Giudeo che facesse uso di queste testimonianze in un senso analogo; ne criticherebbero la stupidità, in quanto verrebbe così trasferito sul terreno della carne e del mondo, cose dette spiritualmente del regno spirituale di Gesù Cristo. Sappiamo infatti che i profeti ci hanno raffigurato sotto figure di realtà terrene la gloria celeste di Dio destinata a risplendere nella Chiesa. In verità di tali benedizioni esteriori mai vi è stata così poca abbondanza come nell'età apostolica e tuttavia riconosciamo che il regno di Gesù Cristo è stato allora nella sua fioritura. "Che significano dunque queste dichiarazioni profetiche? "dirà alcuno. Il significato è questo: tutto ciò che è prezioso, grande, eccellente deve essere sottomesso a Dio. Riguardo all'affermazione che i re sottoporranno il loro scettro a Gesù Cristo, gli faranno omaggio delle loro corone e gli consacreranno le loro ricchezze quando mai tale promessa fu adempiuta in modo più completo che quando l'imperatore Teodosio, abbandonando il suo manto di porpora e le insegne imperiali Si presentò a sant'Ambrogio per far solenne penitenza come un volgare uomo del popolo? Ovvero quando lui stesso e gli altri prìncipi cristiani si sono impegnati a conservare la pura dottrina della verità nella Chiesa e mantenere i buoni dottori? Che i preti non godessero in quei tempi di ricchezze superflue è dimostrato chiaramente dalla sentenza del concilio di Aquileia presieduto da sant'Ambrogio: la povertà è titolo di gloria e di onore per i ministri di Gesù Cristo. I vescovi avevano indubbiamente a disposizione redditi di cui avrebbero potuto servirsi per vivere nel lusso, qualora avessero giudicato che la vera gloria della Chiesa consiste in questo; ben sapendo invece che nulla contrasta più apertamente l'ufficio pastorale quanto una ricca tavola, lusso nel vestire, palazzi sontuosi, serbarono quell'umilità e quella modestia che Gesù Cristo ha richiesto ai suoi ministri. 18. Non volendo dilungarmi eccessivamente su questo punto, riconsideriamo brevemente quanto la dispensazione, sarebbe più esatto dire la dissipazione, dei beni ecclesiastici sia lungi dall'autentico ministero di diacono quale ci è presentato nella parola di Dio, e quale è stato attuato nella Chiesa antica. Riaffermo che quanto viene impiegato nell'ornare templi è impiegato male, qualora non ci si attenga a quella sobrietà richiesta dalla natura e dal carattere del servizio divino e dei sacramenti cristiani, e di cui ci hanno fornito insegnamenti ed esempio gli apostoli e i santi Padri. In che cosa invece i templi odierni si accordano con queste premesse? Si dis.pprova in ogni cosa la moderazione, non dico la povertà dei primi tempi, ma una onesta sobrietà; nulla al giorno d'oggi piace se non ha sapore di superfluità e di corruzione. Lungi però dall'aver cura dei veri templi, quelli viventi, si tollera più facilmente che centomila poveri muoiano di fame piuttosto che fondere un solo calice o spezzare una cannuccia d'argento per recare sollievo alla loro indigenza.
Né vorrei dar l'impressione di eccedere in polemica con affermazioni troppo personali; invito perciò i lettori a riflettere ad una cosa: che direbbero i santi vescovi summenzionati, cioè Esuperio, Acacio, sant'Ambrogio se risuscitassero dai morti. Non approverebbero certamente che in presenza di sì grandi necessità di soccorrere i poveri le ricchezze della Chiesa vengano destinate ad altro uso e opere inutili; ma sarebbero ancor più risentiti vedendo che l'impiego di queste ricchezze, anche quando non vi sono poveri o necessità immediate a cui consacrarle, dà luogo a così perniciosi abusi. Lasciamo da parte il giudizio degli uomini. Questi beni sono dedicati a Gesù Cristo, debbono dunque essere destinati ad un uso conforme alla sua volontà. Non risulta perciò di alcuna utilità ascrivere al conto di Gesù Cristo delle spese fatte senza suo ordine, perché non le avvallerà. Quantunque, a dir il vero, non è ingente il reddito ordinario della Chiesa che viene speso in vasellame, parimenti, immagini e altre cose simili perché nessun vescovato risulta abbastanza provvisto, né abazia abbastanza pingue o beneficio soddisfacente a soddisfare la cupidigia di quelli che ne dispongono, quand'anche si accumulassero tutti. Allo scopo di effettuare risparmi sulle proprie rendite spingono il popolino a queste pratiche superstiziose inducendolo a convertire il denaro destinato ai poveri in edificazione di templi, costruzione di immagini, dono di reliquiari e calici, acquisto di pianete ed altri paramenti. Questo è il baratro che quotidianamente divora tutte le oblazioni e le elemosine. 19. Riguardo al reddito che ricavano da eredità, possedimenti potrei dire qualcosa che già non sia stato detto e che tutti non vedano chiaramente? Constatiamo con quanta coscienziosità ne amministrano la maggior parte vescovi ed abati. Non è forse follia pretendere trovare qui un ordinamento ecclesiastico? È cosa opportuna che vescovi e abati scimmiottino i prìncipi in servitù, lusso di abbigliamento, tenore di casa e di vitto considerando che la loro vita deve essere un esempio e un modello di sobrietà, temperanza, modestia ed umiltà? Appartiene forse all'ufficio pastorale accaparrarsi non solo città, borghi, castelli ma principati, contee, ducati e mettere infine la mano sui regni, quando il preciso comandamento di Dio proibisce loro cupidigia, avarizia e ordina loro di accontentarsi di una vita sobria? Se disprezzano la parola di Dio che atteggiamento assumeranno dinanzi agli antichi decreti dei concili ove è ordinato che il vescovo abbia la sua casetta accanto al tempio, tavola sobria, casa modesta? Che risposta daranno a quel decreto del concilio di Aquileia che dice la povertà essere gloria ed onore di un vescovo cristiano? Rifiuteranno certamente, come eccessivamente difficile, quanto san Girolamo ordina a Nepoziano, che cioè poveri e forestieri abbiano libero accesso alla sua tavola e con essi Gesù Cristo. Ma avranno vergogna di negare quanto è detto appresso, che la gloria di un vescovo consiste nel provvedere ai poveri ed è ignominioso per un prete cercare il proprio personale tornaconto. Non possono però accettare questo senza autocondannarsi tutti insieme. Non è però il caso di perseguirli con maggior severità visto che la mia intenzione è stata solo di dimostrare che l'ordine dei diaconi risulta già da lungo tempo annullato fra loro, affinché non ricorrano più oltre a quel titolo per sopravalutare la loro Chiesa. Ritengo perciò aver adempiuto su questo punto quanto mi proponevo.
CAPITOLO 6 IL PRIMATO DELLA SEDE ROMANA 1. Abbiamo sin qui illustrato le forme in cui si è attuato il governo nella Chiesa antica e la loro progressiva degenerazione, verificatasi Cl. Passare del tempo, sino ad essere oggi, nella Chiesa papale, puramente nominali, anzi unicamente finzioni. Ho effettuato questa analisi affinché i lettori possano giudicare, sulla base di questo confronto, quale tipo di Chiesa esista oggi fra i romanisti che ci accusano di essere scismatici perché separati da loro. Non abbiamo però ancora menzionato quello che costituisce il vertice e il coronamento di questa situazione cioè il primato della Sede romana, in base al quale si sforzano di dimostrare che la Chiesa cattolica esiste solo presso di loro. Non ne abbiamo sin qui parlato in quanto detta istituzione non trae la sua origine né dalla istituzione di Gesù Cristo, né dalla prassi della Chiesa primitiva, come è invece il caso per le cariche di cui abbiamo parlato e che abbiamo visto scendere dall'età antica perdendo, a causa della corruzione dei tempi, la loro purezza, anzi giungendo al punto da essere del tutto sovvertite. Tuttavia i nostri avversari si sforzano, come ho detto, di convincere il mondo che il fondamentale e l'unico vincolo dell'unità ecclesiastica sia rappresentato dall'adesione alla Sede romana e dall'obbedienza ad essa. L'argomento su cui si fondano, volendo sottrarci la realtà della Chiesa per rivendicarla a se, consiste in questo: essi hanno il capo da cui dipende l'unità della Chiesa, e in assenza del quale essa non può che risultare dispersa e distrutta. Questa è infatti la loro fantastica teoria: la Chiesa non è che un tronco privo di testa quando non sia sottomessa alla Sede romana come al suo capo. Quando perciò affrontano il problema della loro gerarchia iniziano sempre con questa affermazione: il Papa presiede sulla Chiesa universale in assenza di Gesù Cristo, quale suo vicario, la Chiesa non può essere dovutamente ordinata se questa sede non abbia il primato su tutte le altre. È dunque necessario esaminare anche questo punto per non tralasciare nulla che interessi un retto governo della Chiesa. 2. Il nucleo centrale della questione consiste in questo: è necessariamente richiesto da una gerarchia autentica, cioè dal governo della Chiesa, la preminenza, in dignità e autorità, di una sede sulle altre, sì da assumere il carattere del capo di un corpo? La Chiesa si troverebbe in una condizione estremamente pesante e iniqua qualora le fosse imposto questo, senza la parola di Dio. Se i nostri avversari vogliono perciò che le loro rivendicazioni siano accettate devono dimostrare innanzitutto che questo ordinamento è stato istituito da Gesù Cristo. Credono poterlo fare ricorrendo alla funzione sacerdotale nella Legge, e al potere di giurisdizione sovrana del sommo sacerdote, che Dio aveva stabilito in Gerusalemme. La risposta però è facile; anzi ve ne sono parecchie qualora non si accontentassero di una sola. In primo luogo non è procedimento ragionevole, l'estendere a tutto il mondo ciò che è risultato utile per una nazione. Vi è anzi grande differenza fra il mondo intero e il popolo particolare. Per tema che i Giudei, interamente circondati da popolazioni idolatriche, fossero distratti da questa varietà di religioni Dio aveva posto la sede del suo culto al centro del mondo, e aveva stabilito quivi un prelato cui tutti fossero sottoposti per essere meglio uniti. La religione è ora sparsa in tutto il mondo; chi non vede dunque l'assurdità di assegnare ad un sol uomo il governo dell'oriente e dell'occidente? Sarebbe come voler pretendere che l'universo debba esser governato da un sindaco o da un siniscalco solo dato che ogni provincia ne ha uno. C'è però un'altra ragione, per cui non è necessario dedurre, da quel fatto, la conclusione suddetta e seguirla. Tutti sanno che il sommo sacerdote sotto la Legge è stato figura di Gesù Cristo. Ora essendo stato trasferito il sacerdozio è d'uopo che sia trasferito anche questo diritto (Eb. 7.12). A chi potrebbe esserlo? Non certo al Papa come egli spudoratamente richiede, interpretando questo testo in suo favore, ma a Gesù Cristo, il quale, esercita questo ufficio da solo, senza vicari o successori, e non ne trasferisce l'onore a nessuno. Questo sacerdozio infatti, figurato nella Legge, non consiste solo in predicazione e insegnamento; implica altresì la riconciliazione di Dio con gli uomini, riconciliazione che Gesù Cristo ha compiuto nella sua morte; e anche il ministero dell'intercessione con cui egli si presenta a Dio in nostro favore per darci accesso a lui. 3. Non devono dunque pretendere vincolarci con questo esempio, limitato nel tempo, facendone una legge perpetua. Nel Nuovo Testamento non possono citare nulla a loro vantaggio se non le parole dette ad un uomo soltanto: "tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa. Tutto ciò che avrai legato in terra sarà legato in cielo, ciò che avrai sciolto sarà sciolto " (Mt. 16.18) , e ancora: "Pietro mi ami tu? Pasci le mie pecore" (Gv. 21.16). Volendo però che queste prove risultino decisive devono dimostrare anzitutto che quando vien detto ad un uomo di pascere il gregge di Cristo gli viene conferita autorità su tutte le Chiese; e secondo, che legare e sciogliere significhi semplicemente governare su tutto il mondo. Il fatto è però che Pietro, avendo ricevuto questo incarico dal Signore, esorta, nello stesso modo, tutti gli altri preti ad assolverlo, a pascere cioè il gregge di Dio che è stato loro affidato (1 Pi. 5.2). È facile dedurre da questo che nell'ordinare a san Pietro di fungere da pastore delle sue pecore, Gesù Cristo non gli ha dato nulla di particolare riguardo ad altri, oppure che Pietro ha esteso a tutti gli altri il diritto che aveva ricevuto.
Per non fare lunghi discorsi udiamo dalla bocca stessa di Gesù Cristo la spiegazione che egli ci dà, in un altro testo, del significato di "legare "e "sciogliere ": cioè di rimettere e ritenere i peccati (Gv. 20.23). Le modalità di questo legare e sciogliere si possono leggere in tutta la Scrittura, sono però chiaramente espresse da san Paolo quando dice che i ministri dell'evangelo hanno la missione di riconciliare gli uomini a Dio, e il potere per compiere un giudizio su tutti coloro che avranno rifiutato tale beneficio (2 Co. 5.18; 10.6). 4. Ho già detto in che modo distorcono il significato dei testi che fanno menzione di legare e sciogliere, e sarà necessario riprendere più ampiamente questo problema. Per ora è necessario esaminare le conseguenze che costoro traggono dalle parole dette da Gesù Cristo a Pietro. Promette di affidargli le chiavi del regno dei cieli, e che tutto ciò che avrà legato in terra sarà legato nei cieli. Se possiamo trovare un accordo sul significato del termine "chiavi "e sulle modalità del "legare "tutto il dibattito sarà risolto. Il Papa abbandonerà infatti molto volentieri questa carica, che nostro Signore ha affidato ai suoi apostoli, in quanto comporta molti impegni e molti fastidi senza procurargli alcun vantaggio, e privandolo dei suoi piaceri. La similitudine delle chiavi si addice molto bene all'evangelo, in quanto è mediante l'insegnamento di esso che i cieli ci sono aperti. Ora nessuno risulta legato o sciolto davanti a Dio, se non per il fatto che gli uni sono riconciliati mediante la fede, gli altri doppiamente vincolati dalla loro incredulità. Se il Papa si accontentasse di mantenere questo diritto penso che non susciterebbe nessuna opposizione. Dato però che una successione di questo genere, piena di fatiche e priva di guadagni non gli garba, eccoci costretti a contestargli anzitutto il significato di quella promessa di Gesù a Pietro. La situazione dimostra che egli ha voluto magnificare l'apostolato in cui la dignità non si può scindere dall'incarico. Se viene accolta l'interpretazione che abbiamo dato, e non la si può respingere senza spudoratezza, non viene conferito a san Pietro, sulla base di questo testo, nulla che non sia comune a tutti i dodici; in caso contrario non si recherebbe solo offesa alla loro persona ma la dignità del loro insegnamento sarebbe sminuita. I Romanisti protestano con violenza; che cosa ricavano però dal loro accanirsi contro tale rupe? Non potranno far sì che tutti gli apostoli, ricevendo il mistero della predicazione, non siano stati muniti altresì della potenza di legare e sciogliere. Gesù Cristo, dicono, promettendo le chiavi a san Pietro lo ha costituito vescovo della Chiesa tutta. Rispondo che quanto risulta promesso a lui solo, in quel testo, viene affidato a tutti gli altri poco dopo, anzi è dato loro in mano (Mt. 18.18; Gv. 20.23). Quando viene affidato a tutti lo stesso diritto che viene affidato a uno in che cosa quest'ultimo può considerarsi superiore agli altri compagni? La preminenza, dicono, consiste nel fatto che egli riceve a parte e insieme agli altri ciò che agli altri è affidato soltanto in comune. Rispondo, con san Cipriano e sant'Agostino, che Gesù Cristo non ha agito in questo modo sulla base di una preferenza nei riguardi degli altri ma avendo in vista l'unità della Chiesa. Queste sono le parole di san Cipriano: "Nostro Signore, nella persona di un uomo, ha dato le chiavi a tutti per mettere in evidenza l'unità di tutti. San Pietro era esattamente ciò che gli altri erano, compagni in onore e potenza eguali, ma Gesù Cristo Comincia con un uomo per mostrare che la Chiesa è una ". Ecco quanto dice sant'Agostino: "se la figura della Chiesa non fosse stata in san Pietro, il Signore non gli avrebbe detto: "ti darò le chiavi ". Se questo è detto soltanto a Pietro la Chiesa non ha il potere delle chiavi, se la Chiesa ha questo potere essa era già figurata nella persona di Pietro ". E ancora in un altro testo: "mentre la domanda era stata rivolta a tutti, fu Pietro soltanto che rispose: "Tu sei il Cristo ", e a lui fu detto: "ti darò le chiavi ", quasi il potere di legare e sciogliere fosse stato conferito a lui solo; ma come aveva risposto per tutti così riceve con tutti le chiavi come assomando in se una personalità unitaria. Egli è dunque nominato solo al posto di tutti in quanto esiste fra tutti unità ". 5. Quanto vien detto in quel testo, affermano, ha significato più ampio; non è infatti mai stato detto ad altri che su questa pietra la Chiesa sarà edificata. È da dimostrare però che in questo caso Gesù abbia detto riguardo a Pietro cosa diversa da quanto lo stesso Pietro, e san Paolo, affermano dei credenti tutti. Poiché san Paolo dice che Gesù Cristo è la pietra angolare su cui poggia tutto l'edificio, su cui sono edificati tutti coloro che crescono per essere un santo tempio al Signore (Ef. 2.20). E san Pietro ci ordina di essere pietre vive avendo qual fondamento Gesù Cristo, come pietra scelta e preziosa, per essere uniti e congiunti a Dio e fra di noi (1 Pi. 2.5). San Pietro, dicono, è stato questo più di tutti gli altri in quanto egli ha in particolare il nome. Riconosco certo volentieri a san Pietro l'onore, di essere situato nell'edificio della Chiesa fra i primi, anzi se fa loro piacere, al primo posto fra tutti i credenti. Ma non permetterò loro di dedurre da questo che egli abbia primato sugli altri. Che modo di ragionare sarebbe infatti questo: san Pietro precede gli altri in zelo, dottrina, perseveranza, dunque ha preminenza su tutti? Si potrebbe, con motivazioni ancora più fondate dedurre che Andrea precede Pietro nell'ordine, in quanto lo ha preceduto nel tempo avendolo convinto e condotto a Cristo (Gv. 1.40-42). Lasciamo stare però questi discorsi. Ammetto che san Pietro abbia precedenza sugli altri; c'è però differenza fra una precedenza onorifica e l'aver autorità. Gli apostoli hanno quasi sempre riconosciuto a Pietro il diritto di parlare per primo nell'assemblea, impostando i problemi con l'ammonire e l'esortare i compagni; di potestà però non se ne parla. 6. Non è giunto ancora il momento di affrontare questo problema, perciò mi limiterò a mostrare che è, da parte loro, sciocca pretesa il voler stabilire il dominio di un uomo su tutta la Chiesa fondandosi sul solo nome di "Pietro ". Non sono infatti neppure degne di menzione le ridicole e sciocche tesi con cui hanno voluto ingannare sin dal principio la gente: essere cioè la Chiesa fondata su san Pietro in quanto è detto: "su questa pietra edificherò la mia Chiesa ". A loro giustificazione sta il fatto che alcuni dei Padri hanno dato questa interpretazione; ma a che serve rivendicare l'autorità degli uomini contro Dio quando tutta la Scrittura dice il contrario? Perché anzi discutere riguardo al significato di queste parole, quasi fosse oscuro o dubbio visto che non potrebbe essere più chiaro e definito? Pietro aveva confessato, a nome suo proprio e dei fratelli, che Cristo era il figlio di Dio (Mt. 16.16). Su tale pietra Cristo edifica la sua Chiesa, in quanto questo è il fondamento unico, come dice san Paolo, e non è lecito porne un altro (1 Co. 3.2). Non respingo affatto l'autorità dei Padri su questo punto, e non mancano le loro testimonianze qualora volessi citarle a conferma della mia tesi. Non voglio però importunare i lettori, dilungandomi in lunghi discorsi su una questione così evidente; considerando anche il fatto che altri hanno trattato ampiamente e con molta cura questa materia. 7. Nessuno è in grado di risolvere questo problema meglio della Scrittura, se esaminiamo tutti i testi in cui vengono illustrate le mansioni e l'autorità di Pietro nel gruppo degli apostoli, il suo comportamento e la sua posizione. Se li si esamina attentamente, si riscontrerà soltanto che Pietro è stato uno dei dodici, simile agli altri, compagno e non padrone. Egli certo propone la linea di azione nella comunità e ammonisce gli altri, ma si pone, d'altra parte, in ascolto, e non permette soltanto agli altri di esprimere pareri ma di stabilire e decretare ciò che sembra loro opportuno. Quando hanno preso una decisione egli la segue e la applica (At. 15.1). Quando scrive ai pastori, non dà ordini come un superiore, valendosi dell'autorità, ma li considera suoi compagni e li esorta in modo amichevole, come si suol fare da pari a pari (1 Pi. 5.1). Quando viene accusato di aver avuto contatto con i pagani, quantunque fosse a torto (At. 11.2) , egli giustifica. Quando gli si ordina di recarsi in Samaria con Giovanni non oppone un rifiuto (At. 8.14). Inviandolo in missione gli apostoli dimostrano di non considerarlo superiore a loro. Quando egli obbedisce e accoglie l'incarico ricevuto, dimostra che esiste fra loro comunione e non dominio. Quand'anche non possedessimo tutte queste citazioni la difficoltà verrebbe eliminata dalla sola epistola ai Galati, dove san Paolo dimostra, in due interi capitoli, che è uguale a san Pietro nella carica dell'apostolato. Per dimostrare questo egli ricorda che non si è recato da lui per far professione di sottomissione, ma per dimostrare a tutti l'unità della dottrina esistente fra loro. Anzi san Pietro non gli ha richiesto questo ma gli ha dato la mano in segno di collaborazione per lavorare insieme nella vigna del Signore. Anzi Dio gli aveva manifestato, nella sua opera fra i pagani, tanta grazia, quanta ne aveva manifestata a Pietro nella sua opera fra i Giudei. Infine quando Pietro non si era comportato rettamente, egli lo aveva ammonito e quello aveva accettato il suo rimprovero (Ga 1.18; 2.8). Tutto questo dimostra che fra san Pietro e san Paolo esisteva eguaglianza, oppure che san Pietro non aveva più autorità sugli altri di quanto ne avessero gli altri su di lui. In realtà l'intenzione di san Paolo è espressamente quella di mostrare che nel suo apostolato non doveva essere ritenuto inferiore a Pietro e a Giovanni in quanto si tratta di uomini che sono stati suoi compagni e non suoi superiori. 8. Quand'anche concedessi riguardo a Pietro ciò che domandano, che cioè sia stato principe degli apostoli e superiore agli altri in dignità, non c'è però motivo per ricavare da un caso particolare una norma generale, e fare deduzioni da ciò che è accaduto una volta, tanto più che si tratta di situazioni diverse. Se v'è stata fra gli apostoli una figura principale, questo si deve attribuire al fatto che erano pochi. Se uno ha tenuto la presidenza su dodici, ne deriva forse che uno debba presiedere su centomila? Non stupisce che vi sia stata una persona a capo dell'organizzazione del gruppo dei dodici. La natura e la prassi degli uomini richiedono che ogni comunità, quand'anche i membri siano pari in autorità, vi sia una persona che ha carica di guida e a cui tutti obbediscono. Non esiste consiglio, parlamento, assemblea qualsiasi che non abbia un suo presidente, né c'è esercito senza capitano. Non vedo nessun inconveniente ad ammettere che gli apostoli hanno conferito a san Pietro questo primato. Ciò che si è verificato però nell'ambito dei pochi non si deve trasferire letteralmente a tutto il mondo, a reggere il quale una sola persona non può bastare da sola. L'ordine di natura, dicono, insegna che deve esserci un capo su ogni corpo. E citano a sostegno delle loro tesi l'esempio delle gru e delle api che eleggono sempre un solo re o un solo capo e non parecchi. Accetto volentieri questi esempi; mi chiedo però se tutte le api del mondo si radunano in un posto per eleggere un re. Ogni re si accontenta della sua arnia. Parimenti ogni stormo di gru ha il suo conduttore. Che conclusioni si possono dedurre da questo se non che ogni Chiesa deve avere il suo vescovo? Citano ancora l'esempio delle monarchie terrestri e accumulano citazioni di poeti e di scrittori che lodano questa o quella monarchia, questo o quel sistema. La risposta è facile. Le monarchie non vengono lodate, anche da parte di scrittori pagani, come se un sol uomo dovesse governare il mondo intero, essi intendono solo alludere al fatto che un principe non può accettare nei suoi domini un uomo suo pari in autorità. 9. Pur ammettendo come una cosa buona e utile, secondo le loro tesi, che il mondo intero sia ridotto ad una monarchia, il che è invece errato, non concede loro però che questo debba valere per il governo della Chiesa. Essa infatti ha Gesù Cristo quale unico capo, sotto la cui autorità tutti siamo uniti secondo l'ordine e la forma di governo che lui stesso ha istituito. Coloro pertanto che vogliono dare preminenza ad un sol uomo, sulla Chiesa tutta, con il pretesto che essa non può fare a meno di un capo, recano somma ingiuria a Gesù Cristo, che ne è il capo, cui, come dice san Paolo, ogni membro deve essere sottomesso affinché tutti insieme, secondo la misura dei propri doni, siamo uniti per crescere in lui (Ef. 4.15). Vediamo che l'Apostolo considera, senza eccezione, tutti gli uomini della terra partecipi del corpo di Cristo, riservando a lui solo l'onore e il titolo di capo. Egli affida dunque ad ogni membro limiti stabiliti e compiti precisi affinché, sia la perfezione della grazia, che la sovrana potenza di governo, risiedano in Gesù Cristo soltanto. Conosco il cavillo con cui rispondono a questa obiezione: Gesù Cristo è nominato unico capo in senso assoluto, in quanto lui solo può governare in nome proprio e di sua autorità; ma questo non esclude l'esistenza di un capo a lui subordinato, nel campo del ministero, che sia quasi suo gerente. Nessun frutto può derivare da questa argomentazione se non si sarà dimostrato, anzitutto, che questo ministero è stato ordinato da Cristo. Poiché l'Apostolo insegna che il ministero è sparso in tutte le membra, ma l'autorità procede dal solo capo celeste (Ef. 1.22; 4.15; 5.23). Oppure, se vogliono che mi esprima in modo più chiaro, dato che la Scrittura dichiara che Gesù Cristo è capo e attribuisce a lui solo quell'onore, non lo si deve trasferire ad un altro se Gesù Cristo non lo ha istituito suo vicario. 10. E non solo questo non si legge in nessun testo, ma è chiaramente refutabile sulla base di molte citazioni. San Paolo ci ha fornito alcune descrizioni della Chiesa e non ha mai fatto menzione dell'esistenza di un unico capo in terra; si potrebbe anzi, dalla sua descrizione, dedurre che questo non si addice all'istituzione di Cristo il quale, salendo al cielo, ci ha sottratto la sua presenza visibile ma tuttavia è salito per empire ogni cosa (Ef. 4.10). La Chiesa perciò lo ha costantemente presente e sempre lo avrà. Quando san Paolo vuole illustrare il mezzo mediante cui godiamo della presenza di Cristo ci rinvia ai ministeri di cui egli si serve: "Il Signore Gesù ", dice "è in noi tutti, secondo la misura della grazia che ha dato ad ogni membro. Perciò egli ha costituito gli uni apostoli, gli altri profeti, gli altri evangelisti, gli altri pastori, gli altri dottori " (Ef. 4.7- 11). Perché non dire che egli ne ha istituito uno sugli altri tutti per fungere da suo luogotenente? Il problema che stava infatti trattando richiedeva questa precisazione, e non la doveva omettere se corrispondeva alla realtà. Gesù Cristo, egli dice, ci assiste. In che modo? Mediante il ministero degli uomini cui ha affidato il governo della sua Chiesa. Perché non dice invece: mediante la funzione magisteriale del capo che ha stabilito in vece sua? Fa bensì menzione della unità ma ravvisandola in Dio nella fede in Gesù Cristo. Riguardo agli uomini non concede nulla se non il ministero comune a tutti e quello particolare ad ognuno. Nel raccomandarci l'unità, dopo aver detto che siamo un corpo e uno spirito, avendo la medesima speranza della vocazione comune, un Dio una fede e un battesimo (Ef. 4.4-5) perché non aggiungere subito che abbiamo un sommo prelato per mantenere la Chiesa unita? Se tale fosse stata la verità, non avrebbe potuto dir nulla di più pertinente. Si mediti dunque attentamente questo testo. Non v'è dubbio infatti che l'Apostolo abbia avuto l'intenzione di presentarci il governo spirituale della Chiesa, che è stato detto poi dai successori: gerarchia. Egli non fa menzione di monarchia o del principato di uno solo fra i ministeri, anzi dimostra che tale principio non c'è. È altresì indubbio che egli abbia voluto in questo testo esprimere la forma di unità mediante cui i credenti debbano essere uniti a Gesù Cristo loro capo. E non solo non fa menzione di un capo fra i ministeri, ma attribuisce ad ogni membro la sua particolare attività secondo la misura della grazia data ad ognuno. Voler stabilire un parallelismo tra la gerarchia celeste e quella terrestre è sciocchezza. Riguardo alla prima infatti non ci è necessario sapere più di quanto ce ne dica la Scrittura. Per stabilire l'ordine che dobbiamo tenere in terra non c'è altra norma da seguire che quella dataci dal Signore stesso. 2. Quand'anche si concedesse loro questo secondo punto, che però una persona di buon senso non concederà mai, cioè il primato della Chiesa esser stato dato a san Pietro a condizione che fosse perpetuo e passasse di mano in mano per via di successione, da che cosa si deduce che la Sede romana sia stata magnificata al punto che il suo vescovo debba governare il mondo intero? Con che diritto, e a che titolo vincolano ad un luogo una dignità che fu conferita a san Pietro, senza menzione alcuna di luogo. Pietro, dicono, è vissuto a Roma e quivi è morto. E Gesù Cristo? Non ha forse esercitato la carica di vescovo a Gerusalemme durante il tempo della sua vita? Non ha forse adempiuto con la sua morte ciò che era richiesto dal sommo sacerdozio? Egli principe dei pastori e sommo vescovo, capo della Chiesa non ha potuto acquisire l'onore del primato ad una località. Come potrebbe farlo Pietro che è di molto inferiore? Non è forse follia più che infantile il parlare così? Gesù Cristo ha dato a Pietro l'onore del primato, Pietro ebbe a Roma la sua sede ne consegue che ha quivi posta la sede del suo primato. Con ragionamenti di questo genere il popolo d'Israele avrebbe dovuto anticamente collocare la sede del primato nel deserto in quanto Mosè, sommo dottore e principe dei profeti aveva quivi esercitato il suo ufficio e quivi era morto (De 34.5). 12. Prendiamo in esame il bel ragionamento che costoro fanno: san Pietro, dicono, ebbe fra gli apostoli una posizione di primato. La Chiesa dunque in cui egli risiede, deve godere di quello stesso privilegio. Si pone però la domanda: quale è stata la prima Chiesa di cui egli e stato vescovo? Antiochia, rispondo. Ne deduco perciò che il primato spetta di diritto ad Antiochia. Ammettono che essa sia stata la prima in ordine di tempo, ma affermano, che Pietro, partendo di là ha trasferito l'onore del primato a Roma. Esiste infatti una lettera di papa Marcello scritta ai preti di Antiochia dove è detto: la sede di Pietro è stata dapprima nella vostra città; ma in seguito è stata, per ordine di Dio, trasferita da noi. Così la Chiesa di Antiochia che al principio fu la prima ha dato luogo alla Sede romana . Mi domando però in base a quali rivelazioni quello scioccone di papa sapeva che Dio aveva deciso questo? Se si tratta di risolvere questa questione sulla base del diritto essi devono definire se il privilegio dato a Pietro sia di natura personale, oggettiva o mista. Occorre, secondo i giuristi, scegliere una delle tre soluzioni; se dicono che si tratta di un privilegio personale la sede non è rilevante. Se è di natura oggettiva quando è stato conferito ad una sede non può essere eliminato per decesso o per partenza della persona. Resta l'ipotesi di un privilegio misto. In tal caso non si può prendere in considerazione soltanto la sede ma si deve considerare insieme ad essa la persona. Scelgano la soluzione che preferiscono, ne dedurrò subito, e dimostrerò facilmente che Roma non può in alcun modo rivendicare il primato. 13. Concediamo però ancora questo punto, accettiamo, cioè il caso che il primato sia stato trasferito da Antiochia a Roma. Perché Antiochia non ha almeno mantenuto il secondo posto? Se Roma è la prima sede, in quanto Pietro è stato vescovo sino alla sua morte, quale deve essere la seconda se non quella in cui egli ha avuto dapprima la sua sede? Come mai è accaduto invece che Alessandria abbia preceduto Antiochia? È opportuno che la Chiesa di un semplice discepolo risulti superiore alla sede di san Pietro? Se necessariamente l'onore dato ad ogni Chiesa deve essere vincolato alla dignità del suo fondatore che diremo delle altre Chiese? San Paolo menziona tre apostoli che si reputavano essere le colonne: Giacomo, Pietro e Giovanni (Ga 2.9). Se si attribuisce la preminenza alla Sede romana, in onore di san Pietro, Efeso e Gerusalemme, di cui Giovanni e Giacomo sono stati vescovi, non meriterebbero di avere il terzo e il quarto posto? Ora fra le sedi patriarcali Gerusalemme risulta essere l'ultima. Efeso non ha avuto neppure un posticino, e le altre Chiese, tanto quelle fondate da san Paolo che quelle presiedute da altri apostoli, risultano essere molto indietro e non sono state tenute in alcun conto. La sede di san Marco, semplice discepolo, ha ricevuto più onore di tutte. Devono riconoscere che quest'ordine di dignità è sbagliato ovvero ammettere che non è norma rigorosa che sia dovuto ad ogni Chiesa lo stesso grado di onore che ebbe il suo fondatore. 14. Il fatto che Pietro sia stato vescovo di Roma secondo le loro storie, mi pare lungi dall'essere provato. È indubbio che la testimonianza di Eusebio, secondo cui egli vi avrebbe soggiornato 25anni, si può senza difficoltà smentire. Risulta infatti dal primo e dal secondo capitolo della lettera di san Paolo ai Galati che Pietro soggiornò a Gerusalemme dopo la morte di Gesù Cristo circa vent'anni (Ga 1.18; 2.1) e di qui si trasferì ad Antiochia. Dimorò quivi durante un certo periodo di durata però incerta; Gregorio parla di sette anni, Eusebio di venticinque. Dalla morte di Gesù Cristo alla fine del regno di Nerone che fece uccidere san Pietro, trascorrono soltanto trentasette anni. Nostro Signore infatti patì sotto l'imperatore Tiberio, l'anno diciottesimo del regno di lui. Se si sottraggono i venti che san Pietro trascorse a Gerusalemme, secondo la testimonianza di san Paolo, rimangono al massimo diciassette anni da ripartirsi fra questi due vescovati. Se egli soggiornò a lungo ad Antiochia non può aver vissuto a Roma che poco tempo. Questo fatto si può però dedurre in modo ancor più semplice: san Paolo scrisse la sua epistola ai Romani mentre era in viaggio verso Gerusalemme (Ro 15.25) , dove venne arrestato per poi essere condotto a Roma. Verosimilmente quello scritto fu dunque redatto quattro anni prima della sua venuta a Roma. Ora non fa menzione alcuna di san Pietro, che non avrebbe invece dovuto passare sotto silenzio se fosse stato vescovo della città. Alla fine della lettera, nella lista di coloro che egli saluta, menziona un gran numero di credenti quasi volendo raccogliere in una lista tutte le sue conoscenze; di san Pietro nessun cenno. Non è perciò necessario ricorrere a lunghe discussioni e a grandi sottigliezze per convincere persone di buon senso. Lo dimostra la realtà e lo attesta il tenore dello scritto: san Pietro non poteva essere dimenticato qualora fosse stato residente in quella sede. 15. San Paolo venne in seguito trasferito prigioniero a Roma (At. 28.16); san Luca narra che venne accolto dai fratelli, ma di Pietro nessuna menzione. Dimorando quivi egli scrive a parecchie Chiese. In ogni lettera mette i saluti dei conoscenti che erano con lui: non una parola però da cui si possa dedurre che san Pietro risiedesse a Roma. È pensabile, vi chiedo, che avrebbe mantenuto un silenzio così assoluto se egli vi fosse stato? Ai Filippesi, anzi, dopo aver detto che nessuno si è impegnato nell'opera del Signore come Timoteo, egli si lamenta che ognuno ricerchi il proprio profitto (Fl. 2.20-21). E scrivendo a quello stesso Timoteo, si duole, in modo ancor più radicale, del fatto che nel corso del primo processo, nessuno lo avesse assistito, ma, al contrario, tutti lo avessero abbandonato (2Ti 4.16). Dove si trovava allora san Pietro? Se risiedeva a Roma Paolo l'accusa di un grave peccato: aver abbandonato l'Evangelo; egli parla infatti dei credenti aggiungendo: questo non sia loro imputato. Quando e per quanto tempo san Pietro ha dunque retto la Chiesa di Roma? È opinione comune, dirà qualcuno, che egli vi dimorò sino alla morte. Risponderò che non esiste un accordo fra gli antichi autori riguardo al suo successore, gli uni parlano di Lino gli altri di Clemente. Anzi, si narrano molte sciocchezze riguardo alla sua disputa con Simon Mago. Anche sant'Agostino, parlando di superstizioni, non nasconde che la prassi della Chiesa di Roma di non digiunare il giorno in cui si supponeva Pietro avesse vinto la causa su Simon Mago, era sorta in base a voci prive di fondamento e ad una opinione concepita senza riflessione. Le cose riguardanti quel periodo risultano infine così confuse, a causa delle diversità di opinioni, che non si deve accogliere acriticamente tutto ciò che è scritto. Tuttavia dato l'accordo delle fonti riguardo alla morte di lui a Roma, non intendo oppormi. Nessuno mi convincerà però che egli sia stato vescovo, anzi vi sia stato durante un lungo periodo e non me ne preoccupo affatto in quanto Paolo afferma che l'apostolato di san Pietro concerneva in modo particolare i Giudei, mentre il suo si rivolgeva a noi. Se vogliamo infatti considerare valido il patto stipulato fra loro due, anzi attenerci all'ordine dello Spirito Santo, dobbiamo avere, per parte nostra, maggior riguardo all'apostolato di Paolo che a quello di Pietro. Poiché lo Spirito Santo ha diviso le loro mansioni destinando Pietro ai Giudei e Paolo a noi. Cerchino perciò i romanisti le fonti del loro primato altrove che nella parola di Dio, visto che quivi non se ne trova il minimo fondamento. 16. Passiamo ora ad esaminare la Chiesa antica affinché risulti chiaro che la pretesa dei nostri avversari, di averla dalla propria parte, non è meno priva di fondamento e assurda della pretesa di prevalersi della Sacra Scrittura. Quando dunque citano quell'articolo della loro fede, secondo cui la Chiesa non può essere mantenuta in unità senza avere il capo assoluto in terra, cui tutti gli altri membri siano sottomessi, e secondo cui nostro Signore ha dato a san Pietro il primato per lui e i suoi successori affinché duri perpetuamente, pretendono che questo sia stato in uso sin dal principio. Dato che accumulano di qua e di là molte testimonianze manipolandone l'interpretazione a loro vantaggio, dichiaro formalmente che non intendo negare che gli antichi dottori abbiano tributato grande onore alla Chiesa romana e ne parlino con rispetto. Penso però che questo si sia verificato per tre motivi: l'opinione diffusa che san Pietro ne fosse il fondatore aveva già di per se potere per conferire credito e autorità a Roma. Le Chiese d'Occidente perciò l'hanno designata Cl. Titolo onorifico di Sede apostolica. In secondo luogo trattavasi della capitale dell'impero e, verosimilmente, si trovavano quivi personalità più eccellenti, sia dal punto di vista della dottrina che della sapienza, e più sperimentate che in altri luoghi, si ebbe perciò riguardo, e a ragione, di evitare che fosse disprezzato da un lato la nobiltà della città e dall'altro i doni che Dio aveva posto quivi. In terzo luogo: mentre le Chiese d'Oriente e di Grecia e anche d'Africa furono travagliate da non poche crisi, la Chiesa romana è stata in quei tempi molto più tranquilla e meno soggetta a tumulti; accadde perciò che buoni vescovi e di santa dottrina, espulsi dalle loro Chiese vi approdassero come in un rifugio e In un porto. Le popolazioni d'Occidente, infatti, non possono vantarsi di possedere l'intelligenza acuta e pronta degli asiatici e degli africani, in compenso però sono meno instabili e bramose di novità. Ha dunque grandemente accresciuto l'autorità della Chiesa di Roma il fatto di non essere stata turbata in quei periodi in cui le Chiese si combattevano l'un l'altra e di mantenersi più stabile nella dottrina ricevuta anticamente come sarà più chiaramente detto in seguito. Questi sono i tre motivi per cui, penso, la Sede romana è stata dagli antichi maggiormente considerata e onorata. 17. Quando però i nostri avversari, volendosi prevalere di questo fatto, le conferiscono primato e potestà assoluta sulle altre Chiese, commettono, come ho detto, un grossolano errore. E per rendere questo più evidente illustrerò, brevemente, anzitutto, come gli antichi abbiano intesa questa unità su cui costoro tanto insistono. San Girolamo, scrivendo a Nepoziano, dopo aver fatto menzione di molti elementi di unità, esamina infine la gerarchia ecclesiastica: "c'è "dice "in ogni Chiesa un vescovo, un arciprete, un arcidiacono e tutto l'ordine della Chiesa consiste in queste autorità ". Notiamo che a parlare è un prete romano, e che egli intende sottolineare l'unità della Chiesa. Perché non fa egli menzione del fatto che tutte le Chiese sono unite insieme, mediante un vincolo, per mezzo di un capo? Nessun argomento, più di questo, sarebbe stato atto a sostenere la sua tesi, e non si può ritenere che egli lo abbia tralasciato per dimenticanza. Non avrebbe infatti mancato di valersene se fosse risultato possibile, n quel contesto. Il dunque chiaro che egli si rendeva conto del fatto che la reale forma dell'unità era quella descritta da san Cipriano, quando egli diceva: "non esiste che un solo episcopato, di cui ogni vescovo è interamente partecipe; non c'è che una Chiesa sparsa in lungo e in largo come molti raggi del sole ma la luce è una sola; come un albero ha molti rami, ma non ha che un tronco fondato sulle sue radici; come da un'unica fonte derivano molti ruscelli che non impediscono però che nella fonte permanga l'unità. Si separino i raggi dal corpo del sole, l'unità che è in esso non verrà per questo distrutta. Si tagli un ramo dall'albero egli seccherà. Così la Chiesa è illuminata dalla luce di Dio e sparsa nel mondo non di meno c'è una sola luce che si spande ovunque e l'unità non viene rotta ". Dopo aver detto questo egli conclude che tutte le eresie e gli scismi derivano dal fatto che non ci si volge alla fonte della verità, non si cerca il Capo non si mantiene la dottrina del Maestro celeste. Vediamo che egli conferisce a Gesù Cristo solo il vescovato universale che include tutta la Chiesa; egli afferma che tutti coloro che sono vescovi sotto quel capo, ne detengono una parte. Dove sarà dunque il primato della Sede romana se il vescovato risiede interamente in Cristo soltanto e se ognuno ne ha una parte? Ho citato questo testo per dimostrare ai lettori, quasi per inciso, che l'affermazione dei romanisti, quel loro articolo di fede, secondo cui il governo gerarchico della Chiesa richiede l'esistenza di un capo in terra, è sconosciuta agli antichi.
CAPITOLO 7 ORIGINE E ACCRESCIMENTO DEL PAPATO FINO AL PREDOMINIO ATTUALE: DA CUI È DERIVATO L'ANNULLAMENTO DI OGNI LIBERTÀ E LA CANCELLAZIONE DI OGNI GIUSTIZIA 1. Il primo avvio e la più antica giustificazione del primato della Sede romana è rappresentato dal decreto emanato al concilio di Nicea in cui vescovo di Roma è detto primo fra i patriarchi e gli è affidata la sovrintendenza delle Chiese vicine. Questo decreto spartisce le province fra lui e gli altri patriarchi in modo da assegnare ad ognuno il proprio territorio. Non lo colloca però a capo di tutti i patriarchi ma lo considera uno dei principali. Giulio, allora vescovo di Roma, aveva inviato al Concilio due sostituti per rappresentarlo; questi furono fatti sedere al quarto rango. Se Giulio fosse stato riconosciuto qual capo della Chiesa, coloro che rappresentavano la sua persona sarebbero stati declassati al quarto rango? È, questa una domanda. Avrebbe potuto Atanasio presiedere il concilio ecumenico in cui l'ordine delle gerarchie deve essere così rigorosamente rispettato? Al concilio di Efeso Celestino, allora vescovo di Roma, assunse un atteggiamento ambiguo per rivendicare la dignità della sua sede; egli infatti manda da un lato i suoi delegati per assistervi in sua vece e nell'altro chiede al vescovo di Alessandria, Cirillo, che doveva presiedere, di rappresentarlo. Che significato aveva una tale delega se non fare pervenire in qualche modo il suo nome al primo posto? I suoi delegati infatti si trovavano in posizioni inferiori, si richiedeva il loro parere come a tutti gli altri, votavano secondo il loro ordine, il patriarca di Alessandria però era investito di un duplice incarico. Che diremo del secondo concilio di Efeso? Quantunque Leone vescovo di Roma vi avesse inviato i suoi ambasciatori fu tuttavia Dioscoro, patriarca di Alessandria a presiedere senza contestazioni. Replicheranno che quello non fu un concilio legittimo visto che Flaviano, vescovo di Costantinopoli, vi fu condannato e venne approvata l'eresia di Eutiche; non intendo però riferirmi qui alle sue decisioni. Sta di fatto che il Concilio era quivi raccolto e i delegati del Papa di Roma erano seduti al loro posto al pari degli altri, come in ogni santo e ben organizzato concilio; e non rivendicano il primo posto ma lo cedono ad altri, cosa che non avrebbero potuto fare se fosse stato di loro spettanza. I vescovi di Roma, infatti, non hanno mai avuto scrupoli a provocare gravi polemiche per difendere la loro dignità, e non hanno esitato a mettere sossopra le Chiese e a dividerli per questa ragione. Ma Leone, accorgendosi che avrebbe agito con arroganza pretendendo per i suoi ambasciatori il primo posto, lasciò correre. 2. Seguì il concilio di Calcedonia presieduto, per concessione o ordine imperiale, dai delegati della Chiesa di Roma. Leone stesso però riconosce che questo si verificò per eccezionale privilegio . Nel richiederlo infatti all'imperatore Marciano e all'imperatrice, non pretende che la cosa gli sia dovuta ma si vale della scusa che i vescovi d'Oriente, nel presiedere il concilio di Efeso, si erano comportati male e avevano abusato della loro autorità. Rivelandosi così necessario la presidenza di un nuovo responsabile e non essendo verosimilmente idonei coloro che in precedenza avevano agito sconsideratamente, Leone chiede sia trasferita a lui questa carica motivando la sua richiesta con l'incompetenza degli altri. È chiaro che non si può considerare normale e perpetuo ciò che si richiede come speciale privilegio. Quando si ricorre all'unica motivazione che è necessario avere una buona presidenza in quanto i precedenti hanno agito male, risulta chiaramente che questo provvedimento non è stato attuato in precedenza né se ne possono trarre conclusioni per l'avvenire, ma si tratta soltanto di un provvedimento motivato dal pericolo e dalle necessità attuali. Perciò il vescovo di Roma ha occupato il primo posto al concilio di Calcedonia; non perché questo fosse dovuto alla sua Chiesa, ma in quanto il Concilio risultava sprovvisto di una saggia ed adeguata presidenza poiché coloro, a cui spettava questo diritto, ne erano stati esclusi a motivo delle loro intemperanze e del loro cattivo comportamento. Quanto ho detto è provato dall'atteggiamento del successore di Leone. Convocato al terzo concilio di Costantinopoli, parecchio tempo dopo, non polemizzò per ottenere il primo posto, ma accettò senza difficoltà che presiedesse Menas patriarca del luogo. Similmente la presidenza del concilio di Cartagine, cui era presente anche sant'Agostino, fu affidata ad Aurelio, vescovo di quel luogo e non ai delegati della Sede romana, quantunque fossero espressamente venuti per riaffermare l'autorità del loro vescovo. C'è di più: si tenne in Italia un concilio ecumenico cui non partecipò il vescovo di Roma; si tratta del concilio di Aquilea, presieduto da sant'Ambrogio in virtù della stima di cui godeva presso l'Imperatore . Nessuna menzione viene fatta in questa circostanza del vescovo di Roma. Constatiamo dunque che in virtù dell'autorità di sant'Ambrogio Milano fu anteposta alla Sede romana. 3. Riguardo al primato e altri titoli orgogliosi di cui il Papa si vanta senza fine e senza misura, è facile giudicare quando, e in che modo siano stati introdotti. San Cipriano, vescovo di Cartagine, menziona spesso Cornelio vescovo di Roma; non ne parla però altrimenti che come di un fratello, compagno, vescovo come lui. Scrivendo a Stefano, successore di Cornelio, non solo lo fa uguale a se stesso e agli altri vescovi, ma lo tratta molto severamente chiamandolo arrogante e ignorante. È noto ciò che le Chiese africane unanimemente decretarono dopo la morte di Cipriano. Al concilio di Cartagine fu deciso che nessuno potesse chiamarsi principe dei sacerdoti o primo vescovo ma soltanto vescovo della prima sede . A chi esamini le storie antiche risulterà chiaro che il vescovo di Roma si accontentava del nome comune di fratello. Fintantoché la Chiesa si mantenne nella sua condizione di autenticità e di purezza, quei titoli di orgoglio, usurpati successivamente dalla Sede romana per accrescere il suo prestigio, furono del tutto sconosciuti. Non si conosceva l'esistenza di un sommo pontefice e di un capo unico di tutta la Chiesa. Se il vescovo di Roma avesse avuto l'ardire d'innalzarsi sino a quel punto, si sarebbero trovati uomini di buon senso per deplorare immediatamente la sua follia e la sua presunzione. San Girolamo, come prete romano, non è stato avaro nel magnificare la dignità della sua Chiesa, nella misura riconosciuta lecita dalle condizioni e dalla verità dei suoi tempi, constatiamo tuttavia che egli la situa al piano delle altre. "Quando si tratta di un'autorità "dice "il mondo è più grande di una città. Perché mi vieni a citare gli usi di una sola città? Perché sottoporre l'ordine della Chiesa a poche persone causando l'insorgere di presunzioni? Ovunque c'è un vescovo, si tratti di Roma o di Gubbio o di Costantinopoli o di Reggio, egli è rivestito della stessa dignità e dello stesso sacerdozio. La potenza delle ricchezze o la debolezza della povertà non fanno un vescovo superiore o inferiore ". 4. La questione del titolo di vescovo universale fu sollevata, per la prima volta, ai tempi di san Gregorio, a motivo dell'ambizione dell'arcivescovo di Costantinopoli chiamato Giovanni. Costui pretendeva farsi vescovo universale, cosa che nessuno aveva sino allora osato. San Gregorio, discutendo il problema, non dice affatto che quello gli abbia sottratto un titolo di sua competenza, ma, al contrario, dichiara che si tratta di un titolo profano anzi sacrilego, una premessa per l'avvento dell'anticristo: "Se colui che è detto universale dovesse cadere "egli dice "la Chiesa tutta andrebbe in rovina ". E altrove: "È cosa deplorevole lasciare che venga detto vescovo unico chi è nostro fratello e nostro compagno, con conseguente disprezzo degli altri. Che possiamo congetturare da questo suo orgoglio se non che il tempo dell'anticristo è vicino? Infatti egli segue l'esempio di colui che, disprezzando la compagnia degli angeli, volle salire più in alto per essere unico sovrano ". In un altro testo, scrivendo a Eulogio, vescovo di Alessandria, e ad Atanasio, vescovo di Antiochia: "Nessuno dei miei predecessori "dice "ha mai voluto ricorrere a questo termine profano: se infatti il patriarca vien detto universale, il titolo sarà sottratto a tutti gli altri. Quando un cristiano presume innalzarsi sino a questo punto egli sminuisce non di poco, l'orrore dei suoi fratelli ": "Accettare questo titolo esecrabile significa annientare la cristianità ": "Una cosa è mantenere l'unità della fede, un'altra abbattere l'arroganza degli orgogliosi. Affermo coraggiosamente che chiunque si definisce vescovo universale o accetta di essere tale si rivela precursore dell'anticristo in quanto si antepone a tutti, con orgoglio ". E ancora Atanasio: "Ho detto che il vescovo di Costantinopoli non può essere in pace con noi se non desiste dall'arroganza di quel titolo superstizioso ed orgoglioso inventato dal primo apostata; per tacere dell'ingiuria che reca a voi. Se uno è chiamato vescovo universale e cade, la Chiesa tutta precipita ". Questi sono i termini usati da san Gregorio. Riguardo alla sua affermazione che quell'onore sarebbe stato offerto a Leone dal concilio di Calcedonia Si tratta di una notizia priva di fondamento, di cui non si fa cenno nei documenti scritti. Leone deplorando in molte epistole il decreto emanato in quella sede a favore del vescovo di Costantinopoli non avrebbe tralasciato quell'argomento, il più valido fra tutti, se gli si fosse offerto quell'onore ed egli lo avesse rifiutato. Essendo anzi uomo ambizioso non avrebbe abbandonato così facilmente ciò che in qualche modo, potesse rappresentare per lui un motivo di lode. San Gregorio si è dunque ingannato nel credere che il Concilio avesse voluto magnificare in questo modo la Sede romana. In realtà e sciocco pensare che un concilio ecumenico abbia voluto farsi promotore di un titolo che risulta cattivo, profano, esecrabile, carico di orgoglio e sacrilegio, procedente anzi dal Diavolo o, come dice san Gregorio stesso, emanato dal precursore dell'anticristo . Tuttavia egli aggiunge che il suo predecessore lo ha rifiutato temendo che gli altri vescovi venissero privati del loro legittimo onore. Ed in un altro testo: "Nessuno ha voluto essere onorato di quel titolo né si è appropriato di questo termine assurdo per tema che lo si potesse accusare di voler spogliare i suoi fratelli del loro onore ponendo se stesso in posizione di sovranità ". 5. Veniamo ora al diritto di giurisdizione su tutta la Chiesa che il Papa rivendica con estrema facilità. Sappiamo quante polemiche abbia anticamente suscitato. La Sede romana infatti non ha mai mancato di rivendicare una superiorità sulle altre Chiese; non sarà fuori luogo dimostrare con che mezzi sia giunta, sin dai tempi antichi, a conseguire qualche preminenza. Non mi riferisco a quella sregolata tirannia che, da qualche tempo, il Papa ha usurpato per se, ne tratterò in altra sede. Bisogna però valutare ora con che mezzi e come già da lungo tempo si sia innalzato, rivendicando una forma di giurisdizione sulle altre Chiese. Nel tempo in cui le Chiese d'Oriente erano agitate e divise dalla questione ariana, sotto l'impero di Costanzo e Costante figlio di Costantino il grande, Atanasio, principale difensore della fede cattolica, fu scacciato dalla sua Chiesa. Questa disgrazia lo costrinse a rifugiarsi a Roma per poter resistere, con l'aiuto dell'autorità della Chiesa romana, alla furia dei suoi nemici, e confermare i credenti fedeli che si trovavano in una grave situazione. Giunto a Roma egli fu ricevuto con onore da Giulio, allora vescovo, e ottenne, grazie al suo intervento, che le Chiese d'Occidente assumessero le sue difese. I credenti orientali, trovandosi così nella necessità di ricevere soccorso dal di fuori e constatando essere la Chiesa romana la principale fonte di aiuto, le tributarono di buon grado quanto onore potevano. Essenzialmente però tutto si riduceva a tenere in grande considerazione il fatto di essere in comunione con lei e considerare grande ignominia l'esserne separati. Questa dignità venne in seguito accresciuta grandemente da gente perversa e di cattiva condotta. Venne infatti considerato soluzione normale, per coloro che risultavano meritevoli di condanna nelle loro Chiese il rifugiarsi a Roma come in porto franco. Un prete veniva condannato dal suo vescovo o un vescovo dal sinodo della sua provincia? Subito si appellava a Roma. E i vescovi romani si mostravano interessati ad accogliere questi ricorsi più di quanto fosse necessario; consideravano che il potersi inserire negli affari delle Chiese lontane conferisse loro una specie di preminenza. Fu così che quando Eutiche, pessimo eretico fu condannato da Flaviano, arcivescovo di Costantinopoli, se ne venne da Leone lamentandosi di esser stato trattato ingiustamente. E Leone non ebbe esitazioni ad impegnarsi nella difesa di una causa pessima e pericolosa, allo scopo di rivendicare la sua autorità, e mosse severi rimproveri a Flaviano perché aveva condannato un innocente prima di averlo sentito. E spinto dalla sua ambizione tanto si diede da fare che l'empietà di Eutiche si rafforzò mentre sarebbe stata soffocata senza la sua ingerenza. Casi analoghi si verificarono spesso in Africa. Non appena un briccone veniva condannato dal suo giudice si precipitava a Roma e con calunnie accusava il suo vescovo di aver agito male nei suoi riguardi. La Sede romana si dimostrò sempre pronta ad intervenire, e fu questa ingerenza dei vescovi romani che spinse i vescovi africani a vietare, pena la scomunica, che ci si appellasse oltre mare, 6. Comunque stessero le cose vediamo di quale autorità e di quale potere giurisdizionale godesse allora la Sede romana. Nel risolvere questo punto bisogna notare che la potestà ecclesiastica consiste in quattro elementi: consacrare vescovi, convocare concili, esercitare giurisdizione inferiore o superiore, fare ammonizioni e censure. Riguardo al primo punto tutti gli antichi concili stabiliscono che ogni vescovo sia ordinato dal suo metropolita e non prevedono l'intervento del vescovo di Roma all'infuori della sua provincia. A poco a poco è però invalsa l'abitudine che tutti i vescovi d'Italia si recassero a Roma per esservi consacrati ad eccezione dei metropoliti che rifiutarono di sottomettersi a questa servitù. Quando dovevano essere ordinati i metropoliti, il vescovo di Roma inviava uno dei suoi preti unicamente per assistere al rito e non per presiedere. Un esempio di questo fatto si trova in una epistola di san Gregorio concernente la consacrazione di Costanzo arcivescovo di Milano dopo la morte di Lorenzo; penso, però, si trattasse di una prassi recente. È: verosimile che si sia cominciato con l'inviare, in segno di comunione reciproca, ambasciatori per assistere alla consacrazione manifestando così la propria amicizia e la propria stima. Si è in seguito mutato in norma legale ciò che prima si faceva liberamente. È comunque notorio che il vescovo di Roma aveva anticamente potestà di consacrare i vescovi solamente nella sua provincia, cioè nelle Chiese dipendenti dalla sua sede, come è precis.to dal canone di Nicea. Alla consacrazione vescovile si associava, per consuetudine, l'invio di epistole sinodali; in questo il vescovo di Roma non era per nulla superiore agli altri. Si tratta di questo: tutti i patriarchi avevano infatti l'abitudine, subito dopo la loro consacrazione, di inviarsi reciprocamente una epistola in cui dichiaravano la loro fede e facevano professione di aderire alla dottrina dei santi concili. Facendo questa professione di fede si informavano reciprocamente della propria elezione. Qualora il vescovo di Roma avesse ricevuto dagli altri questa confessione e da parte sua non l'avesse data avrebbe realmente goduto di una superiorità; essendo però tenuto, come gli altri, a fare questo, ed essendo sottomesso ad una legge comune è chiaro che, nello scrivere la lettera vescovile, egli dimostrava la sua comunione ma non la sua signoria. Esempi di questo atteggiamento si trovano nelle epistole di san Gregorio, per esempio a Ciriaco, ad Anastasio, e ai patriarchi tutti. 7. Il secondo elemento è rappresentato dalle ammonizioni e le censure di cui i vescovi romani hanno fatto uso nei riguardi degli altri accettando però che altrettanto venisse fatto nei loro riguardi. Ireneo, vescovo di Lione, rimproverò aspramente Vittore, vescovo di Roma, per aver sollevato una grave e dannosa polemica nella Chiesa per futili motivi; quello accettò l'ammonizione senza replicare. Per lungo tempo fra i santi vescovi è esistita questa libertà nell'ammonire fraternamente i vescovi romani e rimproverarli quando sbagliavano.
Analogamente costoro, quando se ne presentava l'occasione, ammonivano per parte loro gli altri vescovi. San Cipriano nell'invitare Stefano, vescovo romano, ad ammonire i vescovi delle Gallie, non trae argomento dal fatto che egli abbia podestà su di loro, ma dal diritto dei vescovi dei loro rapporti reciproci. Ora mi domando se Stefano avesse avuto giurisdizione sulle Gallie, Cipriano non avrebbe egli forse detto: puniscili, perché sono sotto la tua giurisdizione? Si esprime ben diversamente: "La comunione fraterna "dice "che ci unisce insieme, richiede che ci ammoniamo reciprocamente ". E sappiamo che egli fa uso in un'altra occasione di espressioni violente rimproverandolo di aver voluto far uso di una libertà eccessiva. Non risulta dunque che, in quella circostanza, il vescovo di Roma abbia avuto giurisdizione su quelli che non erano della sua provincia. 8. Riguardo alla convocazione di concili, spettava ad ogni metropolita far tener sinodi nella sua provincia una o due volte all'anno a tempo opportuno; in questo il vescovo di Roma non c'entrava. Il concilio ecumenico era convocato dall'imperatore soltanto e i vescovi vi convenivano solo in virtà della autorità di lui. Qualora un vescovo avesse preso una iniziativa del genere, non solo non avrebbe trovato obbedienza negli altri che erano fuori del confine della sua provincia, ma avrebbe provocato immediatamente un grave scandalo. L'Imperatore convocava dunque tutti i vescovi. Lo storico Socrate narra bensì che Giulio. Vescovo di Roma, si lamentava che i vescovi orientali non lo avessero convocato al concilio di Antiochia, affermando che era proibito dai canoni prendere decisioni senza averne informato il vescovo di Roma. Chi non capisce però che questo si riferisce ai decreti che riguardano la Chiesa universale? Non deve dunque stupire che si sia fatto, in considerazione dell'antichità e della nobiltà della città e altresì della dignità di quella Chiesa l'onore di non emanare alcuna legge universale, concernente la dottrina cristiana, in assenza del vescovo di Roma, purché non avesse rifiutato di partecipare. Come è possibile partendo da questo fatto fondare un'autorità sulla Chiesa tutta? Non neghiamo infatti che il vescovo di Roma sia stato uno dei principali; quello che non possiamo invece ammettere è l'affermazione dei romanisti secondo cui egli ebbe autorità su tutti. 9. Ci rimane ora da esaminare il quarto elemento della potestà ecclesiastica: il diritto di esaminare le cause in appello. L'autorità a cui ci si appella è notoriamente un'autorità superiore. Molti, anticamente si sono appellati al vescovo di Roma; lui stesso, per parte sua, ha fatto ogni sforzo per avocare a se l esame delle cause; non è però mai stato preso in considerazione quando ha voluto oltrepassare i suoi limiti. Non mi riferisco né all'oriente né alla Grecia; è noto però che i vescovi della Gallia gli hanno opposto una resistenza molto ferma quando ha lasciato intendere, in qualche modo, di voler usurpare la loro autorità. In Africa questo problema è stato lungamente dibattuto Avendo il concilio di Miledo, a cui partecipava sant'Agostino; comminato la scomunica per tutti coloro che si fossero appellati oltremare, il vescovo di Roma fece ogni sforzo per far modificare questo decreto, inviò degli ambasciatori per rivendicare quel diritto come essendogli stato conferito dal concilio di Nicea. Costoro produssero dei documenti, tratti dagli archivi della loro Chiesa, attribuendone la paternità al concilio di Nicea. Dal canto loro gli Africani opposero resistenza affermando che non si doveva prestar fede al vescovo di Roma in una causa in cui risultava lui stesso direttamente implicato. Venne così presa la decisione di inviare a Costantinopoli e nelle altre città della Grecia delle delegazioni per richiedere copie meno sospette degli atti conciliari di Nicea. Quivi non si trovò nulla di quanto i delegati di Roma avevano sostenuto. Venne perciò mantenuto in pieno vigore il decreto che negava la giurisdizione suprema del vescovo di Roma, e venne così smascherata la sua spudorata arroganza, e altresì la sua falsità in quanto egli aveva voluto far credere che fossero atti del concilio di Nicea quelli che in realtà erano di Sardica. Perversione ancora maggiore e più sfrontata quella dei falsari che hanno aggiunto agli atti del concilio una epistola, inventata di sana pianta, dove il successore di Aurelio, deplorando l'arroganza del suo predecessore che si sarebbe sottratto con eccessiva audacia all'obbedienza della Sede apostolica, umilmente si sottomette con i suoi e chiede di essere perdonato . Sono questi i documenti antichi su cui poggia la dignità della Sede romana: spacciare sotto veste di antichità sciocchezze tali che un cieco è in grado di scoprire. Aurelio (dice questo bel documento ) , gonfio di diabolica audacia ha osato ribellarsi a Gesù Cristo e a san Pietro ed è pertanto degno di scomunica. Ma che dovremmo dire di sant'Agostino? E dei molti Padri che hanno assistito al concilio di Miledo? Che necessità abbiamo di refutare con molte parole un detto così stupido che fa arrossire gli stessi romanisti quando non siano del tutto privi di pudore? Graziano, nel redigere le decretali (non so se mosso da malizia o da ignoranza ) , dopo aver menzionato questo canone, secondo cui nessuno deve appellarsi oltre mare pena la scomunica, aggiunge questa eccezione: fuorché alla Sede romana. Che cosa dobbiamo rispondere a bestie così prive di buon senso da trasformare in eccezione proprio il punto per cui la legge fu espressamente emanata, come ognuno è in grado di vedere? Il Concilio infatti nel proibire che ci si appellasse oltre mare, intende dire proprio questo: che non ci si appelli a Roma. 10. Per porre fine alla questione, e volendo illustrare qual sia stata anticamente la giurisdizione del vescovo romano, ci basterà far menzione di un fatto narrato da sant'Agostino. Donato, che si chiamava di Casanera, scismatico, aveva accusato Ceciliano, arcivescovo di Cartagine e tanto aveva fatto che quest'ultimo era stato condannato, senza essere interrogato; sapendo infatti che si trattava di una congiura di vescovi contro di lui egli si rifiutava di comparire in giudizio. La questione giunse all'imperatore Costantino. Questi, ritenendo che la causa dovesse essere giudicata da un tribunale ecclesiastico, ne affidò l'incarico a Melciade, allora vescovo di Roma, e ad alcuni altri vescovi d'Italia, di Gallia, e di Spagna da lui nominati. Se una causa di questo genere rientrava nella giurisdizione ordinaria della Sede romana, come si spiega il fatto che Melciade accetta che l'Imperatore gli nomini degli assistenti? Anzi, perché quel processo di appello gli viene affidato per decisione imperiale e non lo avoca a se di sua autorità?
Ascoltiamo però ciò che accadde in seguito. Ceciliano venne assolto. La calunnia di Donato di Casanera fu smascherata ma egli si appellò. L'imperatore Costantino lo rinviò in appello dinanzi all'arcivescovo di Arles. Eccoti dunque l'arcivescovo di Arles posto in condizione, qualora lo giudichi opportuno, di cassare la sentenza del vescovo romano, o per lo meno di giudicare in seconda istanza sopra di lui. Se la Sede romana avesse avuto la giurisdizione assoluta, senza possibilità di appello, avrebbe Melciade tollerato l'ingiuria di essere posposto all'arcivescovo di Arles? Quale imperatore ha preso questa decisione? Costantino, che ha messo, secondo quanto essi affermano, non solo tutta la sua attenzione ma tutta la sua attività per esaltare la dignità della loro Sede romana. Risulta dunque evidente che il vescovo di Roma era ancora lontano da questa autorità suprema che, secondo quanto egli afferma, gli è stata affidata da Gesù Cristo su tutte le Chiese e riguardo alla quale, egli pretende falsamente, di aver avuto sempre il consenso di tutti. 2. Sappiamo quanto siano numerosi i rescritti e le epistole decretali dei pontefici in cui essi vantavano la loro autorità illimitata; ogni persona dotata però di un minimo di intelligenza e di cultura capisce, di fronte a queste epistole solitamente così sciocche e prive di serietà, da quale ambiente provengano. Quale persona sana di mente e di buon senso può infatti credere che Anacleto sia l'autore di quella ridicola esegesi, citata da Graziano sotto il nome di lui, secondo cui Cefa significa capo? Innumerevoli sono le sciocchezze raccolte da Graziano senza senso critico e di cui i romanisti fanno uso oggi, nella polemica contro di noi, per difendere la loro sede. E non si vergognano di introdurre in una questione così evidente quelle oscurità di cui si sono anticamente serviti per mantenere il popolo nelle tenebre. Non voglio però affaticarmi a smentire queste sciocchezze che si smentiscono da sole tanto sono ridicole. Ammetto certo che si possiedano altre epistole realmente scritte da papi antichi, in cui essi si sforzano di esaltare la grandezza della loro sede, attribuendole titoli eccellenti, come nel caso di Leone. Benché infatti si tratti di un uomo sapiente ed eloquente è stato bramoso di gloria e di smisurata potenza. Vorrei sapere però se le Chiese hanno realmente prestato fede alla sua testimonianza, quando egli si esprimeva in questi termini. Risulta in realtà che molti, urtati dalla sua ambizione, hanno resistito alla sua brama di potenza. In una epistola egli ordina il vescovo di Tessalonica quale vicario per la Grecia ed i paesi limitrofi; quello di Arles, o di non so quale altra città, per la Gallia, e Ormida, vescovo per la Spagna; in tutti i casi però egli aggiunge questa eccezione, che queste cariche sono da lui affidate a condizione di non recare in alcun modo offesa agli antichi privilegi degli arcivescovi. E dichiara lui stesso che uno dei privilegi essenziali era di esaminare in prima istanza le controversie e le difficoltà che si fossero verificate. Questo vicariato dunque si presentava in forma tale da non impedire che il vescovo esercitasse la sua giurisdizione ordinaria, un arcivescovo fosse escluso dal governo della sua provincia, o l'attività dei sinodi fosse in qualche modo pregiudicata. Si caratterizza dunque come l'astenersi da ogni forma di giurisdizione e semplicemente offrire una mediazione per appianare i conflitti, secondo la natura stessa della comunione della Chiesa che richiede che i membri si preoccupino gli uni degli altri. 12. Già al tempo di san Gregorio questa situazione risulta mutata. Essendo l'Impero fortemente in crisi in quanto la Gallia e la Spagna erano agitate da guerre, l'Illiria era devastata, l'Italia parecchio danneggiata, l'Africa quasi interamente perduta e saccheggiata; i vescovi cristiani, desiderando che almeno l'unità della fede permanesse salva in una situazione politicamente così confusa, si ricollegavano al vescovo di Roma, e ne risultò che non solo la dignità della sede ne fu accresciuta, ma anche la autorità. Non ci interessa sapere con quali procedimenti si sia giunti a questa situazione, ma il solo fatto che in quel tempo l'autorità risultò molto maggiore di quanto fosse stata prima. Siamo tuttavia lontani da un tipo di superiorità tale che si possa parlare di un dominio di uno sugli altri. La Sede romana risultava soltanto oggetto di tale riverenza da ricevere l'autorità di reprimere e correggere i ribelli che non si fossero lasciati ammonire da altri colleghi. San Gregorio infatti dichiara sempre espressamente di voler conservare agli altri i loro diritti non meno di quanto voglia tutelare i suoi: "Non intendo "dice "far torto a nessuno per ambizione; ma desidero onorare i miei fratelli ovunque ed in ogni modo ". Non si trova in nessuno dei suoi scritti affermazione più forte riguardo al primato che laddove egli dice: "Non conosco vescovo che non sia soggetto alla Sede apostolica, quando si trovi in fallo ". Egli aggiunge però subito: "Quando non si riscontra colpa, tutti sono eguali per diritto di umiltà " Con questo egli intede attribuirsi l'autorità di correggere coloro che hanno errato, facendosi però eguale a quelli che compiono il loro dovere. Bisogna anche notare che si attribuisce da se tale autorità; e questa gli veniva riconosciuta da quelli a cui sembrava bene. Se qualcuno giudicava dovergliela rifiutare, era nel suo pieno diritto; risulta infatti che molti gli hanno opposto resistenza. Anzi si deve notare che egli parla, in questo testo, del primate di bis.nzio, il quale condannato dal suo concilio provinciale non aveva tenuto in conto la sentenza di tutti i vescovi del paese, che avevano indirizzato all'imperatore le loro rimostranze. L'Imperatore aveva affidato la causa a san Gregorio perché la esaminasse. Egli non prendeva dunque una iniziativa che poteva apparire violazione della giurisdizione ordinata, e quanto faceva per recare aiuto agli altri, era fatto solo su richiesta dell'imperatore. 13. Ecco dunque in che cosa consisteva l'autorità del vescovo romano di quei tempi: resistere ai ribelli e agli ostinati ogni qual volta si richiedeva un intervento di tipo straordinario, allo scopo di aiutare gli altri vescovi e non di por loro ostacoli. Non assume dunque, nei confronti degli altri, nessuna iniziativa che non riconosca legittima nei suoi confronti, accettando di essere ammonito da tutti e corretto da tutti. Analogamente egli ordina bensì in un'altra epistola al vescovo di Aquilea di presentarsi a Roma per render ragione della sua opinione riguardo ad un argomento allora dibattuto fra lui e i suoi vicini; ma prende questa decisione unicamente in seguito ad un ordine imperiale, come egli dice, e non sulla base della sua autorità. Dichiara anzi che non sarà solo a procedere al giudizio, ma promette di convocare il concilio nella sua provincia per questo. Eppure, quantunque ci si trovasse allora in una situazione moderata in cui l'autorità della Sede romana era mantenuta nei suoi limiti, che non era possibile oltrepassare, e il vescovo romano non possedesse sogli altri vescovi una autorità né questi gli fossero sottoposti, è tuttavia noto quanto tale situazione dispiacesse a san Gregorio. Egli si lamenta infatti qua e là che diventato vescovo è in realtà ritornato nel mondo ed è impegnato in questioni terrene più di quanto fosse vivendo fra laici sì da essere quasi sommerso da problemi di ordine secolare. In un altro testo: "Io sono così carico "dice "di impegni che la mia anima non può alzarsi in alto. Dispute e petizioni mi assalgono come le ombre. Dopo aver vissuto pacificamente sin qui sono ora in balia di varie tempeste in un'esistenza piena di affanni; talché io posso ben dire: "sono entrato nelle profondità del mare e la tempesta mi copre ". Immaginate ora quale sarebbe la sua reazione vivendo al giorno d'oggi. Quantunque non sia investito dell'ufficio di pastore, tuttavia lo esercita. Non si ingerisce nei problemi del governo civile e terreno ma si dichiara suddito dell'imperatore come tutti gli altri. Non si occupa degli affari delle altre Chiese se non per stretta necessità; eppure ha la sensazione di essere prigioniero in un labirinto in quanto non può consacrarsi esclusivamente alla sua missione vescovile. 14. Come abbiamo detto, l'arcivescovo di Costantinopoli era allora in conflitto con quello di Roma per il primato. Da quando la Sede imperiale era stata trasferita a Costantinopoli, sembrava logico che questa Chiesa avesse il secondo posto. E in realtà era stata questa la ragione principale per cui, sin dall'inizio, si era conferito a Roma il primato in quanto sede dell'impero. Graziano cita uno scritto di Lucio papa dove è affermato che si sono delimitati gli arcivescovati e le sedi dei primati seguendo l'ordine del governo temporale; si sono cioè definite le sedi in modo tale che il grado di preminenza, nel campo spirituale, assegnato ad una città, si stabilisse in base alla sua posizione di superiorità o di inferiorità nell'ordine temporale. Esiste altresì un altro rescritto noto sotto il nome di Clemente in cui vien detto che i patriarcati sono stati istituiti nelle città in cui esistevano prima del Cristianesimo le principali sedi sacerdotali. Questa tesi è notoriamente errata, in qualche modo però si avvicina alla realtà. Infatti noto che in un primo tempo, come è stato detto, per non provocare cambiamenti troppo bruschi, le sedi dei vescovi e dei privati sono state fissate secondo un ordine gerarchico già esistente nell'ordine delle realtà politiche; primati e metropoliti furono stabiliti nelle sedi dei governatori e dei magistrati. Fu pertanto stabilito nel primo concilio di Torino che le città superiori alle altre nell'ordine temporale fossero anche le prime ad avere le sedi episcopali; qualora la superiorità politica venisse trasferita da una città all'altra fosse pure trasferita la sede arcivescovile. Innocenzo, papa di Roma, constatando che l'importanza della sua città stava declinando da quando la Sede imperiale era stata trasferita a Costantinopoli, e temendo che in tal modo la sede venisse a perdere il suo prestigio, emanò una legge opposta con cui decreto non essere necessario mutare la gerarchia delle preminenze ecclesiastiche quando venisse una mutazione nell'ordine civile. Ragionevolmente però dovremmo anteporre l'autorità di un concilio a quella di una singola persona. C'è anzi di più. Innocenzo è sospetto in quanto difende la propria causa. Comunque sia il suo decreto è chiaro indice del fatto che anticamente vigeva questa prassi: gli arcivescovati erano stabiliti in base alle preminenze civili di questa o quella città.
15. In base a questa antica tradizione fu decretato al primo concilio di Costantinopoli che si dovesse considerare al secondo posto, in ordine e grado, il vescovo di quella città in quanto si trattava della nuova Roma. Parecchio tempo dopo avendo il concilio di Calcedonia emanato un decreto simile, Leone vescovo di Roma, vi si oppose fermamente e risolutamente, avendo non solo l'ardire di disprezzare le decisioni e le conclusioni di seicento vescovi ma accusandoli apertamente, come appare dalle sue epistole, di aver sottratto alle altre Chiese l'onore che era stato tributato a Costantinopoli. Che cosa se non la pura ambizione poteva incitarlo a turbare l'universo, mi domando, per motivi così leggeri e frivoli? Egli afferma che quanto deciso una volta al concilio di Nicea deve risultare inviolabile; quasi la cristianità corresse il pericolo di scomparire perché era stata preferita una Chiesa ad un'altra, o i patriarchi si fossero radunati a Nicea non avendo altro fine o altra intenzione che il mantenimento dell'ordine. È chiaro però che il mantenimento dell'ordine autorizza, anzi richiede, secondo le situazioni, di procedere a mutamenti. Vano pretesto è dunque quello di Leone quando afferma che non si deve affatto trasferire alla sede di Costantinopoli l'onore che il concilio di Nicea aveva anteriormente attribuito ad Alessandria. È fin troppo evidente infatti che si trattava di un decreto suscettibile di essere modificato secondo le circostanze. Come mai nessuno dei vescovi orientali, più direttamente interessati, trovò nulla da ridire? Protero, eletto vescovo di Alessandria al posto di Dioscoro era pur presente, e gli altri patriarchi il cui onore risultava così sminuito. A quelli spettava fare obiezioni, non a Leone, la cui posizione non veniva minimamente sminuita. Ma poiché tutti costoro tacevano, anzi approvavano quella decisione, ed era il solo vescovo di Roma a dissentire, è facile dedurre quali fossero i motivi che lo spingevano: egli prevedeva ciò che poco dopo sarebbe accaduto, che cioè declinando la gloria della vecchia Roma, Costantinopoli, non accontentandosi del secondo posto, avrebbe preteso di assumere il primo posto. Non poté però impedire, malgrado tutto il suo strepito che il decreto del Concilio entrasse in vigore. I suoi successori, pertanto, vedendo che non ottenevano nulla, abbandonarono questo atteggiamento di ostinata preclusione; essi ordinarono infatti che Costantinopoli dovesse essere considerato il secondo patriarcato. 16. Poco tempo dopo, però, al tempo di san Gregorio, il vescovo di Costantinopoli, Giovanni si spinse al punto di pretendere il titolo di patriarca ecumenico. Gregorio non volendo rinunciare all'onore della sua sede, si oppose, a ragione, a questa follia. Certo si trattava di orgoglio intollerabile e di sregolata follia da parte del vescovo di Costantinopoli: il voler estendere il suo vescovato su tutto l'Impero. Gregorio però non pretende che l'onore negato all'altro appartenga a lui, ma è il titolo stesso che egli aborrisce, da chiunque venga usurpato, in quanto perverso e contrario all'onore di Dio; si indigna, anzi, in una sua epistola a Eulogio, vescovo di Alessandria, che glielo aveva attribuito: "Ecco ", dice "nel proemio dell'epistola che mi avete indirizzata, avete fatto uso di quel termine orgoglioso chiamandomi "papa universale "; cosa che prego la Santità vostra di non ripetere; poiché tutto ciò che viene attribuito ad un altro, oltre il ragionevole, viene sottratto a voi. Per parte mia non reputo sia onore per me ciò che sottrae onore ai miei fratelli. In questo consiste il mio onore: che la condizione della Chiesa universale e dei miei fratelli sia mantenuta nella sua integrità. Se la Santità vostra mi chiama "papa universale "ammette di non essere, in parte, ciò che io dovrei essere interamente ". La causa difesa da san Gregorio era buona e giusta; ma essendo Giovanni appoggiato dall'imperatore Maurizio non lo si poté distogliere dal suo intento. Similmente Ciriaco, suo successore, si mantenne fermo in questa stessa ambizione, al punto che non si poté mai ottenere da lui che ne desistesse. 17. Foca, infine, eletto imperatore dopo la morte di Maurizio (non so per qual ragione favorevole ai Romani, forse perché quivi era stato incoronato senza difficoltà ) , concesse a Bonifacio 3quanto san Gregorio non aveva mai chiesto: che Roma fosse alla testa di tutte le altre Chiese. In questo modo venne risolta la questione. Questo beneficio imperiale però non avrebbe recato grande giovamento alla Sede romana se non fossero sopraggiunti altri fattori. Poco tempo dopo infatti tutta l'Asia e la Grecia furono sottratte alla sua comunione. La Gallia aveva di lui tanta riverenza da essere sottomessa nel modo che a lui piaceva; e non fu mai schiava del tutto se non dopo l'occupazione del regno da parte di Pipino. Zaccaria, papa in quei tempi, avendo aiutato a scacciare il suo re ed il suo legittimo signore per impadronirsi del potere regio, ottenne, a mo' di ricompensa, che tutte le Chiese della Gallia fossero sottomesse alla giurisdizione della Sede romana. Come dei briganti che hanno l'abitudine di spartirsi il bottino, questa brava gente, dopo aver condotto a termine questo furto, fece la sua divisione in modo tale che a Pipino toccò la signoria temporale ed a Zaccaria quella spirituale. Dato però che egli non ne godeva in modo del tutto libero, perché le novità sono difficili da introdurre, fu confermato nella sua posizione di preminenza da Carlo Magno per analoghi motivi. Carlo Magno infatti era venuto ad esprimere la sua riconoscenza al vescovo di Roma per essere giunto al potere imperiale in parte Cl. Suo aiuto. Quantunque sia lecito supporre che già in precedenza le Chiese avessero perso ovunque il loro aspetto originario, è chiaro che in quel momento le forme primitive risultarono annullate del tutto in Francia e in Germania. Esistono tuttora negli archivi del Parlamento di Parigi i registri, redatti in forma di cronache, in cui, trattandosi di questioni ecclesiastiche' si fa menzione dei contratti stipulati da Pipino e Carlo Magno Cl. Vescovo di Roma da questo risulta dunque chiaramente che, in quel periodo, vennero mutate le antiche condizioni della Chiesa. 18. Da quel tempo, peggiorando la situazione ogni giorno, la tirannia della Sede romana si accresce Cl. Passar del tempo. E di questo fu causa in parte la stupidità dei vescovi, in parte il loro disinteresse. Mentre infatti il vescovo di Roma si innalzava di giorno in giorno usurpando ogni diritto, i vescovi non dimostrarono zelo necessario per reprimere la sua cupidigia; quand'anche ne avessero avuto l'intenzione, essendo privi di capacità e di intelligenza, non sarebbero stati all'altezza di quel compito.
Noi vediamo perciò che disordine regna a Roma ai tempi di san Bernardo, anzi, che profanazione della cristianità. Egli lamenta il fatto che da ogni parte del mondo, ambiziosi, avari, simoniaci, incestuosi, adulteri, gente di Ma.affare si recasse a Roma per ottenere, con l'appoggio dell'autorità apostolica, onori ecclesiastici o per mantenerli. Affermando che quivi si trova il regno della frode, dell'inganno, della violenza; dichiarando altresì che le sentenze, quivi pronunciate, risultavano esecrabili, indegne non solo della Chiesa ma di una qualsiasi giustizia laica. Si dimostra indignato del fatto che la Chiesa sia piena di gente ambiziosa e nessuno abbia paura di commettere ogni sorta di delitti, e che la situazione sia paragonabile ad una caverna in cui i briganti si spartiscono il bottino rubato ai viaggiatori: "Sono pochi quelli che hanno riguardo a ciò che dichiara la bocca del legislatore "dice "ma tutti guardano le sue mani, a ragione, sono esse infatti che esprimono tutta l'attività del Papa ". Poco dopo, rivolgendosi al Papa dice: "Chi sono i tuoi adulatori che ti dicono: "orsù, coraggio "? Te li procacci con le spoglie delle Chiese; la vita dei poveri è buttata in mano ai ricchi, il denaro riluce nel fango e da ogni parte si accorre ma non lo raccoglie il più povero, bensì il più forte o colui che corre più rapidamente. Questa prassi, sarebbe più esatto dire questa corruzione mortale, non ha preso inizio al tempo tuo; volesse Dio che vi prendesse fine. Sei però vestito e agghindato con ricercatezza. Osassi dirlo, affermerei che la tua sede è più un parco di diavoli che di pecore. Agiva forse in questo modo san Pietro? San Paolo si faceva in questo modo beffe di Dio? La tua corte è solita raccogliere i buoni più che renderli tali. I malvagi non vi fanno carriera, ma i buoni diventano però malvagi ". Egli narra in seguito gli abusi che si permettevano nelle cause di appello e nessun credente può leggere quelle pagine senza inorridire. Accennando infine alla cupidigia della Sede romana nell'usurpare una giurisdizione che non gli spetta, conclude in questi termini: "Queste sono le lamentele e i mormorii di tutta la Chiesa: essere fatte a pezzi e smembrate, poche, nessuna, che non soffra questo flagello o lo tema. "Quale flagello? "Domandi. Gli abati sono sottratti alla giurisdizione dei loro vescovi, i vescovi a quella dei loro arcivescovi, come è possibile accettare questo? Così facendo dimostrate bensì di avere pienezza di potere ma non di giustizia. Agite in questo modo perché potete farlo, si tratta però di sapere se lo dovete fare. Siete collocati al posto vostro per serbare ad ognuno il suo posto e il suo onore non per essere invidiosi ". Dice molte cose in più, ma ho voluto soltanto citare, per inciso, queste parole affinché i lettori si rendano conto di quanto fosse già decaduta allora la Chiesa, e d'altra parte quanto fosse difficile da tollerare questa calamità, e risultassero amare, per tutti i buoni credenti. 19. Quand'anche concedessimo al Papa quella preminenza e quell'autorità che la Sede romana ebbe ai tempi di Leone e di Gregorio, che vantaggio ne trarrebbe il papato nella situazione attuale? Non affronto ancora il problema della potestà secolare e dell'autorità terrena di cui parleremo a suo tempo, ma tratto unicamente del regime spirituale che hanno attualmente e di cui si gloriano. In che la situazione risulta simile a quella dei tempi antichi di cui abbiamo parlato? I Romanisti infatti quando parlano del Papa affermano che egli è il capo supremo della Chiesa in terra e vescovo universale del mondo . Ed i papi stessi, parlando dell'autorità loro, pretendono avere la potestà di comandare e che tutti siano loro sottomessi in condizione di obbedienza, che le loro decisioni siano osservate, quasi la voce di san Pietro, dal cielo, le confermasse, che i concili provinciali cui il Papa non è presente risultino privi di valore, che spetti loro l'autorità di ordinare preti e diaconi su tutte le altre Chiese, che possano richiamare a se, sottraendoli dalle loro Chiese, quelli che risultino ordinati altrove. Il numero di queste millanterie è infinito nel decreto di Graziano; non le citerò per non importunare oltre il lettore. La sostanza si riduce a questo: il vescovo di Roma ha potestà sovrana su tutte le cause ecclesiastiche, gli spettano il diritto di giudizio e la determinazione in materia dottrinale; la potestà di emanare leggi e statuti, di esercitare la disciplina, di imporre l'autorità giurisdizionale. Troppo lungo e superfluo sarebbe fare l'elenco dei privilegi che si attribuiscono in materia processuale, insopportabile, soprattutto, la presunzione di non tollerare in terra alcuna istanza che ponga freno, o limite, alla loro sregolata cupidigia nel caso abusino del loro potere che si trova così a non aver norma né limite alcuno. Non è lecito a nessuno, dicono porre in discussione i giudizi della nostra Sede, in virtù del primato da noi posseduto e anche: colui che è giudice sovrano non può essere giudicato né dall'imperatore né dal re, né dal clero, né dal popolo. Oltrepassa già ogni limite il fatto che ogni uomo possa pretendere di esser giudice di tutti e non accetta di esser soggetto a nessuno. Che diremmo però vedendolo esercitare la sua tirannia sul popolo di Dio? Ovvero quando distrugge e danneggia il regno di Cristo, turba e sovverte la Chiesa tutta, muta l'ufficio di pastore in ribalderia? Non c'è soluzione, quand'anche fosse il peggiore degli uomini, non deve essere corretto da nessuno; ecco infatti gli editti del Papa: "Dio ha voluto che tutte le altre cause fossero risolte sulla base di giudizi umani, ma ha riservato al suo giudizio esclusivo il prelato della nostra Sede ". E ancora: "le azioni dei nostri sudditi sono giudicate da noi, ma le nostre sono giudicate da Dio soltanto ". 20. Per rivestire queste pretese di maggiore autorità le hanno falsamente attribuite ad alcuni papi antichi, come se la situazione fosse sempre stata quella odierna; mentre è evidente che tutte le prerogative papali, che oltrepassano le attribuzioni conferite dagli antichi concili, di cui abbiamo parlato, sono frutto di invenzioni recenti e perciò posteriori; anzi, nella loro impudenza, si sono spinti al punto da pubblicare un rescritto sotto il nome di Anastasio, patriarca di Costantinopoli, in cui egli riconosce che è stato stabilito dai canoni antichi non potersi prendere decisione alcuna, anche nei paesi più lontani, senza una discussione preliminare con la Sede romana . Trattasi notoriamente di un falso; come potrebbero infatti farci credere che si sia espresso in questi termini un oppositore della Chiesa romana, un patriarca in polemica con il Papa riguardo alla sua dignità? Ma questi anticristi dovevano essere trascinati da tale furia e cecità perché ogni uomo di mente sana fosse in grado di constatare la loro perversione; quelli che vogliono vedere, s'intende. Le decretali compilate da Gregorio 9, le clementine, le stravaganze di Martino, manifestano in modo ancor più esplicito, quasi gridano, una disumana arroganza e una concezione tirannica assolutamente barbara. Son questi gli oracoli in base ai quali i Romanisti pretendono si valuti il loro papato, da cui sono derivati i loro articoli di fede che considerano provenienti dal cielo: il Papa non poter errare, inoltre: essere lui superiore a tutti i concili, e ancora: essere egli vescovo universale e capo supremo della Chiesa intera. Tralascio altre sciocchezze ancor più assurde che i canonisti raccontano nelle loro scuole, anche se i teologi sorbonisti non solo le accolgono ma le tengono in grande considerazione per adulare il loro idolo. 21. Non starò ad accanirmi contro costoro. Chi volesse però abbassare loro la cresta, potrebbe citare la sentenza pronunciata da san Cipriano al concilio di Cartagine da lui presieduto: "Nessuno fra noi si dice vescovo dei vescovi, nessuno costringe i suoi compagni ad obbedirgli con timore, frutto di tirannia ". Si potrebbe altresì citare il decreto del concilio di Cartagine secondo cui nessuno debba chiamarsi principe dei vescovi o primo vescovo. Parecchie sono le testimonianze storiche che si potrebbero menzionare, i decreti conciliari, le sentenze dei Padri antichi il cui vescovo di Roma è visto in una luce che lascia chiaramente intendere che egli non disponeva di tutto questo potere. Tralascio queste cose onde non sembri che da parte mia viene dato a questo tema importanza eccessiva; chiedo solo a quelli che vogliono mantenere la Sede romana se non si vergognano di giustificare quel titolo di vescovo universale così spesso anatemizzato da san Gregorio. Se la testimonianza di san Gregorio ha qualche valore, facendo il loro papa vescovo universale lo dichiarano esplicitamente quale Anticristo. Il termine "capo "non era più in uso ai tempi di san Gregorio, egli infatti si esprime così in un testo: "Pietro era membro principale del corpo di Cristo, Giacomo, Giovanni, Andrea erano capi dei popoli singoli, tuttavia sono stati tutti membri della Chiesa sotto un solo capo; gli stessi santi prima della Legge, quelli sotto la Legge, i santi nella grazia, tutti sono costituiti membra per condurre al compimento il corpo di Cristo; e nessuno mai vorrebbe essere detto universale ". La pretesa papale di possedere l'autorità di comandare non si concilia facilmente con queste altre dichiarazioni di san Gregorio. Avendogli Eulogio vescovo di Alessandria scritto usando l'espressione: "secondo quanto avete ordinato ", Gregorio gli risponde in questi termini: "Eliminate "vi prego questo termine: "ordine ". So chi son io e so chi siete voi; nella gerarchia vi considero fratello, nella santità padre. Non vi sto dunque ordinando alcunché, vi ho soltanto informato di ciò che mi pareva utile. Il fatto che il Papa estende in questo modo la sua giurisdizione senza limiti non reca solo ingiuria e offesa agli altri vescovi, ma alla Chiesa tutta; in tal modo la smembra pezzo a pezzo, per edificare il suo regno sull'altrui rovina. Il pretendersi esente da ogni giudizio, il voler regnare in modo così tirannico che il piacere suo diventa legge è così contrario al governo della Chiesa da non potersi in alcun modo giustificare. Si tratta infatti di un atteggiamento che ripugna non solo alla fede cristiana, ma alla coscienza umana. 22. Per non esaminare tuttavia nei dettagli tutti questi punti, chiedo ancora una volta a quegli avvocati della Sede romana se non risentono vergogna nel difendere le attuali condizioni del papato che risulta essere cento volte più corrotto di quanto fosse al tempo di san Gregorio e di san Bernardo. Eppure queste sante persone si erano già grandemente indignate nel vedere ciò che già allora vedevano. San Gregorio si lamenta qua e là del fatto che è distolto dal suo ufficio da mansioni indegne di esso e che è tornato al mondo sotto veste di vescovo, risultando impegnato in questioni terrene più di quanto fosse ai tempi in cui era laico; di essere soffocato da problemi secolari al punto che il suo spirito non può innalzarsi verso l'alto; egli si sente agitato dalle onde come in una tempesta e può affermare di essere sprofondato negli abissi del mare. Certo è che tutti questi impegni terreni non gli hanno impedito di predicare nella Chiesa al popolo, di ammonire in privato coloro che ne avevano bisogno, di mettere ordine nella sua Chiesa, di dare consigli ai vescovi vicini esortandoli a compiere il loro dovere; gli restava ancora tempo a sufficienza per scrivere libri, come ha fatto. Tuttavia egli si lamenta della sua disgrazia e dice di essere precipitato in fondo al mare. Se in quei tempi il governo fu un male, che sarà il papato odierno? Chi non vede la distanza che li separa? Un papa che oggigiorno si consacrasse alla predicazione sarebbe giudicato un fenomeno, aver cure disciplinari, assumere la responsabilità della Chiesa, avere una qualche mansione spirituale? Di questo non si parla. In realtà c'è soltanto mondanità eppure i Romanisti lodano questo labirinto quasi non si potesse immaginare nulla di meglio organizzato. E le lamentele di san Bernardo, i suoi sospiri nel considerare i vizi del suo tempo! Che dovrebbe dire se vedesse ciò che si compie nei tempi nostri in cui la malvagità dilaga come nel diluvio? Si potrebbe trovare maggiore spudoratezza, mi domando, di quella che pretende voler giustificare ostinatamente, come santa e divina, una condizione unanimemente riprovata da tutti i pastori antichi, non solo, ma valersi abusivamente della testimonianza di quelli per mantenere oggi ciò che fu loro del tutto sconosciuto? Posso ammettere che al tempo di san Bernardo la situazione fosse già degenerata al punto che non vi sia gran differenza tra la condizione attuale e quella dei suoi tempi; sono però privi di pudore e di vergogna quelli che pretendono giustificare la condizione attuale del papato valendosi di san Leone e san Gregorio Non diversamente agirebbe chi, volendo giustificare l'imperialismo monarchico, lodasse la situazione antica della repubblica romana, si valesse cioè del valore della libertà per magnificare la tirannia. 23. Quand'anche però concedessimo loro tutto quanto è stato detto sin qui, non avrebbero ottenuto ancora nulla. Poiché riproponiamo il problema in una forma nuova contestando che sussista a Roma una Chiesa in grado di adempiere ciò che Dio ha dato a san Pietro e un vescovo capace, in qualche modo, di assumere la responsabilità di questa carica. Perciò, quand'anche risultassero vere le tesi che abbiamo più sopra refutato: che Pietro sia stato costituito per bocca di Cristo capo della Chiesa universale, abbia trasmesso alla Sede romana questa dignità, tutto questo sia anche confermato dalla Chiesa antica e da una lunga tradizione, anzi tutti abbiamo sempre, unanimemente, riconosciuto al Papa di Roma giurisdizione sovrana, ed egli sia stato giudice di tutte le cause e di tutti gli uomini della terra, non essendo egli stesso sottoposto al giudizio di alcuno; quando avessi, dico concesso tutto questo e molto più se lo vogliono, pure affermo che nulla di tutto questo si può verificare se a Roma non c'è una Chiesa e un vescovo. Dovranno ammettere, lo vogliano o no, che Roma non può essere madre delle altre Chiese qualora non sia lei stessa Chiesa, nessuno può essere principe dei vescovi quando non sia lui stesso vescovo. Vogliono la Sede apostolica a Roma? Mi dimostrino che vi sussiste un vero e legittimo apostolato; vogliono che quivi risieda il sommo prelato del mondo? Mi dimostrino che c'è un vero vescovo. Come potranno offrirci una qualche forma o apparenza di Chiesa? Certo lo pretendono e sempre si sciacquano la bocca con questo argomento ma, per parte mia, replico che una Chiesa ha dei segni a cui si deve riconoscere, e dire "vescovato "significa alludere ad una mansione precisa. Il problema non concerne ora il popolo della Chiesa, ma la forma di governo che sempre deve risultare nella Chiesa. Dove è ora la forma del ministero quale fu istituito da Cristo? Ci si ricordi quanto detto più sopra riguardo all'ufficio di prete e vescovo. Se riconduciamo l'ufficio dei cardinali a questa norma, cioè all'istituzione di nostro Signore, dobbiamo ammettere che sono tutt'altro che preti. Il Papa? Sarei curioso di sapere che cosa abbia in comune con un vescovo. L'elemento fondamentale della carica vescovile consiste nella predicazione della parola di Dio al popolo; il secondo, affine, riguarda l'amministrazione dei sacramenti, il terzo consiste nell'ammonire, nell'esortare, correggere mediante scomunica quelli che sbagliano. Quale papa si occupa di questo? Anzi, fa soltanto finta di occuparsene? Mi rispondano dunque i suoi adulatori come possiamo considerarlo vescovo visto che non dà la minima prova di volersi interessare al suo ufficio sia pure con il dito mignolo. 24. Un vescovo non è un monarca. Un monarca infatti quand'anche non assolva il suo compito conserva nondimeno il titolo e la carica reale. Nel valutare un vescovo invece si considerano le mansioni che nostro Signore ha affidato a tutti i vescovi, che devono essere permanentemente in vigore. Risolvano perciò i Romanisti il problema posto in questi termini: il loro papa non può essere sovrano fra i vescovi senza essere lui stesso vescovo, è questo secondo punto che devono dimostrare se vogliono farci accettare il primo. E come potranno farlo? Non solo mancano al Papa le caratteristiche di un vescovo, ma, anzi, ha tutte quelle contrarie. Mi trovo a questo punto in grande imbarazzo, perché, Dio mio, da dove cominciare? Dalla dottrina o dai costumi? Che dire, che passare sotto silenzio, quando smettere? Dico solo questo: il mondo è oggi pieno di dottrine false e perverse, ripieno di ogni specie di superstizione, accecato da tanti errori, immerso in tale idolatria e non c'è uno solo di questi mali che non sia uscito dalla Sede romana o, per lo meno, vi abbia trovato appoggio. Il motivo per cui i papi si dimostrano così furiosamente contrari alla dottrina dell'evangelo, vedendola oggi rimessa in vigore, e il fatto che impegnino tutte le loro forze a distruggerla, incitino re e prìncipi a perseguitarla è motivato dalla constatazione che il loro regno va chiaramente in rovina quando l'Evangelo è accolto. Leone è stato crudele per natura; Clemente incline a spargere sangue umano; Paolo oggi ancora portato da una rabbia disumana. Non è però il solo temperamento che li spinge a contrastare la verità, quanto piuttosto la constatazione che è questo il solo mezzo per garantire la loro tirannia. Non sono in grado di sopravvivere se non distruggendo Gesù Cristo; Si sforzano perciò di distruggere l'Evangelo perché la loro stessa esistenza è in gioco. Che dunque? Dovremmo pensare che la Sede apostolica si trova quivi dove non riscontriamo altro che orribile apostasia? Dovremmo ritenere vicario di Cristo colui che nel perseguitare rabbiosamente l'Evangelo si rivela apertamente come l'Anticristo? Dovremmo considerare successore di Pietro uno che si dà, da fare per annientare Cl. Ferro e Cl. Fuoco tutto ciò che Pietro ha edificato? Giudicheremo capo della Chiesa colui che la fa a pezzi, l'ha strappata a Gesù Cristo suo unico capo riducendola ad un tronco mutilato? Ammettiamo che Roma sia stata anticamente madre di tutte le Chiese, ha però cessato di esserlo da quando ha cominciato a diventare la sede dell'anticristo. 25. Alcuni ci giudicano eccessivamente critici e paradossali, definendo il Papa "anticristo "; non riflettono però al fatto che questa accusa coinvolge lo stesso san Paolo, seguendo il quale ci esprimiamo in questi termini, anzi con le cui parole noi parliamo. Affinché nessuno replichi che riferiamo impropriamente al papato parole di san Paolo, che in realtà significano altro, dimostrerò brevemente che non si possono intendere altrimenti che riferite proprio al papato. San Paolo afferma che l'Anticristo sarà seduto nel tempio di Dio (2 Ts. 2.4). In un altro testo lo Spirito Santo dichiara che il regno di quello sarà caratterizzato da un parlare arrogante e da bestemmie contro Dio (Da 7.25). Da questo deduciamo che si tratta di una tirannia sulle anime piuttosto che sui corpi, attuata contro il regno spirituale di Cristo. In secondo luogo questa tirannia è di natura tale da non abolire il nome di Cristo e della sua Chiesa ma, piuttosto, nascondendosi all'ombra di Gesù Cristo e mascherandosi sotto le spoglie della sua Chiesa. Tutte le eresie e le sette che sono esistite fin dall'inizio del mondo appartengono certo al regno dell'anticristo, quando san Paolo però annunzia che si verificherà una apostasia o un sovvertimento, con questi termini intende affermare che quell'abominazione si verificherà quando ci sarà un sovvertimento generale nella Chiesa anche se singoli membri, dispersi qua e là, non cessino per questo di perseverare nell'unità della fede. Quando egli aggiunge che al tempo suo l'anticristo aveva iniziato la sua opera di iniquità in segreto per condurla al compimento in seguito, apertamente, dobbiamo dedurre che tale calamità non poteva essere opera di un uomo solo, né doveva realizzarsi nel corso dell'esistenza di un singolo uomo. Anzi, poiché egli ci fornisce il metro di giudizio per valutare l'Anticristo, dicendo che sottrae a Dio il suo onore per attribuirlo a se stesso, è di questo indizio che ci dobbiamo valere per smascherare l'Anticristo stesso. Soprattutto quando vediamo che questo orgoglio si spinge al punto da creare nella Chiesa una situazione di disintegrazione generale. È notorio che il Papa ha trasferito spudoratamente alla sua persona ciò che appartiene a Dio solo ed a Gesù Cristo; non sussiste pertanto alcun dubbio che egli sia a capo di questo regno di iniquità e di abominio. 26. Se ne vengano ora i Romanisti a citare l'argomento dell'antichità quasi l'onore della sede potesse sussistere in un sovvertimento di questo tipo, anzi, in una situazione dove non c'è neppure più sede. Eusebio afferma che anticamente Dio trasferì, per giusta vendetta, la Chiesa di Gerusalemme in un'altra città della Siria, detta Pella. Ciò che è stato fatto una volta può essersi verificato spesso. Atteggiamento sciocco e ridicolo è perciò quello di voler vincolare l'onore del primato ad una sede in modo tale che si debba considerare il Papa vicario di Cristo, successore di san Pietro, primo prelato della Chiesa, per il solo fatto che occupa la sede che anticamente era la prima, anche se, in realtà si tratta del nemico mortale di Gesù Cristo, di un avversario fanatico dell'evangelo, del distruttore e dissipatore della Chiesa e del crudele assassino di tutti i santi. Non sto a far notare quale differenza sussista tra la cancelleria papale e un legittimo ordine ecclesiastico quantunque questo solo punto sarebbe di per se sufficiente a risolvere tutto il problema. Nessuna persona di buon senso farà consistere l'ufficio vescovile in piombo in bolle, e ancor meno in questa fucina di attività truffaldine e di astuzie in cui si vuol far consistere l'intero governo spirituale del Papa. Giustamente è dunque stato detto da qualcuno che la Chiesa romana, di cui fanno menzione i testi antichi, si sia, da lungo tempo, mutata in corte romana. Non faccio riferimento ai vizi delle persone ma illustro semplicemente il fatto che il papato si deve ritenere categoricamente contrarlo al governo della Chiesa. 27. Passiamo ad esaminare gli individui? Dio solo sa che razza di vicario di Cristo andiamo ad incontrare, e tutti lo conosciamo. Potremmo considerare Giulio, Leone, Clemente e Paolo, colonne della fede cristiana, primi dottori della religione, sapendo che di Gesù Cristo ricordano solo quello che hanno imparato alla scuola di Luciano? Perché nominarne solo due o tre quasi sussistessero dubbi riguardo alla fede cristiana che il Papa e l'intero collegio dei cardinali hanno già da lungo tempo professato e professano tuttora? Il primo articolo della loro teologia è che non c'è alcun Dio. Il secondo che quanto è scritto e predicato riguardo a Gesù Cristo non e che menzogna e inganno; il terzo che il contenuto della Scrittura riguardo alla vita eterna, la resurrezione della carne, è falso. So bene che non tutti sono di questo avviso, e sono pochi quelli che osano parlare in questo modo; tuttavia è da parecchio tempo che a questo si riduce il Cristianesimo confessato dai papi e il fatto è arcinoto a tutti quelli che hanno una qualche dimestichezza con Roma. I teologi romanisti tuttavia non mancano di ribadire nelle loro scuole e pubblicare nelle loro Chiese che al Papa è stato conferito il privilegio dell'infallibilità in quanto nostro Signore disse a san Pietro: "Ho pregato per te affinché la tua fede non venisse meno " (Lu 22.2). L'unico vantaggio che traggono da quei spudorati discorsi è il fatto che tutti capiscono che si sono spinti con incredibile audacia sino al punto di non temere Dio e non avere vergogna degli uomini. 28. Ammettiamo che l'empietà dei papi, di cui ho detto, risulti sconosciuta, in quanto non è stata diffusa né con sermoni, né con pubblicazioni, ma solo manifestata in privato, nei loro appartamenti o a tavola; per lo meno non sono saliti sul pulpito per renderla nota a tutti. Se vogliamo però ritenere valido il loro privilegio deve cancellarsi dall'elenco dei papi, Giovanni 22che ha pubblicamente affermato le anime essere mortali e perire con il corpo sino all'ultimo giorno. La prova evidente del fatto che la cattedra con tutte le sue gambe era caduta e rovesciata è dato dal fatto che nessun cardinale si è opposto al suo errore; la sola facoltà teologica di Parigi fece pressione sul re perché lo costringesse a smentire le sue affermazioni; e il re fece proclamare a suon di tromba che nessuno dei suoi sudditi si dovesse considerare in comunione con lui qualora non si ravvedesse da quell'errore; il Papa fu perciò costretto a far marcia indietro e ritrattarsi come narra maestro Giovanni Gersone. Questo esempio ci dispensa dal discutere più avanti con i nostri avversari riguardo alle affermazioni che la Sede romana, ed i papi che vi si trovano, non possano errare in quanto fu detto a san Pietro: ho pregato per te affinché la tua fede non venga meno. Indubbiamente il caso che abbiamo menzionato, quello cioè di Giovanni 22, dimostra in modo eloquente che non tutti i successori di san Pietro sono stati san Pietro. L'argomento loro risulta così puerile che non merita risposta. Se vogliono infatti riferire ai successori di san Pietro tutto ciò che fu detto di lui, ne conseguirà che tutti i papi sono Satana visto che nostro Signore Gesù gli disse: "Ritirati, Satana, tu mi sei di scandalo " (Mt. 16.23). È infatti altrettanto lecito citare questo testo quanto il testo precedente. 29. Non prendo piacere a dire sciocchezze, come loro, o a cavillare in modo ridicolo, ritorno perciò al nostro tema iniziale. Vincolare Gesù Cristo e la sua Chiesa ad un luogo determinato, in modo tale che chiunque governi qui, fosse il Diavolo in persona, debba necessariamente essere considerato vicario di Cristo e capo della Chiesa, in quanto si tratta della sede in cui fu anticamente san Pietro, non è solo empietà che disonora Gesù Cristo, ma sciocchezza grossolana e contraria al buon senso comune. Già da tempo, abbiamo detto, i papi sono senza dio e senza coscienza, quando non diventano nemici mortali della fede cristiana. Non sono dunque i vicari di Cristo in virtù della sede più di quanto un idolo sia Dio per il solo fatto di essere collocato nel santuario di Dio. Se trasferiamo il problema al campo dei costumi, siano i papi stessi a rispondere. In che li dobbiamo considerare vescovi? In primo luogo fingendo di non vedere o approvando segretamente il tenore sregolato della vita romana a tutti noto, agiscono in modo contrario all'ufficio di buoni vescovi, che debbono invece mantenere il popolo in disciplina. Non voglio essere severo al punto da caricarli delle colpe altrui; è un fatto però che essi stessi e le loro famiglie, unitamente a tutto il collegio cardinalizio e a tutta la banda del loro clero, sono dediti ad ogni sorta di azioni impure e malvagie, ad ogni delitto e turpitudine sì da rassomigliare più a mostri che a uomini, sta a dimostrare che sono tutto fuorché vescovi. Nessun timore che illustri più ampiamente le loro infamie! Già mi dispiace di aver troppo a lungo diguazzato in un fango così puzzolente e temerei offendere le orecchie delle persone pudiche ed oneste. Penso aver dimostrato in modo più che provante la mia tesi: quand'anche Roma sia stata anticamente a capo di tutte le Chiese non è oggi neppur degna di esser menzionata come il dito mignolo. 30. Riguardo a quelli che si chiamano cardinali mi riempie di stupore il fatto che siano improvvisamente giunti a tanta dignità. Al tempo di san Gregorio questo titolo competeva ai soli vescovi. Quando egli infatti parla di cardinali non allude ai preti di Roma ma solo ai vescovi di una qualche sede, cosicché "prete cardinale "non ha nei suoi scritti altro significato che: "vescovo ". Non mi risulta che questo titolo sia stato usato prima né in questo né in altro significato. Per quanto ci è dato sapere, però, i preti di Roma sono stati nel passato molto inferiori ai vescovi, mentre ora li precedono di gran lunga. È nota la sentenza di sant'Agostino: "quantunque in base ai titoli onorifici in uso nella Chiesa il grado di vescovo sia maggiore del prete, tuttavia Agostino è inferiore a Girolamo in molte cose ". Egli si rivolge, notiamo, a un prete romano senza far distinzione fra lui e tutti gli altri preti, considerandoli invece tutti inferiori ai vescovi. Questa norma è stata sempre osservata, cosicché quando il vescovo di Roma inviò al sinodo di Cartagine due legati di cui uno era prete, questi fu posto a sedere all'ultimo rango. Non occorre risalire tanto lontano; possediamo gli atti del concilio presieduto da san Gregorio in cui i preti della Chiesa di Roma risultano seduti all'ultimo posto e votano a parte; i diaconi non hanno neppur il diritto di voto. È chiaro che i preti romani non avevano in quel tempo alcuna funzione specifica all'infuori di quella di coadiuvare il vescovo nella predicazione e nell'amministrazione dei sacramenti. La ruota della fortuna ha girato ed eccoli diventare cugini di re e imperatori. Non c'è dubbio che questa ascesa si sia effettuata poco a poco unitamente a quella del loro capo sino ad arrivare alla sommità del potere, ove si trovano ora, donde però cadranno presto. 31. Mi è sembrato opportuno menzionare, per inciso, anche questo fatto per far veder più chiaramente ai lettori che la Sede romana, nella forma in cui ci si presenta oggi, differisce assai da quella antica a cui falsamente fa riferimento. Quali siano stati nel passato, intendo riferirmi sempre ai sacerdoti romani, non avendo attualmente alcuna carica legittima nella Chiesa, ma solo una vana e frivola apparenza sacerdotale, anzi essendo in ogni cosa il contrario di ciò che dovrebbe essere un prete autentico, deve accadere loro, ed è già accaduto, ciò che san Gregorio dice così spesso: "Affermo, con dolore, che quando il sacerdozio è scaduto in se stesso non si può mantenere a lungo in piedi, con gli altri ". Si è anzi dovuto adempiere in essi ciò che dice il profeta Malachia: "Avete abbandonato la retta via e avete fatto cadere molti, avete violato il patto di Levi, dice il Signore. Per questa ragione ecco vi renderò spregevoli dinanzi a tutto il popolo " (Ma.2.8-9). Lascio ad ognuno il compito di fare ora le sue considerazioni sull'edificio della gerarchia romana dalle fondamenta alla sommità, l'edificio gerarchico a cui i papisti non hanno scrupoli di sottomettere, con spudoratezza esecrabile, la pura parola di Dio che deve essere onorata da uomini e angeli, in cielo ed in terra.
CAPITOLO 8 AUTORITÀ DELLA CHIESA NELLO STABILIRE ARTICOLI DI FEDE È STATA SFRUTTATA NEL PAPATO IN MODO DA PERVERTIRE OGNI PURA DOTTRINA 1. Esaminiamo ora il terzo punto che concerne l'autorità della Chiesa; autorità che risiede parte nei singoli vescovi e parte nei Concili, generali e regionali. Mi riferisco qui soltanto alla autorità spirituale che è propria della Chiesa. Essa si compone di tre elementi: autorità in materia dottrinale, potere di giurisdizione, e facoltà di stabilire leggi e regolamenti. Per quanto concerne la dottrina, si devono considerare due elementi: il primo consiste nello stabilire articoli di fede, il secondo concerne l'autorità di esporre il contenuto della Scrittura. Prima di iniziare la trattazione specifica della materia prego ogni lettore credente di tener presente il fatto che tutto quanto vien detto riguardo all'autorità della Chiesa deve esser ricondotto al fine per cui, secondo san Paolo, questa autorità fu data: cioè per l'edificazione e non per la distruzione (2 Co. 10, o; 13.8). Tutti coloro che ne vogliono far uso, rettamente, non debbono perciò pretendere di essere considerati altrimenti che sotto il profilo di ministri di Cristo e del popolo, secondo quanto dice san Paolo (1 Co. 4.1). Ora l'unica forma di edificazione della Chiesa si ha quando i ministri si applicano e si sforzano di serbare a Gesù Cristo la pienezza della sua autorità che non può essere garantita altrimenti che riservandogli ciò che dal Padre ha ricevuto: che egli sia cioè l'unico Signore nella Chiesa; riguardo a lui infatti e a nessun altro, è stato scritto: "Ascoltatelo " (Mt. 17.5). Pertanto l'autorità ecclesiastica merita di essere valutata e considerata purché si mantenga in questi limiti: non la si tiri a destra e a manca secondo il piacimento degli uomini. È necessario, per questa ragione prestare attenzione alla descrizione che ce ne danno sia i profeti che gli apostoli. Ognuno comprende infatti che se concediamo agli uomini il potere che sembra loro dover richiedere si apre la porta ad un autoritarismo sfrenato che non deve invece avere posto alcuno nella Chiesa di Dio. 2. Si deve perciò considerare il fatto che tutta la dignità e l'autorità attribuita dalla Scrittura ai profeti e ai sacerdoti dell'antico patto, agli apostoli e ai loro successori non è attribuita alla loro persona ma all'ufficio e al ministero di cui sono investiti; o, per esprimerci più chiaramente, alla parola di Dio di cui sono fatti ministri. Poiché se li consideriamo tutti in ordine: profeti, sacerdoti, apostoli, e discepoli, dobbiamo constatare che non è mai stato loro dato alcun potere di governo o di insegnamento se non in nome e in funzione della parola del Signore. Inviati in missione è loro ordinato esplicitamente di non aggiungere nulla di proprio, ma di attenersi alla parola del Signore. Dio infatti li presentò al popolo, ordinando che si prestasse loro ascolto, dopo che ebbe assegnato loro un preciso incarico e quasi il programma di quello che avevano a dire. Certo ha voluto che a Mosè, il massimo dei profeti, fosse dato ascolto in modo particolare ma la mansione che gli è stata affidata consiste in primo luogo nel non poter annunziare nulla se non da parte del Signore. Pertanto quando il popolo ha accolto il suo insegnamento è detto che "credette a Dio e a Mosè suo servo " (Es. 14.31). Anche l'autorità dei sacerdoti è stata stabilita con severi ammonimenti, affinché nessuno la disprezzasse (De 17.9). Ma d'altra parte il Signore mostra in che modo essi debbano essere ascoltati, dicendo che ha stabilito il suo patto con Levi affinché la verità fosse nella sua bocca (Ma.2.4-6). Aggiunge, poco dopo, che le labbra del sacerdote custodiranno la scienza e nella sua bocca si cercherà la Legge, in quanto egli è messaggero del Signore. Se il sacerdote dunque vuol essere ascoltato deve comportarsi come un fedele messaggero di Dio, cioè trasmettere con fedeltà ciò che gli è stato affidato. Infatti, quando è parlato di ascoltarli, viene espressamente ordinato loro di parlare secondo la legge del Signore (De 17.10). 3. Per quanto concerne i profeti si legge in Ezechiele una bella definizione che illustra qual sia stata sostanzialmente la loro autorità: "Figlio d'uomo, dice il Signore, ti ho stabilito come sentinella per la casa d'Israele, quando tu udrai dalla mia bocca una parola, tu li avvertirai da parte mia ". (Ez. 3.17). Ordinandogli di prestare ascolto alla sua bocca nostro Signore non gli proibisce forse di inventare qualcosa di suo? Che significa parlare "da parte del Signore "se non parlare in modo tale che tutto il vanto consista nel fatto che la parola che egli annunzia non è sua ma del Signore stesso?
Lo stesso pensiero si trova espresso, con altri termini, in Geremia: "Il profeta che ha avuto un sogno, racconti il sogno, colui che ha udito la mia parola, riferisca la mia parola fedelmente " (Gr. 23.28). Indubbiamente, con queste parole, egli impone a tutti loro una norma: non tollera che qualcuno dica più di quello che gli è stato ordinato, e di conseguenza egli definisce "paglia "tutto ciò che non procede da lui. Non c'è infatti un solo profeta che abbia parlato senza aver prima ricevuto la parola di Dio. Si comprende perciò il fatto che nei loro scritti ricorrano così frequentemente espressioni quali: "parola del Signore ", "missione del Signore ", "la bocca dell'eterno ha parlato ", "visione ricevuta dal Signore " "il Signore degli eserciti ha detto "; giustamente Isaia infatti dichiara che le sue labbra sono contaminate (Is. 6.5); Geremia confessa la sua incapacità a parlare vedendosi bambino (Gr. 1.6). Che avrebbe potuto uscire dalla loro bocca contaminata e infantile se non cose folli e impure qualora avessero detto parole loro? Nella misura in cui però la loro bocca è diventata strumento dello Spirito Santo è stata pura e santa. Dopo aver circoscritto in questi termini precisi l'attività dei suoi profeti: non poter dire o insegnare nulla se non ciò che avranno ricevuto da lui, il Signore li riveste di eccezionale dignità. Dopo aver affermato che li ha stabiliti sui popoli e sui regni, per stabilire e abbattere, edificare e piantare (Gr. 1.10) , chiarisce immediatamente il fondamento di questa autorità loro conferita: è la sua parola che è stata posta nella loro bocca. 4. Passando a considerare gli apostoli, è bensì vero che Dio li ha onorati attribuendo loro parecchi titoli onorifici: Sono la luce del mondo, il sale della terra (Mt. 5.13); devono essere ascoltati come Gesù Cristo (Lu 10.16); ciò che avranno legato o sciolto in terra sarà legato o sciolto in cielo (Gv. 20.23); il nome stesso indica però ciò che è loro permesso nell'adempimento dell'ufficio. Sono chiamati ad essere "apostoli '', cioè messaggeri non per far chiacchiere su quanto sembra loro opportuno, ma per trasmettere fedelmente il messaggio di colui che li ha inviati. E le parole di nostro Signore sono sufficientemente chiare quando ordina di andare e insegnare ciò che aveva loro ordinato (Mt. 28.19-20). Anzi egli stesso si è sottoposto a questa condizione di messaggero affinché nessuno rifiutasse di esservi soggetto: "La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato " (Gv. 7,: 16). Egli, da sempre, consigliere eterno e unico del Padre, e da lui costituito maestro di tutti, dimostra, nondimeno con il suo esempio, in quanto è venuto nel mondo per insegnare, quale regola ogni ministro debba seguire e mantenere nel suo insegnamento. Analogamente l'autorità della Chiesa non deve essere considerata infinita, ma sottoposta alla parola di Dio, anzi, quasi inclusa in essa. 5. Questa norma è sempre stata attuata e riconosciuta valida nella Chiesa di Dio, e lo deve essere oggi; che cioè i dottori inviati da Dio non devono insegnare nulla all'infuori di ciò che hanno appreso da lui, vi sono state tuttavia diversità nei modi di apprendimento a seconda dei tempi, e la forma attuale differisce da quella che hanno avuto i profeti e gli apostoli. In primo luogo, se corrisponde a realtà quanto afferma il Signore Gesù, che nessuno ha visto il Padre se non il Figlio, e colui a cui il Figlio avrà voluto rivelarlo (Mt. 11.27) , necessariamente coloro che, da principio, hanno voluto giungere alla conoscenza di Dio devono essere stati guidati da lui, eterna sapienza. Come avrebbero infatti potuto immediatamente afferrare i segreti di Dio, e annunziarli, se non fossero stati ammaestrati da colui che solo li conosce? I santi del passato perciò hanno conosciuto Dio contemplandolo nel suo figlio, come in uno specchio. Dicendo questo intendo affermare che Dio si è manifestato agli uomini solo mediante il figlio suo, sua verità, sapienza, luce unica. È a questa fonte che Adamo, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe hanno attinto tutta la loro conoscenza spirituale. A questa stessa fonte i profeti hanno attinto quanto insegnarono e scrissero. Questa sapienza di Dio non è stata però comunicata agli uomini sempre nello stesso modo. Dio si è rivolto ai patriarchi mediante rivelazioni segrete, fornendo loro dei segni in modo tale da confermarlo affinché non vi fossero dubbi che realmente colui che parlava era Dio. I patriarchi hanno trasmesso di mano in mano, ai loro successori, ciò che avevano ricevuto, Dio aveva infatti affidato loro la sua parola a condizione che l'insegnassero ad altri assicurandone la trasmissione. Ai loro successori Dio dava la certezza che ciò che udivano non proveniva dalla terra, ma dal cielo. 6. Quando è piaciuto a Dio stabilire e costituire la Chiesa in forma più esplicita e visibile, ha voluto che la sua parola fosse messa per iscritto affinché i sacerdoti ne ricavassero il loro insegnamento al popolo e ogni dottrina predicata fosse raffrontata e misurata al metro di questa Scrittura. Quando viene perciò ordinato ai sacerdoti, dopo la promulgazione della Legge, di avere un insegnamento procedente dalla bocca del Signore (Ma.2.7) , questo significa che non dovevano insegnare nulla che fosse estraneo o diverso da quella dottrina che Dio aveva espressa nella sua Legge. Non era infatti loro facoltà aggiungere o togliere ad essa alcunché. Mediante i profeti, venuti in seguito, Dio ha proclamato nuovi oracoli, in aggiunta alle leggi; nuovi non nel senso che non derivavano dalla Legge e non miravano a lei come alla meta. Riguardo alla dottrina infatti, i profeti sono stati semplici espositori della Legge aggiungendo ad essa solamente la rivelazione delle cose a venire. Fatta eccezione di queste ultime, non hanno offerto che la semplice spiegazione del Regno. Sembrando tuttavia opportuno a Dio che l'insegnamento avesse una ampiezza ed evidenza maggiore, per meglio soccorrere la debolezza delle anime, ordinò che le profezie fossero messe per iscritto e diventassero parte della sua parola. Sono stati poi aggiunti appresso i racconti storici, che i profeti hanno redatti su ispirazione dello Spirito Santo. Includo nelle profezie i Sl. , perché i temi sono simili e comuni. Tutto questo corpo di scritti, composto dalla Legge e le profezie, i Sl. E i racconti storici, ha rappresentato per il popolo antico, cioè la Chiesa di Israele, la parola di Dio e, sino all'avvento di Cristo, i sacerdoti e dottori sono stati tenuti a limitare e conformare il loro insegnamento a questa norma senza che fosse loro lecito spostarsi né a destra, né a sinistra. La loro autorità, infatti, si trovava rinchiusa in questi limiti: parlare al popolo per bocca del Signore. Ciò che si può dedurre da quel testo significativo di Malachia dove egli ordina agli Ebrei di ricordare la Legge e prestare attenzione sino al momento della predicazione dell'evangelo (Ma.4.4). Con questa esortazione li sottrae ad ogni nuova dottrina e non li autorizza ad allontanarsi, sia pur di poco, dal cammino che Mosè aveva fedelmente indicato loro. Per questo Davide esalta la Legge e le attribuisce tale dignità: per distogliere cioè gli Ebrei dalla ricerca di qualcosa di nuovo o di aggiuntivo, considerando che era già stato loro rivelato quanto si richiedeva per la loro salvezza 7. Quando fu infine manifestata in carne la sapienza di Dio fu lei stessa a dichiararci apertamente quanto lo spirito umano può assimilare ed esprimere riguardo a Dio; noi abbiamo infatti in Gesù Cristo, il sole di giustizia splendente su di noi; egli ci dà della verità del Padre suo perfetta conoscenza, come nella luce del mezzogiorno, verità che risultava prima non chiara del tutto, anzi in alcuni punti oscura. L'Apostolo non ha certo voluto fare un'affermazione superflua dichiarando che Dio aveva parlato ai padri antichi, mediante i suoi profeti in molte maniere, ma in questi ultimi tempi ha parlato a noi mediante il suo Figliolo (Eb. 1.2). Con questa dichiarazione infatti egli intende dire che da ora innanzi Dio non parlerà più come in passato mediante gli uni o gli altri, e non aggiungerà profezia a profezia e rivelazione a rivelazione ma, avendo attuata la pienezza della sua rivelazione nel suo figlio, dobbiamo dire che egli rappresenta l'ultima e definitiva testimonianza che di lui abbiamo. Per questa ragione il tempo del nuovo Patto, da quando Gesù Cristo è apparso con la predicazione del suo Evangelo sino al giorno del giudizio, è indicato come: l'ultima ora, gli ultimi tempi, gli ultimi giorni, affinché, accontentandoci della perfezione degli insegnamenti di Cristo, impariamo a non creare nuovi insegnamenti né ad accoglierne di nuovi inventati dagli uomini. Non è senza ragione pertanto che il Padre nell'inviarci il suo figlio per singolare privilegio, lo ha consacrato quale dottore e precettore nostro ordinandoci di dare ascolto a lui e non agli uomini. Certo egli ha raccomandato il suo ministero con poche parole quando ha detto: "Ascoltatelo! " (Mt. 7.5). Queste poche parole sono però cariche di una forza e di un significato maggiore di quanto potrebbe sembrare; poiché hanno la funzione di sottrarci ad ogni dottrina umana per fissare la nostra attenzione al solo figlio di Dio, ordinandoci di ricevere da lui ogni dottrina salutare, di dipendere interamente da lui, di essere a lui solo vincolati, in breve di obbedire solo a lui. A dire il vero chi potrebbe aspettarsi qualcosa dagli uomini, ora che la stessa parola della vita ha famigliarmente conversato con noi in carne, se non chi nutre la speranza che l'uomo possa sopravanzare la sapienza di Dio? Occorre invece che ogni bocca umana sia tappata da quando ha parlato colui in cui sono nascosti per volontà del Padre tutti i tesori della scienza e della sapienza (Cl. 2.3) , e ha parlato nel modo che compete alla sapienza di Dio (che non è manchevole in alcuna sua parte ) e al Messia, da cui si attendeva la pienezza della rivelazione (Gv. 4.25); ha insomma parlato in modo tale da non lasciare agli altri nulla da dire, dopo di sé. 8. Si consideri perciò questa conclusione come definitiva: nella Chiesa si deve considerare parola di Dio unicamente quanto è contenuto nella Legge e nei Profeti e negli scritti degli apostoli, e non esiste altro modo di fornire, nella Chiesa, un insegnamento retto e fondato se non riconducendo ogni dottrina a questo metro. Dobbiamo dedurre da questo che non è stato concesso agli apostoli nulla più di quanto era stato concesso anticamente ai profeti: esporre cioè la Scrittura già data in precedenza e dimostrare che in Gesù Cristo erano state adempiute tutte le cose dette in precedenza. E questo non è stato possibile se non in virtù del Signore stesso, dettando cioè lo spirito di Gesù Cristo ciò che dovevano dire. Gesù Cristo infatti ha posto alla loro missione un limite preciso ordinando di andare e di insegnare non ciò che avrebbero potuto inventare da se stessi, senza riflettere, ma esclusivamente ciò che era stato ordinato loro (Mt. 28.20). Inoltre non si potrebbe desiderare per parte sua dichiarazione più esplicita di questa: "Non vi fate chiamare maestri, perché avete un solo maestro nei cieli, io stesso " (Mt. 23.8). E volendo far penetrare più a fondo questa parola nell'animo loro la ripete due volte in una stessa occasione. Non essendo però in grado a causa della loro lentezza di intendere ciò che avevano udito e appreso dal loro maestro, egli promette lo Spirito di verità per guidarli nella retta intelligenza di tutte le cose (Gv. 14.26; 16.13). Merita infatti di essere attentamente notata questa limitazione: egli assegna allo Spirito Santo il compito di suggerire ciò che precedentemente aveva insegnato a viva voce. 9. San Pietro perciò, avendo molto bene inteso, dal Maestro, quale fosse il suo compito non attribuisce né a se né agli altri altra mansione che questa: trasmettere ciò che gli era stato affidato: "Colui che parla "dice "parli come annunziando oracoli di Dio " (1 Pi. 4.2) , cioè con coraggio, non con titubanza come gente non accreditata dall'alto e che non ha la libertà di spirito dei servi di Dio. Che significa questo se non rifiutare ogni invenzione dello spirito umano, da qualsiasi mente proceda, affinché sia insegnato nella comunità di credenti la pura parola di Dio? Non significa questo distruggere ogni pensiero umano, di qualsiasi natura, affinché soltanto le leggi di Dio siano stabilite? Queste sono le armi spirituali al servizio di Dio per uno smantellamento delle fortezze (2 Co. 10.4) , mediante le quali i buoni soldati di Dio distruggono i ragionamenti e le speculazioni che si innalzano contro la conoscenza di Dio e conducono prigioniero all'obbedienza di Cristo ogni pensiero essendo pronti a punire ogni disobbedienza. Questa è la potestà ecclesiastica, esplicitamente affidata ai pastori della Chiesa, con qualsiasi titolo si vogliano indicare, che cioè osino coraggiosamente ogni cosa, in nome della parola di Dio di cui sono costituiti amministratori, e pieghino ogni gloria, potenza, autorità di questo mondo all'obbedienza e alla sottomissione dinanzi alla maestà divina; abbiano, in virtù di questa parola, governo sul mondo intero, edifichino la dimora di Cristo, sovvertano il regno di Satana, pascano le pecore e annientino i lupi, conducano i docili con insegnamenti ed esortazioni, sottomettano e correggano i ribelli e gli ostinati, leghino e sciolgano, minaccino e condannino se è il caso, ogni cosa però sia fatta sulla base della parola di Dio. Tra gli apostoli e i loro successori esiste però questa differenza, come già ebbi modo di dire gli apostoli devono essere considerati scrivani dello Spirito Santo, affinché i loro scritti fossero considerati autentici, i loro successori non hanno invece altro compito se non quello di insegnare ciò che trovano nella Sacra Scrittura. Ricaviamo dunque la conclusione che non è lecito ad un ministro fedele creare nuovi articoli di fede, ma egli deve semplicemente attenersi all'insegnamento cui Dio, senza eccezione, ci ha sottoposti. Affermando questo non intendo soltanto dimostrare ciò che è lecito al singolo, ma altresì alla Chiesa universale.
Riguardo alle persone, sappiamo che san Paolo era stato ordinato Apostolo sulla Chiesa di Corinto; tuttavia egli afferma che non signoreggia sulla loro fede (2 Co. 1.24). Chi oserebbe perciò usurpare per se stesso un'autorità che san Paolo dichiara non appartenergli? Qualora avesse approvato una libertà di questo genere lasciando che i pastori possano pretendere che si presti fede a tutto quello che piace loro d'insegnare, non avrebbe mai stabilito fra i Corinzi la norma che i profeti fossero in due o tre a parlare e gli altri giudicassero; e se alcuno degli altri avesse una rivelazione migliore parlasse lui e il primo tacesse (1 Co. 14.29-30). Con tali parole, senza aver riguardo ad alcuno, ha sottoposto l'autorità di ogni uomo alla censura e al giudizio della parola di Dio. Qualcuno potrà dire che diverso è il caso della Chiesa universale. Rispondo che san Paolo ha prevenuto questa obiezione quando, in un altro detto, ha dichiarato che la fede vien dall'udire, e l'udire dalla parola di Dio (Ro 10.17). Se la fede dipende dalla parola di Dio soltanto, e mira ad essa sola, e su di essa si fonda, che posto rimane, mi chiedo, alla parola degli uomini? A questo riguardo nessuno, che abbia una idea chiara di ciò che è fede, potrà aver dubbi o esitazioni. Poiché deve essere fondata su un fondamento di natura tale da potersi mantenere stabile e invincibile nella lotta contro Satana, le macchinazioni dell'inferno e le tentazioni del mondo. Tale stabilità si riscontra nella sola parola di Dio. C'è ancora un motivo generale che occorre considerare: se Dio sottrae agli uomini la libertà di creare nuovi articoli di fede, egli lo fa per essere unico maestro e dottore nostro nell'insegnamento spirituale, in quanto è l'unico ad essere veritiero, a non mentire, a non ingannarsi. E questo fatto non riguarda solo i credenti singoli, ma la Chiesa tutta. 10. Se paragoniamo questa autorità con quella rivendicata da quei tiranni spirituali, che si spacciano per vescovi e pastori delle anime, non c'è paragone più adatto che quello di Cristo e Belial. Non ho l'intenzione di esaminare in che modo e con quale disordine abbiano esercitato la loro tirannia. Mi limiterò ad esporre la dottrina che costoro sostengono, innanzitutto con scritti e predicazioni, e poi Cl. Fuoco e con la spada. Partendo dalla premessa indiscussa che un concilio ecumenico rappresenti veramente la Chiesa, deducono che non può sussistere dubbio riguardo al fatto che tutti i concili sono direttamente guidati dallo Spirito Santo e pertanto non possono errare. Essendo però loro stessi a dirigere i concili e a prendere le decisioni, l'autorità che attribuiscono a quelli in realtà la rivendicano per se. Vogliono dunque che la nostra fede stia in piedi o cada a loro piacimento, chiedendo che ogni loro decisione presa, in un modo o nell'altro, abbia per noi valore assoluto e normativo. Hanno deciso qualcosa? Lo dobbiamo accogliere senza riserve; hanno condannato qualcosa? Lo dobbiamo considerare condannato. Essi inventano però, seguendo la loro fantasia e senza alcun riguardo per la parola di Dio, le dottrine che a loro piace, a cui, per il solo fatto che le hanno fatte loro, dovremmo prestare fede. Non considerano cristiano se non chi vive in pieno accordo con tutte le loro decisioni sia affermative che negative, per lo meno con fede implicita, come essi dicono, in quanto il loro principio fondamentale è che spetti all'autorità della Chiesa creare nuovi articoli di fede. 11. Esaminiamo anzitutto gli argomenti cui ricorrono per dimostrare che alla Chiesa è stata conferita questa potestà; esamineremo in seguito che cosa si ricava da queste affermazioni riguardo alla natura della Chiesa. La Chiesa, essi dicono, è garantita dalle grandi e meravigliose promesse di non esser mai abbandonata da Gesù Cristo suo sposo e di essere guidata dal suo Spirito nella verità. Un numero rilevante delle promesse che sono soliti citare non si riferiscono però alla Chiesa nel suo insieme più di quanto si riferiscano al singolo credente in particolare. Quantunque infatti Gesù Cristo si sia rivolto ai dodici apostoli dicendo: "Sarò con voi sino alla fine del mondo " (Mt. 28.20); e: "Pregherò il Padre e vi darà un altro consolatore, cioè lo Spirito della verità " (Gv. 14.16) , tuttavia queste promesse non concernono esclusivamente il gruppo dei dodici in se, ma ognuno di loro singolarmente, anzi tutti i suoi discepoli che già aveva eletti o doveva eleggere appresso. Ora, interpretando queste promesse così cariche di singolare consolazione in modo restrittivo, come rivolte alla Chiesa nel suo insieme e non ad ogni singolo cristiano, ottengono il risultato di sottrarre ad ogni singolo cristiano quella consolazione che ne dovrebbe invece ricavare per accrescere la sua fiducia. Non contesto che la comunità dei credenti, arricchita da questa diversità di grazie non abbia, nel suo insieme, maggior ricchezza della divina sapienza di quanto ogni credente abbia, preso singolarmente. Intendo soltanto sottolineare che ingiustamente danno alle parole di nostro Signore un significato diverso da quello che ebbero quando furono pronunciate. Riconosciamo dunque (perché è vero ) che il Signore assiste eternamente i suoi, li conduce con il suo Spirito, e questo Spirito non e errore, ignoranza, menzogna o tenebre ma rivelazione, verità, sapienza, luce da cui essi possono, senza tema di ingannarsi, apprendere quali siano le cose date loro da Dio (1 Co. 2.12) , quale sia cioè la speranza della loro vocazione e quali siano le ricchezze della gloria della eredità di Dio, quanto eccellente sia la grandezza della sua potenza verso i credenti (Ef. 1.18). Considerando il fatto che i credenti ricevono però soltanto qualche elemento o le primizie di quello spirito, nella loro carne, anche quelli che fra tutti sono colmati delle ricchezze e delle grazie di Dio, l'atteggiamento migliore è quello di riconoscere la propria debolezza sì da attenersi fedelmente ai termini della parola di Dio per tema che, volendo procedere oltre, nel seguire i propri sensi, si smarrisca subito la retta via. Non ho infatti il minimo dubbio che qualora ci si allontani, sia pur di poco, da questa parola, ci si lasci ingannare in ogni circostanza in quanto siamo in parte privi di quello spirito in base al cui insegnamento solo siamo in grado di discernere la verità dall'errore. Tutti infatti riconosciamo con san Paolo di non esser ancora giunti alla meta (Fl. 3.12). Continuiamo pertanto, giorno dopo giorno, ad imparare anziché vantarci di una qualche perfezione. 12. Risponderanno che quanto viene attribuito ai santi singolarmente, compete alla Chiesa in modo assoluto. La risposta? Eccola. Quantunque questo ragionamento sembri avere una parvenza di verità, ne contesto tuttavia la validità. Riconosco che nostro Signore distribuisce con misura i doni del suo Spirito ad ogni membro del suo corpo in modo che nulla manchi al corpo universale, quando tutti i doni sono considerati nella loro totalità. Le ricchezze della Chiesa però sono di natura tale da essere sempre lungi dalla perfezione sovrana che i nostri avversari rivendicano. La Chiesa certo non è carente del necessario, perché lo Spirito conosce le sue necessità. Per mantenerla in un atteggiamento umile e modesto le dà però solo quanto le è necessario. So bene che hanno l'abitudine di citare, come obiezione, le parole di san Paolo, che Cristo ha purificato la sua Chiesa mediante il battesimo dell'acqua con la Parola per farla sua sposa gloriosa, senza macchia e senza rughe, ma santa ed irreprensibile (Ef. 5.26-27) , e, che per la stessa ragione, la definisce in un altro testo, colonna e base della verità (1 Ti. 3.15). Nel primo testo ci è illustrata l'opera quotidiana di Cristo nei suoi eletti più che la sua opera già realizzata. Perché se quotidianamente li santifica, purifica, monda dalle loro macchie, è evidente che permangono ancora deformati e macchiati e la loro santificazione è lacunosa. Considerare inoltre santa e immacolata la Chiesa le cui membra sono contaminate e impure non è forse pura follia? È dunque bensì vero che Cristo ha purificato la sua Chiesa al battesimo d'acqua mediante la parola della vita, l'ha cioè purificata mediante la remissione dei peccati, di cui la purificazione del battesimo è segno, e l'ha purificata in vista di santificarla. Ma di tale santificazione appare ora soltanto l'inizio, la sua fine e il suo pieno compimento si avranno quanto Cristo, il santo dei santi, l'avrà interamente colmata della sua santità; è altresì vero che le macchie e i difetti della Chiesa sono cancellati ma ciò significa che continuano ad essere cancellati di giorno in giorno finché Cristo nel suo avvento, li annulli definitivamente. Non accettando questa interpretazione, è d'uopo affermare, con i Pelagiani, che la giustizia dei credenti è perfetta già in questo mondo, e con i Catari e Donatisti, che non vi è Chiesa laddove sia presente qualche infermità. Ora i il significato dell'altro testo, come abbiamo già detto altrove 4' è assolutamente diverso da quello che essi pretendono. Dopo aver illustrato a Timoteo l'ufficio di vescovo, san Paolo aggiunge che lo ha fatto affinché sappia come occorre parlare nella Chiesa di Dio. E per sottolineare l'importanza della cosa afferma che questa Chiesa è colonna e base di verità. Che significano queste parole se non che la verità di Dio è mantenuta nella Chiesa mediante il ministero della predicazione? Come dichiara in un altro testo dicendo: "Gesù Cristo ha dato gli uni come apostoli, dottori, pastori, affinché non siamo più sballottati e portati qua e là da ogni vento di dottrina, per la frode degli uomini, la loro astuzia, ma illuminati dalla conoscenza del Figlio di Dio siamo ricondotti all'unità della fede " (Ef. 4.2). Il fatto che la verità non sia soffocata nel mondo, ma permanga valida ed efficace, si realizza in quanto la Chiesa ne è sicura e fedele custode per mantenerla. Se quest'opera di custodia che ne fa la Chiesa si attua nel ministero dei profeti e degli apostoli ne consegue che, in ultima analisi, tutto dipende dal fatto che la parola di Dio sia conservata nella sua integrità. 13. Per aiutare i lettori a cogliere il centro del problema esporrò in breve le tesi dei nostri avversari e su quali punti le contestiamo. Quando affermano che la Chiesa non può errare intendono dire questo: essendo retta dallo Spirito di Dio essa può camminare sicura anche senza la Parola, e comunque cammini non può sentire e dire altro che la verità e perciò, quand'anche determini qualche cosa oltre la parola di Dio, bisogna vedere nella sua decisione un oracolo che proviene dal cielo. Accettiamo per parte nostra l'affermazione che la Chiesa non possa errare nelle cose necessarie alla salvezza, nel senso però che tale mancanza di errore deriva dal fatto che rinunciando ad una propria sapienza accetti di essere ammaestrata dallo Spirito mediante la parola di Dio. Questo è il punto di dissenso che sussiste tra noi: attribuiscono autorità alla Chiesa all'infuori della Parola; noi, al contrario, congiungiamo l'una e l'altra in modo inscindibile. Non fa dunque meraviglia che la Chiesa, sposa e discepola di Cristo, sia sottoposta al suo maestro e sposo per accettare in modo totale quanto egli dice e comanda. Poiché l'ordine di una casa ben amministrata richiede che la donna obbedisca al marito e lo consideri suo superiore, è altresì nello stile di una buona scuola che soltanto il maestro abbia autorità per insegnare ed essere ascoltato. La Chiesa perciò non ha da pretendere di essere sapiente di per se stessa e inventare nulla, ma deve considerare che la sostanza della sua sapienza consiste nel fatto che Gesù Cristo parla. Essa diffiderà perciò di tutte le invenzioni della sua sapienza. Al contrario, fondandosi sulla parola di Dio non cadrà vittima di debolezza o di dubbio ma si affiderà con piena fiducia e costanza ad essa soltanto. Accettando parimenti con fiducia le promesse che le sono fatte troverà dove fondarsi con sicurezza non avendo il minimo dubbio che lo Spirito Santo l'assista costantemente fungendo per lei da guida e conduttore. D'altra parte terrà presente però lo scopo e il fine per cui il Signore vuole che noi riceviamo il suo Spirito: "Lo Spirito "dice "che vi manderò da parte del Padre, vi condurrà in tutta la verità " (Gv. 16.7-13). Come avviene questo? Egli aggiunge subito: "Perché vi insegnerà tutte le cose che vi ho insegnate ". Egli attesta così che dal suo Spirito ci si deve attendere solo questo: che ci faccia accogliere la verità del suo insegnamento, illuminando la nostra intelligenza, e ci faccia accogliere la verità della sua parola. Degna di nota perciò la parola di Crisostomo: "Molti "dice "si vantano dello Spirito; coloro però che vi aggiungono del proprio, lo fanno ingiustamente. Come Cristo ha dichiarato che non parlava di suo, in quanto la sua dottrina era ricavata dalla Legge e i Profeti, così non dobbiamo prestar fede a chi a insegna, con il pretesto dello Spirito, qualcosa che non sia contenuto nell'evangelo; come Cristo è il compimento della Legge e i Profeti, così lo è lo Spirito per l'Evangelo ". Queste sono le parole di san Crisostomo. È ora facile vedere quanto siano fuori strada i nostri avversari quando fanno riferimenti soltanto allo Spirito e non lo citano che per mantenere, con il pretesto della sua presenza, dottrine strane e contrarie alla parola di Dio; mentre lo Spirito si vuole unito alla Parola con indissolubile legame, e Gesù Cristo attestò questo di lui quando lo promise ai suoi apostoli. E di fatto le cose stanno proprio così. Poiché quella riservatezza che Dio ha raccomandato alla sua Chiesa anticamente, egli desidera sia conservata sino alla fine. Le ha vietato di aggiungere o di togliere nulla alla sua parola; e si tratta di un ordine inviolabile di Dio e del suo Spirito, che i nostri avversari vogliono poter cassare quando fingono di credere che la Chiesa sia guidata dallo Spirito Santo senza la parola di Dio. 14. Obiettano ancora, ricorrendo ad un cavillo, che la Chiesa si è trovata nella necessità di recare aggiunte agli scritti degli apostoli e che essi stessi hanno insegnato molte cose oralmente per supplire ai loro scritti, in cui non avevano esposto tutto con chiarezza. A prova di questa affermazione citano le parole di Gesù Cristo: "Molte cose ho ancora da dirvi; ma non sono per ora alla vostra portata " (Gv. 16.12). Affermano che tali sono le leggi ricevute per prassi all'infuori della Sacra Scrittura. Che spudoratezza è mai questa? Gli apostoli erano indubbiamente rozzi e ignoranti quando il Signore diceva loro queste cose, lo ammetto. Ma tale ignoranza sussisteva ancora quando hanno messo per iscritto il loro insegnamento al punto che, in seguito, abbiano dovuto supplire a questo aggiungendo oralmente ciò che avevano dimenticato o tralasciato per mancanza di intelligenza? Sappiamo invece che erano guidati dallo Spirito, in ogni verità, quando redigevano i loro scritti; per quale ragione non avrebbero potuto dare una perfetta presentazione della dottrina evangelica? Concediamo loro che gli apostoli abbiano tramandato oralmente nella Chiesa più di quanto abbiano scritto; chiedo solo che si stabilisca l'elenco di queste tradizioni. Osano farlo? Risponderò con una parola di sant'Agostino: "Non avendo il Signore precisato quali siano queste cose chi sarà fra noi colui che potrà dire "è questo ", "è quello "? O se osa dirlo, come potrà dimostrarlo? ". È sciocco da parte mia voler disquisire più oltre su una questione del tutto superflua; i bambini stessi capiscono che la promessa del Signore di rivelare agli apostoli le cose che non potevano intendere, è stata adempiuta quando ha inviato loro lo Spirito Santo e tale rivelazione porta già i frutti nei loro scritti. 15. E che? Replicano, Gesù Cristo non ha forse voluto che l'insegnamento e le decisioni della Chiesa fossero fuori di discussione quando ha detto di considerare pagano o pubblicano colui che disubbidiva ad essi? (Mt. 18.17). In primo luogo non si parla qui di insegnamenti; Gesù vuole che le ammonizioni fatte per correggere i vizi abbiano piena autorità affinché coloro che sono ammoniti e corretti non si ribellino. È davvero sorprendente la spudoratezza di questi furfanti che, prescindendo da questo dato, osano valersi di questa testimonianza. Cosa possono infatti ricavare da questo testo se non che è illecito disprezzare il consenso unanime della Chiesa? Consenso che si realizza solo nella verità di Dio. Bisogna ascoltare la Chiesa, dicono; chi afferma il contrario? Finché essa dichiara soltanto la parola di Dio. Se pretendono ricavare qualcosa di altro da quel testo, sappiano che queste parole di Cristo non dicono assolutamente nulla in loro favore. Non mi si deve giudicare eccessivamente polemico se ribadisco, con tanta insistenza, questo punto: Non esser lecito alla Chiesa creare alcuna nuova dottrina, cioè insegnare più di quanto Dio abbia rivelato nella sua parola. Ogni uomo ragionevole, infatti, vede chiaramente quali pericoli nascerebbero concedendo questo potere all'uomo; la porta sarebbe aperta ad ogni bestemmiatore per beffarsi della fede cristiana, se i cristiani dovessero accogliere come articoli di fede le decisioni degli uomini.
Si deve anche notare un'altro fatto: Gesù Cristo, secondo l'uso del suo tempo, ricorre ad un termine che indica il concistoro stabilito fra i Giudei, volendo con questo parallelismo indurre i suoi discepoli a rispettare i responsabili della Chiesa. Dovessimo prestar fede ai nostri avversari ogni città o villaggio avrebbe questa autorità nel creare articoli di fede. 16. Gli esempi a cui ricorrono, non sostengono le loro tesi. Dicono che il battesimo dei fanciulli è fondato più sul decreto della Chiesa che su un esplicito comandamento della Scrittura. Ben misera e infelice sarebbe la scappatoia se per difendere il battesimo dei fanciulli fossimo costretti a ricorrere alla sola autorità della Chiesa; vedremo in altra sede che le cose non stanno affatto così. Similmente, quando aggiungono che non si trova nella Scrittura il decreto del concilio di Nicea, secondo cui il Figlio di Dio è di una medesima sostanza Cl. Padre, recano grave offesa ai santi vescovi del Concilio come se avessero condannato temerariamente Ario, perché non voleva accettare la loro terminologia, pur dichiarando di accogliere tutta la dottrina contenuta negli scritti dei profeti e degli apostoli. Ammetto che il termine consustanziale non si riscontra nella Scrittura; considerando, però, che in essa è affermato così spesso che vi è un solo Dio e che inoltre Gesù Cristo viene detto vero Dio ed eterno, uno Cl. Padre, che hanno fatto i santi vescovi nel dichiarare che erano di una medesima essenza se non esporre semplicemente il senso della Scrittura? Teodoreto, lo storico, narra che Costantino imperatore tenne questo discorso aprendo il Concilio: "Ci dobbiamo attenere all'insegnamento dello Spirito, trattando delle cose divine; i libri degli apostoli e dei profeti ci mostrano pienamente la volontà di Dio, pertanto, lasciando da parte ogni spirito di disputa prendiamo dalle parole dello Spirito Santo le decisioni e le risoluzioni che concernono la presente questione". Nessuno si sentì in dovere di contraddire queste sante ammonizioni o replicare che la Chiesa poteva aggiungere qualcosa di suo, che lo Spirito Santo non aveva tutto rivelato agli apostoli, o, per lo meno che questi non avevano lasciato tutto per iscritto. Nulla di tutto questo. Se fosse vero quanto i nostri avversari pretendono, l'imperatore Costantino avrebbe in primo luogo agito male sottraendo alla Chiesa la sua autorità; in secondo luogo sarebbe stata una pessima slealtà da parte dei vescovi il non alzarsi per riaffermare l'autorità della Chiesa. Al contrario Teodoreto riferisce che tutti accolsero di buon grado l'esortazione imperiale e la approvarono. Da questo risulta che la pretesa dei nostri avversari è una novità, sconosciuta a quei tempi.
CAPITOLO 9 I CONCILI E LA LORO AUTORITÀ 1. Quand'anche accettassimo tutte quante le loro affermazioni riguardo alla Chiesa, questo non gioverebbe molto per le loro rivendicazioni, infatti tutto ciò che vien detto dalla Chiesa lo riferiscono immediatamente ai concili, che rappresentano, secondo la loro fantasia, la Chiesa stessa. In sostanza il loro zelo, nel rivendicare potestà alla Chiesa, non ha altro fine se non attribuire al Papa e alla sua corte, tutto ciò che avranno potuto ottenere. Prima di iniziare la trattazione di questo problema intendo chiarire brevemente due punti, il primo è questo: se assumo un atteggiamento rigido e sembro non concedere nulla ai nostri avversari, questo non significa che abbia per i concili antichi minor stima del dovuto. Con sentimento sincero li tengo in onore e desidero che ognuno li stimi e li riverisca; occorre però mantenere in questo discrezione per non recare in alcun modo offesa a Gesù Cristo. Poiché questo è il diritto e l'autorità che gli spettano: assumere la presidenza in ogni concilio e non spartire questa dignità con alcun mortale. Ora egli presiede quando è in grado di dirigere tutta l'assemblea mediante il suo Spirito e la sua forza. Il secondo punto è questo: se attribuisco ai concili una importanza minore di quanto vorrebbero i nostri avversari non è per timore che i concili possano giovare alla loro tesi e risultare contrari alla nostra. Troviamo infatti ampiamente nella parola di Dio quanto occorre per confermare la nostra dottrina, e distruggere il papato intero, talché non è necessario cercare aiuto altrove; d'altra parte quando se ne presenti la necessità possiamo valerci assai bene dei concili per fare e l'uno e l'altro. 2. Affrontiamo ora il problema. Alla domanda qual sia l'autorità dei concili, secondo la parola di Dio, non c'è promessa più ampia ed esplicita per stabilirla della parola di Gesù Cristo: "ovunque due o tre sono raccolti nel mio nome, sono in mezzo a loro " (Mt. 18.20). Tale promessa concerne, è vero, sia una piccola assemblea che un concilio universale; non è tuttavia questo il centro della questione, ma il fatto che è precisata una condizione: Gesù Cristo starà in mezzo a una assemblea quando questa sia raccolta nel suo nome. Si riferiscano, i nostri avversari, finché vogliono, alle assemblee di vescovi, non ne ricaveranno grandi vantaggi, né ci convinceranno a prestar fede alla loro pretesa di essere guidati dallo Spirito Santo finché non avranno dimostrato di essere raccolti nel nome di Cristo. Poiché il caso di vescovi malvagi, che congiurano contro Cristo, può verificarsi altrettanto bene quanto il caso di buoni vescovi, che si raccolgono nel suo nome. Che tale possibilità sia reale lo dimostrano parecchi decreti emanati da vari concili, di cui potrei facilmente dimostrare l'empietà con argomenti evidenti; di questo però riparleremo appresso. Affermo, per il momento, che, nel testo summenzionato, Cristo fa questa promessa unicamente a coloro che sono raccolti nel nome suo. Occorre definire ora che cosa questo significhi. Nego che si radunino nel nome di Cristo coloro che, rifiutando il comandamento di Dio in cui egli ha proibito di aggiungere o togliere nulla alla sua parola, stabiliscono a loro piacimento quanto sembra loro opportuno. Costoro, insoddisfatti di ciò che è contenuto nella sacra Scrittura, cioè nell'unica norma di vera e perfetta sapienza, inventano novità di testa propria. Gesù Cristo non ha promesso la sua assistenza a tutti i concili, indistintamente, ma ha aggiunto una precis. Indicazione in base alla quale distinguere i concili legittimi dagli altri; è indubbio che tale differenza non debba essere sottovalutata. Dio ha anticamente pattuito con i sacerdoti levitici che insegnassero la sua parola (Ma.2.7); la stessa cosa ha richiesto costantemente dai suoi profeti. La stessa legge ha imposto, da quanto ci è dato di vedere, agli apostoli. Non considera pertanto suoi sacerdoti e servitori coloro che trasgrediscono e violano questo patto e non riconosce loro autorità alcuna. Risolvano, i nostri avversari, questa difficoltà se vogliono che dia la mia adesione a leggi umane che esulano dalla parola di Dio. 3. Riguardo alla loro tesi che nella Chiesa la verità non esiste qualora non sia mantenuta fra i pastori, e anzi la Chiesa stessa non possa sussistere quando detta verità non appaia nei concili generali, è lecito avanzare forti dubbi che tale situazione si sia sempre verificata, se dobbiamo considerare veritiere le testimonianze che i profeti ci hanno lasciato riguardo ai tempi loro. Sussisteva, a Gerusalemme, ai tempi di Isaia una Chiesa non abbandonata da Dio, tuttavia il profeta dice questo riguardo ai pastori: "I guardiani di Israele sono tutti ciechi, senza intelligenza. Sono tutti dei cani muti, incapaci d'abbaiare. Sognano, stanno sdraiati, amano sonnecchiare; sono dei pastori che non capiscono nulla, e ognuno mira al proprio interesse " (Is. 56.10). Osea dice: "La vedetta d'Israele, prevalendosi di Dio, è un laccio d'uccellatore, un abominio nel tempio di Dio " (Os 9.8). Constatiamo che non fa alcun caso dei titoli d'onore di cui si vantavano i sacerdoti. Questa Chiesa si mantenne sino ai tempi di Geremia. Stiamo ora a sentire ciò che egli dice dei pastori: "Dal profeta al sacerdote tutti praticano la menzogna "e più oltre: "I profeti profetizzano menzogne nel mio nome; benché io non li abbia mandati, e non abbia dato loro alcun ordine " (Gv. 6.13; 14.14). Per non dilungarci nella citazione di tutte queste dichiarazioni rinviamo il lettore a quanto sta scritto nei capitoli 23e 40 del suo libro. In quello stesso tempo Ezechiele, dal canto suo, li trattava con eguale severità: "La cospirazione dei suoi profeti "dice "in mezzo a lei, è come un leone ruggente che sbrana una preda. Costoro hanno divorato le anime, hanno preso tesori, hanno moltiplicato le vedove. I suoi sacerdoti violano la mia legge e profanano le mie cose sante; non sanno conoscere la differenza che passa fra cose profane e le cose che mi sono consacrate. I loro profeti intonacano tutto questo con terra che non regge, hanno delle visioni vane, pronosticano loro la menzogna, dicendo così parla il Signore, mentre il Signore non ha parlato affatto " (Ez. 22.25). Le proteste sono così frequenti in tutti i profeti che non si potrebbe trovare concetto più ribadito di questo. 4. Queste cose si son verificate fra i Giudei, dirà qualcuno, non concernono affatto il nostro tempo. Piacesse a Dio che così fosse. San Pietro però ha dichiarato che si verificherebbe proprio il contrario: "come sorsero falsi profeti nel popolo d'Israele, così sorgeranno fra voi falsi profeti che introdurranno eresie di perdizione " (2 Pi. 2.1). Da notare il fatto che il pericolo non verrà dagli elementi ignoranti del popolino ma da coloro che si vantano del titolo di dottore e pastore. Quante volte sono stati inoltre preannunziati da Cristo e dai suoi apostoli i pericoli in cui la Chiesa sarebbe stata posta dai suoi pastori? (Mt. 24.11-24); lo stesso san Paolo dichiara apertamente che l'Anticristo avrà la sua sede nel tempio di Dio (2 Ts. 2.4); con questa dichiarazione egli intende rendere i credenti attenti al fatto che la terribile calamità, di cui parla, sarà provocata proprio da coloro, che sono insediati nella Chiesa in qualità di pastori. In altro testo egli dimostra che questo fatto già si verificava ai suoi tempi; parlando ai vescovi di Efeso egli dice infatti, fra l'altro: "So che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, i quali non risparmieranno il gregge, e che fra voi stessi sorgeranno uomini che insegneranno cose perverse per trarre i discepoli dietro a se " (At. 20.29). Se i pastori hanno potuto corrompersi in così poco tempo quanto sarà cresciuta, nel succedersi degli anni, la corruzione? Per non occupare eccessivo spazio, sviluppando questi argomenti, farò notare che da tutti i tempi si verificano situazioni che ci rendono attenti al fatto che la verità non è sempre mantenuta fra i pastori e la salvezza della Chiesa non dipende affatto da un buon governo. Sarebbe certo auspicabile che fossero loro i custodi della pace e della salvezza della Chiesa, perché a questo sono stati preposti. Assolvere il proprio compito è cosa ben diversa da non fare ciò che si dovrebbe fare. 5. Non vorrei tuttavia essere frainteso, non preconizzo affatto una diminuzione dell'autorità dei pastori, né vorrei indurre il popolo a disprezzarli. La mia intenzione è solo di far notare che è esistita una diversità fra i pastori, e non si devono considerare tali, senza riserve, tutti coloro che ne hanno il nome. Ora, il Papa e tutti i vescovi della sua cricca, avrebbero l'autorità di capovolgere e mettere sossopra tutto quanto, a loro piacimento, senza aver riguardo alcuno per la parola di Dio, unicamente prevalendosi del titolo di pastore. Per la stessa ragione pretendono volerci far credere che non possono esser privi della luce di verità, che lo Spirito Santo risiede in essi, anzi, che la Chiesa vive e muore con essi, quasi Dio non avesse più diritto di giudizio per punire il mondo con gli stessi castighi che ha usato nei confronti del popolo antico: colpire cioè di cecità e di ottusità i pastori (Za. 12.4). Non sono forse del tutto privi di giudizio non accorgendosi che i loro discorsi sono gli stessi di quelli che facevano i cattivi sacerdoti opponendosi a Dio? Poiché costoro cercavano di premunirsi contro la verità dei profeti dicendo: "Venite, ordiamo macchinazioni contro Geremia. Poiché l'insegnamento della Legge non verrà meno per mancanza di sacerdoti, né il consiglio per mancanza di sani né la Parola per mancanza di profeti " (Gr. 18.18). 6. Con questo stesso argomento è facile dare una risposta al secondo punto concernente i concili generali. Non si può negare che fra i Giudei sia esistita, al tempo dei profeti, una vera Chiesa. Se allora si fosse convocato un concilio generale, quale tipo di Chiesa vi si sarebbe manifestata? Ricordiamo ciò che nostro Signore dichiara loro, non a uno o due, ma a tutti insieme: "I sacerdoti saranno attoniti e i profeti stupefatti " (Gr. 4.9); e: "La Legge mancherà ai sacerdoti e il consiglio agli anziani " (Ez. 7.26); e ancora: "Perciò vi si farà notte invece di visione e le tenebre invece di rivelazione; il sole tramonterà su questi profeti, il giorno si oscurerà su loro " (Mic 3.6). Vi domando ora se tutti costoro si fossero raccolti insieme quale spirito avrebbe presieduto al loro concilio? Un esempio singolare e probante di questo si ha nel concilio convocato da Achab. Vi convennero quattrocento profeti, ma non essendosi raccolti se non per adulare quel sovrano malvagio e incredulo, Satana fu inviato da Dio per farsi, nella bocca di tutti, spirito di menzogna (3Re 22.6-22). La verità venne così condannata all'unanimità in quella sede; Michea, fedele servitore di Dio, fu cacciato come eretico, percosso e imprigionato. Lo stesso accadde a Geremia e ad altri profeti. 7. Un solo esempio però ci basterà, notevole fra tutti. Nell'assemblea che i sacerdoti e i Farisei convocarono a Gerusalemme contro Gesù Cristo (Gv. 11.47) quali critiche si possono muovere riguardo all'aspetto formale? Se in Gerusalemme non fosse esistita allora una Chiesa, nostro Signore non avrebbe mai assistito ai sacrifici e alle altre cerimonie. La convocazione di quell'assemblea è fatta in modo solenne, la presiede il sommo sacerdote, tutto il clero vi partecipa, eppure Gesù Cristo vien condannato e la sua dottrina viene respinta. Questo dimostra che in quel concilio la realtà della Chiesa non era presente. Non c'è motivo di temere che questo possa accadere a noi, si dirà. Chi può provarlo? In una questione di tale importanza non è lecito essere superficiali; si tratterebbe di una sciocchezza troppo grave. C'è di più, lo Spirito Santo ha chiaramente preannunciato, per bocca di san Paolo, che si sarebbe verificata una apostasia (2 Ts. 2.3) che non può aver luogo se i pastori per primi non si allontanano da Dio; perché volere, di proposito, chiudere gli occhi per non considerare la nostra rovina? In nessun modo si deve perciò accogliere il principio, secondo cui la Chiesa consiste nell'assemblea dei prelati; Dio non ha mai promesso che costoro sarebbero stati costantemente buoni, anzi ha preannunciato che sarebbero, a volte, malvagi. Quando ci avverte dell'esistenza di un pericolo lo fa per renderci più intelligenti e prudenti. 8. Come, dirà qualcuno, i decreti dei concili non hanno autorità alcuna? Indubbiamente hanno autorità, rispondo. Non sto infatti affermando che tutti i concili si debbano respingere, e se ne debbano cassare tutte le decisioni dal primo all'ultimo. Si risponderà che, per parte mia, li tengo in così poco conto da lasciare ad ognuno la facoltà di accogliere o respingere ciò che è stato deciso in un concilio. Questo lo nego. Ogni volta però che si cita il decreto di un qualche concilio, vorrei fosse accuratamente valutato il periodo in cui detto concilio è stato convocato, per quale ragione, a che fine, chi siano state le persone che vi abbiano preso parte; quindi si esaminasse il problema in questione alla luce della Scrittura; fatto tutto questo la decisione conciliare potrebbe assumere il suo peso e valore normativo ma non senza quell'esame. Vorrei si mantenesse l'insegnamento di sant'Agostino, nel terzo libro contro Massimino. Per chiudere la bocca a quell'eretico che polemizzava contro i decreti conciliari, egli dice: "Non è il caso che io citi il concilio di Nicea e che tu risponda citando quello di Rimini come se non avessimo la libertà di giudicare. Tu infatti non sei soggetto al primo né io al secondo; il problema sia dibattuto con buona conoscenza di causa e ragionevolezza, e il tutto sia fondato sulla Scrittura che è comune alle due parti ". Se ciò fosse fatto i concili avrebbero l'autorità che devono avere e tuttavia la Scrittura conserverebbe la sua preminenza sottoponendo ogni cosa alla sua norma. In base a questa impostazione di metodo, accettiamo pienamente gli antichi concili quali Nicea, Costantinopoli, il primo di Efeso, Calcedonia, e gli altri che si sono tenuti per condannare gli errori e le false opinioni degli eretici; li consideriamo, ripeto, con riverenza e onore in virtù degli articoli di fede che furono colà definiti. Questi concili infatti contengono solo una pura ed evidente interpretazione della Scrittura, che i santi Padri, con oculatezza hanno messa a punto per respingere i nemici della cristianità. Analogamente in alcuni di quelli che si sono tenuti appresso notiamo zelo di pietà ed evidenti elementi di dottrina, di prudenza, di spirito; essendo però il mondo solito peggiorare nel crescere, e facile constatare come nei lavori conciliari la Chiesa si sia a poco a poco allontanata dalla purezza originale. Non dubito affatto, che anche in quei tempi, già assai corrotti, abbiano preso parte ai concili vescovi integri. Si è però verificato l'inconveniente che i senatori romani lamentavano nel loro senato, quando si conteggiavano i voti senza tener conto delle motivazioni e si prendevano le decisioni in base alla maggioranza: la parte più numerosa aveva, spesso, partita vinta sulla migliore. Certo sono state prese in questo modo decisioni cattive e non ho bisogno di citare In questa sede esempi in dettaglio, sia perché sarebbe troppo lungo, sia perché altri lo hanno già fatto con tanta cura che non ho nulla da aggiungere. 9. È forse il caso di menzionare le contraddizioni dei concili e come uno abbia disfatto ciò che era stato fatto da un altro? Né mi si deve rispondere che se due concili si contraddicono, uno deve essere considerato illegittimo! Quali sono infatti i criteri di giudizio? Penso non esista altra possibilità che giudicare sulla base della Scrittura quale dei due abbia preso una decisione errata, non essendoci infatti altra norma sicura di valutazione. Circa novecento anni fa si tenne a Costantinopoli, al tempo di Leone imperatore, un concilio in cui fu ordinata la rimozione e la distruzione di tutte le immagini che si tenevano nelle Chiese. Poco dopo, Irene, madre dell'imperatore, convocò un altro concilio a Nicea, che ordinò di introdurre nuovamente le immagini . Quale dei due è da considerarsi legittimo? Il secondo ha avuto partita vinta poiché le immagini si sono mantenute nelle Chiese. Sant'Agostino però dichiara che questo non può accadere senza grave pericolo di idolatria. Epifanio, dottore più antico ancora, si esprime in termini più severi perché afferma che la presenza di immagini nei templi dei cristiani deve considerarsi peccato ed abominazione. Avendo essi espresso questo parere, al tempo loro, approverebbero quel tale concilio se vivessero oggi? Fatto più grave ancora, se gli storici dicono il vero, quel concilio non solo ha accolto le immagini, ma ha pure stabilito che si debbano onorare. Ora è evidente che una tale decisione è ispirata da Satana. Che potremmo dire riguardo a questa depravazione e falsificazione, a questo smembramento della Scrittura? Questo mostra che non hanno fatto altro che beffarsi, come ho illustrato più sopra. Comunque sia, non siamo in grado di operare una scelta tra concili che si contraddicono l'un l'altro, come accade in molti casi, se non valutandoli tutti secondo la parola di Dio, norma a cui sono sottoposti non solo gli uomini ma anche gli angeli. Per questa ragione respingiamo i decreti del secondo concilio di Efeso e approviamo quello di Calcedonia, il primo ha approvato gli errori di Eutiche, il secondo li ha condannati. Infatti i Padri che hanno partecipato al concilio di Calcedonia hanno tratto i loro pensieri unicamente dalla parola di Dio. Li seguiremo perciò avendo per illuminarci, la stessa parola di Dio che li ha ispirati nei loro pensieri. Vengano ora i Romanisti a vantarsi, come sono soliti fare, che lo Spirito Santo è legato e vincolato ai loro concili! 10. Ci sarebbe pure da fare qualche riserva anche riguardo agli antichi concili, che pur risultano essere i più puri; o perché i vescovi di quel tempo, pur essendo uomini savi e avveduti, essendo direttamente implicati nei problemi per cui si erano radunati, non prendevano in considerazione i problemi generali, o perché impegnati a risolvere gravi questioni non prestavano attenzione ai problemi di importanza secondaria, o perché commisero sbagli per ignoranza o perché a volte si mostrarono troppo passionali nelle loro reazioni. Quest'ultima ragione potrebbe sembrare la più insolita, non avessimo un esempio degno di nota nel primo concilio di Nicea, che è stato posto su tutti gli altri per particolare dignità. I vescovi, convenuti in quella sede per difendere i punti fondamentali della nostra fede, quantunque si trovassero in presenza di Ario, pronto a dar battaglia, e si richiedesse, per poterlo vincere, un accordo generale, noncuranti del pericolo in cui versava la Chiesa, quasi fossero convenuti per fargli piacere, cominciarono ad aggredirsi, accusarsi, ingiuriarsi l'uno l'altro, mettere in giro libelli diffamatori in cui spiattellavano tutta la loro vita, senza ritegno; lasciando insomma Ario da parte si distruggevano a vicenda. Tanta era la violenza con cui si accanivano l'uno contro l'altro che non avrebbero mai posto fine ai loro litigi se l'imperatore Costantino, pur dichiarando di non voler fungere da giudice, non avesse posto fine al dibattito. È dunque tanto più verosimile che gli altri concili, susseguitisi da allora, abbiamo avuto qualche lacuna. Questo non ha bisogno di ampia dimostrazione poiché chiunque legga gli atti degli antichi concili, vi riscontrerà molti difetti. Perciò non ci dilunghiamo. 11. Leone, vescovo di Roma, non ha avuto la minima esitazione ad accusare il concilio di Calcedonia di ambizione e sconsiderata temerarietà, pur riconoscendolo santo e cristiano sotto il profilo dottrinale. Non ne contesta il carattere legittimo, ma dice chiaramente che ha potuto sbagliare. Qualcuno mi giudicherà malintenzionato perché metto in luce con tanta premura questi errori, dato che gli stessi papisti ammettono che i concili possono errare nelle cose non necessarie alla salvezza. Questo discorso non è però superfluo. I papisti, infatti, quando si vedono piegati con argomenti validi, dichiarano di ammettere questo, in realtà però volendoci fare accogliere come rivelazione dello Spirito Santo, senza eccezione e globalmente, tutto ciò che è stato determinato nei concili, su qualsiasi argomento, richiedono, in realtà, più di quanto dicono. Quale è il loro scopo nel far questo? Ottenere l'infallibilità dei concili. Oppure, quand'anche abbiano errato, non sia lecito accoglierne la verità senza accettarne anche gli errori. Scopo del mio discorso è mostrare che lo Spirito Santo, pur guidando i buoni e cristiani concili, ha permesso che vi fosse in essi qualche errore umano, per ricordarci che non dobbiamo porre eccessiva fiducia negli uomini. Questa affermazione è assai più blanda delle espressioni di Gregorio di Nazianzo il quale affermava non aver mai visto alcun buon risultato nascere da un concilio. Dichiarando infatti che tutti, senza eccezione, hanno avuto esito cattivo, non riconosce loro autorità alcuna. Non è neppure il caso di menzionare i concili provinciali; è facile dedurre infatti, da quanto è stato detto riguardo ai generali, quale autorità abbiano nello stabilire articoli di fede e nel proporre le dottrine che sembrano opportune ai vescovi quando si raccolgano in quella sede. 12. Ora i nostri romaniscoli vedendosi privati di ogni sostegno ragionevole, si trincerano dietro questo ultimo e infelice argomento: la parola di Dio che ci ordina di obbedire ai nostri superiori permane valida, quand'anche siano ignoranti e malvagi. Che valore ha però questo argomento se neghiamo che costoro siano nostri superiori? Non è lecito infatti usurpare una dignità maggiore di quella che ebbe Giosuè, profeta di Dio ed eccellente pastore. Ascoltiamo con quali parole è stato istituito dal Signore nel suo ufficio: "Il libro della Legge non si diparta mai dai tuoi occhi, meditalo giorno e notte, non te ne sviare né a destra né a sinistra, affinché tu prosperi dovunque andrai " (Gs. 1.7-8). Considereremo dunque nostri superiori, in campo spirituale, coloro che non si allontaneranno dalla legge di Dio "né da un lato, né dall'altro ". Se ci fosse richiesto, in realtà, di accogliere indifferentemente l'insegnamento di tutti i pastori, a che scopo la parola di Dio ci ammonirebbe così spesso e così severamente a non prestare orecchie alle dottrine dei falsi profeti e dei falsi pastori?: "Non ascoltate "dice per bocca di Geremia "le parole dei profeti che vi profetizzano. Essi vi pascono di cose vane, vi espongono le visioni del proprio cuore, e non ciò che procede dalla bocca dell'eterno " (Gr. 23.16). E ancora: "Guardatevi dai falsi profeti i quali vengono a voi in vesti di pecore, ma dentro sono lupi rapaci, " (Mt. 7.15). Senza ragione san Giovanni ci avrebbe invitati a provare gli spiriti per conoscere se sono da Dio (1 Gv. 4.1). Non debbono essere esentate da questa prova le menzogne del Diavolo poiché vi sono soggetti gli stessi angeli del paradiso. Il detto di nostro Signore che se un cieco guida un altro cieco tutti e due cadono nella fossa (Mt. 15.14) , non ci dimostra forse chiaramente che dobbiamo vagliare attentamente i pastori che ascoltiamo, e non è bene prestare ascolto a tutti, con leggerezza? I loro titoli di autorità non ci impressionano al punto da accecarci come loro; vediamo, invece, con quanta cura nostro Signore ci ammonisce a non lasciarci ingannare ingenuamente dall'errore altrui, sotto qualsiasi forma, sia pur prestigiosa, si nasconda. Infatti la parola di Gesù Cristo è vera: tutti i conduttori ciechi, si chiamino vescovi, prelati, o pontefici, non possono che trascinare in una stessa rovina tutti coloro che li seguono. L'uso perciò di questa terminologia: concili, vescovi, prelati, che si può usare legittimamente quanto usurpare falsamente, non ci impedirà di esaminare ogni spirito al metro della parola di Dio per determinare se è da Dio. 13. Che la Chiesa non abbia l'autorità di creare nuove dottrine, è stato dimostrato, vediamo ora l'autorità che i papisti le attribuiscono nell'intepretare la Scrittura. Sottoscriviamo certo pienamente l'idea che qualora sorga una contestazione su qualche articolo di fede, il miglior rimedio, e il più efficace, consista nella convocazione di un concilio di autentici vescovi per discutere la questione. Una decisione presa in comune accordo fra i pastori della Chiesa, dopo avere domandato la grazia dello Spirito Santo, avrà un peso assai maggiore che se ognuno di essi, separatamente, prendesse la propria risoluzione e la annunziasse al popolo, o quand'anche fossero soltanto due o tre a farlo. Inoltre i vescovi raccolti insieme hanno l'occasione di discutere ed esaminare ciò che si debba insegnare e il modo di insegnarlo affinché la diversità di opinioni non causi scandali. In terzo luogo san Paolo ci mostra che tale è la procedura da seguire per pronunciare un giudizio in materia di dottrina. Attribuendo ad ogni Chiesa il compito di giudicare (1 Co. 14.29) egli mostra qual debba essere il procedimento da seguire qualora la cosa non sia risolta: le Chiese si debbono radunare insieme per effettuare un esame comune. E il senso stesso della fede ci conduce a seguire questa prassi: qualcuno turba una Chiesa spargendo dottrine insolite e nuove e la cosa giunge al punto da far temere l'insorgere di un contrasto più grave? Le Chiese si devono raccogliere per esaminare la questione, e dopo aver discusso, prendano, traendola dalla Scrittura, una decisione, che tolga ogni dubbio al popolo e chiuda la bocca a coloro che provocano il sorgere di dispute a causa del loro orgoglio e della loro ambizione. In questo modo, quando Ario iniziò la sua eresia, fu convocato il concilio di Nicea affinché, in base all'autorità comune dei vescovi l'audacia di quell'uomo perverso venisse denunciata e le Chiese, da lui turbate, fossero ricondotte alla pace e la sua eresia fosse sradicata, come avvenne appresso. Poco dopo, avendo Eunomio e Macedonio altri eretici, provocate nuove dispute, si oppose loro resistenza nello stesso modo convocando il concilio di Costantinopoli Il primo concilio di Efeso si tenne per distruggere l'eresia di Nestorio . Tale è stata, in breve, la procedura ordinaria per conservare l'unità delle Chiese, sin dal principio, ogni qual volta il Diavolo aveva preso ad ordire qualche plano. Da notare che non si trovano in ogni tempo e in ogni luogo uomini della statura di Atanasio, Basilio, Cirillo e simili difensori della retta dottrina, quali nostro Signore aveva suscitato allora. Ci si ricordi anzi quanto accadde al secondo concilio di Efeso, dove venne accolto favorevolmente l'eretico Eutiche, mentre il santo vescovo Flaviano fu bandito con i suoi aderenti in quanto si opponeva a quello, e furono commesse altre malvagità: questo accadde perché a precedere quel concilio era Dioscoro, uomo sedizioso e di cattiva volontà, non lo Spirito di Dio. Qualcuno mi farà notare che questa non era la Chiesa. Lo ammetto; ho infatti la convinzione che la verità non muore e non viene soffocata nella Chiesa anche quando risulti calpestata in un concilio, anzi viene miracolosamente serbata da Dio per riprendere a suo tempo il sopravvento. Ciò che contesto però è che si debba considerare vera l'affermazione secondo cui ogni interpretazione, per il fatto di essere approvata da un concilio, sia esatta e conforme alla Scrittura. 14. Altro è però il fine cui tendono i romanisti nel rivendicare ai concili autorità assoluta, senza appello, nell'interpretazione della Scrittura; si valgono di questa garanzia per definire interpretazione scritturale ogni decisione conciliare.
Non si trova nella Scrittura neppure il minimo cenno al Purgatorio, all'intercessione dei santi, alla confessione auricolare e a tutte quelle sciocchezze. In quanto però queste cose sono state definite dall'autorità della Chiesa, come dicono, cioè, per parlar chiaro, sono state introdotte dall'uso e dalla tradizione, si dovranno considerare frutto dell'interpretazione della Scrittura. Non solo, ma se in un concilio venisse stabilito qualcosa in aperto contrasto con la Scrittura, anche a questo si dovrà dare valore di interpretazione scritturale. Gesù Cristo ordina a tutti di bere il calice nella Cena (Mt. 26.26) , il concilio di Costanza ha proibito di darlo al popolo e ha stabilito che bevesse il solo sacerdote officiante . Pretenderebbero farci considerare interpretazione della Scrittura una cosa che contrasta in modo così evidente con l'istituzione di Gesù Cristo? San Paolo definisce dottrina diabolica (1 Ti. 4.1) la proibizione del matrimonio. Ed in un altro testo lo Spirito Santo dichiara che il matrimonio è condizione santa e degna di essere onorata (Eb. 13.4). Il divieto di sposarsi fatto ai preti, secondo costoro dovrebbe essere interpretazione della Scrittura anche se non si può immaginare nulla di più assurdo. Uno osa aprir bocca per dire una parola? Viene definito eretico perché le decisioni della Chiesa sono inappellabili e non si deve avere il minimo dubbio sulla verità di tutte le sue interpretazioni. Che potrei dire contro tale spudoratezza? Mi basterà averla smascherata. Riguardo a quella assurda diceria, secondo cui la Chiesa avrebbe potestà di approvare la Scrittura, preferisco non parlarne, a ragion veduta. Il voler sottomettere in questo modo la sapienza di Dio all'approvazione umana, quasi non avesse autorità se non in quanto aggrada loro, è bestemmia indegna di essere anche soltanto menzionata. Inoltre ho trattato il problema nel primo libro . Pongo solo una domanda: se l'autorità della Scrittura è fondata sull'approvazione della Chiesa, quale decreto conciliare posso citare a sostegno di questa tesi? Non mi risulta ve ne siano. Come avrebbe potuto Ario accettare di essere refutato, a Nicea, sulla base di una citazione dell'evangelo di san Giovanni? Infatti, secondo questo argomento dei papisti, avrebbe avuto pieno diritto di respingere il testo, visto che la Scrittura non aveva ancora ricevuto sanzione da parte di un concilio universale. Citano allora quel catalogo antico, detto il Canone della Scrittura, frutto secondo loro della definizione ecclesiastica. A questo punto ripropongo la domanda: in quale concilio quel canone e stato composto? E sono costretti al silenzio. Anche se per conto mio avrei piacere di saper più ampiamente cosa sia in sostanza questo canone poiché constato che fra gli antichi non era definito. Se il parere di san Girolamo è autorevole, dobbiamo considerare apocrifi i libri dei Maccabei, la storia di Tobia, l'Ecclesiastico e altri simili scritti. Questo però non è ammesso da questa brava gente.
CAPITOLO 10 LA POTESTÀ DELLA CHIESA NEL FARE E STABILIRE LEGGI: IN CHE MODO IL PAPA E I SUOI HANNO ESERCITATO UNA CRUDELE E INFERNALE TIRANNIA SULLE ANIME 1. Esaminiamo ora il secondo elemento dell'autorità ecclesiastica che i Papisti vogliono far consistere nell'imporre leggi a loro piacimento. Da questa fonte hanno tratto origine infinite tradizioni che sono diventate altrettanti lacci per strangolare le povere anime. Poiché, come già i Farisei, non si fanno scrupolo di porre sulle spalle del popolo pesi insopportabili che non vorrebbero neppure toccare Cl. Dito (Mt. 24.4). Ho già illustrato altrove quanto profonda e crudele sia la tortura rappresentata dalla prassi, imposta a tutti, di confessare i propri peccati all'orecchio del prete. Una forma di violenza così grave non si riscontra, è vero, in tutte le loro leggi; anche quelle, però, che sembrano più tollerabili non mancano di opprimere tirannicamente le coscienze; tralascio dal far notare come tali leggi imbastardiscano la fede cristiana e sottraggano a Dio stesso il diritto che gli spetta di essere unico legislatore. Questo è il problema che abbiamo ora a considerare: se sia lecito alla Chiesa vincolare le coscienze a leggi che stabilisce a suo piacimento. In questo dibattito non prendiamo in considerazione le norme che costituiscono il governo ecclesiastico, il problema consiste solo in questo: che Dio sia servito con purezza e fedelmente secondo gli ordini che ha dato egli stesso, e la libertà spirituale permanga garantita. Nel linguaggio comune ogni norma legislativa concernente il servizio di Dio, quando sia emanata dagli uomini, è detta tradizione umana. Quelle sono le leggi contro cui dobbiamo combattere, non le norme sante e utili che servono a garantire umiltà e rettitudine e a mantenere la pace. Lo scopo di questa battaglia è porre un freno al dominio eccessivo e inumano imposto alle povere anime da questa gente che si pretende pastore ed è diventata boia crudele. Pretendono infatti che leggi da essi emanate siano spirituali e concernano l'anima, affermando che sono necessarie alla vita eterna. Viene, in tal modo, assalito e violentato il regno di Cristo e la libertà da lui concessa alle coscienze dei credenti risulta soffocata ed annientata. Tralascio per ora l'esame dell'empio principio su cui fondano l'osservanza delle loro leggi, affermando che in virtù di queste si acquista redenzione dei peccati e giustizia, e facendo consistere in queste la religione intera. Mi limiterò ora ad esaminare questo solo punto: non si devono imporre alle coscienze obblighi riguardo alle cose da cui le ha liberate Gesù Cristo e violare quella libertà, senza la quale, come abbiamo sopra dimostrato, non possono avere pace con Dio. Devono riconoscere quale unico re e liberatore il Cristo, essendo governate dalla sola legge della libertà, rappresentata dalla sacra parola dell'evangelo, per poter mantenere la grazia che fu ottenuta una volta in Gesù Cristo, e non devono essere sottoposte ad alcuna schiavitù né esser vincolate da alcun legame. 2. Questi legislatori vogliono far credere che le loro costituzioni siano leggi di libertà, giogo facile, peso leggero . Chi non si accorge, però, che sono semplicemente menzogne? Per conto loro non avvertono il peso delle loro leggi, visto che avendo respinto ogni timor di Dio, disprezzano con egual libertà le proprie leggi e quelle di Dio. Coloro però che si preoccupano della propria salvezza sono lungi dal considerarsi liberi, finché si vedono vincolati dai loro legami.
Constatiamo invece che san Paolo ha evitato, con cura estrema, di opprimere le coscienze, al punto di non osar vincolarle neppure in una sola questione (1 Co. 7.35). Non senza ragione. Egli sapeva che l'imporre obblighi alle coscienze, riguardo alle cose che Dio ha lasciate alla loro libertà, equivale a ferirle mortalmente. Saremmo invece in grave imbarazzo se volessimo enumerare le leggi vincolanti emanate da costoro sotto pena di dannazione eterna e la cui osservanza viene richiesta come rigorosamente necessaria alla salvezza. Non poche sono, in se stesse, difficili da osservare, quando però si assommano, la pratica risulta impossibile, tanta ne è la mole. Come potranno, quelli che sono caricati da così gravi e pesanti pesi, non essere tormentati da terribili angosce e perplessità? Riaffermo dunque la mia intenzione di polemizzare, qui, contro le leggi create e fabbricate per vincolare le anime riguardo a Dio e caricarle di scrupoli, quasi la pratica ne fosse indispensabile. 3. Molti si trovano imbarazzati, nell'affrontare questo problema, non distinguendo in modo sufficientemente chiaro, tra il giudizio di Dio, spirituale, e la giustizia terrena degli uomini. La difficoltà risulta ancora accresciuta, per loro, dal fatto che san Paolo ordina di ubbidire ai magistrati, non solo per paura di punizione, ma per motivo di coscienza (Ro 13.1). Da cui consegue che le coscienze sono anche sottoposte alle leggi civili. Se le cose stanno così, quello che abbiamo già detto nel capitolo precedente e quello che ci resta da dire, circa il regime spirituale, sarebbe annullato. È necessario sapere in primo luogo, per sciogliere questo nodo, che cosa si debba intendere per coscienza. Una comprensione generale può ricavarsi dal termine stesso: "scienza "è l'apprendimento o la conoscenza di ciò che gli uomini conoscono secondo lo spirito che è dato loro. Quando dunque essi provano una reazione o un rimorso di fronte al giudizio di Dio, quasi fossero in presenza di un testimone posto loro accanto che non lascia loro nascondere i peccati ma anzi li sollecita a sottomettersi al giudizio divino, questo si definisce "coscienza ". Si tratta infatti di una "conoscenza "posta tra Dio e l'uomo che non permette a colui che vorrebbe cancellare le sue colpe, di dimenticare, ma lo segue per fargli sentire che è colpevole. È quanto pensa san Paolo, affermando che la coscienza rende testimonianza agli uomini, in quanto i loro pensieri li condannano o assolvono davanti a Dio (Ro 2.15). Una pura e semplice conoscenza rischierebbe di essere soffocata in un uomo. Perciò questo sentimento che cita l'uomo e lo conduce dinanzi al tribunale di Dio è come un custode che gli vien dato per mantenerlo vigile, e sorvegliarlo, e svelare tutto quello che egli sarebbe lieto di nascondere, qualora ne avesse la possibilità. Ecco donde è venuto il proverbio antico che la coscienza è come mille testimoni. Per la stessa ragione san Pietro considera che la voce di una buona coscienza è riposo e tranquillità di spirito (1 Pi. 3.21) , per un credente, quando, fondandosi sulla grazia di Cristo, si presenta liberamente davanti a Dio. E l'Apostolo nella epistola agli Ebrei, dicendo che i credenti non hanno più coscienza di peccato, intende significare che ne sono liberati e assolti non conoscendo più i rimproveri del rimorso (Eb. 10.2).
4. Gli uomini sono oggetto delle nostre opere, così la coscienza ha in Dio la sua meta. Una buona coscienza non è perciò altro che l'integrità interiore del cuore. È a questo riguardo che san Paolo dice che il compimento della Legge è amore procedente da una buona coscienza e fede non finta (1 Ti. 1.5). In un altro testo dimostra in che cosa essa differisca da una semplice conoscenza, affermando che alcuni sono scaduti dalla fede perché si erano allontanati dalla retta coscienza. Con queste parole Egli intende dire che la coscienza è un vivo sentimento di onore verso Dio e un impegno cosciente a vivere in modo santo e puro. Il termine "coscienza "si riferisce, a volte, ad una realtà nell'ambito umano, come nel testo degli Atti dove san Paolo dice che si è esercitato a camminare del continuo dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini con una coscienza pura (At. 24.16). Questo si deve intendere nel senso che le manifestazioni esteriori, che procedono dalla coscienza, si prolungano sul piano umano. In senso proprio, però, la coscienza, come ho detto sopra, ha in Dio il suo metro e il suo orientamento. Diciamo perciò che una legge vincola le coscienze, nel senso che impegna l'uomo in un modo assoluto e definitivo, senza riguardo al suo prossimo, come se avesse a che fare con Dio soltanto. Per esempio: Dio ci ordina di avere il cuore puro da ogni impudicizia, ma anche di guardarci da ogni parola impura e da ogni atto dissoluto che conduca all'incontinenza. Quand'anche non vi fosse in terra anima viva sono tenuto, in coscienza, ad osservare tale legge. Perciò se mi lascio andare a commettere qualche atto di impudicizia, non pecco solo in quanto reco scandalo ai miei fratelli, ma mi rendo colpevole davanti a Dio, in quanto ho trasgredito tutto ciò che egli mi aveva proibito nel rapporto tra lui e me. Altra considerazione si può fare riguardo alle cose indifferenti, di cui ci dobbiamo astenere, in quanto potremmo offendere i nostri fratelli pur mantenendo una coscienza libera e franca. Come dimostra san Paolo, parlando delle carni sacrificate agli idoli: "Se qualcuno "dice "se ne fa scrupolo, non ne mangiare per motivo di coscienza: riguardo a quella del tuo prossimo, non alla tua " (1 Co. 10.28-29). Il credente avvertito commetterebbe peccato, scandalizzando il prossimo in una questione di cibo; quantunque Dio gli ordini di astenersi dal mangiare tale carne, per amore del suo prossimo, ed egli sia tenuto a sottostare, tuttavia la sua coscienza non cessa per questo di essere sempre libera. Questo ordinamento non impone dunque vincoli se non riguardo all'atto esteriore e lascia libera la coscienza. 5. Torniamo ora alle leggi umane. Qualora pretendano di sottometterci in modo assoluto, in questo caso le coscienze sono gravate oltre il dovuto perché debbono essere rette e giudicate dalla sola parola di Dio dovendo render conto a lui e non agli uomini. E, in realtà, tale è stato il significato della distinzione popolare, avutasi in tutte le scuole: una cosa essere la giurisdizione umana e civile, altra quella che concerne la coscienza. Quantunque il mondo sia stato immerso nelle tenebre di una terribile ignoranza, pure questa tenue luce si è mantenuta: che cioè la coscienza si muove nel campo di una giurisdizione particolare, superiore al giudizio degli uomini. È vero che, pur confessando questo a parole, lo si negava nella pratica; Dio però ha voluto che sussistesse sempre una qualche testimonianza della libertà cristiana per liberare dalla tirannia degli uomini le coscienze. La difficoltà che abbiamo notato più sopra, riguardo alle parole di san Paolo, non è però risolta; bisogna infatti ubbidire ai prìncipi, non solo per timore del castigo ma per motivo di coscienza, sembra derivare, come conseguenza, che le leggi dei prìncipi reggono le coscienze per tenerle vincolate. Se questo è vero, altrettanto deve dirsi delle leggi ecclesiastiche. In primo luogo conviene effettuare una distinzione fra il genere e la specie. Poiché quantunque ogni singola legge non impegni la coscienza, siamo tuttavia, tenuti, ad osservarle per una motivazione generale, a causa del comandamento di Dio che ha approvato e stabilito l'autorità dei magistrati. È questo un punto su cui san Paolo insiste in tutta la sua trattazione: occorre onorare il magistrato in quanto è stabilito da Dio (Ro 13.1). Nondimeno egli non insegna che le leggi o gli statuti da essi emanati appartengano al governo spirituale delle anime, perché in ogni caso, egli mantiene fermo il principio che il solo servizio di Dio costituisce la norma di vivere bene e santamente. In quanto la realtà spirituale, come la si definisce, è da porsi al di sopra di ogni decreto e di ogni statuto umano. Un secondo punto è da prendersi in considerazione, che deriva dal primo: tutte le leggi umane (intendo quelle rette e giuste ) non vincolano affatto la coscienza in quanto l'obbligo di osservarle non si deve ricercare nelle cose comandate, quasi fosse peccato in se fare questo o quello, ma nel fatto che ogni cosa deve essere orientata al fine generale di far sussistere tra noi ordine e buon governo. Ogni legge perciò che, in qualche modo, imponga di servire Dio oltre alle affermazioni della sua parola o imponga obblighi normativi riguardo alle cose libere o indifferenti è lungi da quel fine. 6. Ora tutte le leggi dette oggi, nel papismo, ecclesiastiche, che si pretendono necessarie per onorare e servire Dio rettamente, sono di tale natura. Dato il loro numero immenso rappresentano altrettanti vincoli per tenere le anime prigioniere. Quantunque già se ne sia fatto cenno nell'esposizione della Legge tuttavia, dato che questa sede risulta più adatta per una ampia trattazione, cercherò di raccogliere in breve i dati del problema presentandolo nel miglior ordine possibile. Avendo anche, in precedenza, parlato ampiamente della licenza che i falsi vescovi si attribuiscono di insegnare dottrine e inventare articoli di fede a loro piacimento, tralascio questo problema e mi limiterò a parlare dell'autorità, che essi si vantano possedere per emanare leggi e decreti. La scusa cui ricorrono il Papa e i suoi vescovi mitrati, per opprimere le coscienze con nuove leggi è questa: essi sono stabiliti, dal Signore, legislatori spirituali in quanto è ]oro affidato il governo della Chiesa. Tutto quello che comandano e ordinano deve essere perciò osservato, necessariamente, essi dicono, da tutto il popolo cristiano, e colui che avrà disubbidito è colpevole di una doppia disobbedienza in quanto si ribella a Dio ed alla Chiesa . Qualora fossero vescovi veri sarei disposto a conceder loro qualche autorità, non nella misura da essi richiesta, ma quanto basta per mantenere il governo della Chiesa. Dato però che sono tutto, fuorché quello che pretendono essere, per quanto minime siano le loro richieste risultano già eccessive. Tuttavia, avendo già dimostrato che razza di gente sia e in quale considerazione li si debba tenere, concediamo loro, per il momento, che si possa attribuire loro tutta quell'autorità che spetta ai veri vescovi. Anche ammettendo questo, contesto, tuttavia, che si possano considerare stabiliti quali legislatori sui credenti per decretare a loro piacimento norme di vita o costringere il popolo a mantenere i loro statuti e i loro decreti. Intendo dire che non hanno affatto il diritto di imporre alla Chiesa l'osservanza di ciò che essi hanno stabilito, da se, senza la parola di Dio, e renderlo vincolante. Considerando il fatto che tale autorità è sconosciuta agli apostoli e che Dio l'ha così spesso ed esplicitamente negata ai ministri della sua Chiesa, mi stupisco che abbiano potuto usurparla contravvenendo al divieto di Dio, così manifesto, e ancor più che osino oggi rivendicarla. 7. Il Signore ha incluso nella sua legge tutto ciò che concerne una retta norma di vita in modo da non lasciare agli uomini nulla da aggiungere. Ha agito in questo modo per due motivi. Il primo è questo: dato che ogni santità e ogni giustizia consiste nel fatto che la nostra vita sia conforme alla sua volontà, come all'unica norma di ogni retto agire, è giusto che lui solo abbia autorità e governo su di noi. Il secondo motivo è questo: egli ha voluto dimostrare che nulla ci richiede più dell'obbedienza. Per questo motivo san Giacomo dice: "Chi giudica suo fratello, giudica la Legge; chi giudica la Legge non è osservatore ma giudice. Uno solo è il legislatore che può salvare e perdere " (Gm. 4.2). Vediamo in questo testo che Dio si attribuisce queste cose in privilegio particolare: governarci con la sua autorità e le sue leggi. Questa affermazione era stata fatta in precedenza da Isaia: "Il Signore è il nostro giudice, il Signore e il nostro legislatore, il Signore è il nostro re, egli è colui che ci salva " (Is. 33.22). Nei due testi viene chiaramente mostrato che Dio solo tiene nelle sue mani la vita e la morte in quanto ha autorità sull'anima. Anche san Giacomo lo dichiara apertamente. Nessun uomo ha dunque il potere di usurpare questo diritto. Si deve, in conseguenza, considerare quale Signore dell'anima nostra soltanto Dio che ha solo autorità di salvare o condannare, ovvero, secondo le parole d'Isaia, bisogna riconoscerlo quale re, giudice, legislatore, e salvatore. Perciò san Pietro, ricordando ai pastori il loro compito, li esorta a pascere il gregge in modo da non esercitare dominio sulle eredità (1 Pi. 5.2). Con questo termine "eredità "indica il popolo che Dio si è acquistato per suo possesso. Se consideriamo attentamente il fatto che non è lecito trasferire all'uomo mortale ciò che Dio attribuisce a se, comprenderemo che deve essere eliminata quell'autorità che vogliono attribuirsi coloro che pretendono innalzare se stessi per sottomettere la Chiesa ai propri statuti. 8. Tutto il problema si deve ricollegare al fatto che, essendo Dio solo nostro legislatore, non è lecito all'uomo mortale usurpare questa dignità; dobbiamo dunque porre mente ai due motivi addotti, in base ai quali Dio attribuisce a se stesso questa autorità. Il primo è che la sua volontà deve essere considerata norma perfetta di ogni giustizia e santità, e pertanto la scienza del vivere rettamente consiste nel conoscere ciò che a lui piace. Il secondo è che, riguardo al modo di servirlo bene e rettamente, egli deve essere riconosciuto quale unica autorità delle anime nostre, avendo l'autorità di comandare e il nostro dovere consiste nell'obbedirgli. Quando queste due motivazioni siano chiaramente impresse nella mente, ci sarà facile discernere qual siano le costituzioni umane estranee alla parola di Dio. Tutte quelle cioè che si pretende concernino il vero culto di Dio ed alle quali si vuol sottomettere le coscienze, dando loro carattere di necessità. Ci si ricordi dunque di pesare con questa bilancia ogni decreto e statuto umano se vogliamo effettuare un esame sicuro e infallibile della questione. San Paolo, nella lettera ai Colossesi, si vale della prima motivazione combattendo contro i falsi profeti che volevano imporre nuovi pesi alla Chiesa (Cl. 2.8). Nella lettera ai G alati, pur dovendo risolvere una questione analoga, insiste maggiormente sul secondo punto. Nella lettera ai Colossesi sostiene dunque che non bisogna ricevere dagli uomini la dottrina dell'autentico culto di Dio, visto che egli ci ha fedelmente e sufficientemente istruiti circa il modo di servirlo. Per dimostrare questo, esamina nel capitolo primo come tutta la sapienza, che conduce l'uomo alla perfezione davanti a Dio, sia contenuta nell'evangelo. All'inizio del secondo capitolo dichiara che tutti i tesori della sapienza e dell'intelligenza sono nascosti in Cristo. Conclude che i credenti debbono evitare attentamente di allontanarsi dal gregge di Cristo seguendo una filosofia vana, fondata su leggi umane. Poi, alla fine del capitolo va oltre, condannando ogni "culto volontario ", come egli lo chiama, culto cioè che gli uomini abbiano inventato da se o preso da altri, e in genere ogni comandamento inventato dagli uomini in vista di servire Dio. Abbiamo dunque qui un punto fermo; ogni legislazione nella cui osservanza si vuol far consistere il servizio di Dio, è nociva. Gli argomenti cui ricorre nell'epistola ai G alati per dimostrare che non è lecito sottomettere le coscienze, che debbono invece esser governate da Dio solo, sono comprensibili a tutti e rinvio perciò i lettori al capitolo quinto. 9. Questo problema sarà risolto più facilmente sulla base di esempi, è perciò opportuno, prima di procedere oltre, porre in riferimento questa dottrina con i tempi nostri. Noi affermiamo che le costituzioni con cui il Papa e la sua banda gravano la Chiesa sono cattive e perniciose, i papisti le considerano invece sante ed utili. Si tratta di costituzioni di due tipi. Le une sono cerimonie, le altre concernono più direttamente la disciplina. Abbiamo motivi validi per riprovare sia le une che le altre? Sono più numerose di quanto vorrei. In primo luogo coloro che le emanano non pretendono forse, in modo chiaro ed esplicito, che il vero culto vi è incluso? Che scopo attribuiscono alle loro cerimonie se non il servizio di Dio? Questo non accade solo nel caso di persone ignoranti o del popolino, ma con l'approvazione dei responsabili e dei prelati. Non faccio ancora menzione delle enormi abominazioni con cui hanno cercato di annullare ogni autentica pietà. È certo però che non considererebbero peccato mortale e senza remissione la violazione delle minime tradizioni, frutto della loro inventiva, qualora non avessero la pretesa di sottoporre ad esse il culto di Dio. In che consiste la nostra colpa? Non poter oggi tollerare ciò che san Paolo afferma non dover essere tollerato: l'adeguare il culto di Dio alla libertà degli uomini. Soprattutto quanto ordinano di servire Dio in cose puerili, cioè esteriorità, che egli dichiara contrarie a Cristo. È notorio invece che vincolano le coscienze ad una osservanza riverenziale dei loro ordinamenti. Nel contraddire a questa prassi, ci troviamo, nella stessa battaglia, in compagnia di san Paolo; egli infatti non permette che le coscienze dei credenti siano in alcun modo sottoposte alla schiavitù degli uomini. 10. C'è però di peggio, da quando si cominciò a far consistere la religione in queste vane tradizioni fece immediatamente seguito a questa perversità un'altra deplorevole maledizione, che già Cristo rimproverava ai Farisei: il comandamento di Dio è disprezzato e annullato per l'osservanza dei precetti umani (Mt. 15.3). Non intendo polemizzare con i nostri attuali legislatori, ricorrendo ad argomenti miei. Do loro partita vinta se possono giustificare che quest'accusa di Cristo non si riferisca proprio a loro. Come potranno fare? Non è per loro peccato mille volte più grave il non essersi confessati una volta all'anno nelle orecchie di un prete, che l'aver vissuto tutto l'anno una vita dissoluta? L'aver toccato con la punta della lingua carne di venerdì più che l'aver insozzato le proprie membra ogni giorno con atti immorali? L'aver messo mano a qualche opera utile e in se legittima, in un giorno festivo dedicato a qualcuno dei loro santi canonizzati, più che l'aver impegnato il proprio corpo in cattive azioni, nel corso di una intera settimana? Per un prete l'esser unito in legittimo matrimonio più che esser colpevoli di mille adulteri? Il non aver adempiuto un voto in un pellegrinaggio più che il tradire la parola data in ogni occasione? Il non aver offerto il proprio denaro per gli inutili addobbi delle Chiese, più che l'aver lasciato un povero nel bisogno? L'esser passati davanti a un idolo senza togliersi il berretto più che l'aver offeso tutti gli uomini della terra? Il non aver borbottato a ore fisse del giorno lunghe litanie prive di senso più che non aver pregato con leale sentimento? Che cosa si deve intendere, per "annullare il comandamento di Dio a motivo delle tradizioni proprie "se non questo? Questo presentare con distacco l'osservanza dei comandamenti di Dio, dandola per scontata e richiedere invece la obbedienza assoluta alle proprie leggi, con tanta cura, quasi ogni fonte di pietà vi fosse inclusa? Il punire con ammende irrilevanti la trasgressione della legge di Dio ma con carcere, fuoco, spada la trasgressione di uno solo dei loro decreti? Questa facilità a perdonare agli spregiatori di Dio, unita al perseguitare i propri con odio inesorabile fino alla morte? L'educare coloro che tengono prigionieri nell'ignoranza in modo tale che preferirebbero vedere rovesciata tutta la legge di Dio piuttosto che un solo punto del cosiddetto comandamento della Chiesa? È anzitutto evidente che si è fuor della retta via quando per cose leggere e (considerate dal punto di vista di Dio ) indifferenti, uno condanna, critica e respinge un'altro. Ora (quasi non ci fosse abbastanza male in questo ) tali elementi formali del mondo (come li chiama san Paolo ) (Ga 4.9) sono valutati più che gli ordini celesti di Dio. Colui che è assolto dal peccato di adulterio viene condannato a causa di un cibo. Una donna legittima è vietata ad uno, cui è invece concesso una prostituta. Questo è il frutto di quella obbedienza, piena di prevaricazioni, che tanto si allontana da Dio quanto si adegua agli uomini. 2. Ci sono in queste leggi due altri difetti da notare, e non di poco conto. Il primo: ci inducono a trastullarci con pratiche in gran parte inutili e a volte anche sciocche ed irragionevoli. Il secondo: tale ne è la moltitudine che le coscienze dei credenti ne sono oppresse e, riducendosi a vivere una sorta di Giudaismo, a tal punto si soffermano alle ombre, da non poter giungere a Cristo. Definendole inutili e sciocche so ben di non trovar credito presso una mentalità carnale; poiché i sensi naturali dell'uomo vi trovano sommo piacere e quando le si sopprimono si ha l'impressione che la Chiesa tutta sia distrutta. Questo è però quanto dice san Paolo affermando che sono apparenza di sapienza in quanto sembrano servire Dio ed esercitare all'umiltà e alla disciplina (Cl. 2.23). Egli ci rivolge con questo un utile ammonimento, che deve essere impresso chiaramente nella nostra memoria. Le costituzioni umane, dice, hanno apparenza di sapienza per ingannarci. In che senso, chiediamo? In quanto sono foggiate dall'uomo, risponde; l'intendimento umano, ritrova in esse ciò che è suo, e perciò le accoglie molto più volentieri di quanto farebbe con altre cose, molto più opportune, ma che non concordano con la sua follia e la sua vanità. In secondo luogo risponde che l'accoglienza è determinata dal fatto che pensiamo avere in esse un buon esercizio ad umiltà. Infine perché sembrano atte a porre freno ai piaceri della carne in quanto hanno una apparenza di ascesi. Avendone enumerati gli aspetti, le accetta ovvero ne maschera la falsa apparenza? Al contrario, considerando che a condannarle era sufficiente il fatto che si tratta di invenzioni umane, non le degna di più ampia critica sapendo che ogni culto inventato in base ai desideri dell'uomo, è nella Chiesa da respingersi e deve essere tanto più sospetto ai credenti che, solitamente, piace agli uomini; sapendo anche che la differenza tra la vera umiltà e la falsa imitazione è tale da rendere facile il discernere l'una dall'altra, ed infine sapendo che la disciplina di cui parla deve essere considerata puro esercizio corporale. Ha elencato queste cose per negare il valore di ogni tradizione umana fra i credenti quand'anche goda, in quanto tale, di somma dignità fra gli uomini. 12. Così oggi, non solo il popolino, ma anche coloro che si considerano savi secondo il mondo, prendono sommo piacere a far uso di una gran pompa nelle cerimonie. Agli ipocriti e alle donne sciocche, bigotte per natura, nulla sembra essere più bello o da preferirsi. Coloro però che esaminano più da vicino e valutano rettamente il valore di tutti questi riti, comprendono che si tratta di roba inutile in quanto non ne deriva alcun vantaggio. Si tratta, in secondo luogo, di abusi e di inganni in quanto si accecano così gli occhi per condurre l'uomo nell'errore. Mi riferisco alle cerimonie in cui i Romanisti vogliono far credere vi siano nascosti sommi misteri. Constatiamo invece trattarsi di cose ridicole, e non stupisce che quelli che le hanno inventate siano caduti in questa follia al punto da prendervi piacere e trascinare gli altri in queste sciocchezze. Vengono così imitate in parte le folli fantasticherie dei pagani, in parte le prescrizioni della legge mosaica, che non ci concernono più di quanto ci concernino i sacrifici di animali e cose simili; e tutto questo hanno imitato, senza discernimento come scimmie. Quand'anche non ci fossero altri argomenti è evidente che da una accozzaglia del genere non ci si può aspettare nulla di valido. Ed è assolutamente evidente che la maggior parte delle cerimonie papiste non hanno altro scopo che di instupidire il popolo anziché educarlo. Gli ipocriti tengono in grande stima questi nuovi canoni e li considerano di somma importanza, quantunque siano più atti a rovesciare la disciplina che a mantenerla. Se infatti li si esamina da vicino, si constata che non sono altro che apparenze prive di verità. 13. Esaminando l'altro punto da me menzionato, chi non si rende conto che le tradizioni accumulate le une sulle altre sono tante che il numero è cresciuto a dismisura, al punto da diventare intollerabile nella Chiesa cristiana? Poiché nelle cerimonie si manifesta uno spirito di vero Giudaismo, ma le altre pratiche sono un autentico inferno per tormentare crudelmente le povere coscienze. Sant'Agostino si lamentava, al tempo suo, che il disprezzo per i comandamenti di Dio fosse tale che se uno avesse camminato scalzo nell'ottava del suo battesimo, veniva rimproverato più severamente che chi si fosse ubriacato. Si lamentava altresì che la Chiesa, voluta da Dio libera, fosse a tal punto oppressa e gravata da regolamenti e statuti da rendere la condizione dei Giudei preferibile. Tornasse a vivere al giorno d'oggi, che dovrebbe dire questo sant'uomo della condizione di sciagurata servitù in cui ci troviamo? Poiché il numero delle cerimonie è decuplicato da allora. E si insiste cento volte più severamente su tutti i punti di quanto si facesse allora. Di fatto accade sempre così: quando gli uomini si sono impadroniti del dominio delle anime, non desistono dal creare comandamenti nuovi, e nuovi divieti, finché abbiano esteso a dismisura la loro tirannia; san Paolo definisce molto bene questo fatto quando dice: "se siete morti agli elementi del mondo, perché vi lasciate imporre dei precetti, come se viveste nel mondo? Non toccare, non assaggiare, non mangiare! " (Cl. 2.20-21). Molto acutamente individua in queste parole la procedura dei seduttori che iniziano con la superstizione proibendo di mangiare un determinato cibo, anche in quantità minima. Dopo aver ottenuto questo punto ne proibiscono anche l'assaggio; si concede loro questo? Fanno credere che non è lecito neppure toccarlo. 14. Rifiutiamo dunque, oggi, con pieno diritto, questa tirannia delle tradizioni umane: il fatto cioè che misere coscienze siano incredibilmente tormentate da infinite norme, alla osservanza delle quali la gente è rigorosamente tenuta. Riguardo ai canoni disciplinari si è detto più sopra. Che dire riguardo alle cerimonie? Non ci sono di alcun vantaggio, se non per farci regredire alle forme giudaiche seppellendo nostro Signore Gesù. "Il Signore "dice sant'Agostino "ha ordinato pochi sacramenti, eccellenti in quanto al significato e facili da osservare ". Quale contrasto si trova ora tra questa semplicità e la varietà delle pratiche sotto cui è sepolta la Chiesa! Conosco gli argomenti con cui alcuni pretendono giustificare questa corruzione. Affermano che vi sono fra noi persone altrettanto ignoranti quanto vi erano in Israele, ed è per costoro che sono state introdotte queste forme puerili, di cui i sapienti e i forti possono fare a meno, ma che non debbono disprezzare, riconoscendone la utilità per i loro fratelli. Siamo ben consci delle implicazioni che ha per la vita di ogni credente la debolezza dei suoi prossimi, ma non è certo il modo di venire incontro alla debolezza degli ignoranti quello di imporre loro una quantità di cerimonie tale da opprimerli. Non senza ragione Dio ha posto questa differenza tra l'antico popolo e noi, scegliendo di educare quello con segni e figure, come si fa con i piccoli bambini, e usando con noi mezzi più semplici nell'abolire queste forme esteriori. "Come un bambino "dice san Paolo "è educato e mantenuto in condizione di disciplina dal suo pedagogo, secondo la capacità della sua età, così i Giudei sono stati condotti sotto la Legge " (Ga 4.1-3). Noi però siamo simili a uomini, che, usciti dall'infanzia, non hanno più bisogno di essere sotto tutela e sotto disciplina. Certo il Signore prevedeva quale sarebbe stata la media del popolo cristiano e come sarebbe stato necessario giudicarlo, tenendo conto della sua ignoranza. Tuttavia ha posto tra noi e i Giudei quella differenza che abbiamo detto. È perciò assurdo, nel caso nostro, voler restaurare, per venire incontro ai semplici, forme giudaiche che sono state abolite e annullate da Cristo. Questa diversità fra noi ed il popolo antico risulta anche evidente nel dialogo fra il Signore Gesù e la samaritana quando egli dice: "il tempo è venuto in cui i veri adoratori di Dio lo adoreranno in Spirito e verità " (Gv. 4.23). Questo era certo sempre accaduto, ma i credenti del nuovo Patto differiscono dagli antichi padri in questo: l'adorazione spirituale di Dio era nel tempo della Legge espressa da cerimonie e quasi nascosta in esse; ora adoriamo Dio con semplicità in quanto il velo del Tempio è stato squarciato con tutte le implicazioni. Coloro, pertanto, che annullano queste differenze, capovolgono l'ordine istituito da Gesù Cristo. Qualcuno domanderà: non esiste dunque per gli ignoranti nessuna cerimonia che venga in aiuto alla loro semplicità? Ammetto che cercare di aiutarli in questo caso non è che opera buona e utile, occorre però, ripeto, usare discrezione, affinché il tutto serva a chiarire la conoscenza di Gesù Cristo e non a oscurarla. Dio dunque ci ha dato poche e comprensibili cerimonie per raffigurarci Gesù Cristo da quando egli ci è stato offerto. In maggior numero ne hanno avuto gli Ebrei, per raffigurarlo nel tempo della sua assenza. Sottolineo il fatto che egli risultava assente da loro non riguardo alla potenza ma alla sola rappresentazione. Vogliamo pertanto attenerci in questa materia ad un sano criterio? Dobbiamo evitare di moltiplicare le cerimonie che debbono invece essere poche, secondo l'ordine di Dio. Bisogna vigilare che quelle che abbiamo siano facili per non opprimere le coscienze, risultino evidenti nel loro significato e rivestite di maestà, come già abbiam detto. È necessario dimostrare più ampiamente che questo non è stato fatto? Tutti possono rendersene conto. 15. Passo sotto silenzio le perniciose fantasticherie con cui hanno nutrito la povera gente, facendo credere che le cerimonie inventate dagli uomini sono sacrifici graditi a Dio, che cancellano i peccati, procurano giustizia e salvezza. Qualcuno obietterà che, trattandosi di cose buone in se stesse, non possono essere corrotte da errori sopravvenuti in seguito, visto che altrettanto accade per le opere ordinate da Dio. Conferire tale onore alle opere inventate dagli uomini a loro piacimento, è più intollerabile che reputarle meritorie della vita eterna. Poiché, nel caso delle opere ordinate da Dio, il fondamento della loro remunerazione deriva dal fatto che Dio le gradisce in virtù della obbedienza. Non sono dunque valutate in base alla loro dignità o al loro merito intrinseco, ma in quanto Dio gradisce l'obbedienza che gli offriamo. Nel caso, intendo, che si possa compiere in modo perfetto ciò che Dio ordina. Le opere che facciamo, infatti, piacciono a Dio unicamente in virtù della sua bontà gratuita perché l'obbedienza non è presente che a metà. Lasciamo stare però questa questione in sospeso, in quanto non stiamo qui discutendo dell'origine della nostra giustizia. Ritornando alla questione ripeto che tutto il merito e il valore presente nelle opere deriva dall'obbedienza che rendiamo a Dio, solo elemento, come dice il suo profeta, che egli prenda in considerazione: "Non vi ho dato "dice "nessun comandamento riguardo ad olocausti e sacrifici, ma questo ho comandato: ascoltare la mia voce " (Gr. 7.22-23). Riguardo alle opere che gli uomini fanno per spirito di devozione, così si esprime in un altro testo: "Perché spendete per ciò che non è pane? " (Is. 55.2) , affermando così che si tratta di fatica sprecata. "Invano mi onorano con un comandamento imparato dagli uomini " (Is. 29.13; Mt. 15.9). I nostri avversari, pertanto, non potranno mai giustificare il fatto che lasciano il popolo cercare in questo cumulo di tradizioni umane a sua giustizia, per poter sussistere in presenza di Dio e ottener salvezza. Anzi, non si tratta forse di un errore degno di esser grandemente deplorato, il fatto che ricorrano a molte cerimonie di cui non si afferra il senso, per divertire la gente come gli incantatori e i giocolieri alla fiera? È chiaro infatti che ogni cerimonia deve considerarsi nociva e perversa se non conduce gli uomini a Cristo. Ora tutte le cerimonie in uso nel papismo non hanno né contenuto dottrinale, né significato alcuno, ma sono esclusivamente poiché l'uomo è abile nell'inventare cose che tornano a suo vantaggio, la maggior parte di queste cerimonie sono state create dai preti per pura cupidigia, allo scopo di tirar acqua al loro mulino. Qualunque ne sia l'origine, se si vuol purificare la Chiesa da una turpitudine evidente ed impedire che vi eserciti commercio o traffico indegno, non si potrà fare altrimenti che eliminarne la maggior parte in quanto si tratta di trucchi per spillar soldi alla gente. 16. Quantunque sembri che quanto abbiam detto sin qui circa le tradizioni umane valga solo per il nostro tempo, al solo fine di rifiutare le superstizioni papiste, tuttavia se ne può ricavare una dottrina valida per ogni tempo. Ogni volta che si diffonde la follia di voler servire Dio con invenzioni umane, tutti i provvedimenti che si prendono a questo fine, culminano negli abusi che abbiamo menzionati. Non è infatti valida solo per un tempo, ma per sempre la maledizione che Dio ha annunziata: colpire di cecità e di stoltezza tutti coloro che lo serviranno mediante dottrine umane (Is. 29.13). Questo accecamento conduce tutti coloro che si dipartono dalla retta via, disprezzando gli ammonimenti divini, a cadere da una assurdità all'altra.
Tuttavia per chi desideri, senza riferimento al papato, avere una dottrina generale circa le tradizioni umane che in ogni tempo debbono essere ripudiate nella Chiesa, avrà in ciò che abbiamo detto più sopra premesse chiare e sicure: si debbono valutare nel modo suddetto tutte le leggi fatte dagli uomini senza la parola di Dio, al fine ovvero di stabilire una qualche forma di servire Dio o di vincolare le coscienze. Qualora ne derivino altri abusi: che la moltitudine delle cerimonie oscuri la limpidità dell'evangelo, o si tratti di pratiche assurde e inutili che non possono edificare o siano mezzi per scroccar denaro o il po' polo risulti oltremodo aggravato o si favorisca il sorgere di altre gravi superstizioni, tutto questo ci dovrà aiutare a discernere facilmente il male e il danno che ne deriva. 17. Conosco la loro risposta: le loro tradizioni non sono frutto di loro iniziative, ma provengono da Dio in quanto la Chiesa è retta dallo Spirito Santo affinché non commetta errori. Che l'autorità della Chiesa stia dalla loro parte, è per loro un presupposto. Acquisita questa premessa, ne deriva che tutte le loro tradizioni sono rivelazione dello Spirito Santo e non si possono disprezzare senza disprezzare Dio. Perché non sembri che di loro iniziativa abbiano follemente inventato qualcosa, fanno credere che la maggior parte delle loro leggi è di origine apostolica. Anzi, dicono, possono illustrare la prassi seguita dagli apostoli; un solo esempio lo dimostra: quando cioè raccolti insieme hanno deciso nel loro concilio che i Gentili dovessero astenersi dal mangiare sangue, carne di bestie soffocate o sacrificare agli idoli (At. 15.20). Abbiamo dimostrato ampiamente, in altra sede, quanto falsamente si servano del titolo di Chiesa per difendere la loro autorità . Per quanto concerne il presente argomento se, evitando ogni falsità e ipocrisia, consideriamo quale sia la Chiesa che Cristo richiede per sottostare alla sua norma, risulterà evidente che non è affatto Chiesa quella che, oltrepassando i limiti della parola di Dio, prende l'iniziativa di fare nuove leggi ed inventare nuove forme di culto. Non è forse perenne quella legge imposta alla Chiesa: "avrai cura di mettere in pratica tutte le cose che ti comando, non vi aggiungerai nulla, né vi toglierai nulla " (De 12.32) ? E quella: "non aggiunger nulla alla parola del Signore ch'egli non t'abbia a riprendere e tu non sia trovato bugiardo " (Pr 30.6) ? Non si può negare che queste cose siano state dette alla Chiesa; chi perciò afferma che, nonostante questi divieti, ha osato prendere l'iniziativa di aggiungere del suo alla parola di Dio, non fa altro che accusarla di ribellione contro Dio. Non prestiamo fede alle loro menzogne con cui viene recata così grande offesa alla Chiesa. Riconosciamo piuttosto che il nome della Chiesa è rivendicato a torto quando si vuole giustificare la temerarietà degli uomini, che oltrepassa i limiti della parola di Dio per produrre le sue invenzioni. Le espressioni con cui è proibito alla Chiesa universale di aggiungere o togliere alla parola di Dio, non sono né difficili, né ambigue, né incerte quando si tratti del servizio di Dio. Diranno che questo fu detto della sola Legge, dopo la quale sono venute le profezie; lo ammetto, purché si intenda che il loro scopo fu quello di portare a compimento la Legge più che aggiungere o togliere qualcosa. Or dunque se il Signore non permette che al ministero di Mosè, quantunque pieno di lacune, si aggiunga o tolga alcunché, finché egli non dia, per mezzo dei profeti suoi servi, infine per mezzo del figlio suo amato, più chiari insegnamenti, come non ritenere che sia proibito in modo ancora più rigoroso aggiungere qualcosa alla Legge, ai Profeti, ai Sl. , all'evangelo? Il Signore non ha certo mutato l'opinione che aveva anticamente manifestata: non esservi nei suoi riguardi offesa più grave che la pretesa degli uomini di servirlo con le proprie invenzioni. Valide testimonianze si hanno nei Profeti, che dovrebbero essere assiduamente davanti agli occhi. In Geremia: "quando trassi i vostri padri fuori della terra d'Egitto non diedi loro alcun comandamento intorno ad olocausti ed a sacrifizi, ma questo comandai loro dicendo: "ascoltate la mia voce e sarò il vostro Dio, e voi sarete il mio popolo; camminate in tutte le vie che io vi prescrivo " " (Gv. 7.22). E ancora: "Ho scongiurato i vostri padri dicendo: ascoltate la mia voce " (Gr. 11.7). Se ne leggono parecchie altre simili ma questa è particolarmente eloquente e si trova in Samuele: L'Eterno gradisce i sacrifici e gli olocausti come l'ubbidienza alla sua voce? Ecco l'ubbidienza val meglio che il sacrificio, e dare ascolto val meglio che il grasso dei montoni; perché la ribellione è come il peccato di stregoneria e l'ostinatezza è come l'adorazione degli idoli " (1 Re 15.22-23). 18. Non potendosi tutte le invenzioni, che si giustificano sotto veste dell'autorità ecclesiastica, lavare dall'accusa di empietà, è facile dedurre che falsamente sono state attribuite alla Chiesa. È questa la ragione per cui combattiamo coraggiosamente la tirannia delle tradizioni umane che sono mantenute sotto il titolo di Chiesa. Non disprezziamo infatti la Chiesa, come i nostri avversari, per renderci odiosi, ci accusano di fare; anzi le attribuiamo la lode di essere obbedita, la maggior lode che si possa desiderare. Sono loro che recano offesa alla Chiesa in modo oltraggioso, facendola ribelle al suo Signore, in quanto essa, secondo il loro dire, ha trasgredito il comandamento di Dio. E non sottolineo il fatto che è mancanza assoluta di pudore e malizia, nel caso loro, riferirsi costantemente all'autorità della Chiesa e non di meno lasciar da parte, e passare sotto silenzio, l'ordine che ha ricevuto da Dio e l'obbedienza che gli deve. Se desideriamo invece, come è il caso, essere in accordo con la Chiesa, occorre piuttosto considerare ciò che Dio ordina a noi, e a tutta la Chiesa similmente, per obbedirgli di comune accordo. Non dobbiamo infatti avere il minimo dubbio di essere in pieno accordo con la Chiesa, se in ogni cosa siamo obbedienti a Dio. Riguardo all'origine apostolica delle loro tradizioni, si tratta di un puro inganno; visto che tutto l'insegnamento degli apostoli mira a questo scopo: che le coscienze non siano gravate da nuove tradizioni e la religione cristiana non sia contaminata da nuove invenzioni. Se bisogna prestar fede alla storia antica, gli apostoli non hanno neppur sentito parlare delle cose che vengono loro attribuite da costoro. Non ci vengano a raccontare che molti decreti apostolici, che non furono mai scritti, sono stati accolti nell'uso; quelle cose cioè che essi non potevano intendere prima della morte di Gesù Cristo ma hanno ricevuto dopo la sua ascensione per rivelazione dello Spirito Santo. Abbiamo già esaminato più sopra questa tesi.
Mi sembrano poi assolutamente ridicoli quando vogliono elencare questi misteri così a lungo sconosciuti agli apostoli, e citano, da un lato cerimonie ricavate da quelle che erano precedentemente in uso fra Ebrei o pagani, dall'altra folli scimmiottagini e cerimonie assurde che gli asini di preti (incapaci di camminare e parlare ) sanno a memoria, e che gli sciocchi e i bambini imitano così bene che ne sembrano avere la conoscenza innata. Quand'anche non possedessimo documenti, non c'è persona di buon senso che non veda che tale moltitudine di cerimonie non è venuta nella Chiesa improvvisamente, ma vi è stata introdotta a poco a poco. Quantunque i buoni vescovi, che predicavano ai tempi degli apostoli, avessero infatti emanate alcune sante ordinanze riguardo all'ordine e al governo della Chiesa, i loro successori, gente sconsiderata e bramosa di novità, hanno voluto aggiungervi ognuno il suo pezzetto, gli ultimi, desiderando sempre superare i predecessori. Anzi, essendoci il pericolo che quelle invenzioni, mediante cui volevano procacciarsi fama e celebrità, se ne andassero subito a ramengo, hanno fatto ricorso ad una severità maggiore di quella usata dai loro predecessori, per costringere il popolo all'obbedienza. Questa folle e perversa emulazione, con cui ognuno ha voluto mostrarsi abile quanto il compagno nell'inventar novità, ci ha procurata la maggior parte di quelle cerimonie che i papisti del giorno d'oggi vogliono farci considerare decreti apostolici. Come ho già detto, però, la storia ci fornisce sufficienti testimonianze al riguardo. 19. Per non dilungarci nel fare un lungo esame, accontentiamoci di un esempio. Gli apostoli nell'amministrare la Cena di nostro Signore hanno fatto uso di una grande semplicità. I successori immediati, per mettere in evidenza la dignità di quel mistero, hanno aggiunto alcuni elementi alla celebrazione, non condannabili in assoluto. Da allora però si son fatte avanti altre scimmie che hanno avuto la folle pretesa di aggiungere sempre nuovi elementi e hanno così composto sia i paramenti dei preti, che quelli dell'altare, quella sciocca commedia che vediamo oggi nella messa con tutto il suo ciarpame. I papisti hanno ancora un'obiezione: da sempre si è considerato stabilito che tutto ciò che di comune accordo si accettava nella Chiesa universale provenisse dagli apostoli, come attesta sant'Agostino. Non darò altra risposta che questa, per bocca di sant'Agostino stesso: "tutte le cose "dice "che si accettano universalmente, si devono ritenere ordinate dagli apostoli o dai concili universali, la cui autorità è assai utile nella Chiesa; il fatto per esempio che si celebri annualmente il ricordo della Passione e della risurrezione di nostro Signore, la sua ascensione al cielo, la Pentecoste, e altre cose analoghe che si accettano nella Chiesa tutta, ovunque essa è presente nel mondo ". Il fatto che egli menzioni così pochi esempi, non indica forse chiaramente che fra le molte pratiche, allora in uso, non ha voluto considerare legittime se non quelle che risultavano di qualche utilità per mantenere l'ordine nella Chiesa con semplicità? Siamo però ben lungi dalla pretesa dei Romanisti secondo cui la più insignificante quisquilia delle loro cerimonie è stata stabilita dalla autorità degli apostoli. 10. Per brevità farò solo un esempio. Se qualcuno domanda loro donde abbiano tratto la loro acqua benedetta, immediatamente risponderanno: dagli apostoli, quasi non sapessimo dalla storia, che ad inventarla è stato un papa, il quale, se avesse interrogato gli apostoli prima di prendere quella decisione, mai avrebbe insozzato il battesimo con questa immondizia avendo la pretesa di far un memoriale del sacramento che, non senza ragione, è stato stabilito per essere ricevuto una volta soltanto. Non mi sembra neppur verosimile che l'origine sia così antica come lo dice la storia. Sant'Agostino afferma che alcune Chiese del tempo suo rifiutavano la cerimonia della lavanda dei piedi il giorno della Cena per tema che questo potesse sembrare un riferimento al battesimo . Egli attesta così che non esisteva allora alcuna forma di lavacro, che avesse qualche somiglianza Cl. Battesimo. Rifiuto comunque di ammettere che possa mai essere proceduto dallo spirito degli apostoli l'uso di abluzioni quotidiane, in ricordo del battesimo in quanto equivarrebbe a ripeterlo. È senza rilievo il fatto che sant'Agostino, in un altro testo, attribuisca agli apostoli altre considerazioni, infatti non fa che una congettura; quale opinione si potrebbe fondare su queste asserzioni riguardo ad una materia di tale importanza? Infine, quand'anche accettassi che le cose dette da lui discendano dall'età apostolica, una differenza sostanziale permane tra lo stabilire alcune pratiche di cui i credenti possano usare liberamente ed emanare norme vincolanti per le coscienze. Tuttavia poiché hanno dato luogo a sì gravi abusi non rechiamo alcun disonore all'autore loro, chiunque esso sia, nel rifiutarle a causa della corruzione sopravvenuta, tanto più che non furono istituite con la pretesa di essere perpetue. 21. L'esempio degli apostoli, che costoro citano per conferire autorità alla loro tirannide, non aggiunge nulla di più. Gli apostoli, dicono, e gli anziani della Chiesa primitiva hanno stabilito una legge che andava oltre gli ordini di Cristo, con la quale proibirono ai pagani di mangiar carni immolate agli idoli, carne di animali soffocati, sangue (At. 15.20); se hanno avuto la ragione in questo, perché i loro successori non potrebbero imitarli ogni qual volta se ne presenti la necessità? Vorrei che li imitassero in questo e in altro! Contesto infatti che nell'agire così gli apostoli abbiano istituito o stabilito qualcosa di nuovo, ed è facile dimostrarlo. Dato che in questa stessa occasione san Pietro afferma che equivale a tentare Dio l'imporre qualche carico ai discepoli rinnegherebbe in seguito il suo pensiero, accettando che qualcosa venga loro imposto. Si sarebbe trattato indubbiamente di un peso se gli apostoli avessero decretato, in base alla loro autorità, che fosse proibito ai pagani di mangiar carne sacrificata agli idoli, carne di animali soffocati, o sangue. Nondimeno il dubbio permane che essi realmente l'abbiano proibito. Quando si consideri più da vicino il senso della loro decisione la soluzione risulta facile. Il primo punto e il punto fondamentale, è che bisogna lasciare ai pagani la loro libertà, senza fare loro violenza, né turbarli con l'osservanza della Legge. In questo il testo è in nostro favore. L'eccezione che segue, riguardo i sacrifici, la carne soffocata, e il sangue, non è una nuova legge fatta dagli apostoli ma è l'ordine eterno di Dio di mantenere la carità. La libertà dei pagani non è sminuita in nulla, ma essi sono soltanto ammoniti ad accomodarsi ai loro fratelli, per non scandalizzarli con l'uso della loro libertà. Notiamo dunque che il secondo punto consiste in questo: la libertà dei pagani non deve risultare nociva né scandalosa per i loro fratelli. Se qualcuno persiste ancora dicendo che essi ordinano alcune cose, risponderò che essi vogliono soltanto mostrare, in che cosa i Gentili potevano scandalizzare i loro fratelli, affinché lo evitassero: tuttavia non aggiungono nulla di nuovo alla legge eterna di Dio che proibisce gli scandali. 22. Se oggi, ad esempio, nei paesi in cui le Chiese non sono ancora saldamente costituite, i buoni pastori vietassero a coloro che sono già dovutamente istruiti di mangiar carne il venerdì o di lavorare nei giorni festivi, fintantoché i più deboli nella fede siano diventati santi con buoni insegnamenti, avremmo una situazione analoga. Quantunque infatti queste cose siano, in se stesse, indifferenti, quando non abbiano carattere di superstizione, se, facendole, si procura scandalo ai fratelli più deboli, non sono immuni da peccato. Oggi, i tempi sono tali, che i credenti non possono far questo in presenza dei loro fratelli più deboli, senza ferire gravemente le loro coscienze. Chi potrebbe affermare, senza calunniare, che così facendo questi buoni pastori stabiliscono leggi nuove mentre è chiaro che pongono soltanto rimedio agli scandali che sono proibiti da Dio in modo sufficientemente chiaro. Altrettanto può dirsi degli apostoli, la cui intenzione è stata solo il mantenimento della legge di Dio che ordina di evitare gli scandali, quasi ci avessero detto: il comandamento di Dio è che non rechiate offesa ai vostri fratelli infermi, non potete perciò mangiare carne offerta agli idoli, né carni soffocate, né sangue senza offenderli; vi abbiamo dunque ordinato, in base alla parola di Dio, di non mangiare per non causare scandalo. Che tale fosse l'intenzione degli apostoli, lo attesta san Paolo; concordando con questa loro ordinanza egli scrive infatti: "riguardo alle carni sacrificate agli idoli, noi sappiamo che l'idolo non è nulla nel mondo, ma alcuni mangiano di queste carni come essendo sacrificate agli idoli, e allora la loro coscienza, essendo debole, ne è contaminata. E badate che questo vostro diritto non diventi un intoppo per i deboli " (1 Co. 8.1). Chi consideri questo fatto non sarà più oltre ingannato da questi bugiardi che voglion far credere che gli apostoli hanno cominciato a porre un limite alla libertà della Chiesa con questa ordinanza. Anzi, per impedire loro di sottrarsi negando che quanto ho detto sia la pura verità, mi rispondano in base a quale autorità hanno annullato questo decreto apostolico. Possono soltanto rispondere che non sussiste più il pericolo di scandali e di divisioni a cui gli apostoli vollero porre rimedio, perciò, essendo caduta la sua motivazione, la legge non ha ragion di durare più a lungo o avere valore. Questa norma è stata dunque emanata per motivo di amor fraterno, e non è violata se non in quanto si agisce contro l'amore fraterno; ammettono essi stessi che non si tratta di una norma aggiunta alla legge di Dio, su iniziativa degli apostoli, ma che questi hanno semplicemente adattato al loro tempo ciò che nostro Signore aveva ordinato a tutti nella sua parola.
23. Replicano che quand'anche le leggi ecclesiastiche risultassero mille volte inique ed ingiuste, devono essere osservate, perché, in questo caso, non si tratta di consentire ad errori, ma soltanto di obbedire come sudditi, a ciò che i nostri superiori ci ordinano e che non ci è lecito rifiutare. Nostro Signore però, mediante la verità della sua parola, ci libera da questa falsa obiezione, e dalla servitù per mantenerci nella libertà che ci ha procurato mediante il suo sangue prezioso. Non è affatto vero, come perfidamente vogliono farci intendere, che in questo caso si tratta solo di accettare una costrizione, sia pure penosa, nel nostro corpo; lo scopo loro è privare le nostre coscienze della libertà, cioè del frutto che ricevono dal sangue di Cristo, di tormentarle in una condizione servile e misera. Tralasciamo questo punto di scarsa importanza. Possiamo però giudicare di scarso rilievo il fatto di sottrarre a Dio il regno che egli vuole sia mantenuto sopra ogni cosa? Questa autorità gli è negata ogni volta che si pretende servirlo con leggi frutto di invenzioni umane, visto che egli vuole essere l'unico legislatore per quanto concerne il suo nome e il suo servizio. Affinché non le si giudichi cose di poco conto, si presti attenzione a come le considera nostro Signore: "Giacché il timore che questo popolo ha di me, non è altro che un comandamento imparato dagli uomini, ecco io continuerò a fare delle meraviglie, meraviglie su meraviglie; e la saviezza dei suoi savi perirà e l'intelligenza degli intelligenti sparirà " (Is. 29.13). E ancora in un altro testo: "invano mi rendono il loro culto insegnando dottrine che sono precetti di uomini. In realtà la ragione, per cui i figli di Israele si sono contaminati in molte idolatrie, si deve ricercare in questa confusione in base alla quale, trasgredendo i comandamenti di Dio, hanno inventato culti estranei. A questo riguardo la storia sacra narra che i nuovi abitanti di Samaria, inviati quivi dal re di Babilonia, venivano quotidianamente aggrediti dagli animali selvatici in quanto ignoravano gli statuti del dio del paese. Dio quantunque non avessero violato in alcun modo le leggi cultuali, non approvò i loro riti vani ma volle punire questa specifica profanazione del suo culto: gli increduli e i pagani lo volevano servire a loro modo. È pertanto aggiunto poco dopo che imparavano ad osservare, riguardo alle forme esteriori, ciò che Dio aveva ordinato nella sua legge. Ma non adoravano ancora Dio con purezza, viene ripetuto per ben due volte, in quanto lo temevano e non lo temevano (4 Re 17.24 ; 32 ; 41). Dobbiamo dunque trarre la deduzione che un aspetto dell'onore che gli dobbiamo, si esprime nel non mischiare il culto che ha ordinato nella sua parola, con le nostre invenzioni. Perciò i re buoni e fedeli sono spesso lodati nella Scrittura per aver osservato, riguardo alla religione, ciò che era stato ordinato nella Legge, senza sviarsi né a destra, né a sinistra (4 Re 22. ealtri passi ). Vado ancora oltre: quand'anche in una forma particolare di culto, non risultasse evidente l'empietà, al primo esame, pure non manca di essere aspramente condannata in quanto rappresenta sempre un allontanamento dal comandamento di Dio. L'altare di cui Acaz aveva fatto portare il modello da Samaria, poteva considerarsi un elemento decorativo adeguato ad accrescere la dignità del Tempio, visto che l'intenzione di quel re malvagio, era semplicemente di fare sacrifici all'iddio vivente su questo altare, in modo più degno di quanto potesse fare sull'antico. Tuttavia lo Spirito Santo dis.pprova tale libertà per il solo fatto che ogni invenzione umana, malgrado le sue apparenze, non fa che corrompere e avvelenare il culto di Dio. Quanto più la volontà di Dio ci è chiaramente esplicitata, tanto meno si giustifica la temerarietà di aggiungervi altre cose. Il delitto di Manasse viene così fortemente aggravato dal fatto di aver edificato un altare in Gerusalemme là dove Dio aveva dichiarato che vi avrebbe posto il suo nome (4 Re 21.3). Non attenersi infatti a ciò che egli approva, equivale a rigettare deliberatamente la sua autorità. 24. Molti giudicano strano il fatto che nostro Signore minacci, con tanta violenza, di compiere cose straordinarie contro il popolo che lo adorava con dottrine e ordinamenti umani e dichiari vani tali onori. Se considerassero però che cosa significhi dipendere unicamente dalla bocca di Dio in materia di religione, cioè in materia di sapienza celeste, comprenderebbero la ragione per cui nostro Signore ha in tale abominio i culti sregolati che gli vengono fatti, secondo la stolta cupidigia degli uomini. Infatti, pur manifestandosi in coloro che lo servono una qualche forma di umiltà in quanto per lui si sottomettono alle leggi degli uomini, tuttavia costoro non sono affatto umili davanti a lui, anzi gli impongono quelle stesse leggi che osservano. Per questa ragione san Paolo chiede con tanta insistenza di non lasciarci ingannare dalle tradizioni umane (Cl. 2.4) , adoperando un termine greco appropriato che significa "servizio volontario ", cioè frutto dell'invenzione degli uomini senza la parola di Dio. Risulta chiaro così che la sapienza di tutti gli uomini, e la nostra, devono essere rese pazze affinché Dio solo possa essere savio. Atteggiamento dal quale sono ben lungi coloro che pensano compiacergli con riti inventati dagli uomini a loro piacimento e quasi gettandogli in faccia, per forza, e suo malgrado, un'obbedienza perversa che ha per oggetto gli uomini, non lui. Come è stato il caso sin qui, per lungo tempo, e ancora di nostra memoria, e tuttora continua ad essere nei paesi dove la creatura ha maggiore autorità del Creatore. Paesi che hanno una religione, se si può considerare degna di questo nome, mista a superstizioni e follie idolatriche più di quanto fosse l'antica idolatria pagana. Che cosa è in grado di produrre la sensibilità dell'uomo se non cose carnali e folli che dimostrano chiaramente chi ne è l'autore? 25. Il caso che questi avvocati della superstizione citano, del sacrificio di Samuele a Ramot (1 Re 7.17) , che piacque a Dio pur essendo compiuto contro la Legge, non è difficile da interpretare egli non edificò un secondo altare da contrapporre al primo fondato per ordine di Dio, ma semplicemente, in quanto non vi era alcuna sede stabile per il tabernacolo, prescelse la sua residenza quale luogo più comodo. L'intenzione del santo profeta non fu certo quella di mutare in qualche modo la forma del culto cui Dio aveva così rigorosamente proibito di nulla aggiungere o togliere. Il caso di Manoa, padre di Sansone, è particolare ed eccezionale (Gd. 13.19); trattandosi di una persona privata non gli sarebbe stato lecito sacrificare senza ispirazione divina. Questo fatto si riferisce a lui solo e altri non sarebbero stati egualmente approvati.
Al contrario Dio ha dato nella persona di Gedeone un insegnamento degno di nota e valido per sempre per mostrare quanto gli ripugni il culto che gli uomini, secondo la propria iniziativa, gli rendono: l'efod che Gedeone venerò con superstizione assurda, fu causa di rovina non solo per lui e la sua famiglia, ma per il popolo intero (Gd. 8.27). Ogni invenzione, insomma, con cui gli uomini pretendono adorare Dio, altro non è che corruzione della santità autentica. 26. Perché, dunque, replicano costoro, Cristo ci avrebbe invitato a portare i pesi insopportabili che gli scribi e i Farisei impongono? Per parte mia chiedo loro perché lui stesso, in un'altra occasione, volle che ci si guardi dal lievito dei Farisei definendo "lievito ", secondo l'interpretazione dell'evangelista san Matteo, tutte le dottrine che essi mischiavano con la parola di Dio (Mt. 16.6; 23.3) ? Che chiediamo di più? Ci viene ordinato di fuggire e di evitare ogni loro dottrina. È evidente che nostro Signore in quell'altro testo non ha voluto che le coscienze dei suoi fossero gravate dalle tradizioni dei Farisei. Le parole stesse sono lungi dall'aver un significato del genere, quando non siano oggetto di esegesi cavillose. Nostro Signore, volendo redarguire aspramente la cattiva condotta dei Farisei, intende precisare, anzitutto ai suoi uditori, che pur non riscontrando nelle abitudini dei Farisei nulla che fosse degno di limitazione, non dovevano tuttavia trascurare il loro insegnamento orale, quando si trovavano seduti sulla cattedra di Mosè, quando cioè esponevano la Legge. Ha dunque voluto semplicemente prevenire il pericolo che il popolo fosse indotto dal cattivo esempio dei suoi capi a disprezzare la dottrina di Dio. Dato però che alcuni non si lasciano convincere da nessun argomento, e vanno sempre in cerca dell'autorità, citerò le parole di sant'Agostino in cui egli fornisce un'interpretazione analoga alla nostra: "il gregge del Signore ha dei pastori, alcuni figli suol, altri mercenari. I pastori che sono figli di Dio sono veri pastori. Tuttavia considera in che cosa anche i mercenari risultino utili. Molti ministri nella Chiesa predicano Gesù Cristo cercando il loro profitto personale, la voce di Gesù Cristo viene udita in bocca a loro, e le pecore seguono non il mercenario, ma il pastore nei mercenari. Ascoltate come il Signore ci ha illustrato la figura del mercenario: "gli scribi "dice, "e i Farisei sono seduti sulla cattedra di Mosè; fate ciò che vi dicono, ma non fate ciò che fanno ". Li come se dicesse: "ascoltate la voce del pastore nella voce dei mercenari, poiché seduti in quella cattedra insegnano la legge di Dio ". Dio insegna dunque per bocca loro; ma se vogliono recare alcunché di loro non ascoltateli, e non fate quello che vi dicono ". 27. Alcuni semplici, però, udendo che le coscienze dei credenti non debbono essere vincolate da tradizioni umane e che Dio non è affatto servito da queste, pensano che lo stesso debba dirsi riguardo alle norme stabilite per mantenere ordine nella Chiesa; è necessario a questo punto chiarire l'equivoco. È facile ingannarsi in questa materia; non risulta infatti evidente la differenza fra queste due categorie di leggi: illustreremo però la questione in modo così piano, che nessuno potrà essere ingannato dalla somiglianza.
Facciamo anzitutto questa riflessione: se ammettiamo che debba esistere in ogni comunità umana un governo per mantenere fra gli uomini pace e concordia e un ordine per garantire decoro e umanità, queste cose devono in primo luogo essere osservate nelle Chiese, che sono mantenute, laddove esiste un ordine e sono invece interamente disperse dalla discordia. Se vogliamo perciò prendere adeguati provvedimenti per la conservazione della Chiesa bisogna impegnarsi affinché ogni cosa sia fatta con decoro ed ordine come dice san Paolo (1 Co. 14.40). Ora, riscontrandosi fra gli uomini così grandi contrasti di idee e di opinioni, nessun governo potrebbe sussistere tra loro se non garantito da leggi precise, e nessun ordine potrebbe essere mantenuto senza delle norme sicure. Lungi dal riprovare le leggi che tendono a questo fine, affermiamo, anzi, che senza di loro le Chiese sarebbero immediatamente distrutte e non si può fare si che ogni cosa sia attuata con decoro e con ordine, come san Paolo ritiene, senza che l'ordine ed il decoro siano tutelati da norme precise. Bisogna nondimeno sempre vigilare onde queste regole non vengano considerate necessarie alla salvezza, con il risultato di conculcare le coscienze o si faccia consistere in esse l'ordine e l'onore e il culto di Dio, quasi costituissero la vera pietà. 20. Siamo dunque in presenza di una norma valida e sicura per distinguere fra le costituzioni maledette da cui, come abbiam detto, la vera religione è distrutta, e le coscienze sono oppresse, e le sante norme della Chiesa che hanno lo scopo di mantenere un retto atteggiamento nella comunità dei credenti e garantire fra loro pace e concordia. Quando si sia riconosciuto che una norma è data in vista di un comportamento viene ad essere già eliminata ogni superstizione, in cui incappano coloro che fanno consistere il culto divino in invenzioni umane. Anzi, quando si sia chiarito che essa ha semplicemente lo scopo di garantire tra gli uomini l'amore fraterno è eliminata quell'opinione errata della obbligatorietà e della necessità intrinseca che opprime orribilmente le coscienze quando le tradizioni si considerano necessarie a salvezza. Per avere quella conoscenza di cui abbiamo detto, si tratta semplicemente di mantenere fra noi l'amor fraterno servendo gli uni agli altri. È però necessario esporre più chiaramente ciò che implica questo decoro e ordine di cui parla san Paolo. È scopo del decoro far si che quando si istituiscono cerimonie per dare maestà e onore ai sacramenti, il popolo sia guidato e quasi aiutato a onorare Dio. In secondo luogo vi si manifesti serietà e modestia. Riguardo all'ordine il primo elemento consiste nel fatto che i prelati e i pastori sappiano qual sono le norme di un buon governo e il popolo sia esercitato all'obbedienza a alla disciplina. Il secondo scopo è di far sì che la Chiesa sia mantenuta in buona concordia essendo organizzata in forma dovuta. 29. Non parleremo dunque di "decoro "laddove non c'è che spettacolo frivolo per far piacere agli uomini, come si riscontra nelle cerimonie di cui fanno uso i papisti nel loro culto. Poiché in questo caso non vi è che maschera di bella apparenza, ma inutile, ed esteriorità senza frutto. Considereremo "decoro "invece tutto ciò che, stabilito per dar onore ai santi misteri di Dio, guida il popolo ad una devozione autenticamente cristiana, tutto ciò che serve a conferire decoro all'atto che si compie e ogni cosa che abbia di mira l'edificazione affinché i credenti siano guidati a comprendere, con questo mezzo, la modestia, il timore, la riverenza, con cui si devono disporre per adorare il Signore. Ora le cerimonie non sono esercizi di pietà se non in quanto conducono, quasi per mano, il popolo a Cristo. Similmente non dobbiamo far consistere "l'ordine "in quelle cerimonie inutili ridotte a vana apparenza, ma in saggio governo che elimini la confusione, le dispute, e ogni contrasto. Del primo tipo abbiamo esempi in san Paolo, quando proibisce di confondere banchetti profani e la santa Cena di nostro Signore, e ordina alle donne di non presentarsi in pubblico a capo scoperto (1 Co. 11.21.5). E abbiamo esempi ancor più semplici fra noi: il pregare in ginocchio in pubblico, non trattare i sacramenti di nostro Signore in modo irriverente e indecoroso, non buttare il corpo degli uomini morti come carogne di animali, ma seppellirli con decoro dopo averli avvolti in un lenzuolo. Esempi della seconda categoria sono: avere ore fisse per la predicazione e per le preghiere pubbliche e per i sacramenti, avere luoghi a ciò destinati, cantici e salmi, osservare il silenzio durante la predicazione della Parola, che le donne, secondo l'ordine di san Paolo non presumano di insegnare (1 Co. 14.34); e altre norme analoghe. Dobbiamo includere in questa categoria come essenziali le ordinanze che concernono la disciplina come ad esempio: il catechismo, le ammonizioni, la scomunica, i digiuni pubblici e altre simili. In tal modo tutte le costituzioni della Chiesa, che si debbono considerare buone e sante, si possono ricondurre a queste due serie di problemi: lo stabilire cerimonie da un lato e dall'altro il mantenere la disciplina e la concordia. 30. Poiché sorge a questo punto il pericolo che quei vescovi mitrati prendano occasione di giustificare le loro leggi pestifere e tiranniche, quasi ricavando qualche giustificazione da quanto abbiamo detto e chi vi siano, d'altra parte, alcuni che per timore di ricadere nella deplorevole schiavitù in cui abbiamo vissuto, respingano esplicitamente ogni regolamento ecclesiastico, per quanto buono e santo esso sia, devo chiarire che non ho inteso approvare altre costituzioni se non quelle che risultano fondate sull'autorità di Dio e tratte dalla Scrittura, e si possono perciò ritenere autenticamente divine. Ad esempio l'abitudine di inginocchiarci nel caso di preghiere solenni; dobbiamo considerare questa prassi tradizione umana che sia lecito ad ognuno accettare o respingere? La considero umana ma nello stesso tempo divina. È: da Dio in quanto fa parte di quel decoro che l'Apostolo ci raccomanda (1 Co. 14.40); è umana in quanto ci esplicita ed esemplifica quello che dall'apostolo era stato espresso in modo generale. Da questo esempio siamo in grado di dedurre ciò che dobbiamo pensare di tutto il resto. In sostanza la questione è da porre in questi termini: poiché Dio ci ha esplicitamente dichiarato, nella sua parola, qual sia l'autentica norma di giustizia, il modo di servirlo rettamente e tutto quanto è necessario alla nostra salvezza, dobbiamo accogliere lui quale unico maestro in questa materia. In materia di disciplina esteriore e di cerimonie, non ha voluto dare indicazioni dettagliate riguardo al modo di governarci, in quanto ciò dipende dalla diversità dei tempi e una forma unica non risulterebbe né utile né adeguata a tutte le età. È dunque necessario ricorrere alle norme generali di cui si è parlato: che cioè ogni cosa si faccia, nella Chiesa, con decoro e ordine. Infine poiché Dio non ha dato indicazioni esplicite, non trattandosi di realtà necessarie alla nostra salvezza, poiché è necessario usare di queste cose in modo diverso a seconda delle necessità, avendo in vista l'edificazione, dobbiamo trarre la conclusione che si possono istituire nuove norme e abolire quelle tradizionali, secondo l'utilità della Chiesa. Ammetto che non sia bene innovare tutti i momenti e per futili motivi, ma l'amor fraterno ci mostrerà molto chiaramente ciò che è in grado di edificare o di nuocere. Tutto andrà per il meglio, se accettiamo di essere guidati dalla carità. 31. È compito del popolo cristiano serbare le ordinanze, emanate a questo scopo, e adeguate a questa norma, e non per spirito di superstizione, ma in libertà di coscienza, sottoponendosi tuttavia di buon grado ad esse. Ora se è cosa Ma.fatta disprezzarle per pigrizia, molto peggio sarebbe violarle per spirito di contesa o di ribellione. Che libertà di coscienza si può avere, dirà qualcuno, quando si sia tenuti ad osservarle in questo modo? Penso che la coscienza non cesserà di esser libera e spontanea, quando si tenga presente che le leggi a cui a si sottomette, non hanno carattere assoluto ma sono ausili esteriori per la debolezza umana, ausili di cui, quantunque non tutti abbiano necessità, è d'uopo tutti facciano uso in quanto siamo impegnati a mantenere carità reciproca gli uni con gli altri, come risulta chiaramente dagli esempi citati. Vi è forse un sì grande mistero nell'acconciatura femminile, che si debba considerare delitto una donna in strada a capo scoperto? È forse stato imposto il silenzio in modo tale che non possa parlare senza commettere un grande peccato? Fanno forse parte della religione il pregare in ginocchio, seppellire i morti al punto che non si possa trascurare queste cose senza commettere delitto? No di certo, poiché se per l'urgenza di un aiuto da recare al vicino una donna fosse impedita di pettinarsi non commette affatto peccato se accorre a capo scoperto; e vi son circostante in cui è meglio parlare che tacere. Non c'è nessun impedimento a che un malato preghi in piedi se non può inginocchiarsi. Infine in mancanza di un lenzuolo per avvolgere un morto, è meglio metterlo in terra nudo che lasciarlo senza sepoltura. Nondimeno, per ben comportarci in questa materia, dobbiamo conformarci all'uso e alle leggi del paese dove viviamo e adottare una certa modestia che ci mostri ciò che bisogna seguire o evitare. Se alcuno pecca in queste cose, per dimenticanza o inavvertenza, non c'è nessun peccato; se è per spirito di opposizionel suo rifiuto è invece da condannare. Analogamente sono privi di importanza i giorni, le ore o l'edificio del culto, quali salmi si canti un giorno o l'altro; è però opportuno, se si vuol aver riguardo a mantenere la pace e la concordia, che siano stabiliti i giorni e le ore del culto, il luogo sia ampio per raccogliere tutti i fedeli. Quali sarebbero le conseguenze del disordine in questa materia qualora fosse lecito ad ognuno inventare, a suo piacimento, le cose che concernono l'ordine pubblico! È chiaro infatti che uno stesso provvedimento non avrebbe l'adesione di tutti, qualora le cose fossero lasciate nell'incertezza e alla decisione di ognuno. Chi vuol essere più saggio di quanto occorre consideri se ha buone motivazioni davanti a Dio. Per conto nostro ci basta la parola di san Paolo: "non abbiamo l'abitudine di essere contenziosi, e neppure le Chiese di Dio " (1 Co. 11.16). 32. Bisogna dunque vegliare con diligenza a che nessun errore sopravvenga ad oscurare e macchiare la purezza di questa prassi. Questo si verificherà se tutte le cerimonie di cui si fa uso avranno utilità evidente, se non saranno accolte in numero eccessivo, se specialmente il pastore veglierà con opportuni insegnamenti a sbarrare la strada ad ogni falsa opinione. Questa conoscenza farà sì che ognuno di noi avrà piena libertà in questa materia e non di meno ognuno liberamente imporrà un limite alla sua libertà laddove lo richiedono il decoro di cui abbiamo parlato, o la carità. Anzi farà sì che osserveremo le cose suddette senza superstizione e non costringeremo gli altri ad osservarle, in quanto non faremo consistere il culto di Dio in moltitudine di cerimonie; una Chiesa non criticherà l'altra per la diversità delle forme esteriori, e infine, evitando di dare alle nostre leggi un carattere definitivo, riferiremo all'edificazione della Chiesa l'uso e il fine delle cerimonie, e in base alle esigenze di questa edificazione, saremo disposti a tollerare non solo il cambiamento di qualche cerimonia ma anche la soppressione e l'abolizione di tutte quelle che sono state in uso nel passato. Il tempo presente ci insegna che è bene, secondo l'opportunità dei tempi, sopprimere alcune pratiche che di per se non erano né sconvenienti né cattive. Ha regnato infatti nel passato una tale ignoranza che le Chiese si sono impegnate nell'osservanza delle cerimonie con intendimenti così corrotti e zelo così ostinato che a fatica si potrà purificarle dalle orribili superstizioni, sotto le quali sono state sepolte, senza ricorrere all'eliminazione di molte cerimonie, le quali erano state istituite nel passato, a ragione, e non sarebbero di per se da condannare.
CAPITOLO 11 IL POTERE GIURISDIZIONALE DELLA CHIESA E L'ABUSO CHE NE FA IL PAPATO 1. Il terzo elemento del potere e dell'autorità ecclesiastica, anzi il fondamentale è il potere giurisdizionale che concerne essenzialmente la disciplina, di cui dovremo occuparci nel capitolo seguente. Così come città e villaggi non possono sussistere senza autorità e senza governo, la Chiesa di Dio, come ho già detto altrove, ha bisogno di una autorità spirituale stabile, assolutamente diversa però da una autorità terrena; lungi però dal rappresentare per questa un impedimento o un ostacolo collabora invece alla sua conservazione e al suo progresso. Questa autorità giurisdizionale rappresenta semplicemente un ordine stabilito per conservare il governo spirituale. A questo fine sono stati anticamente istituiti nella Chiesa collegi di sorveglianti che vegliassero sui costumi, correggessero i vizi, ricorressero alla scomunica quando fosse il caso. A questi allude Paolo quando, nella epistola ai Corinti, fa menzione dei "doni di governo " (1 Co. 12.28). Parimenti nella epistola ai Romani quando dice: "Chi presiede lo faccia con diligenza ", (Ro 12.8). Non si rivolge infatti ai magistrati o governatori terreni, dato che in quel tempo non ce n'era alcuno che fosse cristiano, ma a coloro che erano associati ai pastori per il governo spirituale della Chiesa. Similmente nella lettera a Timoteo fa menzione di due categorie di preti, quelli che lavorano per la Parola, quelli che non hanno l'incombenza della predicazione e tuttavia sono fedeli nell'assolvere il proprio compito (1 Ti. 5.17). Non c'è dubbio che, con questa seconda categoria, egli intenda alludere a coloro che erano delegati per sorvegliare i costumi e correggere mediante la scomunica i colpevoli. Ora questo potere, di cui discorriamo, dipende interamente dalle chiavi, che Gesù Cristo ha dato alla sua Chiesa nel capitolo diciottesimo di san Matteo. Quivi infatti egli ordina si facciano ammonizioni a nome della comunità a colui che avrà disprezzato le ammonizioni private del fratello; e, qualora perseveri nella sua ostinazione, sia escluso dalla comunità dei credenti. Tali ammonizioni e correzioni non si possono fare senza previa conoscenza di causa. Si richiede pertanto l'esistenza di un giudizio e di una legislazione. È dunque necessario riconoscere alla Chiesa una qualche giurisdizione, se non vogliamo annullare e rifiutare la promessa delle chiavi e respingere sia la scomunica che le ammonizioni e ciò che ne consegue. Non si tratta in questo caso, faccio notare al lettore, di un riferimento generale all'autorità della dottrina predicata dagli apostoli, come è il caso nel capitolo sedicesimo di san Matteo e nel ventesimo di san Giovanni, ma del fatto che Gesù Cristo trasferisce, per l'avvenire, alla sua Chiesa il diritto e le forme di controllo che, sino a quel momento erano in uso nella sinagoga dei Giudei. Questo popolo, infatti, aveva sempre avuto una forma di governo di cui Gesù vuole faccia uso la comunità dei suoi, a condizione che sia mantenuta la purezza delle istituzioni. Egli ricorre a severe minacce contro i contraddittori sapendo che i giudizi della sua Chiesa, oggetto di critiche e di disprezzo, potevano essere tenuti in nessun conto da gente temeraria e orgogliosa. I lettori potrebbero essere turbati dal fatto che Gesù Cristo, parlando di cose diverse, usa gli stessi termini; sarà perciò necessario chiarire questo problema. Vi sono dunque due testi in cui si parla di "legare "e "sciogliere ". Il primo è nel capitolo sedicesimo di san Matteo, laddove nostro Signore Gesù, dopo aver promesso a san Pietro di dargli le chiavi del regno dei cieli, aggiunge: tutto ciò che avrai legato sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che avrai sciolto in terra sarà sciolto nei cieli. Con queste parole egli non intende dire nulla di diverso da quanto dice in san Giovanni, quando manda i suoi discepoli a predicare. Infatti, dopo aver soffiato su di loro, dice: "A chi rimetterete i peccati saranno rimessi; a chi li riterrete, saranno ritenuti " (Gv. 20.23). L'interpretazione che diamo di questo testo non è cavillosa e forzata, ma semplice, vera, adeguata. Questo ordine di rimettere e ritenere i peccati, e la promessa fatta a san Pietro di legare e sciogliere non si devono riferire ad altro che al ministero della Parola, che nostro Signore ha affidato ai suoi apostoli, congiuntamente con l'ufficio di legare e sciogliere. Quale è infatti la sostanza dell'evangelo se non che tutti noi, servi del peccato e della morte, siamo liberati e affrancati dalla redenzione che è in Gesù Cristo? E che all'opposto coloro che non ricevono Cristo quale liberatore e redentore siano condannati ad eterna cattività? Affidando ai suoi discepoli questa ambasciata, da recare a tutte le nazioni della terra, nostro Signore l'ha rivestita di onore con questo attestato di nobiltà, a dimostrare che gli apparteneva, procedeva da lui ed era da lui voluta; e questo per singolare consolazione sia degli apostoli che degli uditori cui tale ambasciata doveva essere recata. Era certo conveniente che gli apostoli avessero una così sicura e forte garanzia nella loro predicazione, che non solo dovevano iniziare e condurre fra infinite fatiche, sollecitudini, problemi, pericoli, ma suggellare infine con il proprio sangue. Motivato era dunque il dono di questa certezza che la loro predicazione non sarebbe stata vana o senza incidenza, ma ricca di contenuto e di potenza. Era certo necessario che in tali situazioni di pericolo, difficoltà, angoscie avessero la certezza che compivano l'opera di Dio per sapere che, malgrado l'opposizione e gli ostacoli del mondo, Dio era con loro, e che pur non avendo, in terra, la presenza di Cristo, fonte del loro insegnamento, comprendessero che era in cielo per confermarne la verità. Bisognava, d'altra parte, che fosse attestato in modo inequivocabile agli uditori che quella dottrina non era parola degli apostoli, ma di Dio stesso, che non era voce nata in terra ma proceduta dal cielo. Queste cose infatti: la remissione dei peccati, la promessa della vita eterna, l'annunzio della salvezza, non possono fondarsi sull'autorità umana. Cristo dunque attesta che nella predicazione evangelica l'opera degli apostoli era limitata al ministero; che lui stesso servendosi della loro bocca come di strumenti parlava e prometteva ogni cosa; che la remissione dei peccati, che essi annunziavano, era autentica promessa di Dio, la dannazione minacciata, inevitabile giustizia di Dio. Ora questo attestato è stato dato per ogni tempo e permane tuttora valido per assicurarci e garantirci che la parola dell'evangelo, da chiunque predicata, è sentenza di Dio stesso, emanata nella sede divina, scritta nel libro della vita, approvata, ratificata, confermata in cielo. Risulta così che il potere delle chiavi non è altro che la predicazione dell'evangelo, e anzi, se consideriamo gli uomini, non è tanto potere quanto ministero. Poiché Cristo non ha conferito questo potere agli uomini in proprio, ma alla sua parola di cui ha fatto gli uomini ministri. 2. L'altro testo si trova in san Matteo, dove è detto: "Se qualcuno dei tuoi fratelli si rifiuta di ascoltare la Chiesa, sia per te come il pagano e il pubblicano. Io vi dico in verità che tutte le cose che avrete legate sulla terra, saranno legate nel cielo; e tutte le cose che avrete sciolte sulla terra saranno sciolte nel cielo " (Mt. 18.17-18). Questo testo non è del tutto simile al primo ma presenta alcune differenze; tuttavia non li si può considerare così diversi da non avere fra loro una grande affinità e somiglianza. Sono simili, in primo luogo, nell'uno e nell'altro testo, il carattere generale dell'espressione, e il potere di legare e sciogliere è nei due casi uno solo, cioè la parola di Dio, identico l'ordine di legare e sciogliere, identica la promessa. Differiscono però in questo: il primo si riferisce alla predicazione cui sono ordinati i ministri della Parola; il secondo include la disciplina della scomunica lecita nella Chiesa. Ora la Chiesa lega colui che scomunica, non nel senso che lo getti in rovina e disperazione eterna, ma in quanto condanna la sua vita e i suoi costumi, e gli preannunzia la sua dannazione, qualora non ritorni sulla retta via. Essa scioglie colui che accoglie nella sua comunione in quanto lo rende partecipe della comunione che ha in Gesù Cristo. Acciocché nessuno dunque disprezzi il giudizio della Chiesa e consideri con leggerezza il fatto di essere condannato dalla sentenza dei credenti, nostro Signore dichiara che questo giudizio altro non è se non la pubblicazione della sua sentenza, e che tutto quanto avranno fatto in terra sarà ratificato in cielo. Poiché sono in possesso della parola di Dio, con cui condannano i malvagi e i cattivi. Ed hanno la stessa parola per accogliere coloro che si pentono; e non possono errare né essere in contrasto con il giudizio divino perché giudicano unicamente in base alla sua legge che non è opinione incerta e terrena ma è la sua santa volontà, un oracolo celeste. Da questi due testi, quei furiosi senza discernimento, si sforzano di ricavare ora la loro confessione, ora la scomunica, or la loro giurisdizione, ora l'autorità di legiferare, ora le indulgenze. Ricorrono al primo per stabilire il primato della Sede romana. Si dimostrano così abili nell'infilare le loro chiavi a tutte le serrature che ci si domanda se non hanno esercitato il mestiere del fabbro durante tutta la loro vita. 3. Coloro che considerano questo un ordine temporale, limitato al tempo in cui prìncipi, autorità, uomini di legge erano ancora contrari al Cristianesimo, si ingannano, non considerando quanta e quale differenza sussista tra la potestà ecclesiastica e il potere civile. La Chiesa infatti non dispone della spada per punire i malfattori né di una legislazione per frenarli, né di carceri, ammende, o altre punizioni cui sono soliti ricorrere i magistrati. Non corrisponde anzi al suo spirito che il colpevole sia punito suo malgrado, ma che faccia professione di pentimento con una punizione volontaria. Siamo dunque in presenza di una sostanziale differenza, in quanto la Chiesa non usurpa nulla di ciò che appartiene in proprio al magistrato, e questi non è in grado di compiere ciò che è fatto dalla Chiesa. Questo appare più chiaramente ricorrendo ad un esempio. Se un tale si ubriaca, sarà punito in una città ben amministrata, con il carcere; se si dà alla dissolutezza, con una pena uguale o maggiore, come ragionevolmente si richiede. Sarà data soddisfazione, in questo modo, alla legge, al magistrato, al giudizio terreno. Potra accadere però che questo malfattore non dia alcun segno di pentimento ma, al contrario, protesti o si indispettisca. Deve la Chiesa essere assente a questo punto? La cosa è tale che questo genere di persone non si può accogliere alla Cena senza recare offesa a Gesù Cristo e alla santa istituzione. Anzi ragionevolmente si richiede che chi ha scandalizzato la Chiesa con cattivo esempio, elimini lo scandalo suscitato, facendo dichiarazione solenne del suo pentimento. Troppo debole è la motivazione addotta da coloro che sono contrari. Gesù Cristo, dicono costoro, demandava alla sua Chiesa questo compito nel tempo in cui non esistevano magistrati per poterlo eseguire. Però accade spesso, rispondo, che un magistrato si dimostri indolente, oppure meriti lui stesso di essere punito, come accadde all'imperatore Teodosio. Anzi, in tal caso, si potrebbe dire altrettanto di tutto il ministero della Parola: i pastori non dovrebbero attualmente denunciare crimini notori, né ammonire o accusare o minacciare, in quanto vi sono magistrati cristiani preposti alla correzione di tali errori. Affermo, al contrario, che se il magistrato deve, attualmente, purificare la Chiesa punendo i malvagi, il ministro della Parola deve, dal canto suo, aiutare il magistrato a ridurre il numero dei malfattori. Le loro amministrazioni debbono essere congiunte in modo tale che l'una sia di aiuto all'altra e non di impedimento. 4. E in verità, quando si considerino attentamente le parole di Cristo in quel testo, risulta evidente che egli non si riferisce ad una condizione provvisoria ma permanente della Chiesa. Non sarebbe infatti opportuno citare, in sede di giustizia terrena, chi non volesse prestare ascolto alle nostre ammonizioni, come invece si dovrebbe fare se il governo civile avesse preso il posto di quello ecclesiastico. Che significato ha questa promessa: in verità vi dico, ciò che avrete legato in terra sarà legato nei cieli? È stata data per un anno soltanto, per breve tempo? Gesù Cristo inoltre non ha istituito nulla di nuovo con queste parole ma ha seguito l'antica consuetudine, in uso da sempre presso il popolo giudaico. Così facendo ha mostrato che la Chiesa non può fare a meno di una giurisdizione spirituale, esistita sin dall'inizio, e che è stata confermata da un comune accordo in ogni tempo. Quando imperatori e magistrati sono entrati a far parte della cristianità non per questo è stata abolita la giurisdizione spirituale, soltanto la si è regolata in modo che non derogasse alla giustizia terrena e non si confondesse con essa; a ragione. Un magistrato credente infatti non si considererà, in quanto tale, dispensato dal sottomettersi alla ubbidienza che è comune a tutti i figli di Dio e di cui è parte la sottomissione alla Chiesa, che giudica sulla base della parola di Dio. Non c'è neppure da pensare all'eventualità che egli debba rendere inutile questo giudizio. "Che è più onorevole per l'imperatore "dice sant'Ambrogio "dell'essere figlio della Chiesa, visto che un buon imperatore non è al di sopra della Chiesa ma ne fa parte? ". Coloro pertanto che spogliano la Chiesa di questa autorità per esaltare il potere civile e la giustizia terrena, non solo snaturano le parole di Cristo sulla base di una falsa interpretazione, ma accusano altresì di grave colpa i santi vescovi che si sono susseguiti in gran numero dal tempo degli apostoli, quasi avessero usurpato la dignità e l'ufficio del magistrato sotto mentite spoglie. 5. Occorre altresì considerare attentamente quale sia stato anticamente l'uso autentico della giurisdizione ecclesiastica e quanto grave abuso se ne sia fatto in seguito, per sapere ciò che deve essere annullato e abolito, e ciò che deve essere invece reintegrato per distruggere il regno dell'anticristo e ricostruire da capo il regno di Cristo. Il nostro scopo deve essere, in primo luogo, quello di prevenire gli scandali e, qualora ve ne siano, eliminarli. Due cose sono da considerarsi nell'uso del potere spirituale: deve essere distinto in modo assoluto dalla spada e dalla potenza terrena; in secondo luogo non deve essere esercitato da un solo uomo, a suo piacimento, ma da una legittima assemblea a ciò preposta. Entrambe le cose sono state osservate nella Chiesa antica. I santi vescovi infatti non hanno esercitato la loro autorità mediante ammende, incarcerazioni, o altri provvedimenti di natura civile, ma hanno ricorso, come si conveniva, alla sola parola di Dio. Il provvedimento estremo della Chiesa è la scomunica di cui non fa uso, se non in casi di estrema necessità. Ma la scomunica non si avvale della coercizione fisica ma si limita all'efficacia della Parola. Insomma la giurisdizione della Chiesa primitiva non è stata se non la traduzione pratica di ciò che san Paolo afferma circa l'autorità spirituale dei pastori: "La potestà spirituale "egli dice "ci è data per distruggere ogni fortezza e abbattere ogni altezza che si eleva contro la conoscenza di Dio, per sottomettere ogni pensiero traendolo all'ubbidienza di Cristo, avendo in mano la punizione contro ogni disobbedienza " (2 Co. 10.4). Quanto egli afferma si compie mediante la predicazione, coloro dunque che si dichiarano credenti debbono essere giudicati secondo il contenuto di quest'ultima affinché la dottrina non sia oggetto di disprezzo. Questo non può avvenire qualora la Chiesa, unitamente alla predicazione, non abbia anche l'autorità di giudicare coloro che meritano ammonimenti in forma privata o riprensioni più severe, e abbia altresì l'autorità di proibire la comunione della Cena a coloro che non vi si potrebbero accogliere senza profanare il mistero e il sacramento. Quando perciò afferma in un altro testo, che non spetta a noi giudicare quelli di fuori (1 Co. 5.12) risulta evidente che intende sottomettere i figli e i famigliari della Chiesa alle censure e alle ammonizioni istituite per punire i vizi, e che si esercitava, in quel tempo, la disciplina a cui nessuno dei credenti era sottratto. 6. Questa autorità, come abbiamo detto, non risiedeva nelle mani di uno solo, onde agisse a suo piacimento; ma del corpo degli anziani che rappresentava ciò che il senato rappresenta in una città. San Cipriano, menzionando gli usi del suo tempo, afferma che in questa disciplina il vescovo era assistito da tutto il clero, per assumere le decisioni in forma collegiale; egli mostra però, in altri testi, che il clero derimeva queste questioni in modo tale che il popolo non fosse tenuto all'oscuro dei fatti. Ecco le sue parole: "Da quando sono vescovo ho sempre cercato di non fare nulla senza il consiglio del clero e il consenso del popolo ". Ma era prassi comune e abituale che la giurisdizione ecclesiastica fosse esercitata dal corpo dei preti, in cui vi erano, come abbiamo detto, due categorie: gli uni che avevano il compito dell'insegnamento, gli altri che erano incaricati di esercitare il controllo sulla vita di tutti. Questo ordinamento si è a poco a poco corrotto cosicché già ai tempi di sant'Ambrogio il clero esercitava da solo il giudizio nella Chiesa; situazione di cui egli stesso si duole dicendo: "Anticamente la sinagoga, e in seguito la Chiesa, ebbe degli anziani senza il consiglio dei quali non si faceva nulla. In seguito a quale negligenza tale uso sia caduto in disuso, non saprei, per la trascuratezza dei dotti, o piuttosto a motivo del loro orgoglio, volendo essi dominare da soli ". Notiamo quanto si amareggi questo sant'uomo per il fatto che ci si sia allontanati in qualche modo dalla purezza, quantunque in quel tempo vi fossero ancora ordinamenti tollerabili. Quali sarebbero le sue lagnanze vedendo le impressionanti rovine attuali, in cui si stenta a riconoscere una minima traccia dell'antico edificio? In primo luogo i vescovi hanno usurpato per se ciò che era stato dato alla Chiesa tutta. Il caso è analogo a quello di un parlamento o di un consiglio cittadino in cui un presidente, un console, un sindaco scacci i consiglieri per governare da solo. Ora come il vescovo è superiore, in grado, ad ognuno degli altri, così una assemblea o congregazione debbono avere autorità superiore ad un singolo. Atto quanto mai avventato e sregolato questo: un uomo, avoca a se il potere di tutti, aprendo, in primo luogo la via ad una tirannide senza controllo e in secondo luogo sottraendo alla Chiesa ciò che le appartiene, e in terzo luogo abolendo l'ordine istituito da Cristo. 7. Siccome però un guaio ne provoca sempre un altro, Cl. Passare del tempo i vescovi non degnando occuparsi di questo compito, quasi fosse indegno della loro persona, l'hanno affidato ad altri. Hanno così avuto origine i delegati istituiti per occuparsi della giurisdizione ecclesiastica. Non mi interessa chi siano costoro come individui; affermo solo che non differiscono in nulla dai giudici secolari. E tuttavia chiamano ancora la loro giurisdizione "spirituale ", quantunque vi si discutano quasi esclusivamente problemi terreni. Quand'anche non ci fossero altri inconvenienti, non è forse vergognoso che costoro definiscano giustizia ecclesiastica una giustizia civile? "Ma vi si fanno ammonizioni e scomuniche "replicano. È questo il modo di farsi beffe di Dio? Prendiamo il caso di un poveretto indebitato. Viene citato davanti al giudice ecclesiastico; se si presenta viene condannato, se non paga, dopo la sentenza, viene ammonito e dopo una seconda ammonizione viene scomunicato Non si presenta? Lo si riconvoca una seconda volta, non si presenta in giornata? Dopo una seconda convocazione lo si scomunica su due piedi. Vi chiedo in che cosa un procedimento del genere rassomiglia all'istituzione di Cristo, all'uso antico, al modo di agire di una Chiesa? Risponderanno che correggono i vizi. Elegante risposta! Non solo tollerano dissolutezza, insolenze, ubriachezza e simili brutture, ma le approvano quasi e, con il loro consenso, le mantengono in vita. E non solo nel popolo ma nello stesso clero; convocano qualcuno, ogni tanto, per non sembrare del tutto disinteressati al loro compito, o per punire con una sanzione economica. Passo sotto silenzio, a questo punto, i saccheggi, le rapine, i furti, i sacrilegi che ne derivano. Né dirò che razza di gente sia il più delle volte eletta a questi uffici. Questo punto è sufficientemente chiarito: quando i Romanisti si vantano della loro giurisdizione spirituale è facile far loro notare che nulla potrebbe essere più contrario alle istituzioni che Gesù Cristo ci ha dato, e assomiglia alle antiche consuetudini quanto le tenebre alla luce. 8. Quantunque non si sia ricordato tutto ciò che si poteva menzionare al riguardo, e che il problema sia stato poco più che accennato, penso, tuttavia, aver rintunzato i nostri avversari, ed aver dimostrato chiaramente che la potestà spirituale, di cui si gloriano il Papa e tutta la sua gente, altro non è che una tirannia, profana nei riguardi della parola di Dio e ingiusta riguardo alla Chiesa. Sotto il termine "potestà spirituale ", includo sia l'ardire che hanno dimostrato nel diffondere nuove dottrine, per sviare la povera gente dalla purezza e semplicità della parola di Dio, sia le tradizioni inique in cui hanno avvolte le povere anime e tutta la giurisdizione ecclesiastica, come la chiamano, e che esercitano mediante i loro suffraganti, vicari, penitenzieri, officiali. Poiché se accettiamo che sia Cristo a regnare fra noi tutto questo dominio è immediatamente rovesciato e distrutto. La trattazione del presente argomento non richiede che si esamini l'altro aspetto del loro dominio, che consiste in possedimenti terreni e patrimonio, in quanto non viene esercitato sulle coscienze. Quantunque anche in questo caso si potrebbe constatare che permangono sempre gli stessi, tutto fuorché pastori della Chiesa, come vorrebbero essere chiamati. Né intendo fare allusione ai vizi degli uomini, ma denunciare la malattia insita nella condizione generale che sembra loro insoddisfacente quando non si distingua per ricchezza e orgoglio. Se interroghiamo l'autorità di Gesù Cristo su questo punto, non c'è alcun dubbio che egli abbia voluto precludere ogni forma di autorità terrena ai ministri della sua parola quando ha detto: "I prìncipi delle nazioni le signoreggiano, ma non sarà così tra voi " (Mt. 20.25; Lu 22.25-26). Con queste parole infatti non solo indica che il compito del pastore è diverso da quello del principe ma che si tratta di due cose così diverse da non potersi riferire entrambe ad una stessa persona.
Il fatto che Mosè abbia ricoperto le due cariche è anzitutto un miracolo, e in secondo luogo è stato solo provvisoriamente fino a che la situazione fosse stabilita in forma definitiva. Dal momento che Dio ebbe stabilito una norma conforme alla sua volontà non rimase a Mosè che il governo civile. Egli dovette infatti cedere al fratello Aronne il sacerdozio; ed a ragione. Perché oltrepassa le possibilità di un uomo singolo il ricoprire entrambe le cariche. Questa regola è stata diligentemente osservata, in ogni tempo, nella Chiesa. Non si è mai verificato il caso di un vescovo, finché si è mantenuta una qualche forma di Chiesa, che abbia pensato dover usurpare l'autorità civile; al tempo di sant'Ambrogio circolava un proverbio secondo cui gli imperatori desideravano la dignità episcopale molto più di quanto i preti desiderassero l'impero o l'autorità. Era infatti radicata nel cuore di tutti la convinzione che i palazzi appartenevano agli imperatori e le chiese ai vescovi, come lui stesso dice poco dopo. 9. Quando si è inventato l'accorgimento di lasciare ai vescovi il titolo, l'onore, i vantaggi della loro carica senza che ne avessero le incombenze e i fastidi, perché non fossero del tutto oziosi è stata loro data la potestà della spada; per l'esattezza se la sono presa da se. A quali argomenti potranno ricorrere per giustificare tale spudoratezza? In primo luogo era forse compito dei vescovi l'immischiarsi di diritto, consacrarsi al governo di città e paesi e altre incombenze che non competono loro affatto visto che i compiti della loro carica sono così numerosi che quand'anche vi si dedicassero senza sosta a mala pena potrebbero assolverli? Ma con il loro consueto ardire non si vergognano di affermare che, in questo modo, la gloria di Cristo è convenientemente esaltata e nondimeno non sono eccessivamente distratti dalla loro vocazione. Se l'essere posti così in alto, da costituire una minaccia per gli stessi prìncipi, rappresenta per i vescovi e il loro Papa un onore adeguato alla dignità episcopale, debbono protestare contro Gesù Cristo da cui questo onore, se è lecito esprimersi così, è stato grandemente offeso. Perché, secondo la loro opinione quale maggior oltraggio potrebbe essere loro fatto che affermare: "I re e i prìncipi dominano sulle nazioni ma non sarà così tra voi " (Mt. 20.25) ? Quantunque Gesù non abbia imposto ai suoi servi, con queste parole, una condizione più dura di quella che ha preso su di se. Perché queste sono le sue parole: "Chi mi ha costituito su voi giudice o spartitore? " (Lu 12.14). Egli intende in questo modo rifiutare l'attribuzione di una autorità di giudice terreno, cosa che non avrebbe fatta se fosse consona al suo ufficio. Non sapranno i servi sottomettersi alla condizione cui si è volontariamente sottoposto il maestro? Riguardo al secondo punto vorrei lo sapessero dimostrare nei fatti altrettanto bene quanto nelle chiacchiere. Se non è parso bene agli apostoli occuparsi della distribuzione delle elemosine, tralasciando la parola di Dio (At. 6.2) , dovrebbero essere convinti che non è compito di un uomo solo adempiere l'ufficio di buon principe e di buon vescovo congiuntamente. Se gli apostoli trovandosi, in virtù delle grazie ricevute da Dio, nelle condizioni di assolvere incarichi più impegnativi di quanto possano fare i loro successori, hanno riconosciuto l'impossibilità di adempiere contemporaneamente il servizio della Parola e della carità, senza venir meno, come potrebbero costoro centuplicare l'impegno degli apostoli, paragonati ai quali non sono nulla? Solo una temerarietà irresponsabile poteva suggerire questa iniziativa; pure è stato fatto. Come si attui ognuno lo può vedere. Né l'esito poteva essere diverso, rinunciando alla propria carica, questa gente piena di iniziativa, finisce Cl. Fare il mestiere degli altri. 10. È indubbio che siano giunti alla situazione attuale partendo da un piccolo inizio e procedendo nel tempo, a tappe. Non potevano infatti balzare così in alto, al primo colpo; ma con l'inganno e segreti maneggi si sono innalzati nascostamente, cosicché nessuno fu in grado di rendersi conto del trucco finché fu realizzato; da un lato quando se ne presentava l'occasione hanno strappato dalle mani dei prìncipi con ricatti e minacce un qualche accrescimento della loro autorità, dall'altro, constatando che i prìncipi si dimostravano inclini a cedere, hanno abusato di questa sconsiderata leggerezza. Anticamente vigeva fra i credenti la consuetudine di affidare al proprio vescovo, facendo pieno affidamento sulla sua lealtà, l'arbitrato dei propri diverbi per evitare di giungere in tribunale; ed i vescovi, quantunque spiacesse loro assai, dovettero occuparsi spesso di tali arbitrati. Ma si dimostravano pronti ad assumere questo compito spiacevole per evitare che le parti intentassero causa, come attesta sant'Agostino. I loro successori hanno trasformato in giurisdizione ordinaria questi arbitrati volontari, il cui scopo era soltanto quello di evitare agli uomini procedimenti penali. Analogamente poiché le città e i paesi si sentivano oppressi e minacciati hanno scelto i loro vescovi quali difensori affinché fossero loro tutela e salvaguardia. I successori, con mezzi ingegnosi, da protettori si son fatti signori e padroni. Nessuno, anzi, potrà negare che una gran parte del loro dominio sia stato conquistato con la forza o deplorevoli intrighi. Riguardo al fatto che prìncipi hanno, di buon grado, conferito potere ai vescovi, molte sono state le ragioni che li hanno indotti a fare questo. Tuttavia qualsiasi apparenza di devozione possa aver avuto la loro liberalità erroneamente hanno pensato recare vantaggio alla Chiesa mentre ne hanno, in questo modo, corrotta e annullata la primitiva integrità. I vescovi, d'altra parte, che hanno abusato di questa sciocca faciloneria dei prìncipi a proprio vantaggio, hanno chiaramente dimostrato, con questo solo atto di non essere affatto vescovi. Se avessero infatti posseduto un briciolo di quel retto intendimento, che hanno avuto gli apostoli, avrebbero risposto per bocca di san Paolo: "Le armi del nostro combattimento non sono carnali ma spirituali " (2 Co. 10.4). Trascinati invece da cieca cupidigia hanno causato la perdita loro, dei loro successori e della Chiesa. 11. Il Papa infine, non accontentandosi più di contee e ducati, ha messo la mano dapprima sui regni e per finire sullo stesso Impero d'Occidente. Al fine di mantenere, con qualche apparenza di legalità, il possesso di ciò che si è procurato Cl. Brigantaggio, ora si vanta di averlo per diritto divino, ora si appella alla donazione di Costantino, ora rivendica qualche altro titolo. Gli rispondo, innanzi tutto, con san Bernardo, che qualsiasi titolo egli possa rivendicare per dirsi imperatore non è però in base al diritto apostolico. Poiché san Pietro, egli dice, non poteva dare ciò che non possedeva, ma ha lasciato ai suoi successori quello che aveva: la cura delle Chiese. Poi aggiunge: "Considerando che il Signore e Maestro afferma non essere giudice fra due uomini, non deve sembrar strano al servo e discepolo non essere giudice di tutti ". In questo testo fa allusione ai giudizi terreni. Ed aggiunge rivolgendosi al Papa: "La vostra potestà dunque non è sui possedimenti ma sui peccati; avete infatti ricevuto le chiavi del regno celeste non per essere gran signore ma per correggere i vizi. Qual dignità vi sembra maggiore: rimettere i peccati o spartire territori? Non è possibile fare confonti. Questa autorità terrena ha i suoi giudici nella persona dei re e dei prìncipi della terra. Perché volete invadere il campo altrui? "; e ancora: "Siete in posizione di autorità non per dominare, io penso. Pertanto qualsiasi concetto abbiate di voi stesso ricordatevi che il vostro stato comporta ministero e servizio, non dominio. Imparate che per coltivare la vigna del Signore occorre maneggiare la vanga non impugnare lo scettro "; parimenti: È chiaro che gli Apostoli sono esclusi da ogni signoria, come oseresti tu dunque usurpare il titolo di apostolo signoreggiando? O il dominio stando seduto sul seggio apostolico? "Conclude infine: "l'apostolato è di tale natura che ogni signoria le è preclusa e le è ingiunto di servire e ministrare ". Tutto ciò che qui vien detto da san Bernardo è certa e pura verità divina, ma quand'anche non lo avesse detto, ognuno sarebbe in grado di vedere che è realmente così. Il Papa tuttavia non si è vergognato di decretare in un concilio d'Arles che, per diritto divino, gli spetta l'autorità sovrana delle due spade, 12. Riguardo alla donazione di Costantino, di cui si vantano, chi abbia una qualche conoscenza storica di quel periodo sa che si tratta non solo di un falso e di una invenzione ma di una ridicola sciocchezza. Ma anche tralasciando i dati storici, san Gregorio, vissuto circa quattrocento anni dopo, ci dà una testimonianza sufficientemente probante. Ogniqualvolta fa menzione dell'imperatore lo chiama suo "grazioso signore "e si dichiara suo "umile servo ". Parimenti afferma in un testo: "Voi che siete nostro principe e signore non siate adirato contro i vescovi visto che avete su di loro una autorità terrena; ma abbiate il giusto intendimento di esercitare su di loro la vostra autorità in modo però da averli in profonda stima a causa di Colui di cui sono ministri ". Notiamo che egli si pone sullo stesso piano di tutti per essere suddito come gli altri; egli tratta infatti in questo caso una questione personale. Egli afferma inoltre in un altro passo: "Ho fiducia che Dio onnipotente vi darà lunga vita e ci governerà, mediante la sua grazia, sotto la vostra mano ". Con queste citazioni non abbiamo l'intenzione di esaminare a fondo il problema della donazione di Costantino; ma solo di illustrare ai lettori quanto sia puerile voler fare del Papa un imperatore. Tanto più grande è stata la stupidità del bibliotecario del Papa, Agostino Steuco, sfrontato al punto da farsi, per compiacere al suo padrone, avvocato di una causa così disperata. Lorenzo Valla aveva definitivamente refutata questa favola, come è facile per un uomo dotto e di acuto ingegno, anche se non aveva menzionato tutto ciò che si poteva riferire all'argomento non essendo versato in sacre Scritture né in temi religiosi o di storia ecclesiastica. Eccoti Steuco gettarsi nella lizza recando sciocchezze prive di qualsiasi valore e di senso per accecare gli occhi del popolo in una questione pur così chiara . Del resto egli riesce a trattare questo argomento con un linguaggio così distaccato da far pensare ad uno spirito burlone che voglia scherzare. Questi spiriti malvagi che danno in prestito la loro lingua per bestemmiare meritano di essere privati del guadagno che si ripromettevano. 13. Del resto se qualcuno desidera sapere donde procede questa rivendicazione di un impero inventato di sana pianta dovrà notare che non sono ancora trascorsi cinquecento anni da quando i papi erano soggetti all'imperatore e non venivano creati senza sua approvazione. Il mutamento avvenne al tempo di Gregorio 7, che già incline di per se a compiere questo, colse occasione dalla follia dell'imperatore Enrico 4. Perché questo Enrico, fra i numerosi atti inconsulti e insolenti da lui compiuti, era solito vendere i vescovati di Germania, ovvero distribuirli come benefici ai suoi cortigiani. Perciò Ildebrando, cioè papa Gregorio, da lui offeso, seppe cogliere, per vendicarsi, questa giusta e favorevole motivazione. Infatti molti si associarono a lui per sostenerlo poiché egli sembrava avere giusti e leciti motivi per porre rimedio ai sacrilegi dell'imperatore. D'altronde l'imperatore Enrico, a causa del suo malgoverno, non era amato dalla maggioranza dei prìncipi. Ildebrando, che si chiamò Gregorio, rivelò infine la sua malizia, da uomo malvagio e vile qual era, e coloro che avevano congiurato con lui lo abbandonarono. Tuttavia tanto fece che i suoi successori, non solo poterono sottrarsi alla loro sudditanza nei riguardi dell'imperatore, ma tenerlo nei loro lacci. È accaduto in seguito che molti imperatori siano stati più simili ad Enrico che a Giulio Cesare cosicché non è stato difficile domarli e ridurli all'impotenza perché se ne stavano pacificamente a casa, senza preoccupazioni, mentre sarebbe stato necessario reprimere coraggiosamente la bramosia dei papi che di giorno in giorno andava crescendo. Vediamo così di che colori sia rivestita quella bella donazione di Costantino in base alla quale il Papa vuol far credere che l'Impero d'Occidente è roba sua. 14. Da quel momento i papi non hanno mai desistito dalla caccia per prendere nelle loro reti signorie e posizioni di potere, per impossessarsi del bene altrui, ora con sottili astuzie ora con atti sleali, ora con guerre; anzi si sono persino impadroniti della città di Roma, che aveva sempre mantenuta la sua libertà; e questo accadde neppure cento trent'anni or sono, circa. Insomma hanno costantemente esteso il loro dominio sino al raggiungimento di quella posizione di potere attuale, per mantenere ed accrescere il quale, nello spazio di duecento anni (poiché in precedenza avevano tentato di usurpare il governo della città ) hanno messo sossopra la cristianità intera al punto da distruggerla interamente. Accadde ai tempi di san Gregorio che gli amministratori di beni ecclesiastici si siano appropriati di beni appartenenti alla Chiesa apponendovi blasoni in segno di possesso secondo l'abitudine dei prìncipi. San Gregorio convocò un concilio provinciale e criticò aspramente questa abitudine profana. Chiese ai partecipanti se a loro giudizio non dovesse considerarsi scomunicato un ecclesiastico che tentasse fare questo, o un vescovo che lo autorizzasse o lo lasciasse fare senza prendere provvedimenti in merito; tutti, unanimemente, risposero che si trattava di un atto che meritava la scomunica. A questo punto io chiedo: se deve considerarsi delitto così grave l'appropriarsi di un possedimento, appartenente di diritto alla Chiesa, da parte del clero, di sua iniziativa e in base alla propria autorità, quante scomuniche occorreranno per punire adeguatamente i papi che sono impegnati, da cinquecento anni, a macchinare guerre, spargimento di sangue, omicidi, saccheggi e rapine, distruzioni di popoli e di regni con il solo scopo di carpire per se i beni altrui? È evidente che la gloria di Cristo è l'ultima cosa di cui si preoccupano. Quand'anche, infatti rinunciassero spontaneamente a tutto il potere secolare di cui dispongono questo non recherebbe pregiudizio alcuno né alla gloria di Dio, né alla retta dottrina, né alla salvezza della Chiesa. Ma sono furiosamente agitati da una sregolata brama di dominio e pensano che tutto sarebbe perduto non fossero più in condizione di dominare con severità e farsi temere, come dice il profeta Ezechiele (Ez. 34.4) 15. Alla giurisdizione è connessa l'immunità di cui si vanta il clero romano. Sono infatti d'avviso che si recherebbe loro torto o si farebbe loro ingiuria citandoli a comparire, per una causa privata, davanti ad un giudice terreno; e pensano che l'onore e la libertà della Chiesa debbano consistere in questa esenzione dalla giustizia comune. Ora i vescovi antichi, che peraltro si dimostravano fortemente impegnati nella tutela dei diritti ecclesiastici, non hanno mai pensato che il loro diritto fosse in alcun modo sminuito dall'essere soggetti a giudici laici in cause di natura civili. Di fatto gli imperatori cristiani hanno sempre fatto uso della loro autorità sul clero senza essere contraddetti. Ecco infatti come parla Costantino ai vescovi di Nicomedia: "Se qualche vescovo provoca disordini con la sua follia, sarà punito dalla mano del ministro di Dio, cioè dalla mia ". E Valentiniano così si esprime in una epistola: "I buoni vescovi non cercano di abbassare il potere imperiale, Ma serbano i comandamenti di Dio, re supremo, di buon grado ed obbediscono ai nostri ordinamenti ". Insomma era questo un fatto evidente per tutti in quei tempi e non creava alcuna difficoltà. È bensì vero che le cause canoniche erano riservate al giudizio del vescovo e dei preti. Così ad esempio se qualche chierico, pur non avendo commesso nulla contro le leggi, avesse mancato nell'adempimento del suo ufficio, non veniva deferito ad un tribunale comune ma sottostava al giudizio del suo vescovo. Analogamente quando sorgeva una qualche controversia o una questione di ordine dottrinale, o concernente propriamente la vita della Chiesa era quest'ultima ad esaminare il problema. In questo senso deve intendersi ciò che scrive sant'Ambrogio all'imperatore Valentiniano: "Il padre vostro di buona memoria "dice "non solo ha ordinato a voce ma con un editto che le questioni in materia di fede dovessero essere giudicate da coloro che ne hanno l'ufficio e la dignità "; e: "Se consideriamo sia la Scrittura, sia gli esempi antichi chi potrà negare che in materia di fede siano i vescovi a giudicare gli Imperatori cristiani e non viceversa? "e ancora: "Mi sarei presentato al vostro consiglio, maestà, se il clero ed il popolo non me lo avessero impedito dicendo che una causa ecclesiastica deve essere dibattuta nella chiesa, in presenza del popolo ". In questi testi egli sostiene certo che una causa spirituale, concernente cioè la cristianità non si debba portare in sede di giustizia terrena, dove si trattano le cause profane; e non c'è nessuno che, sotto questo punto di vista, non lodi e approvi la sua fermezza. Tuttavia egli dichiara che se l'Imperatore ricorresse alla forza, preferirebbe cedere pur essendo nel suo diritto. "Non abbandonerei mai "egli dice "di mia spontanea volontà il posto che mi è affidato, ma qualora vi fossi costretto preferirei non resistere perché le nostre armi sono la preghiera e le lacrime ". Notiamo che questo santo personaggio, pur con la sua fermezza e il suo ardire fa uso di grande prudenza e moderazione.
Giustina, madre dell'imperatore, non potendolo attrarre nell'eresia ariana si sforzava di farlo deporre; avrebbe raggiunto il suo scopo se si fosse presentato al palazzo imperiale per discutere quivi la sua causa. Egli però contesta che l'Imperatore sia giudice competente in si alta materia, come era nel caso suo e come è in verità. Egli era disposto a morire piuttosto che lasciare una simile prassi introdursi nella Chiesa con il suo consenso; e tuttavia se si fosse fatto uso della violenza, non si sarebbe sentito di resistere. Afferma infatti che non è confacente ad un vescovo tutelare con le armi la fede e il diritto della Chiesa. Per quanto concerne le questioni secolari egli si dichiara pronto a fare ciò che l'Imperatore gli vorrà ordinare. "Se chiede un qualche tributo "dice "non lo rifiuteremo; i beni della Chiesa pagano tributi. Se chiede anche il fondo, ha potere di prenderlo; nessuno di noi si opporrà ". San Gregorio si esprime in termini analoghi: "Conosco bene "dice "i sentimenti del nostro ottimo signore l'Imperatore, che non è solito intromettersi in cause riservate ai preti per paura di caricarsi dei nostri peccati ". Egli non esclude in assoluto, che l'Imperatore abbia il diritto di giudicare i preti ma dimostra solo che vi sono cause riservate ai giudici ecclesiastici. 16. Con queste riserve i santi uomini hanno voluto solo prevenire l'eventualità che prìncipi, sfavorevoli al Cristianesimo, ponessero ostacoli alla Chiesa nel compimento della sua missione. Non erano turbati dall'ingerenza dell'autorità dei prìncipi in campo ecclesiastico purché fosse attuata in vista di conservare l'ordine della Chiesa e non di turbarlo, di stabilire la disciplina non di distruggerla. Non avendo la Chiesa il potere di costringere, né dovendolo cercare (alludo ad una costrizione di natura secolare ) è compito dei buoni prìncipi mantenere la cristianità con buone leggi, decreti e provvedimenti adeguati. Per questo motivo san Gregorio ribadisce l'ordine dato dall'imperatore Maurizio ad alcuni vescovi, chiedendo loro di accogliere i loro confratelli vescovi espulsi dalle loro diocesi dai barbari. San Gregorio esorta dunque questi vescovi ad ubbidirgli. E quando lo stesso Imperatore lo invita a riconciliarsi col vescovo di Costantinopoli si giustificò di non poterlo fare perché non si riteneva colpevole, ma non addusse una sua immunità avendo la pretesa di sottrarsi all'autorità imperiale. Anzi riconosce che Maurizio ha fatto ciò che si addice ad un buon principe ordinando ai vescovi di essere uniti e promette di fare quanto, in buona coscienza, gli sarà possibile compiere.
CAPITOLO 12 LA DISCIPLINA DELLA CHIESA, LA CUI ATTUAZIONE CONSISTE PRINCIPALMENTE IN CENSURE E SCOMUNICHE 1. Occorre illustrare ora brevemente la disciplina della Chiesa, la cui trattazione abbiamo sin qui differita. Essa consiste essenzialmente nel potere delle chiavi e nella giurisdizione spirituale; per esaminare con maggior facilità questo problema divideremo la Chiesa in due categorie: il clero e il popolo. Adopero questo termine "clero" nella sua accezione comune, quantunque risulti improprio, intendendo coloro che nella Chiesa hanno cariche e ministeri. Parleremo in primo luogo della disciplina generale cui tutti i credenti debbono sottostare; tratteremo in seguito del clero che ha, oltre quella disciplina suddetta, una sua disciplina particolare. Vi sono persone a tal punto prevenute contro la disciplina da essere inorriditi alla sola menzione del termine, è perciò necessario confutare questo loro errore. Nessuna comunità umana, neppure quella famigliare, sia pur piccola, può sopravvivere senza una disciplina, a maggior ragione si richiede che la Chiesa abbia una sua disciplina in quanto deve essere organizzata molto meglio che ogni casa e ogni comunità. Pertanto se la dottrina di nostro Signore può dirsi l'anima della Chiesa, la disciplina, come i nervi in un corpo, ha la funzione di unire le membra e tenere ognuno al proprio posto, nel suo ordine. Tutti quelli che desiderano la soppressione della disciplina o ne impediscono la restaurazione, agiscano scientemente o senza averne coscienza, conducono la Chiesa alla disgregazione totale. Che accadrebbe infine se fosse lecito ad ognuno condurre l'esistenza che meglio gli aggrada? Una libertà di quel genere esisterebbe qualora, con la predicazione della dottrina, non si ricorresse ad ammonizioni private, correzioni o altri provvedimenti, la cui funzione è quella di aiutare la dottrina sì che non risulti inutile. La disciplina è dunque come una briglia per trattenere e domare coloro che sono ribelli alla dottrina, un pungolo per coloro che sono tardi e svogliati, a volte può essere una verga per punire con dolcezza e cristiana mansuetudine coloro che hanno errato in modo più grave. Di fatto constatiamo che la Chiesa decade e rischia di essere distrutta quando non ci si preoccupa, o manca la possibilità, di mantenere il popolo nell'obbedienza di nostro Signore; la situazione stessa dimostra la necessità di un rimedio. Ora l'unico rimedio è quello che Gesù Cristo ordina ed è stato da sempre in uso tra i credenti. 2. Il primo, fondamentale, elemento di una disciplina è l'esistenza di ammonizioni private: quando cioè qualcuno non compie il suo dovere volenterosamente, o non vive onestamente, o ha commesso atti degni di riprensione, o si lascia portare ad insolenze, accetti di essere ammonito e ognuno si impegni ad ammonire il prossimo quando ve ne sia necessità; ma che sopra tutto pastori e sacerdoti si preoccupino di questo, in quanto l'ufficio loro non consiste solo in predicazione dal pulpito ma anche in esortazioni ed ammonizioni particolarmente nelle case, nei confronti di coloro su cui l'insegnamento in forma generale non abbia avuto sufficiente efficacia; come dichiara san Paolo quando scrive che ha rivolto il suo insegnamento agli Efesini, sia nelle case che in pubblico, dichiarandosi puro del sangue di rutti, poiché non aveva smesso di ammonire ognuno con lacrime (At. 20.20.20. La dottrina ha piena autorità e produce i suoi frutti quando il ministro, non solo dichiara in forma generale a tutti quali responsabilità si abbia verso Cristo, ma ha anche modo e occasione di incitare, in modo particolare, coloro che vede essere distratti o disubbidienti alla dottrina e sollecitarli ad emendarsi. Se qualcuno respinge con spirito ribelle tali rimostranze, o, perseverando nel male, dimostra di non tenerle da conto, dopo essere stato ammonito una seconda volta in presenza di due o tre testimoni, deve, secondo l'ordine di Gesù Cristo essere deferito al giudizio della Chiesa ed essere quivi ammonito più seriamente dalla pubblica autorità, affinché ascolti la Chiesa, si sottometta ad essa con spirito di umiltà e obbedisca. Qualora non si siano raggiunti risultati con questo mezzo, ma costui perseveri nella sua malvagità, lo si deve escludere ed espellere dalla comunità dei cristiani in quanto sprezza la Chiesa (Mt. 18.15-17). È Considerando che Gesù Cristo, in quel testo, fa riferimento solo a vizi segreti e nascosti, occorre fare una distinzione tra i peccati nascosti e quelli che sono pubblici e palesi. Riguardo ai primi Gesù Cristo, rivolgendosi ad ognuno, dice: "Riprendi colui che ha peccato fra te e lui in segreto " (Mt. 18.15). Riguardo a quelli noti, san Paolo dice a Timoteo: "Riprendilo in presenza di tutti onde anche gli altri abbiano timore " (1 Ti. 5.20). Poiché Gesù Cristo aveva detto prima: "se tuo fratello ha peccato contro di te o nei tuoi riguardi ", questa espressione può soltanto significare: se qualcuno ha peccato e che tu solo ne sia informato, senza che vi siano altri testimoni. Ciò che san Paolo ordina a Timoteo di fare: redarguire coloro che abbiano commesso peccati palesi, egli stesso lo ha applicato e adempiuto nei confronti di Pietro. Infatti l'errore di questi provocava scandalo egli perciò non lo ammonì in forma privata ma lo condusse dinanzi a tutta la Chiesa (Ga 2.14). Questo modo di procedere risulterà pertinente e legittimo se, nel correggere le colpe segrete, ci atterremo alla procedura che Gesù Cristo ha indicato, e nel correggere quelle pubbliche ci appelleremo subito alla Chiesa anche se questo implica scandalo. 4. Occorre altresì fare un'altra distinzione fra i peccati: alcuni sono di poco conto, da perdonarsi con facilità, altri sono azioni malvagie e riprovevoli. Per porre rimedio alle azioni delittuose non basta fare ammonizioni o rimproveri ma occorre ricorrere a provvedimenti più severi come dimostra san Paolo quando, non solo rimprovera verbalmente l'incestuoso di Corinto, ma lo colpisce con la scomunica dopo aver preso le necessarie informazioni (1 Co. 5.4). Iniziamo dunque a vedere più chiaramente come la giurisdizione spirituale della Chiesa, che secondo la parola di Dio ha funzione di correggere gli errori, rappresenti un ottimo ausilio per il mantenimento della Chiesa, la garanzia del suo ordine e il vincolo della sua unità. Quando perciò la Chiesa esclude dalla sua comunione rei manifesti di adulterio, furto, falso, rapina, omicidio, sedizione, dispute, tumulti, falsa testimonianza e altre cose simili, e anche quelli che, pur non avendo commesso peccati sì gravi, non avranno voluto fare ammenda delle proprie colpe e si saranno dimostrati ribelli, non compie nulla di irragionevole ma attua semplicemente la giurisdizione che Dio le ha affidato. Affinché nessuno disprezzi questa sentenza della Chiesa o reputi cosa da poco l'essere condannato dal giudizio dei credenti, il Signore ha dichiarato che quest'ultimo deve considerarsi dichiarazione pubblica della sua sentenza e sarà ratificato in cielo quanto essi avranno decretato in terra (Mt. 16.19). Infatti essi hanno la parola di Dio per condannare i peccatori, hanno la stessa parola per graziare ogni penitente sincero. Coloro che pensano la Chiesa possa esistere a lungo senza esser mantenuta e vincolata da questa disciplina, grandemente si ingannano, poiché è indubbio che non possiamo fare a meno del rimedio, che il Signore ha previsto esserci necessario. Di fatto il giovamento che ne ricaviamo dimostra ancor più chiaramente la sua necessità. 5. Tre sono gli scopi che la Chiesa persegue con queste punizioni e la scomunica. Il primo è per evitare che gente dal comportamento vergognoso sia inclusa, con grande obbrobrio di Dio, nel numero dei credenti, quasi la Chiesa fosse ricettacolo di malvagi e malviventi. La Chiesa è il corpo di Cristo, non può dunque essere contaminata da membra malate senza che al capo stesso ne derivi disonore. Perché non vi sia dunque nella Chiesa nulla che rechi disonore al nome di Dio, occorre escluderne tutti coloro che, con i loro peccati, diffamano e disonorano la fede cristiana. Occorre altresì aver riguardo alla Cena del Signore onde non sia profanata, con l'esser data indifferentemente a tutti. Il responsabile della sua amministrazione si rende certo colpevole di sacrilegio, qualora ammetta chi si dovrebbe o potrebbe respingere, altrettanto che se desse il corpo del Signore ai cani. Perciò san Crisostomo si indigna contro i sacerdoti che, per timore dei potenti e dei ricchi, non osavano respingere nessuno di costoro quando si presentavano. "Il sangue "diceva "sarà ridomandato alle vostre mani, se temete l'uomo mortale si befferà di voi, se temete Dio gli uomini stessi vi onoreranno. Non ci lasciamo impressionare né da scettri, né da diademi, né dalla porpora. Siamo qui in presenza di una potenza ben maggiore. Quanto a me preferirei offrire il mio corpo a morte e lasciare che il mio sangue sia sparso piuttosto che rendermi partecipe di tale profanazione ". Affinché non sia recata offesa a questo santo mistero si richiede dunque che esso venga amministrato con un discernimento che implica nella Chiesa una giurisdizione. La seconda motivazione di una disciplina ecclesiastica è far sì che i buoni non siano, come accade sovente, corrotti dai malvagi. Essendo inclini a fuorviarci, nulla è più facile che seguire cattivi esempi. Questa necessità della disciplina è stata notata dall'apostolo quando ordinò ai Corinzi di escludere dalla loro comunità colui che aveva commesso un incesto. "Un po' di lievito "dice "agisce su tutta la pasta " (1 Co. 5.6). Anzi il santo Apostolo vedeva in questo un pericolo così grave che proibiva ai buoni ogni contatto e ogni rapporto con i malvagi. "Se uno "dice "che si chiama fratello, fra voi, è fornicatore, avaro, idolatra, oltraggiatore, ubriacone o rapace, non vi permetto di mangiare con lui " (Id 5.2). Il terzo scopo consiste nel condurre coloro che sono puniti con la scomunica, ad essere confusi di vergogna, a pentirsi e con tale pentimento giungere a ravvedimento. È anzi utile per la loro stessa salvezza che il peccato sia punito, affinché, ammoniti dalla verga della Chiesa facciano ammenda delle loro colpe, di cui invece si compiacciono e che giustificano qualora siano trattati con dolcezza; questo intende dire l'Apostolo nel testo che citiamo appresso: "se qualcuno non obbedisce a quello che diciamo, notatelo e non abbiate relazioni con lui affinché si vergogni " (2 Ts. 3.14). E ancora in un altro testo quando afferma che ha dato l'incestuoso di Corinto in man di Satana, a perdizione della carne onde lo spirito sia salvo nel giorno del Signore (1 Co. 5.5) , cioè lo ha colpito con una condanna temporale affinché lo spirito fosse salvo eternamente. Esprime questo con i termini "dare a Satana "perché il Diavolo ha il suo regno fuori della Chiesa, come Gesù Cristo lo ha nella Chiesa. L'interpretazione data da alcuni secondo cui si tratterebbe qui di punizioni temporali che il Diavolo faceva subire mi pare molto discutibile e credo si debba piuttosto interpretare il testo come ho detto. 6. Avendo enunciato in questi termini i tre scopi della disciplina ecclesiastica, ci rimane da esaminare in che modo debba essere esercitato dalla Chiesa quell'aspetto della disciplina concernente la giurisdizione. In primo luogo occorre tenere sempre presente la distinzione fatta più sopra tra peccati, che hanno carattere pubblico e altri che sono segreti. Peccati pubblici sono quelli noti non soltanto a uno o due testimoni, ma commessi in modo manifesto e con scandalo della Chiesa tutta. Considero peccati occulti non quelli che risultano ignoti in assoluto agli uomini, come nel caso dell'ipocrita (questi non vengono a conoscenza della Chiesa ) , ma che sono noti ad alcune persone soltanto. Nel primo caso il procedimento non ha da essere attuato secondo la gradualità di cui parla Gesù nel diciottesimo capitolo di san Matteo, ma quando accade qualche scandalo palese la Chiesa deve esercitare il suo compito in modo immediato, convocando il peccatore e correggendolo secondo l'entità della sua colpa. Per quanto concerne i peccati segreti, non è il caso che subito vengano deferiti alla Chiesa, a meno che ci sia ribellione e insubordinazione, che l'interessato rifiuti di obbedire alle rimostranze che gli vengono fatte, secondo la regola che dice: "se uno rifiuta di ascoltarti dillo alla Chiesa ". Ora quando si è giunti a questo punto occorre tenersi all'altra distinzione tra "delitti "e "colpe leggere ". Poiché non è il caso di esercitare la stessa severità nei confronti di un errore di poco conto o di un crimine, è sufficiente una riprensione verbale, anzi dolce e paterna, affinché non abbia come risultato di inasprire il peccatore ma di ricondurlo in se e indurlo a rallegrarsi di essere redarguito più che a rattristarsi. I delitti vanno puniti più severamente, poiché non è sufficiente correggere verbalmente chi abbia offeso la Chiesa con cattivo esempio, ma merita di essere privato della comunione della Cena sino a che non abbia manifestato segni di ravvedimento. Poiché san Paolo non fa soltanto uso di parole nel caso del peccatore di Corinto, ma lo esclude dalla Chiesa, rimproverando i Corinzi di averlo così a lungo tollerato (1 Co. 5.5). Ed è questa la prassi seguita nella Chiesa antica, quando esisteva ancora una retta procedura. Se infatti qualcuno commetteva un peccato da cui poteva aver origine uno scandalo, in primo luogo gli veniva ordinato di astenersi dalla Cena, poi di umiliarsi davanti a Dio e attestare il suo pentimento in presenza della Chiesa. Di fatto esistevano riti specifici che si imponevano ai penitenti a testimonianza del loro pentimento. Quando il peccatore avesse dato così soddisfazione alla Chiesa, veniva accolto nella comunità mediante l'imposizione delle mani, accoglimento che san Cipriano chiama spesso "pace ", come nel testo dove dice: "Coloro che hanno commesso qualche scandalo fanno penitenza per il tempo imposto loro, indi fanno confessione delle loro colpe e mediante l'imposizione delle mani del vescovo e del clero ottengono pace e comunione ". Quantunque fossero il vescovo e il clero a riconciliare il peccatore alla Chiesa, veniva richiesto il consenso del popolo come dichiara in un altro testo . 7. Questa disciplina era generale, e senza eccezione di persona, al punto che gli stessi prìncipi vi erano sottomessi, come tutti, e a ragione, essendo consci che essa proveniva da Cristo cui è giusto sia sottomesso ogni scettro e corona di re. Perciò l'imperatore Teodosio, scomunicato da sant'Ambrogio, a causa del sangue sparso per ordine suo, si spogliò degli abiti reali e pianse pubblicamente nella chiesa, quantunque avesse commesso questo peccato dietro suggerimento di altri, e pianse con lacrime e sospiri. Fu questo un atto degno di grande lode, poiché i grandi re non devono considerare disonorevole umiliarsi e piegare le ginocchia davanti a Gesù Cristo, loro principe sovrano, e non deve sembrare loro disonorevole essere giudicati dalla Chiesa. Negli ambienti di corte non odono che adulazioni; tanto più necessario è dunque che siano corretti da Dio, per bocca dei pastori; devono anzi desiderare che i loro pastori non li risparmino affinché li risparmi Iddio. Tralascio dal menzionare chi siano quelli che devono esercitare quella giurisdizione in quanto ne ho già parlato altrove; aggiungerò tuttavia, a quanto già detto, qualcosa riguardo alla legittima procedura per applicare la scomunica ai peccatori: gli anziani non lo facciano da soli ma il provvedimento sia a conoscenza e abbia il consenso della Chiesa, in modo che il popolo non abbia mano per dominare o prendere iniziative, ma sia d'altra parte testimone per vegliare a che nulla sia compiuto per sregolati desideri. Si richiede in questo, oltre l'invocazione del nome di Dio, l'uso di una serietà che attesti la presenza di Cristo, si percepisca cioè che egli presiede a quell'atto. 8. Non si deve tuttavia dimenticare che la severità della Chiesa deve essere di tale natura da risultare sempre congiunta con umanità e dolcezza. È da evitarsi, sempre, accuratamente, come san Paolo ordina, il pericolo che colui che si punisce sia oppresso da tristezza (2 Co. 2.7) perché, in questo modo, si muterebbe il rimedio in veleno. La regola di questa moderazione si può ricavare meglio dallo scopo del provvedimento. Infatti la scomunica deve condurre il peccatore a pentirsi, ed eliminare ogni cattivo esempio affinché il nome di Gesù Cristo non sia bestemmiato e altri non siano indotti al male imitandolo; considerando queste cose sarà facile giudicare in quali casi deve procedersi con severità e in quali casi si debba soprassedere. Così quando il peccatore dia garanzie di pentimento alla Chiesa e perciò di togliere, per quanto dipende da lui, lo scandalo e annullarlo non si deve infierire oltre se non ha oltrepassata la misura.
A questo riguardo non è possibile approvare né scusare il rigore eccessivo degli antichi visto che il loro atteggiamento non concordava con le indicazioni della Scrittura ed era assai pericoloso. Nel privare infatti i peccatori della Cena ora per tre, ora per sette anni, e in certi casi sino alla morte, che producevano se non grande ipocrisia o disperazione estrema? Similmente il fatto che non potesse riammettersi alla penitenza chi fosse ricaduto, ma lo si espellesse dalla Chiesa per la vita non risultava né utile né ragionevole. Chiunque valuti con ponderatezza l'insieme del problema ammetterà che sono stati malispirati. Così dicendo deploro la prassi seguita, più che coloro che l'hanno seguita, fra i quali non mancavano certamente coloro ai quali dispiaceva ma la accettavano non potendola modificare. San Cipriano dichiara di non aver agito in modo intransigente e inesorabile di sua volontà: "La nostra pazienza "dice "dolcezza, umanità è pronta per tutti coloro che si presentano. Desidero che tutti rientrino nella Chiesa. Desidero che tutti i nostri compagni d'armi siano nel campo di Gesù Cristo e tutti i nostri fratelli siano nella casa di Dio nostro Padre. Perdono tutti i peccati, molti ne taccio, e il desiderio di raccogliere tutti i nostri fratelli insieme fa sì che non esamini con rigore neppure le colpe commesse contro Dio. Poco manca a che non pecchi io stesso nel perdonare i peccati con più facilità di quanto sarebbe il caso. Accolgo con affetto spontaneo e pieno tutti coloro che ritornano con spirito di penitenza e confessano i loro peccati con umiltà ". San Crisostomo si dimostra più rigido, tuttavia si esprime in questi termini: "Se Dio è così benigno perché il suo ministro dovrebbe assumere atteggiamenti di severità? ". Ci è altresì nota la pazienza dimostrata da sant'Agostino nei rapporti con i Donatisti al punto da non esitare ad accogliere al vescovato coloro che avessero rinunciato ai loro errori, anche a breve distanza dalla loro conversione. In quanto la prassi risultava però diversa, queste ottime persone si videro costrette a mettere da parte il proprio punto di vista personale per seguire la consuetudine. 9. Ora dovendo, in tutto il corpo della Chiesa, regnare questo spirito di dolcezza e di umanità non si punirà chi ha errato, in modo eccessivo, ma con misura e dolcezza, e si userà piuttosto carità nei suoi riguardi secondo l'ordine di san Paolo (2 Co. 2.8). Ognuno deve, nella sua situazione personale, improntare la sua azione a questa mansuetudine e umanità. Non dobbiamo dunque cancellare dal numero degli eletti gli scomunicati o disperare di loro quasi fossero già perduti. Li bensì lecito considerarli estranei alla Chiesa, secondo la regola suddetta, ma per il solo tempo della loro esclusione. E anche quando si riscontri in essi più orgoglio e ostinazione che umiltà, dobbiamo rimettere queste persone nelle mani di Dio e affidarli alla sua bontà, sperando che l'avvenire rechi più di quanto dà il presente. In breve non bisogna condannare a morte eterna le persone che sono soltanto nelle mani di Dio ma dobbiamo, in base alla legge di Dio, valutare le opere di ognuno. Seguendo questa regola anziché proporre il nostro giudizio ci atterremo al giudizio espresso da Dio. Non si deve dunque assumere, nel giudicare, eccessiva libertà onde non limitare la potenza di Dio e sottomettere al nostro fantasioso giudizio la sua misericordia che è tale da convertire, quando vuole anche i più cattivi soggetti in gente a modo, e raccogliere nella Chiesa gli estranei affinché l'opinione degli uomini sia frustrata e sia moderata la loro baldanza che sempre presume attribuirsi, qualora non venga repressa, più di quanto le spetti. 10. Riguardo alla parola di Cristo, secondo cui ciò che i ministri della sua Parola hanno legato e sciolto in terra sarà legato e sciolto in cielo (Mt. 18.18) , esse limitano l'autorità di legare al campo della censura ecclesiastica in base alla quale gli scomunicati non sono gettati nella dannazione e nella disperazione eterna ma ne è solo condannata la vita, e viene loro ricordato che la dannazione eterna li aspetta qualora non si pentano. Poiché in questo sta la differenza tra la scomunica e la sconsacrazione che i dottori ecclesiastici chiamano l'anatema: anatemizzare una persona (ciò che s'ha da fare raramente, anzi non del tutto ) significa togliere ogni speranza di perdono e consegnarla al Diavolo, nella scomunica sono puniti piuttosto i suoi costumi. E quantunque si punisca anche la sua persona, tuttavia questo è attuato in modo tale che con la scomunica l'annuncio della sua dannazione eterna lo si riconduce sulla via della salvezza. La Chiesa è pronta, quando obbedisca, ad accoglierlo in spirito di fratellanza facendolo partecipe della sua comunione. Quantunque, se intendiamo osservare rettamente la disciplina ecclesiastica, non sia il caso di frequentare e aver eccessiva famigliarità con gli scomunicati, dobbiamo tuttavia, per quanto spetta a noi, nei limiti del possibile, sforzarci sia con esortazioni e insegnamenti, sia con dolcezza e bontà, sia con le nostre preghiere a Dio, di far sì che ritornino sulla retta via; e di conseguenza siano reintegrati nella comunione della Chiesa; come ci insegna l'Apostolo: "Non reputateli nemici ma ammoniteli come fratelli " (2 Ts. 3.15). Egli richiede analogamente un atteggiamento di mansuetudine in tutta la Chiesa, quando si tratti di accogliere coloro che dimostrano qualche segno di pentimento. Non vuole infatti che in essa si attui una severità troppo rigida, e si proceda sino in fondo con spirito rigorista e ci si dimostri inesorabile, ma piuttosto la comunità faccia il primo passo verso lo scomunicato e si dimostri pronta a riceverlo affinché non venga oppresso da eccessiva tristezza. Quando tale moderazione non sia diligentemente osservata, sorge il pericolo che dalla disciplina si scada in una sorta di geenna e che da correttori si diventi boia. 11. C'è ancora un altro elemento atto a moderare la disciplina come si conviene, è l'ammonimento di Agostino nel corso della polemica contro i Donatisti: quando i credenti constatino che gli anziani sono negligenti nel correggere i vizi, non si debbono separare dalla Chiesa con il risultato di provocare una sedizione. Similmente se i pastori non sono in condizione di rimediare e correggere tutti gli errori che sono nel gregge, come lo desidererebbero, non debbono abbandonare il loro stato e turbare la Chiesa con eccessivo rigore Quanto infatti afferma è vero: chiunque corregga con ammonizioni quanto gli è possibile, rifiuti, senza rompere l'unità della Chiesa, quanto non può correggere, e sopporti, pur riprovando, quanto non può rifiutare senza provocare dissensi, costui è libero da maledizione e non è colpevole d'alcun male, Egli motiva questo fatto in un altro testo: il modo e la norma per mantenere un buon governo nella Chiesa deve sempre considerare l'unità dello spirito nel legame della pace. "L'Apostolo "dice "ci ordina di fare questo e quando si agisce altrimenti il rimedio del castigo non solo risulta superfluo ma pernicioso e di conseguenza non è più rimedio ". Ed aggiunge: "Chi mediti attentamente a queste cose non mancherà di ricorrere alla severità anche quando voglia conservare l'unità e non spezzerà il legame di comunione con l'essere intemperante nella correzione ". Riconosce che non solo i pastori debbono adoperarsi a che la Chiesa sia purgata da ogni vizio ma ognuno deve, per parte sua, adoperarsi a questo. E non passa sotto silenzio il fatto che chi non si cura di ammonire e rimproverare i cattivi, anche se non li giustifica e non pecca come loro, è colpevole nei confronti di Dio; aggiunge, anzi, che chi è investito di una carica pubblica e avendo il dovere di scomunicare i malvagi non lo fa, pecca, a sua condanna; chiede solamente che questo venga fatto con quel tatto che nostro Signore richiede, quando dice che non si deve sradicare il grano con la zizzania (Mt. 13.29). Conclude infine con una citazione di san Cipriano: "Ognuno corregga dunque, con spirito di misericordia, quanto è in suo potere, quanto non può correggere lo sopporti con pazienza e ne soffra con partecipazione ". 12. Questo sant'uomo fa queste affermazioni a motivo dell'eccessivo rigore dei Donatisti, i quali riscontrando nella Chiesa la presenza di vizi, che i vescovi rimproveravano certo a parole ma non colpivano con scomunica (in quanto non speravano ottenere, con questo mezzo, risultati positivi ) protestavano contro di loro accusandoli di tradire la disciplina e, fatto più grave, si separavano dalla comunità dei credenti come gli Anabattisti odierni, che pensano non esservi comunità cristiana se non laddove si manifesti sotto forma di una perfezione angelica, e distruggono così, sotto apparenza di zelo, tutto l'edificio della Chiesa. "Questa gente "dice sant'Agostino "desidera attrarre il popolo a se o di dividerlo dalla Chiesa seducendolo con le apparenze; e questo non tanto per odio verso il peccato altrui, quanto per bramosia di contese, gonfi di orgoglio trascinati dall'ostinazione, sottili nella calunnia ma passionali nelle sedizioni. Affinché non ci si accorga che sono privi della luce della verità si nascondono sotto un'apparenza di severità e di rigore; abusano di quanto viene ordinato nella Scrittura in vista di correggere i vizi dei fratelli, conservando l'unità e la fratellanza e ricorrendo a mezzi di dolcezza; e provocano così scismi e deplorevoli divisioni nella Chiesa. Ecco come Satana si trasforma in angelo di luce (2 Co. 11.14) inducendo gli uomini a crudeltà disumana sotto pretesto di severità, poiché egli cerca unicamente di spezzare i vincoli della pace e dell'unione; e di fatto è questo il solo mezzo a sua disposizione per farci del male ". 13. Tutte queste parole sono di sant'Agostino; ma avendo detto questo, raccomanda in modo particolare che qualora tutto un popolo risulti affetto da un vizio, come da una malattia contagiosa, si moderi la severità con spirito di misericordia. Poiché il provocare scismi, dice, è una cattiva soluzione e pericolosa, che conduce sempre a risultati negativi, in quanto finisce Cl. Turbare più i buoni, spesso deboli, che i cattivi fieri nel male. Il suggerimento che egli dava agli altri lo ha attuato per primo, quando risultò necessario. Scrivendo infatti a Aurelio, vescovo di Cartagine, deplora severamente l'ubriachezza che regnava allora in Africa, in quanto la Scrittura condanna severamente questo vizio, e lo esorta a convocare un concilio provinciale per porvi rimedio, ma aggiunge appresso: "Credo che queste cose debbano essere eliminate con bontà e non con aspro rigorismo, con l'insegnare piuttosto che Cl. Condannare, ammonendo più che minacciando. Poiché occorre impegnarsi quando un vizio è comune a tutto un popolo, ma bisogna ricorrere ad una maggior severità quando il numero dei peccatori non è grande". Non intende tuttavia affermare che un vescovo debba dissimulare o tacere quando non sia in grado di punire i peccati comuni, come dice appresso, ma vuole che la correzione avvenga in forma moderata sì da risultare medicina e non veleno. Perciò nel terzo libro contro Parmenio, dopo aver a lungo dissertato a questo riguardo, conclude in questi termini: "Non deve dunque essere negletto il precetto apostolico di allontanare i malvagi quando, come era nell'intenzione dell'apostolo, questo si possa fare senza pericolo di causar sedizioni e torbidi; e bisogna anche riflettere al fatto che l'impegno nostro è di mantenere l'unità sopportandoci a vicenda " (1 Co. 5.7; Ef. 4.2). 14. L'altro aspetto della disciplina, che non consiste propriamente nel potere delle chiavi è che i pastori, secondo le necessità dei tempi invitino il loro popolo a far digiuni o preghiere solenni o altri esercizi di umiltà e di penitenza; riguardo a queste cose non è stabilita nella parola di Dio alcuna regola, in quanto egli ha voluto lasciarle al giudizio della sua Chiesa. La pratica di questi atti, ritenuti utili, è sempre esistita nella Chiesa antica, sin dal tempo degli apostoli, quantunque essi stessi non ne siano gli autori, avendo tratto esempio dalla Legge e i Profeti. Vediamo, infatti, in quei testi che quando si verifica qualche avvenimento immediatamente si convocava il popolo in assemblea e lo si invitava a pregare Dio con digiuni. Gli apostoli dunque hanno seguito un uso, che sapevano non essere nuovo nel popolo di Dio, e giudicavano utile. Identiche premesse si riscontrano in tutti gli altri mezzi e provvedimenti che hanno lo scopo di incitare il popolo a compiere il suo dovere e mantenerlo in obbedienza. Ne troviamo esempi qua e là nella storia sacra e non è il caso di farne qui la enumerazione. Questo è però il concetto base che ne dobbiamo ricavare: quando si verifica nella cristianità un qualche diverbio carico di gravi conseguenze, quando è il caso di eleggere i ministri, o quando sorge qualche questione difficile o di grande importanza, o si manifestano i segni dell'ira di Dio, quali pestilenza, guerre, carestie è norma santa e utile in ogni tempo che i pastori invitino i credenti a compiere digiuni e preghiere straordinarie. Chi ritiene non poter accettare le testimonianze dell'antico Testamento al riguardo, considerandole non normative per la Chiesa cristiana, consideri che gli stessi apostoli hanno agito così. Riguardo alle preghiere non penso vi sia alcuno che sollevi obiezioni; facciamo dunque alcune considerazioni riguardo al digiuno. Alcuni, non vedendone l'utilità, lo considerano poco importante; altri, e questo è peggio, lo respingono come del tutto superfluo. È facile, d'altra parte, assumere atteggiamenti superstiziosi qualora non se ne intenda rettamente l'uso. 15. Nel digiuno, rettamente e santamente inteso, si possono evidenziare tre scopi: domare la carne affinché non si affermi in modo eccessivo, indurci a preghiere o orazioni e altre sante meditazioni, essere segno della nostra umiltà dinnanzi a Dio quando vogliamo confessargli il nostro peccato. Il primo scopo non si attua in modo precipuo nel corso di un digiuno pubblico, tutti non hanno infatti la stessa natura, né si trovano nelle stesse condizioni di salute; si verifica invece appieno nel caso di un digiuno privato. Il secondo scopo è invece raggiunto nell'uno e nell'altro caso. La Chiesa tutta ha infatti bisogno di disporsi con digiuni a pregare Dio, quanto il singolo. Lo stesso dicasi del terzo scopo. Quando avvenga che Dio colpisca con guerra, pestilenza, altre calamità tutto un popolo, è giusto che di fronte a questo flagello, comune a tutti, tutto il popolo si senta colpevole. Ma se Dio punisce un singolo questi deve riconoscere la sua colpa insieme alla sua famiglia. È ben vero che questa confessione consiste essenzialmente in un sentimento interiore. Ma quando il cuore è toccato come si conviene non può non rivelarlo, mediante segni esteriori, e soprattutto quando questo risulta ad edificazione degli altri, affinché tutti insieme, confessando il proprio peccato, rendano lode a Dio e si rivolgano mutue esortazioni con buoni esempi. 16. Perciò il digiuno, come segno di umiliazione, si addice maggiormente, nella sua forma pubblica ad un popolo che nella sua forma privata ad un singolo, quantunque sia comune all'uno e all'altro, come abbiamo detto. E in quanto concerne il problema della disciplina di cui stiamo parlando, sarebbe opportuno, ogniqualvolta si prega Dio in comune, per qualche problema importante, invitare al digiuno. In questo modo i credenti di Antiochia, volendo imporre le mani a Paolo e Barnaba, per meglio offrire a Dio il loro ministero, aggiunsero il digiuno alla preghiera (At. 13.3). Analogamente Paolo e Barnaba, volendo istituire ministri nella Chiesa, avevano l'abitudine di digiunare per meglio pregare, come attesta san Luca (At. 14.23). Essi hanno considerato questo digiuno unicamente come strumento per una migliore disposizione alla preghiera. In realtà noi sperimentiamo che quando lo stomaco è pieno lo spirito non è nelle migliori disposizioni per elevarsi a Dio ed essere incitato alla preghiera da ardente desiderio né a perseverare in essa. In questo senso deve essere inteso quanto san Luca dice riguardo ad Anna la profetessa che serviva Dio "con digiuni e preghiere " (Lu 2.37). Egli non considera certo che il servizio di Dio consista in digiuni, dichiara solamente che questa santa donna si esercitava a pregare del continuo con digiuni. Tale era anche il digiuno di Nehemia quando pregava Dio con zelo intenso per la liberazione del suo popolo (Ne 1.4). Nello stesso senso san Paolo dice che il marito e la moglie credenti fanno bene ad astenersi per un tempo dalla comunione coniugale per dedicarsi più liberamente al digiuno e alla preghiera (1 Co. 7.5). Facendo del digiuno quasi il sostegno e l'ausilio della preghiera egli dichiara che di per se sarebbe inutile. Così dunque occorre che il digiuno sia orientato a questo scopo. Anzi quando egli ordina ai mariti e alle mogli di compiere il loro dovere reciproco (1 Co. 7.3) è chiaro che non intende separarli in vista di una preghiera normale ma solo in caso di particolare necessità. 17. Analogamente, quando inizi fra noi una pestilenza, una carestia, una guerra o quando vi siano segni che qualche calamità debba piombare su un popolo o su una nazione è compito dei pastori esortare la Chiesa a digiunare per pregare umilmente Dio affinché storni la sua ira. Egli infatti rivela che si prepara a far vendetta quando ci indica ci minaccia con un qualche pericolo. Come anticamente i malfattori erano soliti vestirsi di nero, lasciarsi crescere la barba e ricorrere a segni di lutto per commuovere i loro giudici, così quando Dio ci invoca dinanzi al suo trono per il giudizio è necessario e salutare per noi invocare misericordia con i segni esteriori della nostra tristezza e ciò per servire alla sua gloria e all'edificazione di tutti. Che tale sia stata la prassi del popolo d'Israele si ricava facilmente dalle parole del profeta Gioele. Quando egli ordina che si suoni la tromba e si convochi il popolo, che si proclami il digiuno e quanto segue (Gl. 2.15) , Si riferisce a realtà usuali al tempo suo. Poco prima egli aveva detto che Dio stava istruendo il processo contro il suo popolo, era vicino il giorno del loro giudizio a cui sarebbero stati citati. Poco dopo egli esorta a ricorrere al sacco e alla cenere al pianto e al digiuno, cioè li esorta ad umiliarsi e abbassarsi dinanzi a Dio anche con manifestazioni esteriori. È vero che il sacco e la cenere sono più adatti a quei tempi che al nostro, ma per quanto concerne la convocazione del popolo, il piangere, digiunare e simili non c'è dubbio che queste cose convengano altrettanto bene ogni volta che lo richiede la nostra vita. Trattandosi di un santo esercizio per i credenti sia per umiliarli che per manifestare la loro umiltà perché non ne faremmo uso come gli Antichi in analoghe situazioni? La Scrittura ci mostra che non solo la Chiesa di Israele, educata nella parola di Dio ha digiunato in segno di tristezza (1 Re 7.6; 31.13; 2 Re 12) , ma anche il popolo di Ninive che non aveva ricevuto alcun insegnamento all'infuori della predicazione di Giona (Giona 3.5). Perché dunque, in casi analoghi, non faremmo altrettanto? Qualcuno mi farà notare che si tratta di un uso cerimoniale esteriore che ha, come gli altri, preso fine in Cristo. Penso invece sia oggi ancora eccellente ausilio per i credenti, come è sempre stato, e utile avvertimento per mantenerci vigili affinché non provochiamo più oltre l'ira di Dio con la nostra durezza e pigrizia quando siamo puniti dalle sue verghe. Perciò Gesù Cristo giustificando il fatto che i suoi discepoli non digiunavano, non dice che il digiuno sia abolito, ma afferma che si addice ai tempi di lutto e lo connette con il pianto e la tristezza: "il tempo viene "dice "che lo sposo sarà tolto " (Lu 5.34.35; Mt. 9.15). 18. Ad evitare però che si ingenerino errori riguardo al termine e necessario definire in che consista il digiuno. Con questo termine non intendiamo indicare solo una sorta di temperanza e sobrietà nel bere e nel cibo ma qualcosa di più. Li ben vero che la vita dei credenti deve essere moderata da una perenne sobrietà, in modo che l'uomo cristiano viva, finché vive nel mondo, una sorta di digiuno perenne; esiste però oltre a questo una forma specifica di digiuno, quando limitiamo il nostro cibo oltre il consueto, per un giorno o un certo tempo, e viviamo in una temperanza più rigida del solito. Questa restrizione si manifesta in tre elementi: nel tempo, nella qualità dei cibi, nella loro quantità. Riguardo al tempo significa che dobbiamo essere digiuni nelle circostanze per cui abbiamo digiunato. Se qualcuno per esempio, digiuna in vista di una preghiera solenne deve rimanere digiuno finché questa sia stata fatta. La qualità dei cibi consiste nel non avere cibi delicati e raffinati per solleticare il palato ma nell'accontentarsi di alimenti semplici, comuni, popolari. L'aver misura consiste nel mangiare meno e più leggermente del solito, per necessità non per piacere. 19. È tuttavia necessario vigilare per non cadere in atteggiamenti superstiziosi come è accaduto nel passato con grave danno della Chiesa. Poiché sarebbe meglio non far uso di digiuni che osservarli diligentemente ma con cattive e perniciose opinioni, che la gente inventa facilmente se i pastori non vi si oppongono con cura e grande prudenza. Ecco dunque gli avvertimenti necessari per un appropriato uso del digiuno. In primo luogo occorre ricordare quanto dice Gioele affermando che i cuori devono essere stracciati, non le vesti (Gl. 2.13). Poniamo cioè attenzione al fatto che il digiuno non è per Dio valido in se stesso ma unicamente quando è espressione di una situazione interiore e l'uomo prova un vero dispiacere di se e del suo peccato, una umiltà e un dolore autentici provocati dal timor di Dio. Più importante ancora è l'aver coscienza che il digiuno risulta utile solo in quanto risulta congiunto con queste cose, come ausilio inferiore e di poco conto. Non c'è cosa che Dio odi quanto queste forme di ipocrisia, quando gli uomini, presentandogli delle apparenze e dei segni esteriori, anziché un cuore puro e semplice, presumono ingannarlo con l'apparenza. Perciò Isaia protesta con severità contro la finzione degli Ebrei che pensavano aver soddisfatto Dio perché avevano digiunato, mentre il cuor loro permaneva pieno di empietà e di sentimenti malvagi: "è forse questo il digiuno di cui mi compiaccio? Dice il Signore " (Is. 58.5). Perciò il digiuno degli ipocriti non è solo tempo perso e fatica inutile ma sommo abominio. Occorre altresì evitare un altro male affine a questo: considerare il digiuno opera meritoria o servizio reso a Dio. Essendo cosa in se indifferente e priva di importanza, se non in quanto volto al fine cui abbiamo accennato, è pericolosa superstizione confonderlo semplicemente, e senza riserve, con le opere ordinate da Dio e in se necessarie. I Manichei, eretici antichi, sono stati esponenti di questa follia; sant'Agostino redarguendoli dimostra chiaramente che i digiuni si devono valutare unicamente in riferimento ai fini che abbiamo detto e Dio non li approva se non in quanto sono ad essi riferiti . Il terzo errore, pur non essendo così grave, non è privo di pericoli. Consiste nel richiedere e imporre con carattere normativo il digiuno, quasi fosse una delle principali opere del cristiano, oppure valutarlo al punto che alla gente sembri aver compiuto opera meritoria ed eccellente quando abbia digiunato. Riguardo a questa situazione non mi sentirei di scagionare del tutto gli antichi Padri dall'aver gettato qualche seme di superstizione e offerto occasione alla tirannide che di poi è sorta. Li vero che s'incontrano nei loro scritti affermazioni pertinenti concernenti il digiuno, ma vi si leggono anche lodi eccessive intese a magnificarlo come una singolare virtù. 20. C'è di più: già al tempo loro si osservava la quaresima e in questa pratica religiosa erano presenti elementi di superstizione; il popolino infatti riteneva aver reso a Dio un grande servizio osservando la quaresima, e i pastori apprezzavano questa pratica, quasi fosse stata compiuta ad imitazione di Gesù Cristo. È certo che Gesù Cristo non ha digiunato per fornire agli altri un esempio da seguire, ma, volendo iniziare la predicazione del suo Evangelo, ha voluto, con quest'atto singolare, fornire le prove che la sua era dottrina venuta dal cielo e non dagli uomini. Sorprende il fatto che un così grave fraintendimento abbia potuto venire in mente ai dottori antichi visto che furono uomini di retto intendimento e che vi erano molte ragioni che li dovevano preservare dal commettere un tale abuso. Gesù Cristo infatti non ha digiunato frequentemente, come sarebbe stato il caso qualora avesse voluto dare carattere normativo ad un digiuno annuo, ma una volta sola quando ha iniziato la sua predicazione. Secondo: non ha digiunato in modo umano come sarebbe stato necessario fare per indurre gli uomini a seguire il suo esempio; ma con quel gesto ha inteso mostrarsi eccezionale dinnanzi a tutti piuttosto che invitare gli altri ad imitarlo. Infine c'è in quel digiuno la stessa motivazione che in quello di Mosè quando ricevette le leggi dalla mano di Dio (Es. 24.18; 34.28). Come Mosè aveva digiunato in modo miracoloso quaranta giorni e quaranta notti onde l'autorità della Legge fosse, in quel modo, confermata, era opportuno che in Gesù Cristo avvenisse un miracolo simile affinché l'Evangelo non fosse giudicato inferiore alla Legge. Ora nessuno ha mai pensato dover introdurre nel popolo d'Israele una forma di digiuno analogo, Cl. Pretesto di imitare Mosè e nessun profeta né credente lo ha imitato al riguardo, quantunque tutti avessero zelo e coraggio sufficienti da impegnarsi in ogni opera pia. Il fatto che Elia abbia trascorso quaranta giorni senza bere o mangiare (3Re 19.8) , aveva come fine di ottenere il riconoscimento, da parte del popolo, del suo carattere di profeta, inviato da Dio per mantenere la Legge da cui tutto il popolo di Israele si era allontanato. È stato dunque uno spirito di imitazione falso, vano e pieno di superstizione quello che ha spinto gli antichi a definire il digiuno di quaresima: una ordinanza stabilita in base all'esempio di Cristo. Quantunque le forme di questo digiuno fossero diverse, in quei tempi, come narra Cassiodoro nel libro nono della sua storia. I Romani, dice, non avevano che tre settimane per la quaresima ma digiunavano tutti i giorni eccetto la domenica e il sabato. I Greci e gli Illirici ne avevano sei, gli altri sette, ma digiunavano ad intervalli. Notevoli differenze sussistevano pure riguardo al cibo perché gli uni non si nutrivano che di pane e acqua, gli altri mangiavano erbe, alcuni pesci e volatili, altri non si astenevano da alcun nutrimento come attesta sant'Agostino nella seconda epistola a Ianuario. 21. Da quel tempo però le cose sono andate sempre peggiorando. Alla folle superstizione del popolo si aggiunse un altro male nella persona dei vescovi che risultarono in parte rozzi e ignoranti, in parte bramosi di dominare e tiranneggiare senza ragione. In questa situazione furono emanate le leggi inique e perverse con cui si sono vincolate le coscienze per trascinarle in inferno. Si è proibito di mangiar carne quasi fosse un alimento contaminato e tale da contaminare gli uomini. Si sono aggiunte in seguito, le une alle altre, opinioni perverse finché si è precipitati n un abisso di errori. Per non lasciar sussistere nulla di puro si è preso in giro Dio come se fosse un bambino. Poiché quando si è trattato di digiunare si è imbandita la tavola più riccamente del solito, si sono procurate tutte le ghiottonerie e leccornie possibili, si è raddoppiato in quantità e ricercatezza il cibo, poi si è definito tutto questo "digiuno "e ci si è illusi di servire Dio in questo modo. Tralascio dal far notare il fatto che quelli che hanno la pretesa di essere i più santi non riempiono mai tanto il loro ventre come durante il digiuno. In sostanza tutta la santità del digiuno, comunemente inteso, consiste nell'astenersi soltanto dal mangiar carne e abbondare, per il resto, in delizie e soddisfare le ghiottonerie a proprio piacimento purché sia una sola volta al giorno. Quantunque la maggioranza eviti di fare "colazione monacale "per usare la loro espressione. Considerano invece estrema empietà e delitto degno di morte mangiare un pezzo di lardo o una fetta di carne salata con un tozzo di pane nero, anche quando a farlo sia un poveretto che non ha altro cibo. San Girolamo narra che già ai suoi tempi si incontrava gente che pensava soddisfare Dio con queste cose sciocche e prive di valore; che si procurava cibi squisiti nei paesi lontani, per non mangiar olio; anzi, per far violenza alla natura, non beveva acqua ma non so qual bevanda rara e di sapore ricercato, che per di più non beveva in bicchieri o tazze ma in una conchiglia . Quello che era allora vizio di pochi regna oggi fra i ricchi: il non digiunare se non per mangiar meglio e con maggior incertezza del solito. Non voglio fare un lungo discorso riguardo ad un fatto così evidente. Affermo solo che non è il caso che i papisti traggano occasione per vantarsi né dai loro digiuni, né dal rimanente della loro disciplina, quasi contenesse elementi degni di lode, visto che tutto ciò che vi si riferisce è corrotto e perverso. 22. Esaminiamo ora il secondo aspetto della disciplina, concerne in modo specifico il clero, e consiste essenzialmente in questo: gli uomini di Chiesa si comportino secondo i canoni, promulgati anticamente in vista di un vivere onesto: quali ad esempio: un ecclesiastico non sia dedito alla caccia, al gioco dei dadi, ai piaceri della tavola o a banchettare, che nessuno si consacri all'usura o al commercio, non presenzi ai balli ed altre dissolutezze. Gli antichi concili hanno ritenuto necessario punire chi non intendesse sottomettersi a tutte queste norme, concernenti l'onestà del clero. Per questo ogni vescovo ebbe l'incarico e l'autorità di governare il suo clero, per costringere ognuno a compiere il proprio dovere. Per questa stessa ragione furono istituiti le visite e i sinodi, affinché fosse ammonito chi risultava svogliato nella sua Carica e qualora avesse errato fosse punito secondo il suo demerito. I vescovi si adunarono annualmente in concilio in ogni provincia, in un primo tempo anzi, i concili si tenevano ogni sei mesi, perché fosse giudicato in quella sede chi si era comportato indegnamente. Qualora un vescovo avesse agito con eccessiva durezza nei confronti del suo clero o lo trattasse in modo disumano, chi aveva motivo di lamentarsi di lui si presentava in quella sede e la sua causa veniva presa in esame. E si applicava una estrema severità. Chi infatti avesse abusato della sua autorità o agito male nell'esercizio del suo ufficio, veniva deposto, a volte persino scomunicato per qualche tempo. Inoltre, dato il carattere ordinario di questo governo, non si chiudeva un concilio provinciale senza che venisse fissato il luogo e la data del seguente. La convocazione di un concilio ecumenico era di competenza imperiale; l'Imperatore ne fissava la data, lo convocava ed ordinava a tutti di partecipare, come è illustrato dalla storia antica. Finché è stata usata questa severità, il clero non ha imposto al popolo obblighi se non in quelle cose in cui dava lui stesso l'esempio, poiché risultava molto più severo nei riguardi di se stesso che verso gli altri. In realtà è giusto che il popolo goda di una libertà maggiore e non sia tenuto così rigidamente a freno come il clero. Non è necessario narrare nei dettagli in che modo questa legislazione fu rovesciata e se ne va ora alla deriva; ognuno è in grado di constatare che non esiste classe sociale più dissoluta e priva di freno degli ecclesiastici, al punto che si grida, da ogni parte, allo scandalo indipendentemente da quello che possiamo dire noi. Affinché non sembri che tutta la tradizione antica è tra loro interamente abolita, gettano è vero polvere negli occhi dei semplici, ingannandoli con delle ombre; tutto questo non assomiglia però a quello che fingono osservare più di quanto le smorfie di una scimmia assomiglino al comportamento razionale di un uomo. Si legge in Senofonte un testo molto interessante a questo riguardo. Egli narra che i Persiani abbandonate le virtù dei loro antenati, avendone abbandonato il modo di vivere austero per assumere uno stile di vita molle ed effeminato, non mancavano di attenersi formalmente a quelle antiche leggi per mascherare la loro vergogna. Ai tempi di Ciro, per esempio, la temperanza e la sobrietà erano tali che non era lecito soffiarsi il naso e il gesto sarebbe stato considerato volgare e disdicevole; quest'uso si mantenne a lungo, in seguito; soffiarsi il naso continuò a non essere cosa lecita, lo era però inghiottire le immondizie e gli umori corrotti che avevano accumulato con la loro intemperanza sino a puzzare. Similmente da imitatori coscienziosi si sarebbero fatto scrupolo, secondo il precetto antico, di commettere l'atto delittuoso di recare a tavola coppe ma trovavano normale di ingurgitare vino in tale eccesso da dover essere portati via ubriachi. Era stato anticamente stabilito, nella loro nazione, di non mangiare che una volta al giorno; da buoni osservanti non avevano cassato la legge ma era per prolungare i loro banchetti da mezzogiorno alla mezzanotte. Poiché la legge antica prescriveva che in guerra un esercito non viaggiasse se non digiuno, questa abitudine è stata bensì osservata ma quei bravi imitatori avevano ridotto la giornata alla durata di due ore. Quando i papisti citano le loro belle regolamentazioni, per darci a credere che sono del tutto simili ai santi Padri, questo esempio dei Persiani sarà sufficiente a smascherare il carattere ridicolo e sciocco della loro imitazione. 23. Tanto maggior rigore, anzi intransigenza, dimostrano nel negare il matrimonio ai preti. Quali licenze in materia di morale prendano e concedano sarebbe però superfluo dire. Sotto le parvenze di quella infetta e putrida santità del celibato risultano macchiati di ogni vizio. Questa proibizione dimostra in modo sufficientemente chiaro quanto le tradizioni umane siano nocive, perché non solo ha privato la Chiesa di buoni e capaci pastori, che avrebbero assolto il loro incarico rettamente, ma ha provocato un numero tragicamente alto di mostruosità, un vero mare, e ha precipitato molte anime nella disperazione. Per quanto concerne la proibizione fatta ai preti di contrarre matrimonio, affermo che in questo vi è stato un deplorevole dispotismo, contrario non solo alla parola di Dio ma ad ogni senso di equità. Anzitutto non era affatto lecito agli uomini proibire ciò che Dio aveva lasciato alla nostra libertà. Secondo: è cosa evidente che non necessita di prove, che nostro Signore ha espressamente comandato che tale libertà non venisse violata. Inoltre san Paolo ordina, sia a Tito che a Timoteo, che il vescovo sia marito di una sola moglie (1 Ti. 3.2; Tt 1.6). Non avrebbe potuto esprimersi con maggior violenza dichiarando: vi saranno uomini malvagi che proibiranno il matrimonio con il pretesto che questa proibizione è frutto di una rivelazione dello Spirito Santo, ed invitando i credenti ad evitarli, e definendo questa specie di gente non solo seduttori ma diavoli. (1 Ti. 4.1-3). Questa è dunque la profezia e la testimonianza dello Spirito Santo con cui ha voluto, sin dall'inizio, ammonire la Chiesa: la proibizione del matrimonio è dottrina diabolica. I nostri avversari pensano aver trovato una scappatoia geniale affermando che questa dichiarazione si deve riferire alle antiche sette eretiche, quali Montano, i Tazianei e gli Eucratiti . Sono costoro dicono, che hanno rifiutato il matrimonio, non noi; ci limitiamo a proibirlo al clero come sconveniente. Forse che la suddetta profezia, quand'anche adempiuta nel caso di Taziano e altri simili, non si può riferire egregiamente anche a loro? Non condanniamo il matrimonio in assoluto, dicono, ma solo in riferimento al clero. Un cavillo tanto puerile non è degno di essere preso in considerazione, affermare che non si proibisce Il matrimonio in quanto non lo si proibisce a tutti! Come un tiranno che pretenda le leggi da lui emanate non essere inique dato che opprimono solo una parte del popolo. 24. Obiettano che deve esistere un segno che distingua il clero dai laici, quasi Dio non avesse previsto quali debbano essere i veri ornamenti dello stato ecclesiastico. Parlando così, essi biasimano implicitamente l'Apostolo per aver sovvertito l'ordine della Chiesa e messo in crisi la sua integrità, visto che, nel definire il tipo di vero vescovo, include fra le virtù richieste il matrimonio. Conosco l'esegesi che danno di questo testo: non bisogna eleggere alla carica di vescovo colui che sia stato sposato una seconda volta; e sono pronto ad ammettere che questa esegesi non è nuova tuttavia risulta in modo sufficientemente chiaro dal contesto che è errata; immediatamente dopo, infatti, egli indica quali abbiano da essere le mogli dei preti e dei diaconi. Eccoti dunque san Paolo che include il matrimonio fra le qualità di un buon vescovo e costoro pretendono trattarsi di un vizio, intollerabile per lo stato ecclesiastico. Ciò che è peggio, non contenti di averlo svalutato in forma generale, lo chiamano "sozzura ", "corruzione carnale "; parole di Siricio papa che sono incluse nei loro canoni! Ognuno rifletta da quali ambienti ciò provenga. Nostro Signore Gesù fa invece al matrimonio l'onore di considerarlo immagine e rappresentazione dell'unità santa che egli stesso ha con la Chiesa. Che potrebbe dirsi di più per esaltare la dignità del matrimonio? Quale impudenza dunque è dirlo immondo e sozzo quando ci è invece dimostrazione della grazia spirituale di Gesù Cristo? 25. Quantunque il loro divieto contrasti in modo così evidente con la parola di Dio hanno ancora una scusa, per dimostrare che i preti non debbono contrarre matrimonio: se fu chiesto ai sacerdoti leviti, quando si avvicinavano all'altare, di non coabitare con le proprie mogli, per offrire il loro sacrificio in stato di maggior purezza, non sarebbe ragionevole che i sacramenti della cristianità, più nobili ed eccellenti, fossero amministrati da persone sposate. Quasi fossero identici l'ufficio del ministro evangelico e il sacerdozio levitico! I sacerdoti leviti rappresentavano la persona di Gesù Cristo, il quale, essendo mediatore tra Dio e gli uomini, ci doveva riconciliare Cl. Padre mediante la perfetta sua purezza. Poiché costoro non potevano, in quanto peccatori, commisurarsi in alcun modo alla santità di lui, dovendolo in qualche modo rappresentare in forma figurata, erano tenuti a purificarsi oltre l'abitudine umana quando si avvicinavano al santuario, in quanto recavano, in quella circostanza, la figura di Cristo, perché si presentavano davanti a Dio mediatori, nel nome del popolo, nel tabernacolo che rappresentava quasi l'immagine della sede celeste. Non avendo i pastori questo ufficio il paragone non calza. Perciò l'Apostolo non pone eccezioni, affermando che il matrimonio è lodevole fra tutti ma che Dio punirà i fornicatori e gli adulteri (Eb. 13.4). Di fatto gli apostoli hanno dimostrato, Cl. Loro esempio, che il matrimonio non contrasta con la santità di nessuna condizione umana per quanto eccellente sia. San Paolo attesta non solo che essi hanno conservato le loro mogli ma le hanno portate seco (1 Co. 9.5). 26. Anzi fu grande impudenza il richiedere tale prova di castità come necessaria. Così facendo hanno recato grande ingiuria alla Chiesa antica che pur eccellendo in purezza di dottrina nondimeno ha brillato ancor più per santità. Pur non facendo caso degli apostoli, che diranno, vi chiedo, di tutti gli antichi Padri i quali, a quanto ci risulta, non solo hanno tollerato il matrimonio dei vescovi ma lo hanno anche approvato? Ne conseguirebbe, secondo l'opinione di costoro, che hanno così profanato i misteri di Dio perché non li amministravano con purezza. È bensì vero che questa materia è stata oggetto di dibattito al concilio di Nicea (trovandosi sempre qualche tipo superstizioso, che sogna fantasticherie nuove per rendersi interessante ). Vi furono persone che avrebbero voluto si proibisse il matrimonio ai preti. Che costa fu però stabilito? Fu accolta la tesi di Pafnuzio che dichiarò la coabitazione dell'uomo e della donna essere cosa casta . Così il santo matrimonio rimase nella sua pienezza, e non fu considerato disonorevole per i vescovi che erano sposati né si pensò che questo recasse in alcun modo offesa al ministero. 27. Da allora sono sopravvenuti altri tempi in cui si è sviluppata questa folle superstizione di tenere in eccessiva stima l'astinenza dal matrimonio. Poiché la verginità è stata assunta in così alta stima, che si considerava difficilmente un'altra virtù esserle paragonata, e quantunque il matrimonio non venisse considerato in modo assoluto come impuro, tuttavia la sua dignità era così offuscata che si pensava un uomo non potesse aspirare alla perfezione senza astenersene. Da qui hanno avuto origine i canoni con i quali è stato ordinato a coloro che già erano nello stato sacerdotale di non contrarre matrimonio. In seguito altri che proibirono di accogliere al sacerdozio uomini sposati a meno che non si impegnassero, Cl. Consenso della moglie a mantenere una castità perpetua, canoni che sono stati accolti con favore in quanto sembravano utili a rendere il sacerdozio più onorevole. Tuttavia se i nostri avversari muovono l'obiezione dell'antichità risponderò, in primo luogo, che la libertà di sposarsi esisteva per i sacerdoti al tempo degli apostoli, e ha durato ancora a lungo; anzi gli apostoli e i santi Padri della Chiesa primitiva non hanno avuto scrupoli a valersene. In secondo luogo affermo che dobbiamo tenere in considerazione il loro esempio e commettiamo un errore ritenendo illecito o disonesto ciò che è stato allora, non solo in uso, ma anche apprezzato. Dico inoltre che quando il matrimonio non ha più goduto della stima necessaria, a causa della valutazione superstiziosa che si dava della verginità, non per questo si è immediatamente proibito ai sacerdoti di sposarsi, quasi si trattasse di una cosa necessaria; si dava solo preferenza alla continenza. Infine affermo che questa legge non è stata intesa allora in modo tale da costringere alla continenza coloro che non la potevano mantenere. I canoni antichi infatti, hanno previsto pene severe per i preti che si fossero resi colpevoli di fornicazione mentre hanno solo previsto l'esclusione dall'ufficio per coloro che avessero preso moglie. 28. Ogniqualvolta perciò i nostri avversari, per mantenere questa nuova tirannia di cui fanno uso, citano la Chiesa antica noi risponderemo che diano le prove che nei loro sacerdoti esiste una castità quale si riscontrava nei sacerdoti antichi. Sopprimano gli adulteri e gli scapestrati, non tollerino oggi ogni sorta di grossolanità da parte di coloro a cui non permettono di convivere con una donna, rimettano in vigore l'antica disciplina, che è stata abolita fra loro per reprimere le azioni vergognose commesse fra loro e liberino la Chiesa da quella vergogna e turpitudine che da lungo tempo la sfigurano. Quando ci avranno concesso tutto questo avremo ancora una replica da fare: non impongano vincoli in una materia che di per se è libera e deve avere per scopo l'utile della Chiesa. Non intendo dire con questo che si debba, in qualche modo, accogliere i canoni che hanno vincolato i chierici in stato di continenza, ma affinché ogni persona di buon senso si renda conto dell'impudenza con cui i nostri avversari diffamano il santo matrimonio Cl. Pretesto di rifarsi alla Chiesa antica. I Padri di cui possediamo gli scritti, eccetto Girolamo non hanno combattuto il valore del matrimonio anche quando hanno dichiarato in privato il loro pensiero. Ci accontenteremo di una citazione di san Crisostomo, che non si può sospettare di aver favorito troppo il matrimonio visto che al contrario era fin troppo incline a stimare e magnificare la verginità. Egli si esprime così: "Il primo grado della castità è la verginità immacolata, il secondo è un matrimonio serbato fedelmente. L'amore di un marito e di una moglie quando vivono rettamente lo stato matrimoniale può considerarsi una seconda forma di verginità ".
CAPITOLO 13 I VOTI: CON QUANTA SUPERFICIALITÀ SIANO PRONUNCIATI NEL PAPISMO E COME LE ANIME NE SIANO MISERAMENTE SCHIAVE 1. Deplorevole è certo il fatto che la Chiesa, la cui libertà è stata acquistata a prezzo inestimabile mediante il sangue di Gesù Cristo, sia stata oppressa da una tirannia crudele e gravata da un cumulo infinito e insopportabile di tradizioni umane. La stupidità dei singoli dimostra però che, non senza ragione, Dio ha concesso a Satana e ai suoi ministri la libertà di agire. Quelli che si volevano spacciare per gente devota non si sono infatti limitati a disprezzare il giogo di Cristo, sostituendolo con i pesi che i falsi dottori giudicavano bene dover imporre, ma ognuno si e dato da fare per suo conto, e si è scavato il suo piccolo pozzo per sprofondarvisi. Questo si è verificato quando tutti hanno voluto dimostrarsi più abili degli altri nel formulare voti, volendosi vincolare con una obbligatorietà più severa di quanto si riscontrasse in un numero già eccessivo di norme. Abbiamo dimostrato più sopra che il servizio di Dio è stato corrotto dall'arroganza di quelli che hanno dominato Cl. Titolo di pastori, quando hanno gravato le povere anime con le loro leggi inique. Non sarà fuori luogo, perciò, smascherare ora un'altra tendenza affine a quella, da cui risulta che l'uomo ha sempre avuto un animo così perverso da opporre resistenza in tutti i modi possibili agli aiuti, che Dio gli forniva. Per fare intendere più chiaramente ai lettori quale danno abbiano arrecato i voti, è necessario fare menzione dei princìpi che abbiamo ricordati più sopra.
Abbiamo affermato in primo luogo che la Legge contiene quanto si richiede per condurre un'esistenza onesta e santa. Abbiamo inoltre detto che il Signore, al fine di preservarci dalla smania di creare forme nuove per servirlo secondo il nostro gusto, ha riassunto il significato della giustizia nella semplice obbedienza alla sua volontà. Se questo è vero risulterà che tutte le forme di pietà da noi inventate per piacere a Dio gli risultano sgradite quale sia il gusto che noi proviamo a praticarle. Il Signore infatti ha in molte occasioni non solo dimostrato di rifiutarle, ma di odiarle profondamente. Questo fatto suscita un problema riguardo ai voti che pronunciamo oltre le esplicite dichiarazioni della parola di Dio, e cioè il problema di sapere in che considerazione si debbano tenere, se i cristiani li possano pronunciare, e quando abbiano fatto voti sino a che punto sono tenuti ad osservarli. Il vincolo che nel campo delle relazioni umane indichiamo Cl. Termine "promessa "è detto voto nei riguardi di Dio. Agli uomini promettiamo ciò che, a nostro giudizio, è di loro gradimento o ciò che dobbiamo loro per dovere di giustizia; discrezione ancora maggiore occorre dunque avere quando si tratta di voti che si rivolgono a Dio in quanto non ci si può far beffe di lui. In realtà si riscontra da sempre, in questo campo, una stupefacente superstizione: gli uomini si sono sentiti autorizzati a promettere a Dio, sotto forma di voti, a sproposito e senza riflettere, tutto ciò che veniva loro in mente o sulle labbra. Di qui ha preso origine la follia dei voti con cui i pagani si son beffati dei loro dèi, non solo follia ma assurdità mostruosa. Piacesse a Dio che questa licenza non fosse stata imitata dai cristiani. Si sarebbe infatti dovuta evitare. Constatiamo invece che da lungo tempo nulla risulta più diffuso di questa presunzione e il popolo, abbandonata e disprezzata la legge di Dio, si è precipitato con folle bramosia dietro ai suoi sogni. Non intendo sopravvalutare questo errore e neppure esaminare dettagliatamente le enormità con cui si è recata offesa a Dio né gli errori che si sono commessi in questa materia; voglio solo accennare brevemente a questo problema perché risulti chiaro che affrontando il problema dei voti non solleviamo una questione oziosa. 2. Per giudicare rettamente quali voti siano da considerarsi leciti e quali siano invece perversi occorre tenere presente tre fatti: in primo luogo la persona a cui si fa il voto; in secondo chi siamo noi che lo pronunciamo; terzo, qual'è la nostra intenzione nel fare questo. Il primo punto ci vuole rendere attenti al fatto che nei voti abbiamo a che fare con Dio; egli si compiace soltanto della nostra obbedienza e considera maledetta ogni forma di culto frutto della nostra mente (Cl. 2.23) , quand'anche abbia una apparenza piacevole di fronte agli uomini. Se ogni culto inventato da noi oltre i suoi comandamenti gli risulta abominevole è chiaro che nessuno gli risulterà gradito se non approvato dalla sua parola. Non prendiamoci perciò la libertà di formulare a Dio dei voti riguardo a cose che non abbiano ricevuto da lui una qualche approvazione. L'affermazione di san Paolo: Tutto ciò che è compiuto senza fede è peccato (Ro 14.23) , Si riferisce a tutte le opere nostre, ma vale in modo specifico nel caso in cui Dio sia oggetto del pensiero dell'uomo. Soggetti a cadere e a peccare nelle cose minime del mondo, quando non abbiamo un atteggiamento di fede e non siamo illuminati dalla parola di Dio, quanto maggiore umiltà si richiede da noi trattandosi di prendere iniziative di tanta importanza! Nulla è infatti così impegnativo quanto il servire Dio. Questa sia perciò la prima norma nella questione dei voti: non prendere la iniziativa di formularli se non avendo, in coscienza, la certezza di non agire in modo temerario. Il pericolo sarà evitato se seguiremo la guida stessa di Dio che ci illustra, nella sua parola, ciò che è opportuno o no di fare. 3. La seconda considerazione fatta sopra deve condurci a misurare le nostre forze, porre mente alla nostra vocazione e non disprezzare la libertà dataci da Dio. Colui infatti che pronuncia dei voti riguardo a cose che non sono in suo potere, o risultano essere in contrasto con la sua vocazione, pecca di temerarietà e colui che disprezza la grazia di Dio che lo ha reso signore di ogni cosa si dimostra ingrato. Questo non significa che possiamo disporre dei nostri voti ponendo la fiducia del loro adempimento in noi stessi; a ragione infatti fu decretato al concilio di Orange che non possiamo promettere a Dio nulla che non abbiamo ricevuto dalla sua mano visto che quanto gli possiamo offrire è già un dono che procede da lui. Essendoci però alcune cose che Dio, nella sua bontà, ha lasciata alla nostra possibilità mentre altre ci sono state negate, ognuno, seguendo l'esortazione di san Paolo, consideri la misura della grazia che gli è stata concessa (Ro 12.3; 1 Co. 12.2). Intendo dire che occorre commisurare i nostri voti al metro che Dio ci dà e che è rappresentato dal dono da lui fattoci, per cui non dobbiamo osare più di quanto egli ci permette, per tema di cadere volendo strafare. Ad esempio quei vagabondi, di cui parla san Luca nel libro degli atti, fecero voto di non mangiare neppure un tozzo di pane fin quando non avessero ucciso san Paolo (At. 23.12); quand'anche la loro intenzione non fosse stata malvagia, come in realtà era, la loro temerarietà risulta intollerabile in quanto pretendevano sottomettere al loro volere la vita e la morte di un uomo. Analogo è il caso di Jefte che ricevette una mercede degna della sua follia quando si trovò costretto a sacrificare la figlia impegnata dal voto sconsiderato che aveva pronunciato in modo irresponsabile (Gd. 11.30). Questa mancanza di responsabilità raggiunge però il suo culmine nel caso di tanta gente che fa voto di non sposarsi. Preti, frati, monache, dimenticando la propria debolezza, pensano poter far a meno del matrimonio per tutta l'esistenza. Da chi hanno avuto la rivelazione che saranno in grado di serbare, durante la vita intera, la castità a cui si impegnano? Conoscono la parola di Dio riguardo alla condizione normale degli uomini: non è bene che l'uomo sia solo (Ge 2.18). Sentono (piacesse a Dio che non le sentissero ) quanto sono aggressive nella loro carne le forze dell'incontinenza. In nome di che decisione temeraria osano rifiutare, per la durata dell'intera esistenza, questa vocazione generale, visto che, il più delle volte, il dono della continenza è dato in particolari condizioni e secondo particolari necessità? Ostinandosi in questo modo non possono pretendere che Dio li soccorra; si ricordino piuttosto di ciò che è scritto: "Non tentare il Signore il tuo Dio " (De 6.10, e, in realtà, si tratta di un tentare Dio, questo volersi accanire contro la natura che egli stesso ci ha dato e disprezzare gli strumenti che egli ci offre, quasi non avessero per noi alcun interesse. È quanto fanno costoro, non solo ma osano definire sozzura il matrimonio, una condizione che Dio non ha considerata indegna della sua maestà, ed ha dichiarata essere degna di onore fra tutte (Eb. 13.4) , e che Gesù Cristo ha santificata con la sua presenza ed ha onorato del suo primo miracolo (Gv. 2.2-9). Questo rifiuto del matrimonio ha unicamente lo scopo di esaltare la condizione in cui si trovano, quasi non risultasse chiaramente dalla loro esistenza che l'astenersi dal matrimonio e la verginità sono due cose assai diverse. Non di meno spingono la loro arroganza al punto da definire angelica la loro condizione di vita, recando, con questa espressione, somma ingiuria agli angeli di Dio a cui osano paragonare gente adultera, immorale, o peggio. In realtà non occorrono grandi argomentazioni visto che la verità stessa li smentisce. Vediamo infatti chiaramente con quali terribili castighi nostro Signore punisca questa loro arroganza e questo disprezzo dei suoi doni; per conto mio ho vergogna di svelare queste cose nascoste, perché il poco che se ne conosce è già sufficiente ad avvelenare l'atmosfera. È naturalmente chiaro che non dobbiamo formulare voti che costituiscano, in qualche modo, un impedimento a servire Dio nella nostra vocazione. Un padre di famiglia che abbandonasse moglie e figli per assumere qualche altro incarico si troverebbe in questa situazione. Abbiamo affermato che la nostra libertà non è da disprezzarsi, questo però può dar luogo ad equivoci qualora non sia chiarito. Il senso di questa espressione è il seguente: avendoci Dio costituiti signori di ogni cosa e sottomesse a noi in modo tale che ne usiamo secondo il comodo nostro, non dobbiamo pensare di far cosa grata a Dio sottomettendoci in spirito di servitù alle realtà esteriori che ci debbono invece essere di ausilio. Dico questo perché molti considerano prova di umiltà l'assoggettarsi a molte pratiche da cui il Signore, non senza ragione, ci ha voluto liberi. Volendo evitare questo pericolo dovremo aver cura di non allontanarci da quell'ordine che il Signore ha istituito nella Chiesa cristiana. 4. Veniamo ora al terzo elemento summenzionato: prima di far voti a Dio è necessario esaminare attentamente con quale intenzione li formuliamo. Poiché Dio pone attenzione al cuore e non all'apparenza, sicché può verificarsi il caso che una stessa cosa gli risulti gradita in una circostanza o assai spiacevole in un'altra, secondo la diversità dell'intenzione. Se uno fa voto di astenersi dal vino, vedendo in questo un elemento di santità, sarà giustamente tacciato di superstizione. Se prende questa decisione sulla base di altre considerazioni che non siano da condannare nessuno lo potrà biasimare. Per quanto io possa giudicare quattro sono gli scopi cui i nostri voti debbono tendere: per chiarezza diciamo che due concernono il passato e due concernono l'avvenire. Concernono il passato i voti che facciamo allo scopo di dimostrare a Dio la nostra riconoscenza per i benefici ricevuti da lui, o per punire gli errori commessi in vista di ottenere il perdono. Possiamo definire i primi, "voti di ringraziamento ", i secondi "voti di penitenza ". Esempio del primo tipo è il voto di Giacobbe che promette a Dio le decime di quanto avrebbe acquisito in Oriente, se gli fosse stata concessa la grazia di ritornare nel paese natio (Ge 28.20-22). Altro esempio comune è rappresentato dai sacrifici, detti di pace, che i santi re e governatori promettevano di fare a Dio prima di iniziare una guerra, in caso che fosse stata loro concessa la vittoria sui nemici; ovvero quelli che il popolo prometteva a Dio trovandosi in afflizione, nel caso fosse stato liberato. In questo senso debbono essere intesi i testi dei Sl. Che fanno menzioni di voti (Sl. 22.26; 56.13; 116.14-18). Ci è lecito formulare oggi i voti di questo tipo ogni qual volta Dio ci libera da una calamità, da una grave malattia, da un pericolo. Non contrasta infatti con un atteggiamento autenticamente credente l'offrire a Dio, in tali circostanze, un'offerta che gli sia stata promessa, come attestato di riconoscenza per i benefici ricevuti, dimostrando così la propria gratitudine. La seconda categoria è illustrata da un esempio familiare. Prendiamo il caso di una persona che abbia commesso qualche peccato a causa della sua intemperanza o della sua golosità; non subirà alcun danno se rinuncerà per qualche tempo ai piaceri in vista di porre rimedio a questo vizio cui si sente incline. Non c'è nessun inconveniente a che decida di vincolare la sua decisione con un voto onde impegnarsi in modo più rigoroso. Non mi sentirei tuttavia di imporre come normativo a tutti coloro che, in qualche modo, hanno errato, di fare un simile voto; chiarisco solo ciò che uno può considerare lecito di fare qualora pensi che questo gli può essere di giovamento. Considero perciò un voto di questo tipo santo e legittimo senza limitare minimamente la libertà di ognuno, che è libero di fare come gli pare. 5. I voti formulati per il futuro hanno lo scopo, come ho detto, di renderci da un lato più guardinghi per evitare i pericoli, dall'altro di incitarci a compiere il nostro dovere. Ecco un esempio: uno sa di essere fortemente incline ad un vizio sì da non potersi mantenere temperatamente in cose che di per se possono essere buone, non farà male affatto rinunciando con un voto ad usarne per un certo tempo; o ancora se uno dovesse sentirsi incapace di vestirsi o acconciarsi senza vanità o vanagloria e nondimeno ne provasse fortissimo desiderio, non potrebbe fare cosa migliore che imporsi un limite considerando suo dovere l'astenersene in vista di mettere fine a questo suo desiderio. Analogamente uno si sente dimentico o svogliato nell'adempiere il suo compito di credente, perché non dovrebbe porre rimedio alla sua negligenza impegnandosi con un voto a fare ciò che è solito dimenticare? In questi casi siamo in presenza di una sorta di pedagogia, lo riconosco, ma possiamo affermare che si tratta di aiuti cui possono liberamente ricorrere, in vista di porre rimedio alla loro infermità, le persone semplici e deboli. Consideriamo perciò legittimo ogni voto che sia formulato in vista di uno di questi fini, particolarmente quelli che concernono realtà concrete, purché siano garantiti dall'approvazione divina, giovino alla nostra vocazione, siano commisurati alla grazia fattaci da Dio. 6. Non risulta difficile dedurre a questo punto ciò che si deve pensare in generale dei voti. Tutti i credenti hanno in comune un voto pronunciato che è stato per loro al battesimo, e che confermano nella professione della fede e nel ricevere la Cena. I Sacramenti possono infatti considerarsi dei contratti con cui Dio ci promette la sua misericordia e di conseguenza la vita eterna e ci impegniamo per parte nostra all'obbedienza. La sostanza e il compendio di quel voto pronunciato al battesimo è la rinuncia a Satana in vista di consacrarci al servizio di Dio per obbedire ai suoi santi comandamenti non assecondando i desideri perversi della nostra carne. Non v'è dubbio che questo voto risulti utile visto che non solo Dio l'approva nella Scrittura, ma lo richiede a tutti i suoi figli; né, d'altra parte, risulta contraddetto dalla constatazione che, nella sua vita presente, nessuno raggiunge per parte sua quella perfezione di obbedienza che Dio richiede da noi. Il contratto che Dio stipula con noi, ed in cui richiede il nostro servizio, è infatti incluso nel patto di grazia che contiene la remissione dei peccati e la rigenerazione, in vista di fare di noi delle nuove creature; la promessa da noi formulata presuppone perciò la richiesta a Dio del perdono delle colpe, e il suo intervento a favore della nostra debolezza mediante lo Spirito Santo. Riguardo ai voti specifici si tengano presenti le norme che abbiamo menzionate più sopra e non sarà difficile discernere quali debbano essere; non si pensi tuttavia che per parte nostra teniamo in tanta considerazione i voti, anche quelli che abbiamo riconosciuti validi, da incoraggiarne un uso quotidiano. Quantunque, infatti, non mi senta in grado di dare nessuna indicazione riguardo al numero e alle circostanze, chiunque voglia seguire il mio consiglio pronuncerà voti con estrema sobrietà. Ad essere infatti superficiali nel fare voti, nel farli frequentemente e in numero abbondante, si finisce Cl. Non osservarli seriamente e si corre il rischio di finire nella superstizione. Chi si impegna in un voto perpetuo non sarà in grado di mantenerlo se non con estrema difficoltà e grandissimo impegno oppure, stancandosi alla lunga, finirà con l'abbandonare ogni cosa. 7. Anzi sappiamo quanta superstizione abbia regnato, da tempo, nel mondo a questo riguardo. Chi faceva voto di non bere vino, come se astinenze di questo genere fossero di per se gradite a Dio; chi si impegnava ad osservare il digiuno e chi ad astenersi dalla carne in certi giorni, giudicandoli, erroneamente, più santi degli altri. Si dava il caso di voti ancora più infantili, eppure non erano bambini a pronunciarli; si è infatti considerato segno di alta spiritualità il far voto di recarsi in pellegrinaggio qua e là, il fare lunghe marce a piedi, l'andare seminudi in vista di acquistare maggior meriti con i disagi corporali. Se paragoniamo tutte queste pratiche, in cui la gente si è impegnata in un modo che lascia sbalorditi, con le norme stabilite più sopra, dobbiamo constatare che non solo risultano vane e assurde, ma sono altresì indice manifesto di empietà. Qualsivoglia giudizio la sensibilità umana possa dare di un atto, al giudizio di Dio nulla risulta più abominevole che il voler creare, per lui, forme di pietà a nostro piacimento.
Pessime e deplorevoli opinioni sono inoltre diffuse nella maggioranza della gente. Gli ipocriti infatti essendosi impegnati in queste sciocchezze, danno a credere di essersi procurata una somma giustizia pensando che la sostanza della fede cristiana si debba ricercare in queste esteriorità e disprezzando tutti coloro che, secondo loro, non le tengono in dovuta considerazione. 8. Non è il caso di esaminare dettagliatamente tutti i tipi di voto; dato però che quelli tenuti in più alta considerazione sono i voti monastici, in quanto sembrano avere la considerazione generale della Chiesa, farò un breve cenno a questi. Ad evitare, anzitutto, che qualcuno pensi che il monachesimo, nella sua forma attuale, possa giustificarsi sulla base della antichità e della lunga tradizione, si deve notare che anticamente il tenore di vita nei monasteri era assai diverso da quello attuale. Vi si ritiravano coloro che avevano l'intenzione di praticare una vita di austerità. Come gli Spartani, che a quanto dicono le testimonianze storiche, si imponevano nella loro vita, una severa e rigida disciplina, così vivevano i monaci in quei tempi; anzi in una forma ancora più dura. Dormivano senza letto e senza giaciglio, in terra, bevevano soltanto acqua, si cibavano di pane secco, di erbe e di radici; le raffinatezze della loro mensa consistevano in un po' di olio, in una manciata di ceci e fave, non assaggiavano cibi delicati e si astenevano, per quanto possibile, da ogni comodità e da ogni agio corporale. Queste cose risulterebbero oggi incredibili non possedessimo le testimonianze di coloro che le hanno constatate e sperimentate: uomini come Gregorio di Nazianzo, Basilio, san Crisostomo. Questi erano elementi di disciplina con cui ci si allenava in vista di una condizione più eccellente. Le scuole e le assemblee di monaci fungevano in quel tempo da vivaio per fornire buoni ministri alla Chiesa; lo dimostrano i tre personaggi summenzionati che furono appunto chiamati al vescovato dalla vita monastica, e molte altre illustri persone del tempo loro. Sant'Agostino attesta che l'abitudine di prendere uomini dai monasteri per il servizio della Chiesa, vigeva ancora al tempo suo; egli si rivolge infatti ad un collegio di monaci in questi termini: "Vi esortiamo, fratelli, per nostro Signore, a mantenere il voto pronunziato e a perseverare sino alla fine, e qualora la Chiesa, vostra madre, dovesse avere bisogno di voi, non siate né tracotanti, bramando di ricevere la carica che vi imporrà, né pigri per rifiutarla; obbedite invece a Dio con spontaneità; non anteponete i vostri svaghi alle necessità della Chiesa che non sarebbe stata in grado di partorire voi se non fosse stata aiutata a partorire i suoi figli dai santi che sono stati prima di voi ". Egli si riferisce al ministero mediante cui i credenti rinascono spiritualmente. Scrive anche ad Aureliano in un'altra epistola: "Quando vengono accolti nel clero quei monaci che nei loro monasteri si sono corrotti si dà agli altri occasione di fare altrettanto e si reca somma offesa alla condizione ecclesiastica perché fra quelli che nei monasteri perseverano nella vocazione siamo soliti prendere i migliori e quelli degni di maggior considerazione. Occorre agire in questo modo se non vogliamo diventare la favola del popolo e come c'è un proverbio che dice: da uno strimpellatore di fiera si fa un buon musicista, si giunga ad inventare il proverbio "con un cattivo monaco si fa un buon ministro". Pessima cosa è fornire ai monaci motivo di tanto inorgoglirsi e recare offesa al clero, visto che a volte anche un ottimo monaco è appena atto all'ordine ecclesiastico perché quand'anche abbia una condotta esemplare, non possiede la cultura richiesta da quell'ufficio ". Risulta da questi testi che molti uomini eccellenti consideravano la loro condizione monastica come una preparazione per giungere al governo della Chiesa in vista di essere più atti ad assolvere il loro compito, non già che tutti giungessero a questo fine o, vi aspirassero, visto che al contrario si trattava nella maggioranza dei casi di persone semplici e illetterate; perciò soltanto i più idonei venivano eletti. 9. Abbiamo in sant'Agostino, la descrizione quasi pittorica, del monachesimo antico principalmente in due testi: nel volume intitolato Dei costumi della Chiesa cattolica, in cui egli prende le difese dei monaci cristiani falsamente accusati e calunniati dai Manichei, e in un altro scritto intitolato Della vita monastica, in cui rimprovera e ammonisce i monaci che vivevano in condizioni corrotte. Esporrò ora la sostanza del suo pensiero contenuto in quei testi, anzi ricorrerò, per quanto mi sarà possibile, alle sue stesse espressioni. "Disprezzando "dice "i piaceri e le delizie del mondo, conducono insieme una esistenza santa e casta, trascorrendo il tempo in orazioni, letture, discussioni; senza orgoglio né dispute né gelosie; nessuno possiede alcunché di suo e nessuno risulta essere a carico del prossimo. Lavorano consacrandosi ad un lavoro manuale, sufficiente a mantenerli, e tale da non impedire allo spirito loro di aprirsi a Dio. Consegnano il frutto della loro fatica nelle mani di coloro che chiamano decani e costoro, avendone ricavato frutto, fanno il resoconto a quello che fra loro è detto "padre ". I padri non sono solo persone sante riguardo ai costumi, ma anche eccellenti sotto il profilo dottrinale, nelle cose di Dio; distinguendosi per virtù e spiritualità, governano i loro figli senza orgoglio, avendo l'autorità necessaria a comandare, i loro figli si dimostrano pronti ad obbedire. Al vespro escono dalle celle, ancora digiuni, si raccolgono per udire il loro padre (egli aggiunge che in Egitto e nei paesi orientali ogni padre aveva la responsabilità di circa 3. 000 monaci ). Partecipano In seguito alla refezione nella misura richiesta dal loro stato di salute; ognuno sorveglia la sua concupiscenza per non far uso del cibo presentato se non sobriamente, anche se si tratta di cibi scarsi e poco raffinati. Per questo non soltanto evitano il vino e la carne, per vincere la loro concupiscenza carnale, ma anche altri cibi che, stuzzicando l'appetito, invogliano a ghiottonerie e a leccornie, tanto più che alcuni sono considerati più santi e puri; alcuni sono in questo ridicoli giudicando favorevolmente che ci si nutre di cibi squisiti a condizione che ci si astenga dalla carne. Il sovrappiù di nutrimento (abbondante sia a causa del loro lavoro diligente che della loro sobrietà ) viene distribuito ai poveri con maggior diligenza di quanto abbiano messo a guadagnarlo. La loro preoccupazione non è infatti quella di avere in abbondanza ma di non serbare ciò che sopravvanza ". Proseguendo, dopo aver fatto menzione dell'austerità di cui era stato testimone sia a Milano che altrove, aggiunge: "in questa vita rigorosa nessuno è costretto a portare un carico più pesante di quanto possa o voglia portare; il più debole non viene condannato dagli altri; tutti hanno coscienza di quanto sia necessaria la carità, sanno che ogni cibo è puro per coloro che sono puri (Tt 1.15). La loro attenzione perciò non è volta al rifiuto di questo o di quel cibo come contaminato, ma a vincere la propria concupiscenza e mantenersi in uno spirito buono. Tengono presente la parola: il ventre è per il cibo e il cibo per il ventre (1 Co. 6.13). Tuttavia parecchi di coloro che sono forti si impongono limiti per rispetto dei deboli, parecchi hanno una diversa motivazione in quanto amano nutrirsi di cibi grossolani e non raffinati, sanno astenersi perciò da un cibo quando sono in buona salute ma non si fanno scrupolo di cibarsene quando sono malati. Parecchi non bevono vino ma non si considererebbero contaminati qualora ne bevessero; essi stessi, infatti, sono i primi ad ordinare che se ne dia a coloro che sono di costituzione delicata e non potrebbero altrimenti godere di buona salute. Se qualcuno di questi rifiuta di bere lo ammoniscono fraternamente a non rendersi più debole che santo con una vana superstizione. Si applicano in tal modo, con cura, al timore di Dio. Riguardo all'esercizio corporale sanno che il giovamento non è che di breve durata. Particolarmente rispettata è la norma di carità; essa sola determina le parole, i cibi, i vestiti, gli atteggiamenti; ognuno si sforza di collaborare a questa carità e si ha timore di recargli offesa quanto a Dio stesso. Se qualcuno gli oppone resistenza lo si espelle, se qualcuno gli reca offesa, non lo si tollera neppure un giorno ". Queste le parole di sant'Agostino, le ho citate a questo punto n quanto ci danno una chiara visione del monachesimo dei tempi antichi, avessi voluto raccogliere questi elementi da autori diversi sarei stato assai più lungo pur sforzandomi di riassumere. 10. Non ho l'intenzione di dibattere più a lungo questo argomento, voglio solo illustrare brevemente che tipo di persone siano stati i monaci nella Chiesa antica. E non solo questo, ma quale sia stato il carattere del monachesimo affinché i lettori possano valutare, stabilendo il paragone tra il monachesimo antico e quello odierno, quanto siano privi di pudore quelli che si appellano all'antichità per sostenere la condizione attuale. Sant'Agostino, nel descrivere questo tipo santo e buono di monachesimo, esclude ogni forma di rigorismo nell'imporre o nell'esigere cose riguardo alle quali Dio ci ha data libertà nella sua parola. È invece proprio questo che si esige oggi con assoluto rigore. Delitto senza rimedio sono infatti la negligenza, sia pur minima, delle loro ordinanze in tema di vestiti, di alimenti, o di frivole cerimonie. Sant'Agostino dichiara finalmente di non esser lecito a monaci di vivere oziosamente a spesa altrui e afferma non esservi stato, al tempo suo nessun monastero ben organizzato in cui i monaci non vivessero del loro lavoro. In quelli odierni l'elemento essenziale della santità è invece costituito dall'ozio. Se si eliminasse infatti l'ozio in che potrebbero far consistere la loro vita contemplativa che li fa superiori a tutti gli altri, anzi, secondo loro, li rende simili agli angeli? Sant'Agostino concepisce infine il monachesimo come una forma di aiuto e un esercizio per mantenere gli uomini nel timore di Dio e nella fede autentica. Quando dice, anzi, che la carità costituisce la norma principale che è quasi l'unica da osservare, non conferisce alcun valore a quel tipo di congiura che fanno certuni, raccogliendosi insieme e separandoci dal corpo della Chiesa; egli vuole anzi che i monaci siano un esempio per tutti in vista di mantenere l'unità cristiana. Le forme dell'attuale monachesimo sono così lontane da quella impostazione che, difficilmente, si potrebbe trovar cosa più contraria. I nostri monaci infatti, non soddisfatti di quella santità, cui Gesù Cristo vuole che i suoi servi applichino la mente, ne inventano una nuova, in base alla quale si considerano più perfetti di tutti gli altri. 11. Lo negano? Chiederò allora perché definiscono la loro condizione "stato di perfezione "negando questo termine a tutte le vocazioni stabilite da Dio. Conosco la loro sofistica risposta: questa definizione non indica che il monachesimo sia la perfezione in se, ma soltanto in quanto rappresenta la condizione più adatta all'acquisto di quella perfezione. Quando si tratta di crearsi un vanto umiliando il popolino o di attirare nelle loro reti i fanciulli ignari, mettono in evidenza i loro privilegi, magnificano la loro dignità, disprezzando gli altri e vantandosi del loro stato di perfezione. Quando però li si mette al muro, e non sono più in grado di giustificare questa arroganza, ricorrono al sotterfugio di affermare che non sono ancora giunti alla perfezione, ma sono entrati in questo stato per consacrare ad essa il loro pensiero sopra ogni cosa. Coltivano perciò nel popolino l'idea che la loro vita è angelica, perfetta, pura da ogni vizio e in quel modo tirano l'acqua al loro mulino e vendono cara la loro santità. Quella glossa invece è nascosta in pochi libri, quasi sepolta. Chi non si rende conto che in questo modo si fanno beffe di Dio e della gente? Accettiamo tuttavia che attribuiscano al loro stato soltanto questo carattere di aspirazione alla perfezione. Nell'attribuirgli questo onore però lo distinguono pur sempre con un segno particolare, da tutte le altre forme di vita. Chi può permettere che questo onore venga conferito ad una condizione umana che Dio non ha mai approvato neppure con una parola e siano invece privati di questo onore ed escluse, come indegne, le sante vocazioni che non soltanto Dio ha ordinato, ma ha rivestite di titoli eccellenti? Vi prego considerate l'ingiuria che recano a Dio anteponendo uno stato creato dagli uomini e senza alcuna approvazione a tutte le condizioni che lui stesso ha stabilite e approvate con esplicita testimonianza. 12. È forse calunnioso affermare che essi si dimostrano insoddisfatti delle norme che Dio ha stabilito per i suoi? Lo smentiscano se possono. D'altronde non son io a dirlo ma loro stessi. Insegnano infatti esplicitamente che il carico che si impongono è più pesante di quanto sia stato quello imposto da Gesù Cristo ai suoi discepoli, impegnandosi ad osservare i consigli evangelici a cui i cristiani non sono comunemente vincolati. Definiscono consigli le esortazioni di Gesù Cristo riguardo all'amore per i nemici, il non desiderare la vendetta, il non giurare eccetera, eccetera (Mt. 5.33). Che argomento di antichità possono far valere a questo riguardo? A nessuno degli antichi venne mai in mente questa idea; sono unanimi nel dichiarare che non c'è una sola parola di Gesù Cristo che non siamo tenuti ad osservare, anzi espressamente considerano queste espressioni altrettanti comandamenti. Avendo già illustrato più sopra come debbasi considerare errore pestilenziale questo voler ridurre a semplici consigli le cose che ci sono chiaramente comandate, ci basta aver brevemente dimostrato, a questo punto, che il monachesimo, quale si incontra oggi, poggia su una valutazione delle cose che ogni credente deve, a diritto, considerare esecrabile: giudicando cioè che esista una norma di vita più perfetta da quella stabilita da Gesù Cristo a tutta la sua Chiesa. Quello che si edifica su queste premesse non può che essere considerato abominevole. 13. A sostegno della loro perfezione fanno uso di un altro argomento, che considerano definitivo: nostro Signore disse un giorno al giovane che lo interrogava circa la perfetta giustizia: "Va' e se vuoi essere perfetto vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri " (Mt. 19.21). Non domandiamoci, per ora, se realmente essi facciano quanto sta scritto oppure no; accettiamolo come un dato di fatto. Si considerano dunque perfetti in quanto vendono i propri beni. Se la perfezione consiste unicamente in questo come si devono interpretare le affermazioni di san Paolo secondo cui chi ha distribuito tutti i suoi beni ai poveri non è nulla senza carità? (1 Co. 13.3). Che perfezione è mai quella che viene annullata con l'uomo quando la carità non è congiunta con essa? A questo punto devono ammettere, lo vogliano o no, che la rinuncia ai propri beni, quand'anche sia la principale opera di perfezione, Non significa ancora tutto. Anche questo però viene smentito da san Paolo che dichiara la carità essere il vincolo della perfezione (Cl. 3.14) , senza far menzione di rinuncia dei propri beni. Se è vero che non esiste differenza tra il maestro e il discepolo, e san Paolo dichiara apertamente che la perfezione dell'uomo non risiede nella rinuncia a tutti i suoi beni, e che essa può esistere senza questa rinuncia, bisogna cercare di intendere il significato del detto di Gesù Cristo: "Va' e se vuoi essere perfetto vendi tutto quello che hai ". L'interpretazione risulterà chiara se consideriamo a chi sono indirizzate queste parole; considerazione questa che si deve fare riguardo a tutti i detti di nostro Signore. Il giovane chiede che deve fare per entrare nella vita eterna. Gesù Cristo lo rimanda, giustamente, alla Legge, in quanto la domanda concerne il problema delle opere. La Legge, infatti, considerata in se stessa rappresenta il cammino della vita e il fatto che sia insufficiente a procurarci salvezza si deve attribuire alla perversità nostra. Gesù Cristo dichiara, con questa risposta, che non è venuto per insegnare un modo di vivere rettamente, diverso da quello dato anticamente da Dio in quella Legge. Così facendo rende testimonianza che la legge di Dio è indicazione perfetta della giustizia, e, nello stesso tempo, smentisce le calunnie con cui lo si accusava di indurre il popolo a ribellarsi all'obbedienza della Legge proponendogli una nuova legge. Il giovane, per altro non cattivo ma gonfio di orgoglio, risponde che ha osservato tutti i comandamenti sin dalla sua infanzia. Un fatto è certo: egli era ancora ben lontano dalla meta che si vantava aver raggiunto; se infatti la sua risposta fosse stata corrispondente a verità non gli sarebbe mancato nulla per raggiungere la perfezione assoluta. È stato dimostrato più sopra che la Legge contiene in se stessa una giustizia perfetta; e questo risulta anche da questo testo, in cui l'osservanza della legge stessa è definita ingresso nella vita eterna. Per dimostrare a quel giovane quanto poco gli giovasse quella sua giustizia, ch'egli si vantava con tanta leggerezza aver adempiuto, era necessario smascherare il vizio nascosto nel cuor suo; il suo animo infatti era vincolato alle sue ricchezze, dato che era ricco. Gesù Cristo perciò lo colpisce nel punto dove lo si doveva colpire, dato che per parte sua non si rendeva conto di questo vizio segreto, e gli impone di vendere tutti i suoi averi. Se realmente fosse stato un uomo osservante della Legge, come pretendeva essere, non se ne sarebbe andato tutto triste dopo aver ricevuto questa risposta. Chi infatti ama Dio con tutto il cuore non solo considera sterco quanto contrasta con l'onore di lui, ma lo ripudia come dannoso. Quando perciò Gesù Cristo ordina a quel ricco avaro di vendere tutti i suoi beni è come se ordinasse ad un ambizioso di rinunciare agli onori, ad un uomo voluttuoso di rinunciare alle delizie, ad uno scapestrato di rinunciare a tutto ciò che lo può indurre a male agire. In questo modo si deve condurre la coscienza a percepire il proprio vizio particolare, quando non si possa raggiungere quello scopo con ammonizioni generali. L'errore di questa gente che cita il testo suddetto per giustificare lo stato monastico consiste nel fatto che dà al caso particolare il valore di una dottrina generale; come se Gesù Cristo ponesse la perfezione nel fatto che un uomo rinuncia ai suoi beni; in realtà egli voleva soltanto costringere questo giovane, che sopravvalutava se stesso, a prendere coscienza del suo peccato, a comprendere cioè che era ancora lungi da quella perfetta osservanza della Legge che falsamente si attribuiva. Riconosco che questo passo è stato male interpretato da alcuni Padri, al punto che si è ingenerata l'idea che la povertà volontaria dovesse considerarsi segno di grande virtù; considerandosi beati coloro che si scaricavano di ogni impegno terreno per darsi a Cristo . Spero che ogni lettore non polemico e non pignolo si dichiarerà soddisfatto dall'interpretazione che abbiamo fornito e si convincerà che questo è il significato autentico del testo. 14. Intenzione dei Padri non era però affatto l'enunciazione di un tipo di perfezione come quella che, in seguito, i monaci inventarono delle loro celle in vista di stabilire una seconda forma di Cristianesimo. Era infatti di là da venire quel parallelismo perverso, stabilito più tardi, tra il battesimo e i voti monastici e l'affermazione che il monachesimo è una sorta di secondo battesimo. Chi non sa che i santi Padri hanno avuto orrore di tali bestemmie? Riguardo alla carità che, secondo sant'Agostino, reggeva l'intera vita dei monaci antichi, occorre forse mostrare che essa è assolutamente in contrasto con la professione dei monaci odierni? È evidente agli occhi di tutti che chi entra in un chiostro per farsi monaco si separa e si allontana dalla Chiesa. Costituiscono infatti comunità a parte e hanno amministrazione dei sacramenti separata dagli altri. Se questo non è distruggere la comunità della Chiesa mi chiedo che forma maggiore di distruzione Si potrebbe inventare. Per attenerci al paragone sin qui fatto e per condurlo a termine, in che cosa, a questo riguardo, assomigliano ai monaci antichi? Anticamente, infatti, i monaci pur abitando lontano dagli altri non costituivano una Chiesa a parte ma ricevevano i sacramenti con tutti, nei giorni festivi, si raccoglievano insieme alla comunità dei credenti per udire il sermone e pregare e si comportavano quivi come una parte del popolo cristiano. I monaci del giorno d'oggi, erigendosi un altare per conto proprio, hanno rotto il vincolo dell'unità. Si sono autoscomunicati dal corpo della Chiesa, hanno disprezzato il ministero ordinario mediante cui Dio ha voluto che fossero mantenute fra i suoi pace e carità. Affermo perciò che i monasteri, oggi, nel mondo, sono altrettante conventicole di scismatici che hanno sovvertito l'ordine della Chiesa, spezzando la comunità legittima dei credenti. Per rendere ancor più manifesta questa rottura hanno assunto nomi diversi, da setta, e non si sono vergognati di trarre vanto da ciò che Paolo aveva sopra ogni cosa esecrato; a meno di affermare che Gesù Cristo era diviso fra i Corinzi, in quanto ognuno si vantava del proprio dottore (1 Co. 1.12 ; 3.4) ma oggi non si deroga in nulla al suo onore benché gli uni si dicano Francescani, gli altri Domenicani, gli altri Benedettini, anzi si impadroniscano di questi titoli per fare una speciale confessione che li distingua dal resto della cristianità. 15. La diversità sin qui notata tra i monaci antichi e quelli moderni non concerne tanto i costumi quanto la professione di fede. I lettori avranno infatti notato che ho parlato più del monachesimo che dei monaci, i vizi denunciati si riferiscono non solo alla vita dei singoli, ma risultano indissolubilmente legati ad un modo di vita quale è oggi. Non è il caso di spendere molto tempo a dimostrare, nei dettagli, quanta diversità si riscontri nel campo dei costumi; ognuno infatti è in condizione di constatare che non esiste oggi al mondo condizione depravata in modo così integrale e dedita alla corruzione con tanto furore, una condizione ove si annidano tanti odi, intrighi, faziosità, ambizioni, con tutte le azioni che ne conseguono. : È vero che in alcuni conventi si vive castamente, se è lecito parlare di castità quando la concupiscenza è semplicemente repressa per non dare scandalo al popolo. Oso tuttavia affermare che difficilmente si troverà un convento su dieci che sia asilo di castità più che bordello. Riguardo al vivere come è possibile parlare di sobrietà? Non diversamente vengono ingrassati i maiali al truogolo. Per evitare che mi si accusi di trattare questa gente con eccessiva severità non proseguo il discorso; ognuno infatti può constatare che nelle poche cose che ho detto ho detto soltanto la verità. Abbiamo citato la testimonianza di sant'Agostino riguardo ai monaci del tempo suo, da cui risulta che furono uomini di santità singolare. Eppure egli si duole del fatto che fra loro esistessero vagabondi ed impostori che succhiavano i beni della gente semplice con la loro astuzia; che vi fossero altresì trafficoni che si consacravano a commerci disonesti portando qua e là reliquie di martiri ovvero, come dice, spacciando per ossa di martiri ossa comuni; e altri tipi consimili che con le loro malefatte diffamavano la condizione monastica. In un altro testo egli afferma che se le migliori persone da lui incontrate sono quelle che hanno tratto profitto dalla vita monastica egli deve deplorare il fatto che le peggiori sono quelle che dalla vita monastica sono state corrotte . Che cosa dovrebbe dire oggi, vedendo i conventi pieni di vizi così enormi e così gravi che non si può più andar oltre senza morire. E quanto sto dicendo è noto a tutti. Non penso però che questo si debba estendere indistintamente a tutti. Nessuna regola e nessuna norma è infatti mai stata così stabile, nei monasteri, al punto da impedire che qualche canaglia si unisse ai buoni; così si deve ammettere che fra i monaci odierni la santità degli antichi non è scaduta al punto che non sussista, nella schiera dei cattivi, qualche buon elemento; ma sono così pochi che si trovano sepolti nella sconfinata moltitudine dei malvagi. E non solo scompaiono, ma sono disprezzati, ingiuriati, molestati, anzi trattati crudelmente; è infatti uno dei principi che regna fra loro quello di non tollerare nella loro compagnia una persona dabbene. 16. Penso aver dimostrato con questo paragone tra il monachesimo antico e quello odierno, che questo riferimento alla Chiesa primitiva, da parte dei nostri cocollati, per giustificare e per difendere la loro condizione è errato visto che fra loro e i monaci sussiste una differenza non minore di quella che esiste fra gli uomini e le scimmie. Non nascondo però che anche nella descrizione offertaci da sant'Agostino ci sia qualcosa che non mi convince. Che i monaci non abbiano valutato, con occhio superstizioso, la loro disciplina esteriore lo ammetto; in essa però si annidava un'affettazione assurda ed una assurda brama di gareggiare gli uni con gli altri, e questa la mia impressione. Cosa bellissima abbandonare i propri beni per essere libero da ogni sollecitudine terrena, Dio però apprezza maggiormente la condizione di un uomo, che libero da ogni spirito di avarizia, ambizioni, concupiscenza carnale, abbia cura di governare rettamente e santamente la sua famiglia, ponendosi quale meta il servire Dio in una giusta vocazione e da lui approvata. Cosa piacevole, indubbiamente, il ritirarsi dalla società per filosofeggiare interiormente in un luogo segreto; che un uomo però, quasi per odio del genere umano, fugga nel deserto per starvi solitario, astenendosi da ciò che nostro Signore richiede essenzialmente da tutti i suoi e cioè l'aiuto reciproco, questo non è confacente alla fraternità cristiana. E quand'anche non sia derivato da questo modo di vivere altro danno che questo, è stato di per se sufficientemente grave introducendo nella Chiesa un esempio pericoloso e nocivo. 17. Vediamo ora quali siano i voti con cui i monaci del nostro tempo entrano negli ordini. In primo luogo, in base a quanto è stato detto considero che tutti questi voti non sono, dinanzi a Dio, altro che abominazione in quanto costoro hanno l'intenzione di inventare, a loro piacimento, una nuova forma di vita per servire Dio volendo compiacergli e acquistare grazia. In secondo luogo, trattandosi di una invenzione di un modo di vita che non tiene in considerazione la vocazione di Dio e non cerca la di lui approvazione affermo che si tratta di licenza temeraria e perciò illecita, in quanto la loro coscienza non ha su che fondarsi dinanzi a Dio, e tutto ciò che si compie senza fede è peccato (Ro 14.23). In terzo luogo visto che consacrano se stessi a forme di vita perverse e malvagie, quali le idolatrie di cui tutti i conventi sono ricettacolo, affermo che così facendo non si consacrano a Dio bensì al Diavolo. Il profeta accusa gli Israeliti di aver immolato i loro figli ai diavoli e non a Dio, per aver corrotto il vero culto di Dio con cerimonie peccaminose (De 32.17; Sl. 106.37) , perché non dovrebbe essere lecito fare la stessa affermazione riguardo ai monaci che rivestono l'abito per immergersi in mille superstizioni? Quale è però la sostanza di questi voti? Fanno a Dio promessa di serbare perpetua verginità, quasi avessero pattuito con lui l'esonero dalla necessità di sposarsi. Non devono replicare che pronunciano quel voto solo confidando nella grazia di Dio; egli stesso, infatti, afferma che questo non è dato a tutti (Mt. 19.2); non sta a noi perciò fare ipotesi su quel dono. Ne facciano uso quelli che lo hanno. E quando si sentono molestati dai pungoli della carne ricorrano all'aiuto di colui che può assisterli per resistere. Se così facendo non ottengono nulla, non respingano il rimedio che viene loro offerto; tutti coloro infatti a cui la continenza è negata sono evidentemente chiamati da Dio allo stato matrimoniale. E definisco continenza non solo mantenere il corpo puro e netto dall'impudicizia ma il custodire l'anima in stato di incorrotta castità. San Paolo non proibisce solo l'impudicizia esteriore ma altresì l'ardore interiore della carne (1 Co. 7.9). La prassi di impegnarsi con un voto alla continenza, affermano, è stata seguita da sempre, da coloro che volevano consacrarsi a Dio in modo totale. Certo si tratta di una prassi antica, non penso però che l'atteggiamento degli antichi stessi sia stato a tal punto immune da vizio da doversi accogliere quale norma e metro di vita. Anzi questo eccessivo rigorismo che impedisce a chi abbia fatto un voto di mutare atteggiamento si è fatto strada solo a poco a poco, Cl. Passare del tempo, come risulta dalle parole di san Cipriano quando si esprime in questi termini: "Le vergini si sono date liberamente a Cristo? Perseverino in castità, senza finzione, mantenendosi così forti e costanti da ricevere il premio della loro verginità. Non vogliono o non si sentono in grado di perseverare? Meglio per loro sposarsi anziché essere precipitate nel fuoco dalla loro concupiscenza ". Se oggi uno volesse così porre limiti al voto di verginità che insulti gli toccherebbe sentire! Non sarebbe forse fatto a pezzi? È dunque evidente che siamo molto lontani dal tempo antico visto che non solo il Papa e la sua banda non ammettono eccezione o concessione alcuna, qualora uno si trovi nell'impossibilità di mantenere i suoi voti, ma non si vergognano di affermare che se uno si sposa, per porre rimedio alla intemperanza della carne, pecca più gravemente che se insozzasse il suo corpo e l'anima sua con impudicizia. 18. Hanno però un altro argomento con cui cercano di dimostrare che questo tipo di voto fu già in uso nell'età apostolica. San Paolo infatti afferma che quando una vedova, accolta in un ministero pubblico della Chiesa, si sposi, spezza la sua fede primitiva o la sua promessa (1 Ti. 5.2). Che le vedove assunte per compiere un servizio nella Chiesa si sottoponessero anche all'obbligo di non contrarre matrimonio è noto; non già perché attribuissero a questa astensione un carattere di santità, come in seguito è accaduto, ma perché non sarebbero state in grado di assolvere il loro incarico se non godendo di assoluta libertà e non essendo vincolate dal matrimonio. Perciò, quando avessero fatto questa promessa alla Chiesa, e manifestassero l'intenzione di sposarsi, rinunciavano alla vocazione di Dio. Niente di strano dunque nell'affermazione dell'apostolo secondo cui, desiderando sposarsi, esse si ribellano a Cristo. Ampliando il discorso egli aggiunge che non solo non mantenevano la promessa fatta alla Chiesa, ma violavano la prima promessa fatta al battesimo. In questa parola dell'apostolo c'è il pensiero che ognuno deve servire Dio nella condizione a cui è stato chiamato; a meno che si preferisca interpretare le sue parole nel senso che quelle vedove, avendo perso ogni senso di vergogna non si curavano più del loro pudore e si abbandonavano ad ogni dissolutezza al punto da non assomigliare più in nulla a donne cristiane; questa ultima esegesi mi pare pienamente soddisfacente. Ai nostri avversari risponderemo perciò che le vedove accolte n quel tempo al servizio della Chiesa si impegnavano a non sposarsi; sposandosi si trovavano nella condizione definita da san Paolo: smarrito cioè ogni senso di pudore si abbandonavano ad una licenza non confacente a donna cristiana, in tal modo esse commettevano peccato non solo in quanto rinunciavano alla promessa fatta alla Chiesa, ma in quanto abbandonavano l'atteggiamento di una donna cristiana. Contesto però anzitutto che nel formulare questo voto, di vivere in continenza, vi fosse da parte delle vedove altra motivazione che quella di una incompatibilità tra il matrimonio e l'ufficio a cui si presentavano. Nego anzi che in questo gesto vi fosse altra preoccupazione che quella di assolvere un incarico della loro condizione. In secondo luogo contesto che quel voto avesse un carattere tale che fosse preferibile ardere di desiderio e cadere in atti immorali piuttosto che sposarsi. In terzo luogo osservo che san Paolo, vietando di accogliere vedove che non abbiano sessant'anni, fissa un'età in cui, comunemente, ci si può considerare fuori del pericolo di incontinenza; egli specifica, anzi, che non si debbono accettare quelle che abbiano contratto più di un matrimonio dando così prova della loro continenza. Rifiutiamo dunque il voto di celibato unicamente per queste due motivazioni: lo si considera erroneamente servizio gradito a Dio, e inoltre è formulato temerariamente da gente che non ha la capacità di assolverlo. 19. Mi domando, anzi, che relazione esista fra questo testo di san Paolo e i frati. Le vedove infatti venivano elette al servizio della Chiesa non per rallegrare Dio con canti e boffonchiamenti, oziando tutto il tempo, ma per il servizio dei poveri effettuato nel nome della Chiesa tutta e per impegnarsi a fondo nelle opere della carità. La volontà del vivere fuori dello stato matrimoniale non nasceva dall'idea che l'astenersi dal matrimonio facesse piacere a Dio ma semplicemente in vista di essere più libere nell'assolvere il proprio compito. Non pronunciavano infine questo voto nella prima gioventù o nel fiore degli anni per sperimentare in seguito, quando ormai era troppo tardi, che si erano cacciate in una situazione impossibile, ma questo voto era pronunciato quando, verosimilmente, si trovavano già fuori del pericolo dell'incontinenza. Del resto, anche a non volersi soffermare su tutti gli altri punti, questo solo basta: il fatto che non fosse lecito accogliere al voto di castità una donna di età inferiore ai sessant'anni, in quanto l'Apostolo l'aveva proibito ordinando ai più giovani di sposarsi. Non si giustifica, perciò, in nessun modo il fatto che, in seguito, il termine per la formulazione di questo voto si sia spostato a 48 anni, poi a 40 e infine a 30. Ancor meno tollerabile è la prassi di indurre con l'inganno e subdole manovre povere ragazze prima che abbiano avuto modo di conoscere e di sperimentare le proprie forze, a mettersi al collo questo sciagurato legame; quando non le si costringe con la forza! Non starò a trattare dettagliatamente gli altri due voti pronunciati da frati e monache cioè i voti di povertà e di obbedienza. Dirò solo questo: oltre al fatto che sono oggetto di infinite superstizioni, a come stanno oggi le cose, mi sembrano fatti per prendere in giro Dio e gli uomini. Non voglio essere tacciato di rigorista fanatico esaminando con cura, nei dettagli, tutte le questioni, mi accontenterò perciò della confutazione generale fatta più sopra. 20. Penso avere sufficientemente illustrato quali siano i voti legittimi e graditi a Dio; si incontrano però a volte coscienze tormentate le quali, pur pentite di aver formulato un voto ed essendo conscie del fatto che esso deve ritenersi annullato, permangono non di meno nel dubbio che in fondo siano tenute ad osservarlo e questo crea per loro un grave problema in quanto, da un lato temono di venir meno ad una promessa fatta a Dio e dall'altro temono di peccare in modo più grave ancora mantenendo questo voto; è necessario dunque, a questo punto, venir loro in aiuto per liberarle da queste incertezze. Per troncare in breve ogni scrupolo affermo che ogni voto illecito e formulato contro il diritto e la ragione, essendo privo di valore davanti a Dio, si deve considerare come non fatto. Se infatti nei contratti umani si considera vincolante unicamente ciò che è considerato tale da parte di colui con cui si fa il contratto, è assurdo e irragionevole pretendere che siamo impegnati ad osservare ciò che Dio non ci chiede; anzi poiché le nostre opere si devono considerare buone soltanto nella misura in cui piacciono a Dio, e ricevono dalla coscienza dell'uomo la testimonianza che Dio le accetta, si deve considerare valida la parola: tutto ciò che si compie senza fede è peccato (Ro 14.23). Con questo san Paolo intende affermare che ogni iniziativa presa con dubbia coscienza è viziata in quanto la fede soltanto costituisce la radice di ogni buona opera: la fede, dice, mediante la quale siamo certi che esse sono gradite a Dio. Non essendo lecito al credente intraprendere nulla se non con questa certezza, si potrà impedire che uno rinunci al voto fatto per ignoranza quando abbia preso coscienza del suo errore? Infatti i voti pronunciati sconsideratamente, lungi dal costituire vincoli assoluti devono essere annullati; c'è anzi di più: non solo Dio non ne fa caso alcuno, ma, come è stato più sopra dimostrato, essi gli risultano odiosi. È inutile dunque trattare più ampiamente questo problema. Sufficiente a tranquillizzare ogni coscienza credente, liberandola da ogni scrupolo, mi pare essere il seguente argomento: tutte le opere che non procedono da fonte pura e non hanno un fine valido sono condannate da Dio e con una condanna che concerne sia il voler perseverare in esse, quanto il volerne iniziare. La conclusione risulta dunque essere questa, tutti i voti che risultano esser frutto di errore o di superstizione sono privi di valore dinanzi a Dio e debbono essere abbandonati. 21. Questa affermazione permette altresì di dare una risposta valida ai malvagi che calunniano coloro che hanno abbandonato il monachesimo scegliendo di vivere in una onesta condizione di vita. Muovono loro il rimprovero di avere rinnegato le promesse fatte ed essere spergiuri avendo, come dicono, infranto il vincolo indissolubile che li impegnava nei riguardi di Dio e della sua Chiesa. Nego per conto mio l'esistenza di qualsiasi legame quando Dio abbia sciolto o annullato quello che l'uomo aveva stabilito. In secondo luogo, pur ammettendo che tali vincoli siano esistiti durante il tempo dell'errore e dell'ignoranza di Dio, affermo che essi sono stati per grazia di Dio liberati da questi vincoli quando Dio li ha illuminati e ha fatto loro conoscere la sua verità. Se infatti la morte del nostro Signore Gesù ha avuto il potere di liberarci dalla maledizione della legge di Dio, in cui eravamo vincolati, non avrà essa tanto più forza per liberarci e scioglierci da vincoli umani che altro non sono se non legami di cui Satana si serve per trarci in inganno? Non c'è dubbio, pertanto, che chiunque abbia ricevuto la grazia di Dio sia sciolto da tutti quei legami in cui la superstizione lo imprigionava. Coloro che sono stati frati hanno ancora un altro argomento riguardo il matrimonio (qualora non abbiano avuto la forza di contenersi ) e altrettanto dicasi dei monaci. Se infatti un voto impossibile diventa una rovina e una perdizione per le anime che Dio intende salvare, non perdere, lo si deve abbandonare. Che il voto di continenza risulti impossibile da osservarsi, da parte di coloro che non hanno ricevuto la grazia speciale da Dio, lo abbiamo dimostrato più sopra e l'esperienza lo dimostra, quand'anche non lo dicessimo noi. Le sozzure che riempiono i conventi sono note a tutti, e quei pochi nei quali sembra esserci un po' più di moralità non sono per questo più casti, ma sono tali semplicemente perché l'impudicizia è nascosta. In questo modo Dio compie la sua vendetta mediante orribili punizioni quando gli uomini nella loro audacia, misconoscendo la propria infermità, pretendono giungere, contro natura, a ciò che è loro negato e pensano, disprezzando i rimedi che Dio ci ha dati, poter sormontare il vizio dell'incontinenza con la propria ostinazione e la propria testardaggine. Come si deve infatti definire questo atteggiamento se non ostinazione? Dio fa capire ad uno che abbisogna del matrimonio e glielo offre come rimedio, e quello non solo lo disprezza ma si impegna con giuramento a rifiutarlo!
CAPITOLO 14 DEI SACRAMENTI 1. Esiste, a nostra disposizione, un altro ausilio a sostegno e conferma della fede, simile e collaterale alla predicazione dell'evangelo: i sacramenti; riguardo ai quali ci è sommamente utile ricevere chiari insegnamenti per conoscere quale scopo abbia presieduto alla loro istituzione e quale ne sia l'uso Occorre, in primo luogo, sapere che cosa sia un sacramento. Semplice e rispondente mi pare essere la definizione seguente: sacramento e un segno esteriore mediante cui Dio suggella nella coscienza nostra le promesse della sua volontà di bene nei nostri riguardi, per fortificare la debolezza della nostra fede, e mediante il quale, dal canto nostro, rendiamo testimonianza, sia dinanzi a lui e agli angeli, sia davanti agli uomini, che lo consideriamo nostro Dio. In modo più sintetico ancora si potrà definire un sacramento affermando che si tratta di una testimonianza della grazia di Dio nei nostri riguardi, confermata da segni esteriori, unita alla dichiarazione da parte nostra dell'onore che gli dobbiamo Si scelga quale delle due definizioni suddette si preferisce, essa concorderà nel significato con quanto sant'Agostino afferma dicendo che il sacramento è il segno visibile di una realtà sacra, oppure una forma visibile della grazia invisibile. Ho cercato di dare una comprensione più chiara ricorrendo ad una formulazione più esplicita di quanto sant'Agostino aveva detto in modo più oscuro a causa della concisione. 2. Risulta facile intendere per quale motivo gli antichi Padri abbiano adoperato questo termine, in questo preciso significato. Ovunque infatti la traduzione del Nuovo Testamento ha voluto esprimere in latino il termine greco "mistero "ha adoperato il termine "sacramento "; come nell'epistola agli Efesini: "Cl. Farci conoscere il sacramento della sua volontà ", parimenti: "se avete udito di quale grazia Dio vi abbia fatto dispensatore per voi; come per rivelazione mi sia stato fatto conoscere il sacramento " (Ef. 1.9; 3.2-3). Parimenti ai Colossesi: "Il sacramento che è stato occulto da tutti i secoli ma che ora è stato manifestato ai santi, ai quali Iddio ha voluto far conoscere qual sia la ricchezza di questo sacramento " (Cl. 1.26-27). Parimenti a Timoteo: "Grande è il sacramento della pietà: che Dio è stato manifestato in carne " (1 Ti. 3.16). Il traduttore ha dunque adoperato il termine nel senso di cosa sacra, divina, segreta. In questo stesso significato è stata adoperata dagli antichi dottori della Chiesa. È notorio che il battesimo e la Cena sono detti "misteri "in greco cosicché non v'è dubbio che i due termini: sacramento e mistero, abbiano un medesimo significato. Da qui l'abitudine di ricorrere a questo termine per indicare i segni e le cerimonie che contenevano figura di realtà spirituale. È quanto attesta anche sant'Agostino, in alcuni testi, quando afferma: "lungo sarebbe esaminare la diversità dei segni che si dicono sacramenti, quando si riferiscono alle realtà celesti". 3. Da questo risulta che il sacramento non esiste se non viene preceduto dalla Parola di Dio, anzi si aggiunge ad essa quasi appendice per significarla, attestarla, certificarla a noi in modo più pieno, come nostro Signore constata essere necessario, a causa dell'ignoranza dei nostri sensi, della lentezza e debolezza della nostra carne. Questo non perché la Parola sia insufficientemente garantita di per se o possa ricevere conferma (poiché la verità di Dio è di per se sola così certa e sicura che non può ricevere conferma adeguata se non da se stessa ) ma è per confermare noi in essa. Poiché sì piccola e debole e rachitica è la nostra fede che può essere all'improvviso scossa, agitata e vacillante, qualora non sia puntellata da ogni lato e sostenuta in tutti i modi. Ed essendo noi così ignoranti e radicati nelle realtà terrestri, e carnali da non essere in grado da intendere né di concepire alcunché di spirituale, il Signore misericordioso si adegua in questo alla ignoranza della nostra natura, conducendoci a se per mezzo di questi elementi terreni, e ci fa contemplare anche nella carne, come in uno specchio, i suoi doni spirituali. Non fossimo così legati ai sensi e, come dice Crisostomo, avvolti dal nostro corpo, queste realtà ci sarebbero date senza forma corporea; ma poiché abitiamo nei nostri corpi, Dio ci porge le realtà spirituali sotto forma di segni visibili; non perché le cose offerteci quali sacramenti abbiano, in virtù della propria natura, tale forza e tale qualità, ma perché sono segnate da Dio, per ricevere questo significato. 4. È quanto si afferma comunemente dicendo che il sacramento consiste nella Parola e nel segno esteriore. Cl. Termine Parola non deve intendersi un mormorio privo di senso o di intelligenza, un biascicare parole come incantesimi, quasi si compisse in tal modo la consacrazione; occorre invece intendere la parola che ci viene predicata, per illustrarci e renderci comprensibile il segno visibile. Quanto avviene sotto la tirannia del Papa risulta essere pertanto una grave profanazione dei sacramenti. Pensano infatti che il prete faccia la consacrazione mormorando suoni senza senso mentre il popolino se ne sta a bocca aperta e pieno di meraviglia. Anzi fanno di questo un mistero affinché il popolo non intenda ciò che si dice: perciò hanno redatto in latino tutto il testo della loro consacrazione. In seguito la superstizione è stata spinta innanzi sino al punto da considerare valida la consacrazione solo se effettuata in mormorii inintelligibili, in modo che non se ne oda neppure il suono. Ben diversamente si esprime sant'Agostino riguardo alle parole sacramentali: "La Parola "dice "sia congiunta al segno terreno e questi diventerà sacramento. Donde viene all'acqua tale potere da lavare il cuore toccando il corpo se non dalla Parola? Non in quanto è pronunciata ma in quanto viene creduta. Due cose diverse sono il suono che passa e la potenza che rimane. La parola di fede viene annunciata, dice l'apostolo (Ro 10.8). Perciò vien detto negli Atti che Dio purifica i cuori mediante la fede (At. 15.9); e san Pietro che il battesimo ci salva, non cancellando le impurità della carne, ma in quanto abbiamo coscienza di rispondere a Dio (1 Pi. 3.21). Predichiamo dunque la parola della fede, mediante la quale il battesimo è consacrato a diventar purificazione ". Queste sono parole di sant'Agostino. Vediamo che egli richiede nei sacramenti predicazione, da cui la fede deriva. Non bisogna a questo punto ricorrere a più lunghe dimostrazioni, visto che è chiaro ciò che Gesù Cristo ha fatto, ciò che ha ordinato di fare, ciò che gli apostoli hanno eseguito e la Chiesa antica predicato. Anzi sappiamo che dalla fondazione del mondo, quando Dio ha dato ai Padri qualche segno, lo ha congiunto alla dottrina con un vincolo indissolubile, poiché senza questa lo sguardo nostro non può che lasciare stupiti i nostri sensi. Per parole sacramentali si deve intendere la promessa che deve essere predicata in modo forte e chiaro dal ministro per condurre il popolo ad intendere il significato del segno . 5. Non sono da prendersi in considerazione coloro che intervengono, con ragionamento specioso, in questi termini; ovvero sappiamo che la parola di Dio, che precede il sacramento, è autentica volontà di Dio, ovvero non lo sappiamo. A chi ne è certo il sacramento, che viene appresso, non reca nulla di nuovo. A chi non lo sa, il sacramento non sarà in grado di insegnarlo, in quanto tutta la sua efficacia e il suo significato consistono appunto nella Parola soltanto. Rispondiamo brevemente che neppure i sigilli apposti alle lettere o ai documenti pubblici, non sono nulla in se stessi; non avrebbero alcuna utilità, e si apporrebbero inutilmente se la pergamena dovesse risultare non scritta. Nondimeno quando sigillano uno scritto non mancano di dargli conferma, validità e autenticità. Né possono replicare che questo paragone è stato da noi inventato di recente per nostro piacere; san Paolo infatti l'ha adoperato definendo il sacramento della circoncisione col termine greco sfragis cioè "sigillo " (Ro 4.2). In questo testo egli dimostra che la circoncisione non è stata per Abramo un segno della propria giustizia, ma un sigillo del Patto avendo fiducia nel quale egli era stato giustificato. Perché mai dovrebbe urtarci il fatto che la promessa sia suggellata dal sacramento, quando risulta chiaro che nelle promesse, una è confermata dall'altro? Infatti quella che è più evidente è altresì più idonea a confermare la fede. Ora i sacramenti ci recano promesse evidenti e hanno, oltre la Parola, il fatto peculiare di raffigurare queste promesse visibilmente. Non ci deve turbare la diversità riscontrabile tra i sacramenti e sigilli di lettere patenti, secondo cui, essendo gli uni e gli altri realtà carnali, appartenenti a questo mondo, i sacramenti non possono aver valore di sigillo delle promesse di Dio, che sono spirituali; in modo analogo ai suggelli adoperati dai prìncipi per i loro scritti, che riguardano problemi contingenti e caduchi; poiché il credente, vedendo i sacramenti, non si ferma all'aspetto esteriore ma si innalza a contemplare gli alti misteri che vi sono nascosti, secondo l'accordo della figura carnale con la realtà spirituale. 6. E poiché nostro Signore definisce le sue promesse patti e accordi (Ge 6.18; 9.9; 17.2) e i sacramenti segni e attestati di contratti è lecito trarre una similitudine dai patti e accordi stipulati fra gli uomini. Gli antichi avevano l'abitudine di suggellare la firma di un contratto con l'uccisione di una scrofa. Che avrebbe potuto fare quella scrofa morta se i termini del contratto non fossero stati insieme fissati, anzi precedentemente stipulati? Si uccidono spesso scrofe e senza alcuna allusione ad un mistero. Parimenti che significato può avere una stretta di mano, visto che molto spesso alcuni toccano la mano dei loro nemici con l'intenzione di recare loro danno? E tuttavia, quando siano state premesse parole di amicizia e di intesa, esse ricevono conferma da questo gesto, quantunque già in precedenza siano state pronunciate e dichiarate pubblicamente. I sacramenti hanno dunque, per noi, il significato di gesti che debbono accrescere la nostra fiducia nella Parola e nelle promesse di Dio. Ci sono presentati sotto forma di oggetti carnali, in quanto siano carnali, affinché ci possano educare secondo le capacità della nostra ignoranza e, quali pedagoghi, condurci e dirigerci come bambini. Per questa ragione il sacramento è detto da sant'Agostino: parola visibile, in quanto ci raffigura plasticamente le promesse di Dio e ce le presenta in forma visibile. Possiamo ricorrere ad altre similitudini per dare una definizione completa dei sacramenti, dicendoli, ad esempio, "pilastri della nostra fede "; come un edificio infatti che poggia sulle sue fondamenta è reso più stabile e sicuro da pilastri aggiuntivi, così la nostra fede si fonda sulla parola di Dio e su di essa riposa come sulle sue fondamenta, ma quando i sacramenti vengono aggiunti essi fungono da pilastri su cui appoggiarsi e riposare più stabilmente. Possiamo altresì definirli "specchio "in cui contemplare le ricchezze della grazia che Dio ci dona. Mediante questi sacramenti come è già stato detto Dio si manifesta a noi nella misura in cui è dato al nostro ottuso intendimento conoscerlo, e attesta la sua buona volontà nei nostri riguardi, in modo più esplicito che nella parola. 7. Infondata risulta altresì l'argomentazione di coloro che sostengono i sacramenti non essere testimonianze della grazia di Dio, in quanto spesso ricevuti da malvagi; i quali, nel sacramento, non avvertono affatto l'amore di Dio in modo più chiaro ma anzi ne ricavano una condanna sempre maggiore. Analogamente si potrebbe infatti dire che neppure l'Evangelo è testimonianza della grazia divina in quanto esso è udito da molti che lo disprezzano e Gesù Cristo stesso non sarebbe ciò che è perché, pur essendo stato visto e udito da molti, è stato accolto da pochi. Considerazioni analoghe possono farsi per le lettere patenti dei prìncipi. Gran parte del popolo, pur sapendo che il sigillo appostovi è autentico e risulta essere quello del principe, non si fa scrupolo di disprezzarlo. Gli uni lasciandolo da parte, quasi si trattasse di una cosa priva di significato, gli altri giungendo sino a rifiutarlo: cosicché non possiamo che considerare valida la similitudine posta sopra. Risulta evidente dunque che nostro Signore, nella sua parola e nei suoi sacramenti, presenta a tutti noi la sua misericordia e la grazia del suo buon volere ma questa viene però ricevuta solo da coloro che accolgono e la parola e i sacramenti con fede certa; così come nostro Signore Gesù Cristo è stato a tutti offerto e presentato dal Padre per la salvezza, ma non da tutti è stato riconosciuto e accolto. Sant'Agostino, in un suo testo, volendo alludere a questo fatto ha detto che nel sacramento la forza della Parola non deriva dall'essere questa pronunciata, ma dall'essere creduta e accolta. Perciò san Paolo valutando il significato dei sacramenti fra i credenti vi include la comunione di Gesù Cristo e afferma: "voi tutti che siete stati battezzati vi siete rivestiti di Cristo " (Ga 3.27). Parimenti: "siamo un corpo unico e uno spirito in quanto siamo stati battezzati in Cristo " (1 Co. 12.12-13). Al contrario, quando condanna il perverso e cattivo uso dei sacramenti, non attribuisce loro alcun valore più di quanto si possa attribuire a vane e inutili figure; egli intende così affermare che, quantunque i malvagi e gli ipocriti annullino il potere e l'effetto della grazia di Dio nei sacramenti o la contrastino, questo non impedisce tuttavia che essi rechino, ogni qual volta piace a Dio, una testimonianza autentica della comunione con Gesù Cristo e lo Spirito Santo offra ciò che essi promettono. Concludendo, affermiamo che giustamente i sacramenti sono detti testimonianze della grazia divina e suggelli della sua benevolenza, in quanto garantendola a noi recano consolazione, nutrimento, conferma e accrescimento alla nostra fede. Prive di fondamento e assolutamente frivole risultano le motivazioni addotte per contestare questa verità. Gli uni affermano che la nostra fede, quando risulti autentica, non è suscettibile di miglioramento, in quanto non potrebbe dirsi fede se non fosse fondata e radicata nella misericordia divina in modo così stabile da non poterne essere smossa o distolta. Sarebbe stato più conveniente per costoro pregare con gli apostoli che il Signore aumentasse loro la fede (Lu 17.5) , anziché vantarsi di possedere la fede in misura tale che mai si ebbe né si avrà in questa vita. Che fede, a loro avviso, era mai in quell'uomo che disse: "Credo, Signore, sovvieni alla mia incredulità " (Mr. 9.24) ? Pure essa risulta valida in questa forma embrionale ed era suscettibile di miglioramento, con una diminuzione della incredulità. La loro coscienza rappresenta però la migliore refutazione dei loro argomenti. Nella misura in cui si riconoscono peccatori (né possono negare di esserlo, lo vogliano o no ) necessariamente dovranno attribuire la causa all'imperfezione della loro fede. 8. Replicano però: Filippo disse all'eunuco che gli era lecito ricevere il battesimo se credeva con tutto il cuore (At. 8.37); che significato può avere in questo caso la conferma del battesimo quando già la fede occupa e riempie interamente il cuore? Prima di rispondere domanderò dal canto mio: non sentono forse gran parte del cuore loro vuota e priva di fede? Non avvertono forse in se stessi ogni giorno un qualche accrescimento di fede? Un pagano si gloriava di invecchiare imparando . Ben più miserabili saremmo noi cristiani se invecchiassimo senza alcun profitto, noi, la cui fede deve essere costituita da un susseguirsi di età attraverso le quali procedere innanzi sino a raggiungere la statura di uomo perfetto (Ef. 4.13). "Credere di tutto cuore ", in questo contesto, non significa essere radicati in Cristo in modo perfetto, ma solo accoglierlo con buona volontà e zelo non finto, non significa essere sazi di lui ma averne fame e sete con brama ardente e desiderarlo. Trattasi di una espressione frequente nella Scrittura; "tutto il cuore "ricorre laddove si vuole alludere ad un'azione fatta con impegno e senza finzione. Tale è il significato di testi quali: "Io ti ho cercato con tutto il mio cuore " (Sl. 119.10) : "Ti loderò con tutto il cuore ", (Sl. 111.1; 138.1) , e altri simili. Così, all'opposto, denunciando ipocriti ed ingannatori, ha l'abitudine di dire che hanno "il cuore doppio ". Replicano ancora che se la fede può essere accresciuta dai sacramenti, risulta inutile il dono dello Spirito Santo, la cui opera e la cui potenza consistono nell'iniziare, confermare e perfezionare la fede. Riconosco che la fede è opera peculiare e assoluta dello Spirito Santo illuminati dal quale riconosciamo Dio e i grandi tesori della sua bontà e senza la luce del quale il nostro spirito rimane accecato al punto da non essere in grado di vedere, privo di sensibilità al punto da non gustare alcunché delle realtà spirituali. All'unica prospettiva in cui la grazia di Dio è da costoro presa in considerazione, ne contrapponiamo tre. Poiché affermiamo che, in primo luogo, nostro Signore ci ammaestra mediante la sua parola. In secondo luogo ci conferma mediante i suoi sacramenti. Infine mediante la luce del suo Spirito Santo illumina il nostro intendimento e apre nei nostri cuori una via, sia alla Parola che ai sacramenti i quali altrimenti colpirebbero soltanto le nostre orecchie e i nostri occhi senza penetrare nell'intimo nostro e toccarlo. 9. Voglio però risulti chiaro ai lettori che, attribuendo ai sacramenti il compito di confermare e accrescere la fede, non intendo affermare che abbiano in se stessi questa facoltà ma la possiedono unicamente in quanto sono stati istituiti da Dio a tale scopo. Del resto esplicano la loro efficacia quando il maestro interiore delle anime, lo Spirito, vi aggiunge la sua potenza, la sola in grado di raggiungere i cuori e toccare i sentimenti per dare accesso ai sacramenti. In assenza dello Spirito non sono in grado di recare allo spirito più di quanto dia la luce del sole ad un cieco e una voce alle orecchie di un sordo. Stabilisco pertanto questa differenza tra lo Spirito e i sacramenti: riconosco che la potenza risiede nel primo non attribuendo ai sacramenti se non la funzione di strumenti di cui il Signore si serve nei nostri confronti e strumenti infatti che risulterebbero assolutamente inutili senza l'opera dello Spirito mentre risultano pienamente efficaci quando lo Spirito opera in essi . È dunque chiaro in che modo la fede, secondo il mio pensiero, riceve conferma dai sacramenti: nello stesso modo che gli occhi vedono e le orecchie odono in virtù della luce solare e del suono di una voce. Certo la luce non sarebbe in grado di fare nulla negli occhi se questi non possedessero la facoltà visiva, né la voce in orecchie per natura prive di udito. Se è dunque vero (e così deve essere ritenuto fra noi ) che l'opera dello Spirito Santo nel generare, mantenere, stabilire la fede è simile alla vista dell'occhio e l'udito dell'orecchio, ne derivano chiaramente le due affermazioni: i sacramenti non hanno alcuna efficacia senza la potenza dello Spirito e nondimeno nei cuori da esso ammaestrati essi sono in grado di sostenere e accrescere la fede. L'unica differenza consiste in questo: i nostri occhi e le nostre orecchie possiedono in modo naturale la facoltà di vedere e di udire; ma lo Spirito Santo ha nelle anime nostre la funzione di una grazia particolare oltre la natura. 10. Questa considerazione confuta altresì le obiezioni che alcuni sono soliti fare: attribuendo l'accrescimento e la conferma della fede a realtà create recheremmo offesa allo Spirito di Dio il quale deve essere riconosciuto unico artefice della fede. Non intendiamo infatti sottrargli, così facendo, la lode che gli è dovuta in quanto i termini "confermare "e "accrescere "non significano se non apprestare lo spirito nostro ad accogliere la convalida contenuta nei sacramenti. Se questo risultasse espresso in termini ancora troppo oscuri, ecco una similitudine atta a chiarire il problema: Dovendosi convincere qualcuno a compiere una determinata azione, si esaminano anzitutto gli argomenti atti ad influenzarlo in quel senso, quasi a costringerlo all'obbedienza, così facendo non si è però ancora ottenuto nulla se la persona in questione non possiede una intelligenza perspicace e acuta, in grado di valutare il peso delle argomentazioni, e altresì un temperamento docile e pronto ad obbedire ai buoni insegnamenti, e se infine non è convinto della lealtà e della serietà di colui che gli si rivolge, cosicché il suo giudizio sia già parzialmente incline ad accogliere quanto gli viene suggerito. Si trovano infatti zucconi che non si lasciano convincere da nessun argomento. Quando è sospetta l'onestà delle intenzioni o l'autorità è discutibile, non si ottiene alcun risultato anche con coloro che sono facili da convincere; si trovino al contrario riunite tutte queste condizioni ed ecco il consiglio che si porge, liberamente accolto, laddove sarebbe stato invece oggetto di scherno. L'azione dello Spirito Santo in noi è di tale sorta, affinché la Parola non colpisca invano le nostre orecchie e i sacramenti non siano presentati ai nostri occhi senza risultato. Egli dichiara che Dio parla quivi e tocca la durezza del cuore nostro predisponendolo all'obbedienza dovuta alla Parola. Infine trasmette all'intendimento spirituale sia le parole che i sacramenti. Risulta dunque indubbio che la funzione della Parola e dei sacramenti sia quella di confermare la nostra fede presentandoci in modo visibile la volontà misericordiosa del Padre nostro celeste, comprensione in cui sta il fondamento della nostra fede e la garanzia della sua forza. Lo Spirito conferma la fede in quanto imprime nei nostri cuori questa certezza dandole forza. Il Padre degli astri tuttavia, ha la possibilità di illuminare le anime nostre mediante i sacramenti, così come illumina gli occhi del corpo con i raggi del sole. 11. Il Signore Gesù ci dimostra che questa proprietà risiede nella parola esteriore, quando la definisce "semenza " (Mt. 13.4; Lu 8.15). Come infatti la semenza, quando cade in un luogo deserto o non arato, si perde senza produrre frutto, e fruttifica invece abbondantemente quando è seminata in un campo ben arato, così la parola di Dio rimane sterile se cade in una mente dura e ribelle, come semenza nella ghiaia del mare; diventa invece feconda e fruttuosa in un'anima ben disposta dall'opera dello Spirito Santo. Se risulta dunque pertinente il parallelismo tra la semenza e la Parola, perché non dire che la fede trae la sua origine, il suo accrescimento e il suo perfezionamento dalla Parola come affermiamo che il grano nasce, cresce e giunge a maturità dal seme? San Paolo esprime molto chiaramente entrambi i concetti in parecchie occasioni. Ricordando ai Corinzi con quanta efficacia Dio si è servito della sua predicazione (1 Co. 2.4) si gloria del fatto che il suo ministero è stato spirituale, quasi la potenza dello Spirito Santo fosse stata unita alla sua predicazione per illuminare la loro intelligenza e toccare i loro cuori. In un altro testo però, volendo ricordare loro la portata della parola di Dio predicata da un uomo, paragona i predicatori a contadini che dopo aver lavorato ed essersi affaticati a coltivare la terra non possono che aspettare. Se Dio non comunicasse la sua forza dall'alto che senso e che risultato avrebbe l'aver coltivato il campo, seminato, annaffiato? Egli conclude pertanto che chi pianta non è nulla né chi annaffia, ma il merito spetta a Dio solo che fa crescere (1 Co. 3.6-9). Gli apostoli dunque predicano con efficacia di Spirito Santo in quanto Dio si serve di loro come di strumenti; occorre però tenere sempre presente la distinzione tra ciò che l'uomo può compiere da se e ciò che spetta a Dio solo. 12. L'affermazione che i sacramenti sono garanzia della nostra fede è convalidata dal fatto che, quando Dio vuole annullare la certezza delle realtà promesse nei sacramenti, elimina i sacramenti stessi. Allorquando priva Adamo del dono dell'immortalità dice: Adamo non abbia a prendere il frutto dell'albero della vita per vivere eternamente (Ge 3.22). Che significa questo? Poteva quel fatto dare o restituire ad Adamo l'incorruttibilità che già aveva perduto? Affatto. Questa affermazione equivale a dire: gli sia tolto il segno della mia promessa, che potrebbe dargli qualche speranza di immortalità, affinché non nutra più vane speranze. Per lo stesso motivo quando l'Apostolo esorta gli Efesini a ricordare il tempo in cui erano estranei alle promesse, esclusi dalla cittadinanza di Israele, senza Dio, senza Cristo (Ef. 2.12) , afferma che non erano partecipi della circoncisione intendendo dire con ciò che erano esclusi dalla promessa poiché non ne avevano ricevuto il segno. Si muove un'altra obiezione ancora: La gloria di Dio, così facendo, viene sminuita in quanto è trasferita alle realtà create cui si attribuisce eccessivo potere. La risposta è facile: non conferiamo affatto potere alle realtà create, affermiamo solo che Dio fa uso dei mezzi e degli strumenti che ritiene opportuni affinché ogni cosa serva alla sua gloria poiché di ogni cosa è Signore e padrone. Così come nutre i nostri corpi Cl. Pane e altri cibi, illumina il mondo Cl. Sole e lo riscalda Cl. Fuoco e nondimeno né il pane, né il sole, né il fuoco sono nulla in se ma solo strumenti in cui dispensa le sue benedizioni, parimenti nutre e sazia spiritualmente la fede mediante i sacramenti la cui funzione è unicamente quella di raffigurare innanzi ai nostri occhi le promesse sue ed esserne pegno. Non dobbiamo porre la nostra fiducia in alcuna realtà creata, dataci in uso dalla volontà divina e mediante le quali egli ci elargisce i suoi doni, né dobbiamo attribuire loro gloria, quasi fossero cause del nostro bene, analogamente non deve la nostra fede arrestarsi ai sacramenti né deve essere trasferita su di loro la gloria di Dio; ma tralasciando e dimenticando ogni realtà terrena la nostra fede e il nostro impegno debbono innalzarsi e rivolgersi a colui che è autore dei sacramenti e di ogni bene. 13. Deboli assai risultano infine le argomentazioni che ricavano dal significato letterale del termine "sacramento "per mascherare i loro errori. Costoro affermano infatti che, quantunque il termine abbia presso gli autori latini parecchi significati, uno solo può riferirsi in modo conveniente al segno; quando cioè indichi il giuramento solenne che un soldato fa al suo principe o al suo capitano quando viene arruolato e accolto nell'esercito. Come i nuovi soldati impegnano, con quell'atto, la propria vita al servizio del principe o del capitano e, dichiarandosi membri del suo esercito, gli offrono la propria vita, così noi pure confessiamo mediante i nostri segni che Gesù Cristo è nostro capitano e dichiariamo di combattere sotto la sua bandiera . Aggiungono esempi per rendere più chiaro ed evidente il loro pensiero. Come in guerra si distinguono Francesi e Inglesi in quanto gli uni portano la croce bianca e gli altri la rossa, come i Romani si distinguevano dai Greci nell'acconciatura dei vestiti, e in modo ancora più evidente, si distinguevano in Roma le diverse classi sociali in base a segni caratteristici: i senatori dal vestito di porpora e i sandali, i cavalieri dall'anello, così possediamo dei segni peculiari con cui differenziarci dagli infedeli e dai non cristiani. Risulta però, da quanto detto più sopra che gli antichi, dando ai nostri segni il nome di "sacramenti ", non hanno preso in considerazione i significati che precedentemente il termine aveva presso gli autori latini, ma ne hanno per loro uso creato uno nuovo, nell'indicare semplicemente un segno sacro. Volendo approfondire l'argomento, sotto questo punto di vista, è lecito supporre che essi abbiano adoperato il termine in questo nuovo significato, analogamente a quanto hanno fatto con il termine "fede ". Quantunque infatti fede significhi, nella sua accezione letterale, impegno nel mantenere una promessa, essi gli hanno attribuito il significato di certezza o convinzione di verità. In modo analogo, quantunque sacramento indichi il giuramento del soldato al suo capitano, l'hanno adoperato per indicare il segno di cui si vale il capitano per accogliere nella sua schiera e al suo servizio i soldati. Il Signore infatti ci promette nei suoi sacramenti di essere nostro Dio e di considerarci popolo suo. Tralascio queste sottigliezze perché penso aver dimostrato con argomenti probanti che gli antichi, nel definire i nostri segni "sacramenti ", hanno inteso significare che sono da considerarsi segni di realtà sante e spirituali. Accettiamo la similitudine che ci propongono tratta dall'uniforme e dagli usi militari certo, ma non possiamo accettare che un elemento secondario del sacramento assuma valore fondamentale, anzi esclusivo. Elemento primario nei sacramenti è il loro carattere di ausilio per la nostra fede in Dio, secondario è il loro aspetto di testimonianza nei confronti degli uomini. In questo secondo significato risultano adeguate e pertinenti le similitudini summenzionate a condizione che il punto fondamentale permanga chiaro; in caso contrario i sacramenti hanno scarsa efficacia non servendo a sostenere la nostra fede e non essendo elemento complementare della dottrina. 14. Dobbiamo d'altra parte ricordare che se costoro annullano l'efficacia e aboliscono l'uso dei sacramenti, ve ne sono che attribuiscono loro non so quale potere nascosto, che non risulta essere mai stato dato da Dio. Errore con cui sono ingannati i semplici e gli ignoranti che, abituandosi a cercare i doni e le grazie di Dio ove non si possono trovare, si allontanano a poco a Poco da lui al seguito di vanità, anziché del vero. Le varie scuole dei sofisti infatti hanno decretato di comune accordo che i sacramenti della nuova Legge, quelli cioè che sono in uso attualmente nella Chiesa cristiana, giustificano e conferiscono la grazia se non poniamo loro l'ostacolo di peccati mortali . Quanto sia perniciosa questa opinione non si dirà mai abbastanza, tanto più che è stata accolta con grave danno della Chiesa per così lunghi anni e si mantiene tuttora in gran parte del mondo. Trattasi, non c'è dubbio, di una opinione realmente diabolica poiché, Cl. Promettere giustizia senza la fede, getta le coscienze in confusione e dannazione. Anzi, facendo del sacramento la causa della giustizia, vincola le intelligenze alla concezione superstiziosa che consiste nel porre la propria fiducia in una realtà corporea anziché in Dio, concezione cui già, di per noi stessi, siamo naturalmente inclini, data la nostra tendenza a considerare la terra più di quanto occorrerebbe. Due errori codesti di cui sarebbe preferibile avessimo meno esperienza e di cui non è necessario dare ampia illustrazione. Che cosa è il sacramento preso senza fede se non la rovina della Chiesa? Grandemente si inganna infatti colui che pensa poter ricevere dal sacramento altro bene che quello ricevuto accettando per fede quanto gli viene offerto dalla Parola poiché non se ne deve sperare nulla se non in virtù della promessa che annuncia l'ira di Dio agli increduli non meno che la sua grazia ai credenti. Onde si può dedurne altresì che la fiducia della salvezza non dipende dalla partecipazione ai sacramenti quasi vi fosse rinchiusa la giustizia che sappiamo invece risiedere in Gesù Cristo solo ed esserci data dalla predicazione dell'evangelo non meno che dalla attestazione dei sacramenti, giustizia che sussiste nella sua integrità anche senza i sacramenti, tant'è vero che, come giustamente afferma sant'Agostino, può trovarsi a volte il segno visibile senza la santificazione invisibile e, viceversa, la santificazione senza il segno visibile. Poiché lui stesso dice in un altro testo: gli uomini accolgono Gesù Cristo a volte fino a ricevere il sacramento a volte fino alla santificazione della vita. Il primo caso è comune a buoni e cattivi, il secondo è caratteristico dei credenti. 15. A questo si riferisce la distinzione che lo stesso dottore pone fra il sacramento e l'oggetto. Poiché egli non insegna solo che la verità e la figura sono incluse nel sacramento ma che non sono connesse al punto da non poter essere una senza l'altra. E anche quando si trovano congiunte occorre fare distinzione fra la realtà e il segno in modo da non trasferire all'una ciò che è peculiare dell'altra. Riguardo alla distinzione egli ne parla affermando che i sacramenti non hanno efficacia se non per gli eletti. Parimenti in un altro testo parlando dei Giudei dice: "Quantunque i sacramenti fossero comuni a tutti, non lo era la grazia che costituisce la forza dei sacramenti. Così ora il sacramento della rigenerazione è comune a tutti, ma la grazia da cui siamo fatti membra di Cristo per essere rigenerati, non è comune a tutti ". Parimenti parlando della cena del Signore: "Abbiamo bensì ricevuto tutti il cibo visibile oggi, ma due cose distinte sono il sacramento e la sua efficacia. Donde viene il fatto che molti vengano all'altare e prendono a loro condanna quanto ricevono? Poiché il pezzo di pane che nostro Signore diede a Giuda risultò per lui veleno non per il fatto che fosse cattivo in se ma perché l'uomo che lo prendeva, essendo cattivo, lo prese male ". Poco appresso: "Il sacramento della unità spirituale che abbiamo con Cristo viene presentato alla tavola del Signore per essere vita agli uni e morte agli altri, ma la realtà di cui è figura è vita per tutti e non può essere morte ". Ed aveva affermato poco prima: "Colui che ne avrà mangiato non morirà; intendo però la verità del sacramento non il sacramento visibile, chi l'avrà mangiato interiormente e non esteriormente, che l'avrà preso col cuore e non masticato con i denti ". Da tutte queste citazioni risulta che la verità del sacramento e la figura sono due realtà distinte a causa dell'indegnità di coloro Che lo ricevono male cosicché non ne rimane che figura vuota e inutile. Colui dunque che vuole ricevere la figura con la realtà e non priva di verità deve scoprire per fede la Parola inclusa in esso. E così l'uomo trarrà profitto dai sacramenti in quanto ricaverà da essi comunicazione di Cristo. 16. Questi concetti risulteranno forse oscuri a causa della concisione dell'enunciato, svilupperò perciò il tema in modo più ampio. Gesù Cristo è la sostanza e il fondamento di tutti i sacramenti in quanto ne rappresenta la forza e non annunziano nulla all'infuori di lui. Non è dunque tollerabile l'errore del Maestro delle Sentenze che li considera espressamente causa della giustizia e della salvezza; i sacramenti infatti non hanno altro scopo se non quello di mantenerci in Gesù Cristo annullando tutte le altre cause, frutto dell'intendimento umano. Nella misura in cui sono di ausilio per alimentare, confermare, accrescere in noi la conoscenza di Gesù Cristo o farcelo possedere in maniera più completa e godere dei suoi beni, risultano efficaci e ciò accade quando riceviamo quanto ci viene offerto in essi con fede autentica. Domanderà qualcuno: come possono i malvagi rendere vana con la loro ingratitudine, e inefficaci, le disposizioni di Dio? Non ho inteso affermare che la forza e la realtà del sacramento dipendano dai requisiti e dalla natura di colui che li riceve; ciò che Dio ha una volta istituito permane valido e conserva perennemente la sua proprietà anche se gli uomini mutano. Ma l'offrire e il ricevere sono cose diverse; non vi è alcuna contraddizione nel fatto che un sacramento di nostro Signore sia realmente ciò che è detto essere, e conservi perciò la sua efficacia, e d'altra parte un uomo malvagio non ne ricavi alcun beneficio. Sant'Agostino, però, risolve molto bene questo problema, in poche parole: "Se lo ricevi, carnalmente "dice "non per questo cessa di essere spirituale, non lo sarà per te ". Come ha dimostrato questo santo dottore, nel testo menzionato, il sacramento non è nulla quando sia scisso dalla sua verità; d'altra parte, congiungendoli l'uno all'altro, ci ammonisce a non soffermarci troppo al segno esteriore; "Errore di debolezza "afferma "l'attenersi alla lettera e scambiare i segni con la realtà, altrettanto erroneo prendere i segni senza ricavarne utilità ". Egli fa così menzione di due errori da evitare: prendere i segni come se fossero stati dati invano, e, privandoli della loro forza, con la nostra falsa interpretazione, annullarne il vantaggio che ce ne potrebbe derivare; d'altra parte quando non innalziamo il nostro intendimento oltre il segno visibile, gli attribuiamo la gloria della grazia di Gesù Cristo, che ci è data mediante il suo Spirito, il quale ci rende partecipi di lui mediante i segni esteriori, che perdono ogni loro utilità se si volgono ad altro scopo che attrarci a Gesù Cristo. 17. Manteniamo perciò questo assunto: i sacramenti non hanno funzione diversa da quella della parola di Dio, cioè offrirci e presentarci Gesù Cristo e in lui i tesori della grazia celeste. E non recano alcun profitto se non a coloro che li prendono con fede così come il vino, l'olio o altro liquido si spanderebbe in terra qualora lo si versasse in un recipiente la cui apertura risultasse chiusa, e il recipiente, pur essendo bagnato esteriormente, rimarrebbe secco e vuoto all'interno. Dobbiamo inoltre evitare di cadere in un facile errore leggendo quanto gli antichi hanno scritto, con l'intenzione di accrescere la dignità dei sacramenti, e lasciarci indurre a pensare che qualche virtù segreta vi sia annessa e che la grazia dello Spirito Santo sia in essi distribuita e amministrata come il vino è contenuto in una coppa o in un bicchiere, laddove la loro funzione consiste unicamente nel dichiararci e confermarci la benevolenza e il favore di Dio nei nostri riguardi, e non hanno significato alcuno se lo Spirito Santo non viene ad aprire il nostro intendimento e i nostri cuori, rendendoci capaci di intendere tale testimonianza. In ciò appaiono anche, chiaramente, diverse grazie di Dio. Poiché i sacramenti, come abbiamo detto sopra, hanno da parte di Dio la stessa funzione di messaggero di buone notizie da parte degli uomini: cioè non di conferirci il bene ma solamente annunciare e dimostrare le cose che ci sono date dalla liberalità di Dio e hanno funzione di primizie per ratificarle. Lo Spirito Santo che non è dato indifferentemente a tutti dai sacramenti ma che Dio dà in modo particolare ai suoi, è colui che reca le grazie di Dio con se, che crea in noi l'accoglienza ai sacramenti e li fa fruttificare. Quantunque non intendiamo negare che il Signore sia presente mediante l'efficacia del suo Spirito nella sua istituzione, affinché l'amministrazione dei sacramenti da lui istituiti non risulti vana ed infruttuosa, tuttavia affermiamo che la grazia interiore dello Spirito, in quanto è distribuita dal ministro esterno, deve essere considerata indipendentemente da esso. Dio compie dunque quanto promette nella figura e i segni non sono senza effetto mostrando, come è necessario, che il loro autore è veritiero e fedele. Il punto che deve chiarirsi è quello di sapere se Dio opera direttamente per sua forza propria, intrinseca come si dice, o se affida il suo compito a segni esterni. Ora questo punto è chiaro: qualsiasi strumento egli adoperi per la sua opera non è mai per derogare in qualche modo alla sua autorità sovrana. Quando questa dottrina dei sacramenti sia chiara, la loro dignità risulterà sufficientemente illustrata, il loro uso dimostrato e la loro utilità raccomandata. Nello stesso tempo, però, si mantiene in tutto e per tutto una saggia moderazione sì da non conferire loro più di quanto si debba né sottrarre quanto conviene. Viene così distrutta la falsa teoria che inchiude nei sacramenti il potere di giustificarci, e le grazie dello Spirito Santo, quasi fossero il recipiente ed è invece messa in evidenza quello che viene omesso dagli altri, che cioè si tratta di strumenti mediante cui Dio opera come gli piace. Conviene notare altresì che Dio solo compie nell'interiore ciò che il ministro raffigura e dichiara con atto esteriore, acciocché non attribuiamo a un uomo mortale quanto Dio riserva a se stesso. Sant'Agostino fornisce un saggio ammonimento al riguardo: "Come consacrano contemporaneamente Dio e Mosè? Mosè non consacra affatto al posto di Dio ma solo mediante segni visibili secondo il suo ministero. Ma Dio consacra con grazie invisibili mediante lo Spirito. In questo consiste la forza del sacramento visibile. Poiché quale ne sarebbe il vantaggio non vi fosse questa santificazione invisibile? 18. Il termine sacramento, come l'abbiamo sin qui adoperato, include genericamente tutti i segni che Dio ha dato agli uomini per garantire e attestare la verità delle sue promesse. Egli ha voluto farli consistere a volte in realtà di ordine materiale altre volte in miracoli. Esempi del primo tipo sono: l'albero della vita che Dio diede ad Adamo ed Eva, qual pegno dell'immortalità, affinché fossero certi di riceverla mangiandone il frutto (Ge 2.9; 3.22). L'arcobaleno dato a Noè qual segno per lui e la sua progenie che mai più la terra sarebbe distrutta da un diluvio (Ge 9.13). Adamo e Noè hanno ricevuto queste cose quali sacramenti non che l'albero conferisse l'immortalità, che non era in grado di dare neppure a se stesso, né che l'arcobaleno, semplice riverbero dei raggi solari nelle nuvole, avesse potere di trattenere e controllare le acque; ma in quanto la parola di Dio li aveva segnati per essere segno e sigillo delle sue promesse. In precedenza l'albero e l'arcobaleno erano solo albero e arcobaleno, segnati dalla parola di Dio è stata data loro una nuova realtà, per diventare ciò che per l'innanzi non erano. E l'arcobaleno è per noi oggi ancora testimone di quella promessa e di quel patto, che Dio stipulò con Noè; ogniqualvolta lo vediamo, ritroviamo in esso la promessa di Dio, che la terra non sarà mai più distrutta dal diluvio. Se qualche filosofo da strapazzo, per beffarsi della nostra fede semplicistica, obietta che la varietà di colori che costituisce l'arcobaleno è provocata in modo naturale dal riverbero dei raggi solari sulle nuvole, dobbiamo accogliere come valide le sue ragioni, ma possiamo denunciare la sua ignoranza in quanto non riconosce in Dio il Signore della natura, che si serve per sua gloria, a suo piacimento, di tutti gli elementi. E qualora avesse conferito questo carattere di segno e di testimonianza al sole, alle stelle, alla terra, alle pietre, sarebbero tutti sacramenti. Per qual motivo il valore dell'argento in commercio e di quello coniato risulta diverso pur essendo lo stesso metallo? In quanto il primo non ha nulla all'infuori della sua natura e l'altro, coniato dalla zecca, è diventato moneta ricevendo un nuovo valore. Perché Dio non potrebbe dunque dare un segno e una impronta alle cose create sì da renderle sacramento mentre precedentemente erano elementi semplici e comuni? Esempi del secondo tipo sono stati: la visione di Abramo del fuoco ardente in mezzo alla fornace (Ge 15.17); il vello di Gedeone bagnato di rugiada sulla terra asciutta e, viceversa, asciutto sulla terra rugiadosa con cui veniva promessa la vittoria (Gd. 6.37); l'orologio su cui furono ritardati dieci gradi per annunciare la guarigione ad Ez.chia (4 Re 20.9-11; Is. 38.7). Tutte queste cose ebbero valore di sacramento in quanto vennero date per sostenere, confortare, confermare la debolezza della fede di questi uomini. 19. La nostra intenzione è però di dare ora una trattazione particolare dei sacramenti che nostro Signore ha istituito e voluto nella sua Chiesa quale mezzo per nutrire e sostenere i suoi nella comune professione di fede. Poiché, come afferma sant'Agostino, gli uomini non si possono unire in una qualche forma di associazione religiosa vera o falsa se non per mezzo di sacramenti. Dio dunque, constatando sin dall'inizio questa necessità, aveva ordinato ai suoi servi delle cerimonie quali esercizi della loro religione, che Satana ha in seguito corrotto e depravato in molti modi dando loro la forma di pessime superstizioni. Da questa corruzione ha preso origine tutta l'idolatria pagana. Quantunque non vi sia in essa che errori e contaminazioni, ci dimostra tuttavia che gli uomini non possono fare a meno di segni esteriori quando vogliono manifestare di possedere una qualche religione.
Tutti i segni dei pagani, non essendo fondati sulla parola del Signore e non riferentisi alla sua verità, come dovrebbe essere, secondo il fine di ogni sacramento, non meritano perciò di essere tenuti in alcuna considerazione quando si esaminano i sacramenti che nostro Signore ha ordinato e sono stati mantenuti nella purezza originaria, sì da essere ausilio di pietà e di fede non essendosi allontanati dal proprio fondamento. Ora questi sacramenti consistono non solo in segni ma anche in cerimonie, o se si preferisce sono segni sotto forma di cerimonie. Come è stato detto più sopra ci sono dati da Dio per testimoniare della sua grazia per la salvezza nostra; d'altra parte però sono dimostrazione della nostra professione di fede in quanto dichiariamo, in tal modo, la nostra appartenenza a Dio, pubblicamente, e ci impegniamo nei suoi riguardi. Perciò Crisostomo si esprime in modo appropriato definendoli "contratti ", con cui viene annullato l'atto del nostro debito e in un altro testo "obbligazione "con cui ci impegnano a vivere puramente e santamente in modo che esista reciprocità contrattuale fra Dio e noi. Perché, come nostro Signore annulla in essi l'intero debito delle colpe e delle offese da noi commesse e ci riconcilia con se nel suo figlio unico, così reciprocamente ci impegnano nei suoi riguardi a servirlo in santità e purezza di vita Cosicché i sacramenti si possono definire cerimonie con cui il Signore vuole allenare il suo popolo in primo luogo nel mantenimento, esercizio, conferma della fede nell'intimo del proprio cuore; in secondo luogo nella professione della fede innanzi agli uomini. 20. I sacramenti sono perciò stati diversi a seconda delle modalità scelte dal Signore per rivelarsi e manifestarsi agli uomini seguendo le opportunità del momento. Ad Abramo e alla sua posterità fu ordinata infatti la circoncisione (Ge 17.10) cui furono aggiunte, dalla legge mosaica, le abluzioni e i sacrifici e altri riti (nel Le ). Questi sono stati i sacramenti dei Giudei sino all'avvento di nostro Signore Gesù Cristo, da cui sono stati aboliti e sostituiti con altri due, di cui la Chiesa cristiana fa attualmente uso: cioè il battesimo e la Cena del Signore (Mt. 28.19; 26.26). Mi riferisco qui ai sacramenti dati per l'uso comune della Chiesa tutta, poiché non includo fra questi l'impostazione delle mani mediante cui i ministri o pastori sono ricevuti nel loro incarico, pur non avendo difficoltà ad accettare che la si dica sacramento. Riguardo agli altri riti che comunemente sono considerati tali, faranno oggetto di trattazione a parte. Anche gli antichi sacramenti dei Giudei tendevano però al medesimo fine dei due nostri attuali: orientare verso Gesù Cristo e condurre a lui, o più esattamente, quasi fossero immagini sue, presentarcelo e farcelo conoscere. Poiché, come già abbiamo dimostrato, i sacramenti sono come sigilli con cui sono autenticate le promesse di Dio, ed è indubbio che nessuna promessa di Dio è stata fatta se non in Gesù Cristo (2 Co. 1.20); necessariamente dunque i sacramenti, dovendoci illustrare e rammentare le promesse di Dio, ci dovranno mostrare Gesù Cristo. Come fu significato dal modello del tabernacolo con i suoi ornamenti, che fu mostrato a Mosè sul monte. Una sola differenza sussiste tra quei sacramenti antichi e i nuovi: i primi sono stati prefigurazioni del Cristo promesso, quando ancora lo si attendeva; i nostri, nuovi, testimoniano e insegnano che è già stato dato e manifestato.
21. Tutte queste verità, quando siano illustrate in ordine e singolarmente, risulteranno molto più chiare. In primo luogo la circoncisione aveva per i Giudei la funzione di un segno per ricordare loro che tutto ciò che procede dal seno dell'uomo, la sua natura cioè, è corrotta e ha bisogno di essere circoncisi e recisi. Doveva inoltre avere per loro il significato di una attestazione e un ricordo, confermandoli nella fede delle promesse fatte ad Abramo circa quella discendenza in cui sarebbero state benedette tutte le nazioni della terra (Ge 22.18) , e da cui dovevano altresì ricevere la propria benedizione. Ora questa discendenza salvifica, ci insegna san Paolo, era Gesù Cristo (Ga 3.16) , dal quale soltanto essi potevano sperare riottenere quanto avevano perduto in Adamo. La circoncisione risultava essere perciò ciò che era stata per Abramo, secondo quanto afferma san Paolo, un sigillo cioè della giustizia della fede (Ro 4.2) da cui essere vieppiù confermati che la fede, in cui attendevano questa discendenza benedetta, era E sarebbe sempre stata imputata da Dio a giustizia. Svilupperemo in un altro capitolo il parallelismo della circoncisione e del battesimo. Le abluzioni e i riti di purificazione mostravano loro l'impurità, la corruzione, la sozzura da cui erano, per natura corrotti, infetti, macchiati e altresì promettevano loro un'altra purificazione da cui sarebbero state nettate le loro colpe e le loro impurità (Eb. 9.10-14). Questa purificazione era Gesù Cristo dal cui sangue siamo mondati e purificati (1 Gv. 1.7 Re 1.5) dalle cui piaghe siamo guariti (1 Pi. 2.24) , Cosicché le nostre colpe sono nascoste e rechiamo a Dio una purezza autentica, la purezza di Cristo. I sacrifici avevano il significato di un atto di accusa e di rimprovero contro i loro peccati e le loro iniquità e, nello stesso tempo, mostravano loro la necessità di soddisfare la giustizia divina e di avere un sommo sacerdote e vescovo, mediatore fra Dio e gli uomini, capace di placare questa giustizia di Dio, mediante l'effusione del sangue e un sacrificio accettevole per la remissione dei peccati. Gesù Cristo è stato questo sommo sacerdote, lui stesso vittima del sacrificio (Eb. 4.14; 5.5; 9.2). Poiché si è offerto al Padre obbediente sino alla morte (Fl. 2.8) e con la sua obbedienza ha cancellato la disobbedienza dell'uomo, che aveva provocato l'indignazione di Dio (Ro 5.19). 22. I nostri due sacramenti ci presentano Gesù Cristo molto più chiaramente, egli infatti si è manifestato più vicino agli uomini da quando è stato dato e rivelato quale era stato promesso dal Padre. Il battesimo ci attesta che siano lavati e la Cena eucaristica che siano riscattati. Nell'acqua ci è offerta la figura della purificazione, nel sangue della soddisfazione. Queste due realtà sono in Gesù Cristo, che è venuto, come dice san Giovanni, in acqua e sangue (1 Gv. 5.6) , cioè per purificare e riscattare. Di questo è testimone lo Spirito di Dio, anzi tre sono i testimoni congiuntamente: l'acqua, il sangue, lo Spirito. Nell'acqua e nel sangue abbiamo la testimonianza del nostro perdono e della nostra redenzione, e lo Spirito Santo, principale testimone, ci garantisce in modo sicuro questa testimonianza, ce la fa credere, intendere, riconoscere; poiché non la potremmo altrimenti comprendere. Questo profondo mistero ci è stato presentato chiaramente quando dal costato di Gesù Cristo in croce è sgorgato sangue e acqua (Gv. 19.34). Costato che, a ragione, sant'Agostino definì fonte e sorgente da cui sono venuti i nostri sacramenti di cui è necessario parlare ancora brevemente. Non v'è dubbio, se si stabilisce un paragone fra le due età, che la grazia dello Spirito Santo si riveli ora in modo più esplicito. Questo è infatti necessario affinché sia magnificata la gloria del regno di Cristo, come risulta da molti testi, in particolare dal capitolo 7di san Giovanni. In questo senso deve essere inteso il detto di san Paolo secondo cui non ci fu che ombra sotto la Legge e la realtà è in Cristo (Cl. 2.17). Non è sua intenzione annullare l'efficacia dei segni antichi, in cui Dio si è rivelato veritiero verso i padri come oggi verso di noi nel battesimo e nella Cena, ma solo magnificare con questo paragone quanto ci è dato ora affinché nessuno si stupisca del fatto che le cerimonie della Legge sono state abolite all'avvento di Cristo. 23. Da respingersi in modo assoluto è la tesi scolastica di una sostanziale diversità tra i sacramenti dell'antica e della nuova Legge, quasi i primi non avessero contenuto altro che figura della grazia di Dio, priva di realtà, e i secondi la conferissero attualmente. L'Apostolo infatti non parla degli uni in modo più eccelso che degli altri, insegnando che i nostri padri dell'antico Patto hanno mangiato lo stesso cibo spirituale nostro, ed afferma che si tratta di Cristo (1 Co. 10.3). Chi oserà definire vuoto e privo di sostanza il segno che dimostrava ai Giudei la reale comunione di Gesù Cristo? All'intelligenza di tali affermazioni giova il contesto in cui sono formulate. Per evitare che alcuni, Cl. Pretesto delle grazie di Dio, tengano in poco conto la giustizia di lui, l'Apostolo cita esempi della severità divina quale è stata manifestata nei confronti dei Giudei. Affinché nessuno si vanti, quasi fosse in possesso di particolari privilegi, mostra che furono del tutto simili a noi. In particolare dimostra questa identità riguardo ai sacramenti, comuni ad entrambi. In realtà non è lecito conferire al battesimo maggiore importanza di quanto l'Apostolo attribuisca in un altro testo alla circoncisione, definendola sigillo nella fede (Ro 4.2). Pertanto i Giudei trovavano anticamente, nei loro sacramenti, quanto abbiamo oggi nei nostri: cioè Gesù Cristo e le sue ricchezze spirituali. E l'efficacia dei nostri sacramenti era già in quelli antichi: essere segni e conferma della buona volontà di Dio per la salvezza degli uomini. Non sarebbero incorsi in questo errore se avessero inteso la questione dibattuta nella lettera agli Ebrei. Leggendovi che i peccati non sono stati cancellati in virtù di cerimonie legali, anzi che le ombre antiche sono del tutto prive di efficacia per recare giustizia (Eb. 10.1) , e tralasciando questo rapporto, di per se pur evidente, si sono fermati sul concetto che la Legge non è stata di alcun giovamento ai suoi osservatori, deducendo che vi fossero in essa solo figure vane e prive di contenuti. L'intenzione dell'apostolo era invece solo di annullare la Legge cerimoniale in quanto essa ha in Cristo la sua realtà e da lui trae tutta la sua efficacia. 24. Si potrebbe però citare il testo dei Romani, dove Paolo afferma che la circoncisione non ha in se alcun significato e non giova a nulla dinanzi a Dio (Ro 2.25); testo di cui si può ricavare l'impressione che egli la consideri molto inferiore al battesimo. Impressione errata perché tutte le affermazioni, quivi espresse e riferite alla circoncisione si potrebbero a diritto riferire al battesimo; anzi son riferite da Paolo stesso quando insegna che Dio non si cura dell'abluzione esteriore (1 Co. 10.5) , quando il cuore non sia interiormente purificato, e non perseveri in tale purezza sino alla fine, e da san Pietro, quando attesta che la realtà del battesimo non consiste nella purificazione esteriore ma nella buona coscienza (1 Pi. 3.21). Si risponderà che risulta invece evidente da un altro testo il suo profondo disprezzo per la circoncisione fatta di mano d'uomo, quando la paragona con la circoncisione spirituale di Cristo (Cl. 2.2). Risponderò che in questo testo non viene smentita la sua dignità. San Paolo polemizza, in quella circostanza, contro coloro che costringevano i credenti a circoncidersi, quasi si trattasse di una necessità, quantunque la circoncisione fosse già stata abolita. Ammonisce dunque i credenti a non trastullarsi più a lungo con queste ombre antiche ma a volgersi alla verità; questi dottori, dice l'Apostolo, insistono perché i vostri corpi siano circoncisi, ora voi siete circoncisi spiritualmente sia nel corpo che nell'anima, avete dunque una certezza di gran lunga più valida dell'ombra della circoncisione. Si potrebbe replicare che non era però il caso di disprezzare la forma avendo la realtà, in quanto i padri dell'antico Patto erano stati circoncisi i spirito e di cuore e tuttavia i sacramento risultava superfluo per loro; Paolo previene tale obiezione affermando che siano sepolti con Cristo mediante il battesimo. Egli dimostra con questo che il battesimo rappresenta per i credenti ciò che la circoncisione rappresentava per gli Antichi, e non si può imporre ai cristiani la circoncisione senza il battesimo. 25. Si solleverà un'altra obiezione osservando che, in seguito, l'Apostolo dichiara che tutte le cerimonie giudaiche sono ombre di realtà future e la realtà è in Cristo solo. Il problema affrontato nei capitoli 7e 10 della epistola agli Ebrei è ancora più eloquente al riguardo, visto che vi si dice il sangue degli animali non avere alcuna influenza sulla coscienza, la Legge non aver avuto che l'ombra dei beni futuri e non la realtà. Parimenti che i praticanti della legge mosaica non potevano ottenere perfezione in essa. Rispondo, come ho già fatto sopra, che san Paolo non definisce ombra le cerimonie, nel senso che fossero prive di contenuto o di forza, ma in quanto il loro compimento era rinviato alla manifestazione di Cristo. Anzi non affronta neppure il problema dell'efficacia e del valore di dette cerimonie ma del loro significato. Finché Cristo non fu manifestato in carne i sacramenti dell'antico Patto lo hanno raffigurato come assente, quantunque non mancasse di fare sentire in essi la presenza della sua grazia e della sua persona ai credenti. Essenziale è però rilevare il fatto che san Paolo non tratta semplicemente del problema dei sacramenti, ma ha in mente le persone contro cui polemizza. Dovendo egli combattere contro falsi apostoli, che facevano consistere la fede cristiana nelle cerimonie soltanto, senza considerare Cristo, era sufficiente per refutarli illustrare il significato di tali cerimonie prese in se stesse. Questa è altresì l'intenzione dell'autore della lettera agli Ebrei. Ci si ricordi dunque che non è in questo caso questione di cerimonie considerate nel loro autentico e naturale significato, ma di cerimonie fuorviate in senso perverso e falso; la polemica non concerne l'uso legittimo di cerimonie ma l'uso di forme superstiziose. Non stupisce dunque il fatto che le cerimonie, così separate da Cristo, fossero private del loro significato, poiché ogni segno è svuotato di forza quando la realtà significata venga meno. In tal modo Gesù Cristo, affrontando persone che consideravano la manna esclusivamente un nutrimento per il corpo, si adegua alla loro ignoranza affermando che darà loro un nutrimento migliore per nutrirli nella speranza dell'immortalità (Gv. 6.27). Qualcuno desidera avere più chiara la soluzione del problema? Eccone la sostanza. In primo luogo tutte le cerimonie della legge mosaica non sono altro che fumo e vanità, qualora non siano riferite a Gesù Cristo. Secondo: Cristo ne è stato fine e meta cosicché quando egli è stato rivelato in carne, queste hanno cessato. Infine dovevano essere abolite alla venuta di Cristo così come l'ombra svanisce in presenza della luce solare. Tuttavia, avendo intenzione di trattare più ampiamente questo tema laddove stabilirò il parallelismo fra battesimo e circoncisione, mi limito a questi accenni. 26. Questi poveri sofisti sono forse stati indotti in errore e ingannati dalle eccessive lodi dei sacramenti che hanno lette nei testi dei dottori antichi; come nel caso di sant'Agostino che afferma: i sacramenti dell'antica Legge promettono solo la salvezza ma i nostri la conferiscono. Non accorgendosi che questo linguaggio era iperbolico, cioè eccessivo, hanno per parte loro seminato e divulgato conclusioni iperboliche ma in tutt'altro senso da quello usato dagli Antichi nei loro scritti. Nel testo in questione sant'Agostino non ha inteso fare una affermazione diversa da quanto aveva detto in un altro testo: i sacramenti della legge mosaica aver preannunciato Gesù Cristo e i nostri annunciarlo. Parimenti nel libro contro Fausto Manicheo: quelli contenere le promesse delle cose a venire, questi sono segni di cose compiute. Affermazione equivalente a dire quelli hanno prefigurato Gesù Cristo quando ancora si attendeva la sua venuta, ma i nostri ne indicano la presenza quando già è venuto e ci è stato dato. Si riferisce in questo caso alla significanza del sacramento, come si può notare in un altro testo quando afferma: "la Legge e i Profeti hanno avuto dei sacramenti in vista di preannunciare ciò che doveva venire. I nostri sacramenti annunciano il compimento di ciò che allora era stato solo promesso ". Riguardo all'efficacia e alla verità egli illustra in molti testi il suo pensiero; ad esempio quando dice i sacramenti dei Giudei furono diversi nella forma ma identici nella realtà significativa, diversi nell'apparenza visibile, simili e identici nella realtà e nell'efficacia spirituale; e ancora: "La nostra fede e quella dei padri è unica in forme diverse, anzi in forme diverse come in parole diverse, poiché le parole mutano suono secondo le diversità dei tempi e le parole non raggiungono altro effetto che quello ottenuto dai segni. I padri antichi dunque hanno bevuto la stessa bevanda spirituale di noi, quantunque fosse diversa la bevanda del corpo. I segni sono stati mutati senza che lo fosse la fede. La pietra era dunque per loro Gesù Cristo ed è Gesù Cristo che ci è presentato all'altare. È stato per loro un grande mistero il fatto che l'acqua da essi bevuta sgorgasse dalla pietra; i credenti sanno ciò che bevono: se si considera l'apparenza si nota una differenza, se si considera il significato interiore la realtà è la stessa ". Ancora: "Il nostro cibo e la nostra bevanda sono unici con i padri antichi, per quanto riguarda il mistero, cioè riguardo al significato, non riguardo ai segni apparenti. È lo stesso Gesù Cristo che fu rappresentato nella pietra per loro e che è stato manifestato in carne per noi ". Sin qui le citazioni di sant'Agostino. Del resto riconosco che c'è una differenza tra i sacramenti antichi e i nostri su questo punto; poiché, quantunque gli uni e gli altri attestino che in Cristo l'amore paterno di Dio ci è offerto, unitamente alle grazie dello Spirito Santo, i nostri offrono di questo una testimonianza più chiara ed evidente. Similmente Gesù Cristo si è offerto ai padri nei segni antichi ma in modo più pieno nei segni che ci offre, corrispondenti alla natura del nuovo Patto. È quello che ha inteso dire lo stesso dottore che cito volentieri fra gli altri come il più fedele e il più attendibile, che cioè dopo la rivelazione di Gesù Cristo Dio ci ha dato sacramenti minori in numero ma di significato più profondo e di maggior valore dì quanto non avesse fatto con il popolo d'Israele. È opportuno che i lettori siano ammoniti ancora riguardo ad un punto; ciò che i Sofisti hanno blaterato nell'opus operatum come dicono nel loro gergo, non risulta solo falso ma contrastante con la natura dei sacramenti quali Dio li ha istituiti affinché, essendo sprovvisti di ogni bene, ci rivolgessimo a lui come mendicanti, non recando nulla di nostro fuorché una umile confessione della nostra miseria. Ne consegue che ricevendo i sacramenti non meritiamo lode alcuna, anzi trattandosi di un atto passivo da parte nostra, non è lecito attribuirci alcun merito. Lo definisco atto passivo poiché Dio compie ogni cosa e noi lo riceviamo soltanto, mentre i sorboniti vogliono che per parte nostra collaboriamo per non essere in qualche modo senza merito.
CAPITOLO 15 IL BATTESIMO 1. Il battesimo è il contrassegno della nostra fede cristiana, il segno con cui siamo accolti nella comunità della Chiesa, affinché, incorporati in Cristo, possiamo essere annoverati nel numero dei figli di Dio. Ci è stato dato da Dio in primo luogo per essere d'ausilio alla nostra fede nei suoi riguardi; in secondo luogo per aiutarci nella nostra confessione verso gli uomini: elementi questi comuni a tutti i sacramenti, come abbiamo già detto. Esamineremo in ordine questi due fini e queste due motivazioni dell'istituzione del battesimo. Riguardo al primo punto il battesimo reca alla nostra fede tre elementi che necessitano d'essere esaminati singolarmente. In primo luogo ci è dato da Dio quale segno e prova della nostra purificazione; per esprimerci meglio, ci e inviato come una lettera patente, firmata e sigillata con cui egli ci annunzia, conferma e garantisce che i nostri peccati sono perdonati, sepolti, cancellati, giammai saranno presi in considerazione o ricordati da lui, né ci saranno imputati. Egli desidera infatti che tutti coloro che avranno creduto siano battezzati nella remissione dei loro peccati.
Coloro che hanno ritenuto dover scrivere che il battesimo non è altro che un segno o una manifestazione esteriore, con cui facciamo davanti agli uomini professione della nostra religione, così come un soldato riveste l'uniforme del suo principe per dichiarare la sua appartenenza ad esso, non hanno preso in considerazione l'elemento essenziale del battesimo, il fatto che lo dobbiamo accogliere unitamente alla promessa che tutti coloro che avranno creduto e saranno battezzati saranno salvati (Mr. 16.10). 2. In questo senso deve intendersi la parola di San Paolo: la Chiesa essere stata santificata e purificata dal suo sposo Gesù Cristo, mediante il battesimo d'acqua, nella parola della vita (Ef. 5.20. E in un altro testo, che siamo stati salvati secondo la sua misericordia mediante il lavacro della rigenerazione e il rinnovamento dello Spirito Santo (Tt 3.5). È altresì quanto scrive san Pietro che il battesimo ci salva (1 Pi. 3.21). Poiché san Paolo non ha inteso affermare che la nostra purificazione e la nostra salvezza siano state compiute dall'acqua o che l'acqua contenesse il potere di purificare, rigenerare, rinnovare; né san Pietro ha voluto dire che l'acqua sia causa della nostra salvezza; hanno solo inteso significare che riceviamo in quel sacramento la conoscenza e la certezza di quelle grazie, come è sufficientemente illustrato dalle loro stesse parole. Infatti san Paolo associa il battesimo d'acqua e la parola di vita che è l'Evangelo; per dire che dall'evangelo ci vengono dichiarate la nostra purificazione e la nostra santificazione, e nel battesimo questo annunzio riceve conferma e prova. E san Pietro, dopo aver dichiarato che il battesimo ci salva, aggiunge subito che esso non consiste nella purificazione corporea ma nella buona coscienza verso Dio che deriva dalla fede. Al contrario il battesimo non ci promette altra purificazione che quella ottenuta nell'aspersione del sangue di Cristo, raffigurata dall'acqua, data la similitudine del lavare e purificare. Chi potrà dunque affermare che siamo purificati da quell'acqua che invece attesta essere unico e vero lavacro il sangue di Cristo? Per refutare l'errore di quelli che attribuiscono tutto il potere all'acqua non si può trovare migliore argomento che illustrare il significato del battesimo il quale ci distoglie dal considerare, per ottenere salvezza, sia l'elemento visibile che abbiamo sott'occhio, sia ogni altro mezzo, per concentrare invece la nostra attenzione su Gesù Cristo. 3. Né dobbiamo pensare che il battesimo ci sia dato solo per il tempo passato, sì che occorra cercare un nuovo rimedio per i peccati commessi dopo il battesimo. SO bene che anticamente, sulla base di questa errata concezione, alcuni non volevano essere battezzati se non in fin di vita, al momento della morte, per ottenere, in tal modo, piena remissione per i peccati commessi nel corso della vita: questa assurda concezione è però oggetto di critiche frequenti da parte dei vescovi nei loro scritti. Dobbiamo invece essere pienamente certi del fatto che siamo lavati e purificati per tutto il corso della vita, qualsiasi sia il tempo in cui è avvenuto il nostro battesimo. Quando ricadremo in peccato occorrerà perciò ricorrere al ricordo del battesimo e riconfemarci così nella fede, sì da essere certi e convinti della remissione dei peccati. Essendo stato amministrato una volta, sembra appartenere al passato, però non è cancellato dai peccati susseguenti, in quanto la purezza di Cristo che ci viene offerta in esso ha significato perenne e permane, né può essere abolita da nessuna macchia, ma cancella e purifica ogni nostra macchia e ogni nostro peccato. Non dobbiamo certo ricavare da questo invito o licenza a peccare, poiché tale non è il significato della dottrina che viene invece presentata a coloro che, dopo aver peccato, sono in preda allo sconforto sentendosi oppressi e tormentati dal peso del loro peccato, ed è presentata loro affinché ne ricavino forza e consolazione per non cadere in disperazione. Perciò, afferma san Paolo, Gesù Cristo ci è stato fatto propiziazione per la remissione dei peccati commessi in passato (Ro 3.25) , e non intende dire con queste parole che non si abbia in lui remissione perpetua dei peccati sino alla morte, ma intende mettere in evidenza il fatto che è stato dato dal Padre ai poveri peccatori, che, tormentati dal rimorso della coscienza, cercano il medico; al contrario coloro che, ritenendosi impuniti, ne prendono occasione e libertà per peccare provocano l'ira ed il giudizio divino. 4. So bene che l'opinione comune attribuisce la remissione dei peccati, dataci nella nostra rigenerazione iniziale mediante il battesimo, alla penitenza o al potere delle chiavi; quelli che ragionano in questi termini commettono l'errore di non considerare che il potere delle chiavi, di cui fanno menzione, dipende in modo assoluto dal battesimo e non ne può essere in alcun modo separato. È bensì vero che il peccatore ottiene il perdono dei suoi peccati mediante il ministero della Chiesa, ma questo avviene in virtù della predicazione dell'evangelo. In che consiste tale predicazione? Nell'annunzio della purificazione nostra mediante il sangue di Cristo. Ora qual è il segno e la prova di questa purificazione se non il battesimo? Vediamo dunque che tale assoluzione va riferita al battesimo. Questo errore ha generato il sacramento immaginario della penitenza che si usa nel papismo e a cui ho già accennato altrove e che mi riservo di prendere in esame più avanti. Non c'è da meravigliarsi se questi dottori di menzogna, vincolati, in modo eccessivo, dalla loro stupidità, alle realtà esteriori si sono rivelati così ignoranti su questo punto; non accontentandosi dei segni stabiliti da Dio, ne hanno creati a loro piacimento, quasi il battesimo non fosse, propriamente parlando, un sacramento di penitenza. Se dobbiamo proseguire, durante tutta la vita, la penitenza che Dio ci ordina, è necessario che la forza del battesimo si estenda sino a quel termine. Non esiste pertanto alcun dubbio che i credenti debbano, durante tutta la vita, ricorrere al ricordo del proprio battesimo ogni qualvolta la loro coscienza li accusa, per avere certezza di partecipare all'unica e perpetua purificazione che si trova nel sangue di Gesù Cristo. 5. La seconda consolazione che ci reca il battesimo consiste nel fatto che ci evidenzia la nostra morte in Gesù Cristo e altresì la nostra nuova vita in lui. Poiché, come dice san Paolo, siamo stati battezzati nella sua morte, seppelliti con lui a somiglianza della sua morte, affinché camminassimo in novità di vita (Ro 6.3). Queste parole non intendono solo esortarci ad una imitazione di Cristo, quasi fossimo ammoniti dal battesimo a morire alle nostre concupiscenze sull'esempio e in qualche modo, a somiglianza della morte di Gesù Cristo, e risuscitare per la giustizia sull'esempio della sua resurrezione; l'Apostolo mira molto più in alto: Gesù Cristo ci ha resi, mediante il battesimo, partecipi della sua morte per innestarci in essa. Come un innesto trae la sua sostanza e la sua vita dal tronco su cui è stato innestato, così coloro, che ricevono il battesimo con il dovuto atteggiamento di fede, sentono realmente l'efficacia della morte di Gesù Cristo nella mortificazione della loro carne, e similmente della sua risurrezione nella vivificazione del loro spirito. Da questo fatto trae spunto per esortarci, in seguito, ad essere in quanto cristiani morti al peccato e viventi per la giustizia. A questo stesso argomento ricorre in un altro testo laddove afferma che siamo circoncisi e ci siamo spogliati del vecchio uomo poiché siamo sepolti con Cristo mediante il battesimo (Cl. 2.2). In questo senso l'ha definito nel testo summenzionato: "lavacro della rigenerazione e rinnovamento ". Dio ci promette in tal modo il perdono gratuito dei nostri peccati, per accoglierci come giusti, e la grazia dello Spirito suo per riformarci in vista di una nuova esistenza. 6. La nostra fede riceve altresì conforto dal battesimo per il fatto che non solo ci ricorda che siamo innestati nell'avvenimento della morte e della risurrezione di Gesù Cristo ma che siamo così uniti a lui da esser resi partecipi di tutti i suoi beni. Per questa ragione infatti ha voluto consacrare e santificare il battesimo nel corpo suo (Mt. 3.13) affinché fosse legame duraturo di quella comunione e di quella unione, che ha voluto stabilire con noi. Cosicché san Paolo può dimostrare che siamo figli di Dio deducendolo dal fatto che abbiamo, mediante il battesimo, rivestito Cristo (Ga 3.27). Vediamo così che in lui è il compimento del battesimo, perciò possiamo definirlo realtà specifica e meta del battesimo. Non stupisce dunque il fatto che gli apostoli abbiano battezzato nel nome suo (At. 8.16; 19.5) , quantunque avessero avuto l'ordine di battezzare anche nel nome del Padre e dello Spirito Santo. Perché tutto ciò che il battesimo ci propone, riguardo ai doni di Dio, si trova nel Cristo soltanto. Non accade però che chi battezza nel nome di Cristo non invochi contemporaneamente il nome del Padre e dello Spirito Santo. L'avere nel sangue di Cristo la nostra purificazione deriva infatti dalla volontà del Padre di misericordia, il quale, secondo la sua incomparabile bontà, ci offre questo mediatore per procurarci perdono in lui Ed otteniamo d'altra parte la nostra rigenerazione nella sua vita e risurrezione se una nuova natura spirituale è in noi edificata mediante la santificazione dello Spirito. Perciò la causa della nostra purificazione e della nostra rigenerazione deve essere vista in Dio Padre, la sostanza nel Figlio, l'efficacia nello Spirito Santo. Così Giovanni per primo, e gli apostoli in seguito, hanno battezzato con battesimo di ravvedimento nella remissione dei peccati (Mt. 3.6-11; Lu 3.16; Gv. 3.23; 4.1; At. 2.38-41); interpretando il termine "ravvedimento" Nel senso di rigenerazione e la remissione dei peccati nel senso di perdono. 7. Da ciò risulta chiaramente che una sola è stata l'amministrazione del battesimo, quella di San Giovanni e quella affidata in seguito agli apostoli. Il battesimo non risulta infatti diverso se amministrato da mani diverse, ma l'identità di dottrina rende unico il battesimo. San Giovanni e gli apostoli sono stati concordi nella professione di una stessa dottrina. Tutti hanno battezzato per la remissione dei peccati, tutti con un battesimo di pentimento, tutti nel nome di Cristo da cui vengono remissione dei peccati e il pentimento. San Giovanni chiama Gesù Cristo l'Agnello di Dio, in cui sono cancellati i peccati del mondo (Gv. 1.29). Con ciò egli ha confessato, dichiarato, attestato essere Cristo il sacrificio gradito al Padre, il Propiziatore, il Salvatore. Che avrebbero potuto aggiungere a tale confessione gli apostoli? Nulla di certo, poiché è già in se pienamente esplicita. Non ci deve però turbare il fatto che gli Antichi si siano sforzati di distinguere l'un dall'altro i due battesimi. La loro autorità infatti non è tale da distruggere gli argomenti scritturali. Chi vorrà dar credito a san Crisostomo, che nega la remissione dei peccati sia stata inclusa nel battesimo di Giovanni, anziché a san Luca che afferma il contrario: Giovanni ha predicato il battesimo di ravvedimento per la remissione dei peccati (Lu 3.3) ? Né deve essere accettata l'esegesi sottile di sant'Agostino quando asserisce che, mediante il battesimo di Giovanni, i peccati sono stati rimessi in speranza, mentre lo sono stati realmente nel battesimo di Cristo . Se l'Evangelo dichiara esplicitamente che Giovanni ha battezzato per la remissione dei peccati, a che pro sminuire la grazia del suo battesimo quando non ve n'è alcuna necessità? Se qualche differenza si può riscontrare, secondo la parola di Dio, si riduce al fatto che Giovanni battezzava nel nome di colui che doveva venire, gli apostoli nel nome di colui che già si era manifestato. 8. Neppure la maggior dispensazione delle grazie dello Spirito Santo, dopo la risurrezione di Gesù Cristo, stabilisce una qualche diversità fra i due battesimi. Poiché il battesimo che gli apostoli amministravano nel tempo in cui egli predicava in terra veniva amministrato nel nome di lui e nondimeno non recava maggior dispensazione di spirito di quanto facesse il battesimo di Giovanni. Dopo l'Ascensione stessa, i Samaritani, quantunque battezzati nel nome di Gesù, non ricevono grazie superiori a quelle ricevute dai credenti precedentemente, sino al momento in cui furono inviati Pietro e Giovanni per imporre loro le mani (At. 8.14-17). L'interpretazione del battesimo di Giovanni, data dagli Antichi, inteso come preparazione del battesimo di Cristo è frutto, a mio parere, di una errata interpretazione del fatto che san Paolo abbia ribattezzato coloro che avevano ricevuto il battesimo di Giovanni (At. 19.3-5). Perché si tratti di un errore vedremo appresso. Che significano dunque le parole di Giovanni quando afferma che egli battezza con acqua, ma Gesù Cristo stava per sopraggiungere battezzando con Spirito e fuoco (Mt. 3.2) ? A questo interrogativo si può rispondere brevemente. Egli non ha voluto fare distinzione fra un battesimo e l'altro, ma stabilire un paragone fra la sua persona e quella di Gesù Cristo. Si è dichiarato ministro di acqua, mentre Gesù era donatore dello Spirito Santo e avrebbe manifestato questo potere in un miracolo visibile, il giorno in cui avrebbe inviato ai suoi apostoli lo Spirito Santo sotto forma di lingue di fuoco. Hanno potuto gli apostoli attribuirsi qualcosa di più? Possono forse attribuirsi qualcosa di più coloro che oggi battezzano? Poiché tutti infatti sono solo ministri del segno esteriore ma artefice della grazia interiore è Cristo solo. Gli antichi dottori lo riconoscono, particolarmente sant'Agostino che si vale di questo argomento contro i Donatisti affermando che Gesù Cristo presiede al battesimo indipendentemente dai ministri che lo amministravano. 9. Quanto abbiamo detto riguardo alla mortificazione, l'abluzione e la purificazione fu prefigurato nelle vicende del popolo d'Israele di cui san Paolo poté affermare che era stato battezzato Nella nuvola e nel mare (1 Co. 10.2). La mortificazione è stata prefigurata quando il Signore, liberando gli Israeliti dalla potenza e dalla crudele servitù di Faraone, aprì loro la via attraverso il Mar Rosso sommergendo Faraone e gli Egiziani, i nemici che li stavano inseguendo (Es. 14.21-28). In modo analogo ci promette nel battesimo e ci dichiara e attesta con segni che, in virtù della sua potenza e del suo intervento, siamo liberati dalla cattività d'Egitto, cioè dalla servitù del nostro peccato, e il nostro Faraone, cioè il Diavolo, è sommerso benché non manchi di metterci alla prova e di opprimerci tuttora. Ma come quell'egiziano annegato, che non rimase nelle profondità del mare ma, rigettato alla riva, spaventava ancora i figli di Israele con il suo terribile aspetto, quantunque non fosse più in grado di nuocere, così quel nemico infernale certo armeggia e si agita senza poter vincere però. Nella nuvola era stato prefigurato la purificazione. Come nostro Signore in quella occasione li coprì con una nuvola, procurando loro sollievo, affinché non venissero meno o fossero distrutti a causa dell'eccessiva violenza del sole (Nu. 9.15) , così il battesimo ci ricorda che siamo coperti e tutelati dal sangue di Gesù Cristo, affinché la violenza del giudizio divino non cada su noi, fuoco davvero intollerabile. Questo mistero risultò enigmatico allora e fu rivelato a pochi, ma non essendovi altra possibilità di ottenere salvezza all'infuori di queste due grazie, Dio non ha voluto che i padri antichi, da lui adottati quali eredi, fossero privi di segni e di sacramenti di entrambe. 10. Siamo così in grado di intuire con chiarezza quanto sia falsa la dottrina a cui molti si mantengono ligi secondo cui saremmo, mediante il battesimo, sciolti e liberati dal peccato originale e dalla corruzione che da Adamo scende nella sua posterità, essendo ricondotti a quello stato di giustizia originaria e integrità di natura che Adamo avrebbe posseduta qualora avesse mantenuta l'integrità originaria in cui era stato creato. Questi dottori non hanno mai capito la realtà del peccato originale, e ancora meno ciò che rappresenta la grazia del battesimo. È stato detto più sopra che per peccato originale deve intendersi una perversione e corruzione della nostra natura, che ci rende anzitutto meritevoli della punizione divina e della dannazione, e infine produce in noi le opere che la Scrittura definisce "opere della carne " (Ga 5.19). Questi due elementi debbono essere considerati indipendentemente l'uno dall'altro: innanzitutto, essendo viziosi e pervertiti in tutta la nostra natura, siamo sin d'ora ed a ragione giudicati condannati da Dio cui nulla è accettevole all'infuori della giustizia, dell'innocenza, della purezza. Pertanto i bambini stessi recano in se dal ventre materno la propria dannazione, avendo i germi della propria iniquità, anche se non ne hanno ancora i frutti, anzi essendo tutta quanta la loro natura seme di peccato. Per questa ragione essa non può che essere odiosa e abominevole a Dio. Ai credenti è invece data assicurazione, nel battesimo, che questa dannazione è stata loro tolta, poiché, come abbiamo detto, il Signore ci promette in questo segno che ci è data piena e completa remissione dei peccati sia per quanto concerne la colpa, che dovrebbe esserci imputata, sia per quanto concerne la pena che avremmo dovuto subire a causa di questa colpa. E altresì ricevono giustizia, quale però il popolo di Dio può ottenere in questa vita, cioè giustizia imputata, in quanto nostro Signore si degna considerarli giusti e innocenti nella sua misericordia. 11. Il secondo elemento da considerare è il fatto che questa perversità non si estingue mai in noi, ma costantemente produce nuovi frutti, cioè le opere della carne che abbiamo sopra descritte, come una fornace accesa vomita fiamme e faville, come una sorgente lascia fluire la sua acqua. Poiché la concupiscenza non muore né mai si spegne interamente nell'uomo sino a che, liberato nella morte dal suo corpo mortale, non risulti interamente spogliato di se stesso. Indubbiamente il battesimo ci promette che il nostro Faraone è sommerso e la nostra carne è vinta, non in modo tale però da non causarci più problemi; soltanto non ne siamo più dominati. Fintantoché vivremo rinchiusi in questo carcere corporale avranno sede in noi resti e tracce di peccato; manterremo, per fede, le promesse che da Dio ci sono state date nel battesimo? Non avranno su di noi dominio e forza. Nessuno tuttavia s'inganni o s'illuda, udendo che il peccato abita sempre in noi. Questo non significa che, già troppo inclini al male, ci dobbiamo adagiare placidamente nel peccato, ma è detto affinché coloro che sono tormentati, provocati dalla carne, non si lascino prendere dallo sconforto, perdendo coraggio e volontà, ma piuttosto si sappiano in cammino e considerino i loro progressi vedendo svanire di giorno in giorno, le loro concupiscenze finché siano giunti alla meta, cioè all'annullamento della propria carne, al termine di questa vita mortale. E nondimeno non desistano dal combattere con coraggio, si rincuorino nell'incitarsi a vicenda, e nel progredire, e nel tendere alla vittoria. Poiché vedendo che, malgrado gli sforzi, grandi difficoltà permangono tanto più si sentano spinti a progredire. Dobbiamo dunque sapere e ricordare che siamo battezzati in vista della mortificazione della nostra carne che ha avuto inizio sin dal battesimo e si prosegue tutti i giorni della presente esistenza; ma raggiungerà la perfezione quando saremo passati da questa vita al Signore. 12. Affermando questo non diciamo nulla di diverso da quanto afferma san Paolo nel capitolo settimo della lettera ai Romani. Dopo aver parlato della giustizia gratuita, e rispondendo ad alcuni malvagi che traevano dalla sua dottrina la conclusione che possiamo ben vivere secondo il nostro piacere, in quanto non siamo graditi a Dio per i nostri meriti, aggiunge infatti che tutti coloro, che sono rivestiti della giustizia di Cristo, sono anche rigenerati dallo Spirito suo e di tale rigenerazione il battesimo rappresenta la cauzione. Di qui trae l'esortazione ai credenti a non lasciare le proprie membra essere dominate dal peccato. Sapendo però che i credenti sono soggetti perennemente a molte infermità per tema di scoraggiarli aggiunge a mo' di consolazione che non sono più sotto la Legge. D'altra parte, poiché alcuni avrebbero potuto trarre occasione a peccare dalla sua affermazione, che i credenti non sono più sotto il giogo della Legge, illustra qual sia stato l'uso della Legge e che rappresenti la sua abolizione. Il sunto della sua trattazione si può esprimere così: siamo liberati dalla schiavitù della Legge per aderire a Cristo, e la funzione della Legge è di convincerci della nostra perversione per condurci alla confessione della nostra debolezza e miseria. Ora poiché la malizia della nostra natura non risulta così evidente in un uomo carnale, trascinato dalle sue concupiscenze senza timore di Dio, egli trae esempio dalla sua persona in quanto credente rigenerato dallo Spirito di Dio. Afferma dunque di dover condurre una lotta costante contro i residui della sua carne ed essere trattenuto prigioniero talché non può obbedire pienamente alla Legge di Dio ed è costretto a dichiararsi infelice ed a chiedere chi possa liberarlo (Ro 7, z4). Se i figli di Dio risultano prigionieri e incarcerati, durante questa vita mortale, non possono che sentirsi in grande angoscia pensando al pericolo che li minaccia. Egli aggiunge dunque una consolazione al riguardo, non esservi condanna alcuna per quelli che sono in Gesù Cristo (Ro 8.1). Con questo egli vuole affermare che coloro che Dio ha accolto una volta in grazia e incorporati nella comunione di Gesù Cristo adottati nella comunità dei credenti mediante il battesimo perseveranti nell'obbedienza della fede sono perdonati e ritenuti innocenti dinanzi al tribunale di Dio Quantunque guerreggi il peccato costantemente contro di loro, anzi lo portino in sé. Ci atteniamo dunque letteralmente alla dottrina paolinica affermando che nel battesimo il peccato è cancellato quanto alla colpa ma permane in ogni credente, sino alla morte quanto alla materia. 13. Il battesimo giova alla nostra confessione pubblica in quanto rappresenta un segno ed un attestato con cui dichiariamo di voler essere annoverati fra i membri del popolo di Dio, attestiamo di voler con tutti i cristiani partecipare al servizio di un Dio solo ed all'unica religione, con i quali infine manifestiamo pubblicamente la nostra fede, affinché Dio non sia lodato solo interiormente ma dalla nostra lingua e dalle membra tutte del nostro corpo, nella forma che risulta loro possibile. Così facendo impegnamo, come si conviene, tutto l'essere nostro al servizio della gloria di Dio che deve essere presente in ogni cosa e incitiamo gli altri, Cl. Nostro esempio, a fare altrettanto. A questo pensava san Paolo ricordando ai Corinzi che erano stati battezzati nel sangue di Cristo (1 Co. 1.13). Egli intendeva ricordare che a lui si erano consacrati riconoscendolo quale Signore e maestro e avevano assunto l'impegno della fede in lui dinanzi agli uomini, cosicché si trovavano nell'impossibilità di confessare altri che lui a meno di rinnegare la confessione fatta al battesimo. 14. Avendo illustrato a qual fine e per quali ragioni nostro Signore ha istituito e stabilito il battesimo risulta facile illustrare quali ne debbano essere l'uso e la modalità. Essendoci offerto per confermare, fortificare, consolare la nostra fede dobbiamo riceverlo come dato dalla mano di Dio stesso e ritenere come fatto certo e indiscutibile che egli stesso si rivolge a noi in quel segno, ci purifica, ci netta, cancella il ricordo dei nostri peccati, ci rende partecipi della sua morte, distrugge e domina le forze del Diavolo e della nostra concupiscenza, anzi si unisce a noi affinché siamo con tale unione considerati figli di Dio. Ci è dunque domandato di credere e ritenere con fermezza che interiormente, nell'anima nostra, tutte queste cose si compiono in modo altrettanto indubitabile quanto è indubitabile il fatto che esteriormente il nostro corpo risulta lavato dall'acqua, annegato e sommerso in essa. Questa analogia o similitudine rappresenta infatti la realtà profonda dei sacramenti, cosicché vedendo le realtà materiali siamo condotti a vedere le realtà spirituali, quasi fossero poste innanzi ai nostri occhi, poiché è piaciuto al Signore presentarcele in questa forma. Non già che queste grazie siano vincolate al sacramento o rinchiuse in esso o ci siano confermate per virtù di quello ma unicamente perché il Signore ci dichiara la sua volontà con questi segni, che cioè intende darci tutte queste cose e non illude solo i nostri sguardi con spettacoli vuoti e privi di sostanza ma ci conduce alla realtà stessa in modo indubitabile e attua nella realtà ciò che presenta in forma figurata. 15. Questo appare evidente nel caso del centurione Cornelio il quale, pur avendo ricevuta la remissione dei suoi peccati e le grazie visibili dello Spirito Santo, fu nondimeno battezzato (At. 10.48); non per ottenere mediante il battesimo una più ampia remissione dei peccati, ma una maggior certezza di fede, anzi un accrescimento della fede stessa mediante il pegno che gli veniva dato. Qualcuno, forse, muoverà una obiezione: se i peccati non sono perdonati mediante il battesimo perché Anania dichiarò a san Paolo che nel battesimo otteneva la purificazione dei suoi peccati? (At. 9.17). Risponderò facendo osservare che sta scritto che riceviamo e otteniamo ciò che crediamo esserci dato da Dio sia che ne abbiamo conoscenza per la prima volta in quell'atto sia che avendolo precedentemente conosciuto ne otteniamo maggior certezza. Anania perciò ha inteso dire questo con le sue parole: Paolo sii battezzato, affinché tu abbia la certezza che i tuoi peccati ti sono rimessi perché il Signore promette nel battesimo la remissione dei peccati, ricevi questa promessa e tienila per certa. Non intendo certo sminuire in alcun modo la forza del battesimo affermando che la realtà e la verità siano disgiunte dal segno. Dio infatti opera mediante questi segni esteriori. Del resto non ricaviamo da questo sacramento più di quanto abbiamo ricevuto per fede, in assenza della quale si muterà per noi in accusa di ingratitudine per non aver creduto alla promessa che vi era associata; ma poiché il battesimo è segno e attestato della nostra confessione, dobbiamo con esso attestare che la nostra fiducia è posta nella misericordia divina, la nostra purezza nella remissione dei peccati ottenuta in Gesù Cristo, ed entriamo nella Chiesa di Dio per vivere in comunione di fede e di carità con tutti i credenti. È quanto Paolo ha inteso affermare quando ha detto che siamo tutti battezzati in un medesimo spirito per essere un corpo solo (1 Co. 12.13). 16. Se quanto abbiamo stabilito risulta vero, che cioè il sacramento non deve essere preso come proveniente dalla mano di colui che lo amministra ma dalla mano stessa di Dio, da cui è senza dubbio inviato, si deve concludere che la dignità personale di colui che lo amministra non è in grado di aggiungere o togliere nulla alla sua dignità. Come nei rapporti umani un messaggio scritto è valido purché sia nota la mano e la scrittura del mittente e questo indipendentemente dalla persona e dalla natura del latore, così deve essere sufficiente per noi conoscere la mano e i segni del Signore nei suoi sacramenti, indipendentemente dai messaggeri che li recano a noi. È così refutato e distrutto l'errore dei Donatisti che valutavano il significato e la portata del sacramento in base alla dignità e al valore del ministro. Tali sono oggi i nostri Anabattisti che contestano la validità del nostro battesimo in quanto amministrato da infedeli e idolatri sotto il dominio del Papa; perciò richiedono con furore la ripetizione del battesimo. Contro tali follie siamo sufficientemente premuniti ricordandoci che non siamo stati battezzati nel nome di un qualche uomo, ma nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, e il battesimo risulta pertanto da Dio e non da uomini, chiunque sia stato ad amministrarlo. Quale possa essere stata l'ignoranza o il disprezzo di Dio degli uomini che ci battezzavano non è nella comunione della ignoranza e dell'empietà loro che siamo stati battezzati ma nella fede in Gesù Cristo. Non hanno infatti invocato il loro nome, ma quello di Dio e non ci hanno battezzato in nessun altro nome che il suo. Se quel battesimo era da Dio, non c'è dubbio che avesse la remissione dei peccati, la mortificazione della carne, la vivificazione spirituale, la partecipazione al Cristo. Analogamente quando gli Ebrei erano circoncisi dai loro sacerdoti spesso corrotti sino all'apostasia, non ne ebbero danno, né il segno risultò inutile al punto da doversi ripetere, ma è stato sufficiente risalire sempre alla pura origine. La loro obiezione, fondata sul fatto che il battesimo deve essere amministrato nella comunità dei credenti, non implica che ne sia smarrita la forza quando risulti viziato in un punto. Quando insegnamo ciò che occorre fare perché il battesimo risulti puro, valido, senza errori, non neghiamo l'istituzione di Dio quando degli idolatri l'abbiano corrotta. Infatti quantunque la circoncisione fosse anticamente corrotta da molti elementi superstiziosi, non ha cessato di essere considerata segno della grazia di Dio; e i santi re Giosia ed Ez.chia non hanno costretto o indotto a ripetere la circoncisione quelli che in Israele si erano ribellati a Dio. 17. A coloro che ci domandano quale fede abbia mai fatto seguito al battesimo durante molti anni, per poter concludere che esso risulta vano non essendo santificato perché la promessa della fede deve essere accolta con fede, rispondiamo che certamente, per lunghi anni, il nostro atteggiamento è stato quellodella cecità e dell'incredulità e non abbiamo accolte le promesse che ci venivano date nel battesimo. Tuttavia questa promessa, in quanto promessa di Dio è stata sin da allora e costantemente vera e sicura. Dio non vien meno alla sua promessa quand'anche tutti gli uomini fossero bugiardi e infedeli. Cristo permane nostra salvezza quand'anche tutti fossero perduti e dannati. Ammettiamo perciò che il battesimo non ci abbia recato in quel tempo profitto alcuno, risultando disprezzata la promessa in esso offertaci e senza la quale non è nulla. Ora però avendo per grazia di Dio cominciato ad emendarci, confessiamo la nostra cecità e la nostra durezza di cuore per essere stati così a lungo ingrati, non riteniamo però che la promessa di Dio sia annullata, anzi pensiamo questo: Dio promette nel battesimo remissione dei peccati e manterrà la sua promessa per i credenti tutti. Questa promessa è stata offerta al battesimo, accettiamola dunque per fede. Fu certo lungamente sepolta, per lungo tempo, a causa della nostra infedeltà, riscopriamola dunque ora per fede. Quando il Signore invita il popolo giudaico a pentirsi non ordina a coloro che sono stati circoncisi per mano d'iniqui o sacrileghi e che hanno vissuto durante qualche tempo nell'iniquità di procedere ad una nuova circoncisione, richiede solamente la conversione del cuore. Poiché il segno del suo patto permaneva inviolabile e stabile come egli l'aveva istituito anche se il patto stesso risultava da essi violato. Li accoglieva dunque alla sola condizione che tornassero a pentirsi, confermando il patto stabilito una volta nella circoncisione, quantunque fosse stata praticata da cattivi sacerdoti e risultasse distrutta dalle loro stesse iniquità, che ne avevano annullato l'effetto. 18. Questi contraddittori hanno l'impressione di averci colpiti con dardo infuocato citando il caso di san Paolo, che ribattezzò coloro che erano stati battezzati del battesimo di san Giovanni (At. 19.3-5). Se infatti il battesimo di Giovanni risulta, come abbiamo affermato, identico al nostro non si spiega perché costoro fossero stati male battezzati e dovessero essere ribattezzati dopo essere stati ammaestrati nella retta fede; ne deriva di conseguenza che dobbiamo essere battezzati di nuovo nella vera religione che abbiamo ora cominciato a gustare. Alcuni interpretano il passo nel senso che dovrebbe trattarsi di qualche irresponsabile imitatore di san Giovanni che battezzò costoro non nella verità ma in vane superstizioni. Il loro argomento si fonda sulla constatazione che questi non conoscevano lo Spirito Santo, ignoranza in cui san Giovanni non poteva lasciarli. Non è d'altra parte possibile che dei Giudei, quand'anche non fossero battezzati, non avessero alcuna conoscenza dello Spirito di cui veniva spesso fatta loro menzione nella Scrittura. La loro risposta, che cioè essi non conoscono lo Spirito Santo deve intendersi così: essi non sanno che le grazie dello Spirito Santo, di cui Paolo parla, siano date ai discepoli di Cristo. Per conto mio penso si debba ammettere che il primo battesimo, dato a costoro, sia stato il vero battesimo di san Giovanni, identico a quello di Gesù Cristo; nego però siano stati ribattezzati. Che significano in tal caso le parole: furono battezzati nel nome di Gesù? Alcuni le interpretano nel senso che Paolo li istruì nella pura e buona dottrina; preferisco interpretarlo come una allusione al battesimo dello Spirito Santo; le grazie visibili dello Spirito Santo furono loro date mediante l'imposizione delle mani. Grazie spirituali che frequentemente, nella Scrittura, sono dette battesimo. Così nel giorno della Pentecoste i discepoli si rammentarono delle parole del Signore riguardo al battesimo di Spirito e di fuoco (At. 1.5). E san Pietro battezzando Cornelio e la sua famiglia dichiara che le grazie sparse su Cornelio e i suoi gli ricordano le stesse parole (At. 11.16). Non è in contrasto con questo l'affermazione che segue: quando ebbi imposto le mani lo Spirito Santo scese su loro. Poiché san Luca non dice due cose diverse ma usa una forma narrativa caratteristica degli Ebrei che enunciano dapprima la cosa e poi la sviluppano. Ognuno lo può vedere dalla stessa narrazione. È infatti detto: Udite queste cose furono battezzati nel nome di Gesù; quando san Paolo ebbe loro imposte le mani, lo Spirito Santo scese su loro. Questa ultima frase definisce quel battesimo. Se il primo battesimo dovesse ritenersi annullato, a causa dell'ignoranza di quelli che l'avevano ricevuto, al punto che se ne richiedesse un'altro, per primi avrebbero dovuto essere ribattezzati gli apostoli, che vissero tre anni dopo il loro battesimo senza gran conoscenza della dottrina divina. Detto fra noi, quale oceano sarebbe sufficiente a ripetere il battesimo reso necessario dalle lacune che nostro Signore corregge quotidianamente in noi? 19. Il significato, la dignità, l'utilità ed il fine di questo mistero sono, penso, sufficientemente chiarite. Riguardo al segno esteriore sarebbe da augurarsi che la istituzione di Gesù Cristo fosse stata, nella sua integrità, oggetto del rispetto che meritava in vista di porre un freno all'intemperanza degli uomini. Quasi si trattasse di un fatto spregevole o di scarso valore il battezzare in acqua, secondo l'ordine di Gesù Cristo, si è inventata una benedizione solenne, piuttosto una congiura e un incantesimo per corrompere la autentica consacrazione del, l'acqua. Si è poi aggiunto il cero Cl. Crisma. Si è creata l'opinione che il soffio per scongiurare il Diavolo aprisse la porta al battesimo. Quantunque l'origine di queste stranezze sia antica è lecito tuttavia respingere tutto ciò che gli uomini hanno avuto l'ordine di aggiungere all'istituzione di Gesù Cristo. Del resto il Diavolo, constatando quanto fossero facilmente accolte, sin dall'inizio dell'evangelo, le sue infamie dalla credulità della gente ha preso ardire nell'inventare beffe ancor più grossolane. Da qui traggono origine il loro sputo, il loro sale e altre sciocchezze che sono state introdotte con orribile licenza a beffa e vituperio del battesimo. Impariamo dunque sulla scorta di tali esperienze che non c'è santità migliore e più sicura di quella che consiste nell'attenersi semplicemente all'autorità di Gesù Cristo. Molto meglio sarebbe stato, che si lasciassero da parte quegli atteggiamenti da farsa che abbagliano gli occhi dei semplici e istupidiscono i loro sensi, e dovendosi battezzare qualcuno, lo si presenti alla Chiesa per essere offerto a Dio da tutti con preghiera, recitare la confessione di fede e illustrare il significato del Battesimo lasciando all'atto la sua semplicità, come la Scrittura lo presenta, fossero annunziate le promesse contenute nel battesimo, indi fosse battezzato nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo e fosse infine congedato con preghiere e azioni di grazie. Così facendo, nulla sarebbe omesso dell'essenziale e questa cerimonia, di cui Dio solo è autore, risalterebbe in tutta la sua luce senza essere oscurata da nessuna sozzura estranea. Per il rimanente si immerga intieramente il battezzato nell'acqua, si spanda dell'acqua su di lui, la cosa è priva di importanza; si lasci questo alla libertà della Chiesa tenendo conto della diversità dei luoghi. Il segno è infatti presente nell'uno caso come nell'altro. Quantunque il termine "battezzare "significhi mmergere interamente e risulti chiaramente che questa sia stata la prassi della Chiesa antica. 20. È opportuno ricordare, a questo punto, che l'amministrazione del battesimo o della Cena da parte di un privato è cosa perversa. La dispensazione sia dell'uno che dell'altra infatti compete al ministero pubblico. Non a donne o a privati Gesù Cristo ha dato l'ordine di battezzare, ma ha affidato questo incarico a coloro che aveva ordinato apostoli. E nell'ordinare ai suoi discepoli di ripetere, celebrando la Cena, quanto egli aveva fatto ha indubbiamente voluto significare che, secondo l'esempio suo, ad uno solo era affidato l'incarico di dispensare il sacramento agli altri. Destituita di fondamento è la prassi introdotta anticamente, quasi agli inizi della Chiesa, secondo cui un uomo privato può, n assenza del ministro, impartire il battesimo ad un fanciullo in pericolo di morte . Gli stessi antichi, nel praticare quest'uso o nel tollerarlo non erano neppure certi della sua bontà; sant'Agostino infatti si esprime al riguardo in forma dubbiosa e non è in grado di stabilire se questo venga fatto senza commettere peccato. Riguardo alle donne, il sinodo di Cartagine decretò a suo tempo che non battezzassero, pena la scomunica. Affermare che qualora un bambino morisse senza battesimo risulterebbe privato della grazia della rigenerazione, è pura follia. Dio dichiara di voler adottare i nostri figli e considerarli suoi prima della loro nascita affermando che sarà il Dio della nostra progenie dopo di noi. In questa parola la loro salvezza ha il suo fondamento e la sua garanzia; recheremmo offesa troppo grave a Dio negando che la sua promessa sia in grado di attuare quanto afferma. Pochi si rendono conto del carattere pernicioso di questa affermazione male intesa e Malpresentata, che cioè il battesimo sia richiesta di necessità per la salvezza. La lasciano circolare con eccessiva libertà. Se infatti questa opinione dovesse risultare vera: che sono dannati tutti coloro che non hanno potuto essere immersi nell'acqua, saremmo in una condizione peggiore del popolo antico in quanto la grazia di Dio sarebbe più limitata di quanto fosse al tempo della Legge. E si giungerebbe così alla conclusione che Gesù Cristo non è venuto per compiere le promesse ma per distruggerle; la promessa della salvezza aveva efficacia prima dell'ottavo giorno, quando la circoncisione non era ancora stata praticata, oggi risulterebbe priva di efficacia senza essere coadiuvata dal segno. 21. Risulta però dai testi dei dottori più antichi quale fosse la prassi della Chiesa prima della nascita di sant'Agostino. Tertulliano, anzitutto, dichiara non esser lecito ad una donna di parlare, insegnare, battezzare, offrire l'eucaristia per non usurpare alcuna condizione propria dell'uomo, e tanto meno del prete . Abbiamo una valida e documentata testimonianza in Epifanio quando muove a Marcione il rimprovero di concedere alle donne di battezzare. Si obietta che la diversità della prassi è motivata dall'urgenza delle necessità. Epifanio, però dichiarando che l'autorizzare le donne a battezzare è una beffa, non fa menzione di alcuna eccezione, risulta dunque evidente che egli intende condannare in forma categorica questo abuso, senza possibilità di eccezione. Similmente quando afferma nel libro terzo che non è stato lecito neppure alla vergine Maria battezzare non è il caso di porre limiti alla sua affermazione. 22. L'esempio di Sefora (Es. 4.25) , citato al riguardo, è del tutto fuori luogo; affermano che essa circoncise il figlio e placò l'angelo di Dio così facendo, ne deducono scioccamente che Dio approvò questo gesto. Con un ragionamento analogo si dovrebbe affermare che Dio gradì il culto sincretista resogli in Samaria da quelli che erano stati inviati dall'oriente per il fatto che le fiere cessarono di molestarli. È facile dimostrare invece, con molti altri argomenti, che è ridicolo assumere quale esempio l'atteggiamento di quella sciocca donna. Si potrebbe osservare che si tratta di un atto eccezionale che non ha valore normativo; non si legge che vi sia stato anticamente esplicito ordine ai preti di circoncidere e non essendoci diversità tra la situazione odierna e quella antica non possono che avere la bocca chiusa coloro che autorizzano le donne a battezzare. Sono infatti esplicite le parole di Gesù Cristo: "Andate, ammaestrate tutti i popoli e battezzateli! " (Mt. 28.19). Non avendo egli ordinato per battezzare altri ministri che quelli cui ha affidato il compito di predicare l'Evangelo non essendo lecito ad alcuno, secondo la testimonianza dell'apostolo, usurpare nella Chiesa alcuna dignità, a meno di esserci chiamato come Aronne (Eb. 5.4) agisce malamente e si inserisce in modo illecito nella carica altrui chi pensi poter battezzare senza legittima vocazione. San Paolo dichiara essere peccato ogni azione, sia pure la più insignificante, quale il bere o il mangiare, intrapresa senza convinzione di fede (Ro 14.23). È dunque colpa assai maggiore e grave il battesimo amministrato da una donna in quanto risulta evidente la violazione della norma data da Cristo sappiamo infatti che è sacrilego il separare cose che Dio ha congiunte. Tralasciando tutte queste argomentazioni invito i lettori a considerare il fatto che la moglie di Mosè non ha cercato altro se non offrire il suo servizio a Dio. Vedendo il figlio in pericolo di morte si indispettisce e protesta e scaglia a terra il prepuzio non senza un sentimento di collera, si scaglia contro il marito e così facendo si inasprisce e si ribella contro Dio. Tutta la sua azione deriva insomma da una passionalità sregolata in quanto si inasprisce e si sfoga contro Dio ed il marito vedendosi costretta a spargere il sangue del figlio. E quand'anche avesse agito bene in tutto il rimanente; è temerarietà imperdonabile il presumere circoncidere suo figlio in presenza di Mosè profeta di Dio sì grande che non si ebbe il pari in Israele; non le era lecito compiere quell'atto più di quanto sia lecito oggi ad una donna amministrare il battesimo in presenza di un vescovo. Del resto tutti questi problemi risulteranno risolti quando sarà sradicata dallo spirito degli uomini la fantasticheria che i bambini siano esclusi dal regno del Paradiso se non hanno ricevuto il battesimo. Come abbiamo detto si reca grave offesa alla verità di Dio quando non ci si affida ad essa con la coscienza che possiede pieno ed assoluto potere di salvare. Il sacramento viene aggiunto in seguito come un suggello, non per conferire forza, alla promessa, quasi risultasse debole in se stessa, ma solamente per rettificarla nei nostri riguardi affinché la sappiamo tanto più sicura. Da ciò consegue che i bambini di credenti non sono battezzati per diventare figli di Dio come se già non gli appartenessero in precedenza e fossero stati estranei alla Chiesa; lo sono invece affinché sia dichiarato, mediante questo attestato solenne, che sono ricevuti nella Chiesa come già facenti parte di essa Quando non sorgono contestazioni o trascuratezze non esiste pericolo. La miglior cosa è dunque avere l'ordine di Dio in tale considerazione da non voler ricevere i sacramenti da altro luogo che quello da lui voluto. Ora ne ha affidato la dispensazione alla Chiesa. Qualora dunque non li possiamo ricevere da essa non dobbiamo pensare che la grazia dello Spirito Santo sia ad essi vincolata in modo da non potersi ottenere in virtù della sola parola di Dio.
CAPITOLO 16/a IL BATTESIMO DEI BAMBINI ESPRIME MOLTO BENE L'ISTITUZIONE DI GESÙ CRISTO E LA NATURA DEL SEGNO 1. Dovendo constatare che la prassi del pedobattismo da noi seguita è oggetto di contestazione e di polemiche da parte di gente malvagia, quasi non fosse stata istituita da Dio, ma fosse frutto di una iniziativa degli uomini, in tempi recenti, o da collocarsi qualche tempo dopo l'età apostolica, penso sia opportuno, a questo riguardo, confermare le coscienze dei deboli e refutare le obiezioni menzognere, che questi seduttori muovono per strappare la verità di Dio dal cuore delle persone semplici non sufficientemente istruite da poter rintuzzare i loro cavilli e le loro astuzie.
Ricorrono generalmente ad un argomento apparentemente convincente: unico loro desiderio è quello di mantenere la parola di Dio nella sua integrità senza aggiungere o togliere nulla come, invece, avrebbero fatto coloro che per primi hanno introdotto la prassi del pedobattismo, apportando aggiunte e prendendo questa iniziativa senza avere la garanzia di alcun comandamento. Siamo pronti ad ammettere la validità di questo argomento qualora fossero in grado di dimostrare che questo battesimo è frutto di un'invenzione umana e non di un ordine di Dio. Quando avremo, invece, chiaramente dimostrato che è calunnioso e falso definire, da parte loro, tradizione umana questa istituzione così fortemente radicata nella parola di Dio, vedranno svanire questo argomento a cui si appellano invano. Ricerchiamo dunque l'origine prima del pedobattismo. Qualora infatti dovesse risultare temeraria invenzione degli uomini, ammetto che debba essere abbandonata e debba essere assunto, quale autentica norma, l'ordine del Signore; i sacramenti sarebbero solo appesi ad un filo non avessero quale fondamento la parola di Dio. Se invece riscontriamo che i bambini sono battezzati in base all'autorità di Dio evitiamo di recargli offesa rifiutando i suoi regolamenti suoi regolamenti. 2. Deve essere chiaro anzitutto alla mente dei credenti che l'esatta valutazione dei segni o sacramenti che il Signore ha lasciato e raccomandato alla sua Chiesa non si ricava solo dall'esame degli elementi o delle cerimonie esteriori, ma dipende essenzialmente da quelle promesse e da quei misteri spirituali che nostro Signore ha inteso raffigurare con tali cerimonie. Per una esatta valutazione del battesimo e della sua portata non ci si deve dunque. Limitare a considerare l'acqua e ciò che si compie esteriormente, ma occorre innalzare i nostri pensieri alle promesse divine che quivi sono offerte ed alle realtà interiori e spirituali di cui troviamo qui dimostrazione. Così facendo noi afferriamo la sostanza e la realtà del battesimo, anzi, prendendo le mosse da qui, saremo in grado di comprendere a qual fine sia stata istituita questa aspersione d'acqua e quale ne sia l'utilità. Se invece tralasciamo queste considerazioni e fissiamo unicamente l'attenzione sulla pratica esteriore, non giungeremo mai ad intendere il valore e l'importanza del battesimo e neppure il significato di quell'acqua, di cui facciamo uso o il suo messaggio. Non stiamo a discutere più a lungo questo fatto trattandosi di una realtà così chiaramente e frequentemente dimostrata nella Scrittura da non poter essere assolutamente oggetto di dubbio e di incomprensione da parte dei cristiani. È dunque nelle promesse conferite al battesimo che si deve cercare la sua sostanza. La Scrittura ci insegna che in esso ci è anzitutto raffigurato la remissione e il perdono dei nostri peccati, che otteniamo mediante lo spargimento del sangue di Gesù Cristo. In secondo luogo la mortificazione della nostra carne che otteniamo altresì mediante la partecipazione alla sua morte per giungere ad una nuova vita, cioè all'innocenza, la santità, la purezza. Da questi elementi siamo in grado di intendere perciò che il segno visibile e materiale non è che la rappresentazione di realtà più alte ed eccellenti per intendere le quali dobbiamo valerci della parola di Dio in cui risiede tutta la verità del segno. Vediamo dunque la realtà significata e raffigurata nel battesimo essere il perdono dei nostri peccati, la mortificazione della nostra carne in vista di partecipare alla rigenerazione spirituale che deve essere in tutti i figli di Dio. Anzi ci è qui dimostrato che tutte queste realtà hanno la loro motivazione e il loro fondamento in Cristo. Questo, in sostanza il significato del battesimo in cui si può compendiare quanto ne dice la Scrittura, fatta eccezione di un punto che non abbiamo menzionato: il battesimo è altresì un segno mediante cui noi confessiamo, davanti agli uomini, che il Signore è nostro Dio e ci dichiariamo membri del suo popolo. 3. Il popolo di Dio ebbe, prima dell'istituzione del battesimo, la circoncisione che fu in vigore al tempo dell'antico patto; dobbiamo dunque procedere ora all'esame delle analogie e delle differenze, che esistono fra i due segni, per poter intendere, in base a queste, quanto dell'uno può essere riferito all'altro. Quando nostro Signore ordinò ad Abramo la circoncisione, espresse, a mo' di premessa, la volontà di essere suo Dio e Dio della sua discendenza (Ge 17, TO ) , dichiarando di essere onnipotente e di avere ogni cosa in suo possesso, sì da essere per lui fonte e pienezza di ogni benedizione. : È inclusa, in queste parole, la promessa della vita eterna, come l'ha dichiarato nostro Signore deducendo, dal fatto che il padre suo si era dichiarato Dio d'Abramo, un argomento per convincere i Sadducei dell'immortalità e della risurrezione dei credenti: "Egli non è "dice "un dio dei morti, ma dei viventi " (Mt. 22.32; Lu 20.38). Nello stesso modo san Paolo, ricordando ai pagani, nel secondo capitolo agli Efesini, da quale condizione di ignoranza nostro Signore li avesse tratti, deduce, dal fatto che fossero senza circoncisione, che erano senza Cristo, estranei alle promesse, senza Dio e senza speranza (Ef. 2.12) , in quanto la circoncisione rappresentava la testimonianza di tutte queste realtà. Il primo passo per avvicinarci a Dio ed entrare nella vita eterna è rappresentato dalla remissione dei nostri peccati. Ne consegue che questa promessa corrisponde a quella del nostro battesimo che è promessa della nostra purificazione. Nostro Signore dichiarò, in seguito, ad Abramo in che modo dovesse camminare in sua presenza: con integrità ed innocenza; questo esprime semplicemente il concetto della nostra mortificazione in vista di risuscitare a nuova vita. Ad evitare che sussistesse qualche dubbio riguardo al fatto che la circoncisione era segno e figura della mortificazione, Mosè ne dà una più chiara illustrazione nel decimo capitolo del De quando esorta il popolo d'Israele a circoncidere il suo cuore per il Signore (De 10.16) in quanto popolo da lui eletto fra tutte le nazioni della terra. Così come nostro Signore, accogliendo quale popolo suo la famiglia di Abramo, ordina che siano circoncisi, Mosè dichiara che debbono essere circoncisi di cuore quasi ad illustrare qual sia la verità contenuta in questa circoncisione carnale (De 30.6). Anzi, ad evitare che il popolo pretenda raggiungere questa mortificazione con le proprie forze, gli ricorda che si tratta di un'opera della grazia di Dio in noi. Tutte queste cose sono state così spesso ripetute dai profeti che non occorre dilungarci. Constatiamo dunque che per i padri erano contenute nella circoncisione promesse spirituali, le stesse che sono contenute nel battesimo, presentando loro la remissione dei peccati e la mortificazione della carne per vivere a giustizia. Anzi, come abbiamo detto, che Cristo è il compimento di questa realtà in quanto è il fondamento del battesimo, altrettanto può dirsi della circoncisione. Perciò è fatta ad Abramo la promessa che in lui si attuerà la benedizione di tutti i popoli della terra; quasi nostro Signore dicesse che tutta la terra, maledetta in se stessa, avrebbe ricevuto benedizione per mezzo suo E il segno della circoncisione è aggiunto quale suggello e con ferma di questa grazia. 4. Risulta ora facile giudicare e stabilire in quali punti i due segni, della circoncisione e del battesimo, concordino e differiscano. La forza del sacramento è nei due casi unica, ed è rappresentata, come abbiamo visto, dalla promessa della misericordia di Dio, della remissione dei peccati e della vita eterna. La realtà raffigurata è una sola: la nostra purificazione e la nostra mortificazione. La motivazione e il fondamento di queste realtà, cioè Cristo, ne rappresentano, nell'un caso come nell'altro, la conferma e il compimento. Non sussiste, di conseguenza, differenza riguardo al mistero interiore in cui consiste, come abbiamo detto, tutta la sostanza dei sacramenti. La diversità che sussiste riguarda unicamente la cerimonia esteriore, quella parte cioè che nel sacramento è di minore importanza in quanto la realtà fondamentale è costituita dalla Parola e della cosa significata e rappresentata. Possiamo pertanto concludere che tutto ciò che appartiene alla circoncisione appartiene altresì al battesimo, fatta eccezione per la realtà esteriore e visibile della cerimonia. A questa deduzione ci conduce la norma stabilita da san Paolo: tutta la Scrittura doversi giudicare secondo la misura e la similitudine della fede (Ro 12.3-6) , che sempre ha le promesse come suo obiettivo. In realtà la verità si lascia, a questo punto, quasi toccare Cl. Dito. Come la circoncisione è stata per gli Ebrei un segno, per significare loro che Dio li accoglieva come suo popolo e lo dovevano considerare loro Dio, e rappresentava così, in forma esteriore, l'ingresso nella Chiesa di Dio, analogamente, mediante il battesimo, siamo innanzi tutto accolti nella Chiesa di nostro Signore perché risulti chiara la nostra appartenenza al suo popolo, e dichiariamo volerlo riconoscere quale nostro Dio. Fuori discussione è dunque il fatto che il battesimo è subentrato alla circoncisione. 5. Se, a questo punto, qualcuno domanda: si può amministrare il battesimo ai bambini come una realtà che appartiene loro secondo l'ordine divino? Chi sarà così poco assennato da rispondere soffermandosi unicamente sulla realtà visibile dell'acqua senza rivolgere piuttosto la sua attenzione al mistero spirituale? E considerato sotto questo punto di vista non c'è dubbio che il battesimo appartenga di diritto ai bambini. Nostro Signore, ordinando anticamente di circoncidere i bambini, ha voluto dimostrare in modo evidente che li considerava partecipi della realtà rappresentata in quell'atto. In caso contrario si dovrebbe dire che quella istituzione è stata soltanto menzogna e finzione, anzi, puro inganno; cosa che non si può né pensare né proporre fra credenti. Il Signore afferma esplicitamente che la circoncisione di un bambino è per lui garanzia del Patto che gli è stato annunziato. Il Patto essendo unico è indubbio che i figli dei credenti non ne sono oggi meno partecipi di quanto i figli degli Ebrei lo furono al tempo dell'antico patto. E se sono partecipi della realtà significata perché non dar loro parte al sacramento che non è se non figura e rappresentazione? Dovendosi fare una distinzione fra il segno esteriore e la Parola quale dovrà considerarsi maggiore e più eccellente? Il segno è al servizio della parola di Dio. Si comprende perciò chiaramente che risulti inferiore a quella e sia di importanza minore. Ora è chiaro che la parola del battesimo è rivolta ai bambini, perché dunque negare loro il segno che di quella parola è solo elemento accessorio? Quand'anche non esistessero altri motivi per chiudere la bocca a tutti i critici, questo sarebbe largamente sufficiente. La questione sollevata riguardo al fatto che per la circoncisione era stabilito un giorno fisso è priva di importanza. È; vero che il Signore non ci ha vincolati, come aveva fatto con gli Ebrei, a giorni particolari, ma ci ha lasciata in questa materia piena libertà; ci ha tuttavia dichiarato in che modo i bambini debbano essere solennemente accolti nel suo petto. Che cosa possiamo noi chiedere di più? 6. La Scrittura ci conduce però ad una conoscenza della verità ancor più evidente. È: indubbio infatti che il patto stabilito, una volta, con Abramo dal Signore, dicendo che voleva essere il suo Dio e il Dio della sua progenie, non ha oggi, per i credenti, minor valore di quanto abbia avuto allora per il popolo ebraico; questa parola si rivolge oggi ai cristiani non meno che ai padri dell'antico patto. In caso contrario risulterebbe che la venuta di Gesù Cristo ha sminuito e ridotto la grazia e la misericordia di Dio e sarebbe questa orribile bestemmia da pronunciare e da udire. Infatti i bambini degli Ebrei furono detti progenie santa per il fatto di essere eredi di questo patto e di essere separati dai figli degli infedeli e degli idolatri; per la medesima ragione i figli dei cristiani sono detti santi anche quando siano generati soltanto da un padre o da una madre credente e sono, in base alla testimonianza biblica separati dagli altri (1 Co. 7.14). Ora il Signore, dopo aver promesso ad Abramo questo patto, vuole sia attestato al bambini mediante il sacramento esteriore (Ge 17.12). Che scusa potremmo noi addurre per non stipulare e suggellare questo patto oggi come allora? Non si può obiettare che l'unico sacramento dato ad attestazione del Patto sia stato la circoncisione, oggi abolita. La risposta, infatti, è facile: nostro Signore ha stabilito la circoncisione per quel tempo, nondimeno dopo la sua abrogazione, permane sempre valida la necessità di confermare il Patto visto che non è men valido per noi di quanto sia stato per gli Ebrei. Occorre perciò considerare con attenzione gli elementi che abbiamo in comune con gli Ebrei e sono simili, e quelli che sono invece diversi. Il Patto è realtà comune, comuni sono le motivazioni che ne richiedono la conferma, l'unica differenza consiste nel fatto che ebbero quale conferma la circoncisione e noi oggi abbiamo il battesimo. In caso contrario, se cioè fosse sottratta a noi la testimonianza che gli Ebrei ebbero riguardo ai loro figli, la venuta di Cristo avrebbe avuto come risultato che la misericordia di Dio sarebbe meno evidente per noi di quanto lo fu per gli Ebrei. Una affermazione di questo genere non può esser fatta senza che ne risulti grande disonore a Gesù Cristo in virtù del quale invece la bontà infinita del Signore è stata sparsa sulla terra più ampiamente e più abbondantemente che mai; occorre dunque ammettere che la grazia di Dio non può avere oggi un carattere di minore certezza o essere più segreta di quanto sia stata sotto le ombre della Legge. 7. Per questa ragione nostro Signore, volendo mostrare che era venuto più per accrescere e moltiplicare le grazie del padre suo che per limitarle, accolse con bontà e prese in braccio i bambini, che gli venivano presentati, rimproverando i suoi apostoli che volevano impedire loro di avvicinarsi, affermando che in tal modo non si lasciava venire a lui quelli a cui il regno dei cieli appartiene, a lui che di quel regno è via di accesso (Mt. 19.13-15). Che relazione esiste, dirà alcuno, tra quell'abbraccio di Gesù e il battesimo? Non è infatti detto che li abbia battezzati, ma solo che li accolse, prese in braccio, e pregò per loro. Volendo imitare l'esempio di nostro Signore, si dovrebbe pregare per i bambini e non battezzarli, cosa che lui stesso non ha fatto. Occorre invece meditare, con un po' più di attenzione di quanto facciano costoro, all'insegnamento del testo. Non è infatti di poca importanza il fatto che Gesù accettando che i bambini gli siano presentati, aggiunga questa motivazione: che di loro è il regno dei cieli. Egli manifesta in seguito la sua volontà con un atto visibile prendendoli in braccio e pregando per loro. È lecito condurre i bambini a Gesù Cristo? Perché non dovrebbe esser lecito accoglierli al battesimo che rappresenta il segno esteriore con cui Gesù Cristo ci attesta la comunione e il legame che abbiamo con lui? Se il regno dei cieli appartiene loro, perché dovrebbe essere loro negato il segno con cui ci viene dato accesso alla Chiesa per farci eredi del regno di Dio? Non si agisce forse iniquamente volendo respingere coloro che nostro Signore chiama a sé? Rifiutare loro ciò che egli dà? Chiudere loro la porta che egli ha aperta? Qualora fosse possibile scindere il battesimo dall'opera di Gesù Cristo, quale elemento dovrebbe essere considerato maggiore: che Gesù Cristo li accolga, e imponga loro le mani, quale segno di santificazione e preghi per loro, dichiarandoli suoi, o che noi, mediante il battesimo, attestiamo che sono partecipi del Patto? Gli altri argomenti, a cui si ricorre per dare spiegazione a questo testo, sono cavilli privi di serietà. La tesi secondo cui si trattava di bambini già grandicelli in quanto Gesù dice che li si lasci venire, è in evidente contrasto con il testo scritturale dove si parla di "lattanti "che si recano in braccio. Il verbo "venire "deve infatti essere inteso semplicemente nel senso di avvicinarsi. Si vanno a cercare cavilli in ogni sillaba quando ci si oppone con ostinazione alla verità. L'altra obiezione è questa: non è detto che il regno dei cieli appartenga ai bambini, ma a coloro che sono simili a bambini. Si tratta di una scappatoia. Se questo fosse il caso perché nostro Signore avrebbe voluto far vedere che i bambini debbono avvicinarsi a lui? Quando dice: lasciate i bambini venire a me è chiaro che il suo riferimento è fatto a bambini di età infantile. E aggiunge, per far comprendere che la sua richiesta è giustificata: di tali è il regno dei cieli. È necessario che in questo "tali "essi siano inclusi. Il termine si deve pertanto intendere in questo modo: il regno appartiene a loro e a quelli che sono simili a loro. 8. Chi non vede ora che il pedobattismo è lungi dall'essere una temeraria invenzione degli uomini, dato che riposa su fondamenti biblici così evidenti? La obiezione di alcuni: non potersi provare con la Scrittura che gli apostoli abbiano mai battezzato bambini risulta priva di fondamento. Pur ammettendo che non si trovino esplicite dichiarazioni al riguardo, questo non significa che non li abbiano battezzati, visto che quando si fa menzione di una famiglia che abbia ricevuto il battesimo, i bambini non sono mai esclusi (At. 16.33). Ricorrendo ad una argomentazione analoga noi dovremmo escludere le donne dalla Cena di nostro Signore visto che non è mai detto nella Scrittura che abbiamo partecipato al sacramento al tempo degli apostoli. In questo caso noi seguiamo, come si conviene, la norma di fede considerando unicamente se l'istituzione della Cena si riferisca anche a loro e sia intenzione di nostro Signore che essa sia data loro. Analogo procedimento usiamo nel caso del pedobattismo. Considerando infatti per chi è stato istituito il battesimo, constatiamo che non concerne i bambini meno di quanto concerne le persone adulte. Privarli del battesimo sarebbe dunque non adempiere le intenzioni del Signore. È altresì pura menzogna l'opinione secondo cui il pedobattismo sarebbe stato introdotto parecchio tempo dopo gli apostoli. Infatti tutte le fonti storiche antiche, che possediamo, della Chiesa primitiva ne attestano l'uso anche in quei tempi. 9. Rimane da dimostrare ora di che giovamento sia per i credenti la prassi del battezzare i loro bambini e per i bambini l'essere battezzati a quella età. Da alcuni infatti è respinto come inutile e privo di significato. Così facendo costoro si sbagliano grandemente. Il fatto che così facendo disprezzano l'ordine dato dal Signore, riguardo alla circoncisione, che fu circondata della stessa venerazione e della stessa stima, sarebbe sufficiente a reprimere la loro temerarietà e la loro presunzione che li conduce a condannare, con atteggiamento assurdo e irrazionale tutto ciò che la loro sensibilità carnale non è in grado di intendere. Nostro Signore però ha provveduto ancor meglio a reprimere la loro folle arroganza. Non ha tenuto celata la sua volontà ma ha rivelato l'utilità evidente della sua istituzione: il segno dato ai piccoli fanciulli è un suggello per confermare e ratificare la promessa fatta da nostro Signore ai credenti di spandere la sua misericordia non solo su di loro ma sulla loro posterità sino alla millesima generazione. Viene così, in primo luogo, attestata la bontà divina per magnificare ed esaltare il suo nome. In secondo luogo per incoraggiare il credente e dargli la forza di consacrarsi interamente a Dio facendogli constatare che quel Signore misericordioso non ha soltanto cura di lui ma altresì dei suoi figli e della sua discendenza. Non si deve replicare che la sola promessa è di per se sufficiente ad assicurarci della salvezza dei nostri figli. Dio infatti ha giudicato opportuno dover agire altrimenti e sopportare la infermità della nostra fede in questo campo. Tutti coloro perciò che accolgono con ferma fiducia la promessa che Dio vuole usare misericordia alla loro discendenza sono tenuti a presentare i loro figli, per accogliere i segni della misericordia e ricevere consolazione e forza, vedendo il patto del Signore suggellato nel corpo dei loro figli. Al bambino deriva il vantaggio che la Chiesa cristiana, riconoscendolo membro del suo corpo, ha per lui una cura particolare. E dal canto suo ha la possibilità, crescendo, di essere maggiormente incline a servire quel Signore che si è manifestato a lui quale padre, prima che lo conoscesse, e lo ha accolto a far parte del suo popolo sin dal seno materno. Dobbiamo infine temere la vendetta del Signore in quanto, rinunciando a segnare i nostri figli Cl. Segno del Patto, rinunciamo ai benefici che egli ci offre (Ge 17.14). 10. Passiamo ad esaminare gli argomenti di cui lo spirito maligno si è valso per creare, in molti, errori e delusioni su questo punto Cl. Pretesto di mantenersi fedeli alla parola di Dio; vediamo anche il valore di queste macchinazioni con cui Satana ha tentato di abbattere questa santa istituzione del Signore, osservata da sempre con riverenza nella sua Chiesa. Coloro dunque che il Diavolo spinge ad opporsi, su questo punto, alla parola di Dio pur così evidente dovendosi riconoscere vinti dalla argomentazione della summenzionata similitudine tra il battesimo e la circoncisione, fanno ogni sforzo per mettere in evidenza qualche fondamentale diversità tra quei due segni sicché non abbiano più nulla in comune. In primo luogo affermano che le realtà figurate sono diverse, in secondo luogo che il Patto è altro, in terzo luogo che i bambini devono esser considerati in modi diversi. Volendo giustificare il primo punto affermano che la circoncisione è stata figura non del battesimo bensì della mortificazione. In questo siamo pienamente d'accordo; si tratta infatti di un argomento a nostro favore. Per chiarire anzi la nostra intenzione diciamo questo: la circoncisione e il battesimo rappresentano entrambi la mortificazione. E da questo deduciamo che il battesimo è subentrato alla circoncisione in quanto ha per i cristiani il significato che quella aveva per gli Ebrei. Riguardo al secondo punto è evidente che sono trascinati da follia in quanto non distorcono solo un testo, ma la Scrittura intera con false interpretazioni. Ci presentano difatti gli Ebrei come un popolo carnale e rozzo con cui Dio non ha stabilito alcun patto, se non per la vita temporale e a cui ha dato promesse soltanto per i beni presenti e corruttibili. Se le cose stessero così non ci resterebbe altro da fare che considerare quel popolo un branco di porci che nostro Signore ha voluto nutrire al truogolo abbandonandoli poi alla perdizione eterna. Ogni qual volta menzioniamo la circoncisione e le promesse ad essa legate immediatamente replicano che si tratta di un segno formale e di promesse carnali. 11. Se la circoncisione è stata un segno formale, altrettanto deve dirsi del battesimo; san Paolo infatti nel secondo capitolo ai Colossesi non considera l'una più spirituale dell'altra, affermando che in Cristo siamo circoncisi di una circoncisione non fatta dall'uomo, quando ci siamo spogliati del peso del peccato che abita nella nostra carne, e dicendo che è questa la circoncisione di Cristo (Cl. 2.2). A commentare questo fatto dichiara in seguito che siamo stati sepolti con Cristo nel battesimo. Che significa questo testo se non che la verità e il compimento del battesimo sono verità e compimento della circoncisione in quanto entrambi sono figura della medesima realtà? Egli intende dimostrare che il battesimo è per i cristiani ciò che la circoncisione era stata per gli Ebrei. Avendo dimostrato chiaramente più sopra che le promesse di quei due segni, e i misteri in essi raffigurati, non differiscono in nulla, non ci soffermeremo più a lungo. Invitiamo però i credenti a porsi la domanda se debba ritenersi carnale e formale un segno quando il suo contenuto è interamente spirituale e celeste. Dato però che citano a giustificazione della loro menzogna alcuni testi, risolveremo in poche parole le obiezioni che possono muoversi. È indubbio che le promesse fondamentali date da nostro Signore nell'antico Testamento al suo popolo, in cui esprimeva la sostanza del patto che egli stabiliva con loro, furono di natura spirituale e concernevano la vita eterna e sono state intese spiritualmente dai padri per nutrire la loro speranza della gloria futura e per partecipare ad essa con tutto il loro sentimento. Non contesto, è vero, che egli abbia dichiarato la sua bontà nei loro riguardi mediante altre promesse concernenti realtà carnali e terrene, che anzi le abbia fatte a conferma di quelle promesse spirituali; vediamo infatti che dopo aver promesso al servo suo Abramo la beatitudine immortale aggiunge la promessa della terra di Canaan per attestargli la sua grazia e il suo favore (Ge 15.1-18). Si devono perciò interpretare tutte le realtà terrene, promesse al popolo ebraico, tenendo presente che la promessa spirituale precede sempre, come il fondamento e la radice cui tutto il rimanente deve essere riferito. Non è il caso di fare al riguardo più che un cenno in quanto il problema è stato ampiamente trattato nel capitolo sulle relazioni tra l'antico e il nuovo patto. 12. La differenza che pretendono rilevare tra i bambini dell'antico patto e quelli del nuovo consiste in questo: i figli di Abramo furono allora i discendenti carnali, oggi sono coloro che ne seguono la fede. Perciò le creature di età infantile che venivano allora circoncise erano figura dei figli spirituali che sono rigenerati a vita incorruttibile dalla parola di Dio. In questo ragionamento si deve riconoscere alcunché di esatto. Questi stolti però si ingannano perché, dopo aver letto qualche cosa, non hanno l'intelligenza per proseguire nella ricerca né per raccogliere e ordinare tutta la materia concernente l'argomento. Riconosciamo che la discendenza fisica di Abramo ha sostituito per qualche tempo la discendenza spirituale che mediante la fede è incorporata in lui, noi siamo infatti definiti figli suoi quantunque non abbiamo con lui alcuna parentela carnale (Ga 4.28; Ro 4.12). Se però interpretano, come sembra evidente, che nostro Signore non promise la sua benedizione spirituale anche alla discendenza carnale di Abramo si ingannano grandemente. Questa è invece la retta comprensione cui ci conduce la Scrittura: il Signore ha promesso ad Abramo che da lui Sarebbe uscita la discendenza da cui sarebbero state benedette e santificate tutte le nazioni della terra promettendogli che sarebbe stato il suo Dio e il Dio della sua progenie. Tutti coloro che accolgono Gesù Cristo per fede sono eredi di quella promessa e pertanto sono detti figli di Abramo.
CAPITOLO 16/b 13. Il regno di Dio, dopo la risurrezione di Gesù Cristo, è stato proclamato ovunque senza limitazione, ed è aperto ad ogni popolo e nazione affinché, come egli dice, i credenti vengano dall'oriente e dall'occidente per sedersi in compagnia di Abramo, di Isacco, di Giacobbe nel regno celeste (Mt. 8.2) , nei tempi anteriori, però, nostro Signore aveva, in linea generale, limitato tale misericordia ai Giudei che egli definiva suo regno, suo popolo particolare, suo possesso (Es. 19.5). Il Signore per garantire questa grazia a quel popolo gli aveva ordinato la circoncisione quale segno mediante cui egli si dichiarava loro Dio prendendoli sotto la sua protezione per condurli alla vita eterna. Quando Dio infatti prende cura di noi con l'intenzione di custodirci che può mai mancarci? Per questa ragione san Paolo volendo dimostrare che i pagani sono figli di Abramo alla stregua degli Ebrei si esprime in questi termini: Abramo è stato giustificato per fede prima di essere circonciso; soltanto in seguito ha ricevuto la circoncisione quale suggello della sua giustizia per essere padre di ogni credente incirconciso, e altresì dei circoncisi, non di quelli che hanno soltanto la circoncisione, ma di quelli che imitano la sua fede (Ro 4.10-12). Non è forse chiaro che in questo modo li fa simili e di uguale dignità? Infatti per il tempo voluto da nostro Signore è stato padre dei credenti circoncisi, quando, come dice l'Apostolo, la muraglia è stata abbattuta (Ef. 2.14) , per permettere l'accesso del regno di Dio a coloro che ne erano esclusi, è diventato loro padre, quantunque non fossero circoncisi. Il battesimo tien luogo di circoncisione. San Paolo sottolinea il fatto che Abramo non è padre di coloro che si limitano alla sola circoncisione, e afferma questo unicamente in vista di abbattere la vana fiducia che gli Ebrei nutrivano nella cerimonia esteriore. Altrettanto potrebbe dirsi riguardo al battesimo, per voler confutare l'errore di coloro che vedono in esso soltanto l'acqua. 14. Che intende dire l'Apostolo quando, in un altro testo, insegna che gli autentici figli di Abramo non sono i discendenti secondo la carne, ma solo i figli della promessa (Ro 9.7) ? Con queste parole egli sembra voler affermare che l'essere membro della discendenza carnale di Abramo non è di alcun giovamento. Occorre però, in questo caso, prestare molta attenzione all'intenzione di san Paolo. Per dimostrare infatti agli Ebrei che la grazia di Dio non è vincolata alla discendenza di Abramo, e anzi questa parentela carnale non merita in se stessa alcuna attenzione, egli cita loro nel nono capitolo ai Romani il caso di Ismaele ed Esaù i quali, pur discendendo da Abramo, sono stati respinti come stranieri mentre Isacco e Giacobbe sono stati oggetto della benedizione. Di qui la conclusione che la salvezza dipende dalla misericordia di Dio, che egli concede a chi vuole, di conseguenza gli Ebrei non hanno motivo di ritenersi Chiesa di Dio se non obbediscono alla sua parola. Nondimeno, avendo abbassato così la loro vana gloria, riconoscendo d'altra parte che il patto stabilito con Abramo per lui e la sua progenie non aveva perso il suo valore, ma continuava a mantenere la sua importanza, dichiara nell'undicesimo capitolo che questa discendenza carnale di Abramo non deve essere oggetto di disprezzo e che gli Ebrei sarebbero i veri e legittimi eredi dell'evangelo qualora non se ne rendessero indegni a causa della loro ingratitudine. Li chiama perciò "santi ", malgrado la loro incredulità, a motivo della santa ascendenza da cui provengono, affermando che noi, di fronte ad essi, dobbiamo considerarci figli postumi o figli adottivi di Abramo, accolti per essere innestati sul loro tronco, di cui essi sono però i rami naturali. Per questa ragione l'Evangelo doveva, in primo luogo essere offerto loro, come a primogeniti della casa del Signore cui spettava questo diritto finché essi non l'hanno rifiutato. Anzi quale possa essere il grado di ribellione che vediamo in essi non li dobbiamo disprezzare in quanto nutriamo la speranza che la bontà del Signore riposi su di loro a motivo della promessa. San Paolo attesta infatti che essa non si allontanerà mai in quanto i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili e immutabili (Ro 11.29). 15. Tanta è l'importanza della promessa fatta ad Abramo in vista della sua discendenza. Quantunque l'elemento dominante, A questo riguardo, sia rappresentato dall'elezione del Signore, egli ha voluto, nella sua bontà, dare alla sua misericordia una forma particolare riguardo a questa discendenza per separare gli eredi del regno celeste da coloro che non vi hanno parte; e ha voluto che la circoncisione fosse attestato e suggello di questa misericordia. Analogo è oggi il caso del cristiano. Come infatti san Paolo afferma, in quel testo, che gli Ebrei sono santificati dalla loro origine e dal ceppo loro, afferma in un altro testo che i figli dei credenti sono ora santificati in virtù dei loro genitori (1 Co. 7.14); devono pertanto essere separati dagli altri, che permangono impuri. Risulta facile, sulla base di questi testi, dimostrare l'errore della loro argomentazione: i bambini, allora circoncisi, essere stati solo figura dei figli spirituali rigenerati dalla parola di Dio. San Paolo non ha fatto esegesi così sottili quando ha scritto che Gesù Cristo era ministro del popolo ebraico, per confermare le promesse fatte ai padri (Ro 15.8). Egli sembra infatti affermare: poiché le promesse fatte ad Abramo e ai padri concernono la loro progenie, Gesù Cristo, per mantenere la parola data dal padre suo è venuto in vista della salvezza di questa nazione. Risulta dunque che, anche dopo la risurrezione di Gesù Cristo, san Paolo interpreta letteralmente e non allegoricamente il compimento di queste promesse. Altrettanto afferma san Pietro nel secondo capitolo degli Atti dichiarando agli Ebrei che la promessa concerne loro e i loro figli (At. 2.39). E nel terzo capitolo li definisce figli, cioè eredi dei patti, avendo sempre in vista quella promessa. Il testo di san Paolo che abbiamo summenzionato dimostra questo in modo esplicito, considerando la circoncisione data ai bambini quale testimonianza della comunione spirituale con Cristo. In realtà che potremmo dire riguardo alla promessa fatta dal Signore ai suoi credenti mediante la Legge, quando egli annunzia che, per amor loro, farà misericordia ai loro figli fino alla millesima generazione? Possiamo dire che questa promessa risulta abolita? Questo significherebbe annullare la legge di Dio che è stata invece confermata da Cristo in quanto ci guida alla salvezza e al bene. Sia dunque per noi stabilito questo come un punto fermo: il Signore accoglie nel suo popolo i figli di coloro a cui si è rivelato quale salvatore e li accoglie per amore. 16. Gli altri aspetti della diversità tra la circoncisione e il battesimo che costoro si sforzano di mettere in evidenza sono ridicoli e fuori luogo, anzi in contraddizione gli uni con gli altri. Affermano infatti che il battesimo si situa all'inizio dell'impegno della fede e la circoncisione nell'ottavo giorno, quando la santificazione è interamente compiuta. Subito dopo però dicono che la circoncisione raffigura la morte al peccato, e il battesimo rappresenta il seppellimento dopo che questa morte ha avuto luogo. Nessun pazzo si contraddirebbe in modo così evidente. Secondo un ragionamento infatti il battesimo dovrebbe precedere la circoncisione, secondo l'altro dovrebbe seguire. Queste contraddizioni non ci debbono stupire: lo spirito umano precipita in assurdità di questo genere quando si dà a fantasticare favole simili a sogni. La prima di queste pretese diversità è dunque pura fantasia. Non è questo il genere di allegorie da farsi sull'ottavo giorno. Sarebbe ancora da preferirsi l'interpretazione degli antichi secondo cui questo numero è la dimostrazione che il rinnovamento della vita è connesso con la risurrezione di Gesù Cristo che è accaduta appunto l'ottavo giorno oppure che tale circoncisione di cuore deve durare in perpetuo fintanto che dura la vita. A me sembra invece che vi sia motivo di ritenere che nostro Signore, così facendo, prese in considerazione la debolezza dei bambini. Volendo che il suo patto fosse impresso nei loro corpi, verosimilmente fissò questa data dell'ottavo giorno affinché la loro vita non corresse alcun pericolo. La seconda diversità non è più evidente né più fondata della prima. Affermare che mediante il battesimo siamo sepolti dopo la mortificazione è follia. Si deve piuttosto dire, come insegna la Scrittura, che siamo sepolti in vista della mortificazione (Ro 6.4). Sostengono infine che ponendo la circoncisione a fondamento del battesimo non si dovrebbero battezzare le femmine dato che la circoncisione era riservata ai soli maschi. Ponessero attenzione al significato della circoncisione eviterebbero di ricorrere a queste ridicole argomentazioni. Con quel segno il Signore voleva dimostrare la santificazione della progenie di Israele; è evidente che egli si riferisce tanto ai maschi che alle femmine. Queste ultime non erano sottoposte al rito poiché la loro natura non lo permetteva. Ordinando dunque che i maschi venissero circoncisi il Signore ha incluso in essi anche le femmine le quali, non potendo ricevere la circoncisione nel loro corpo, partecipavano in qualche modo alla circoncisione dei maschi. Avendo respinto e messe da parte queste assurde fantasie, come meritano, manteniamo valida la similitudine tra il battesimo e la circoncisione concernente il mistero interiore, le promesse, l'uso e l'efficacia loro. 17. Di conseguenza essi sostengono che il battesimo non debba essere amministrato ai bambini non ancora capaci di afferrare il significato del mistero che vi è presentato, il battesimo, significando, come è chiaro, la rigenerazione spirituale che non può aver luogo a quell'età. Concludono perciò che si debbono lasciare nella condizione dei figli di Adamo finché cresciuti, siano in grado di giungere alla seconda nascita. Tutto questo contrasta con la verità di Dio in modo perverso. Lasciarli nella condizione di figli di Adamo significa lasciarli nella morte visto che è detto che in Adamo non possiamo che morire. Gesù Cristo chiede invece che si lascino avvicinare a lui. Perché? Perché egli è la vita; egli vuole dunque farli partecipi di se per vivificarli; e costoro, affermando che i bambini permangono nella morte, combattono contro la volontà sua. Pensano forse di ricorrere ad un cavillo affermando che non intendono dire che i bambini, pur essendo figli di Adamo, periscano; il loro errore è però smentito in modo sufficientemente chiaro dalla Scrittura che afferma tutti essere morti in Adamo e non aver speranza se non in Cristo (1 Co. 15.22). È dunque necessario che siamo resi partecipi di Cristo per essere eredi della vita. Analogamente è affermato altrove che per natura ci dobbiamo considerare tutti sotto l'ira di Dio (Ef. 2.3) , concepiti nel peccato (Sl. 51.7) , che implica dannazione. Ne consegue dunque che la partecipazione al regno di Dio implica l'uscire dalla nostra natura. Potrebbe essere questo concetto più chiaramente espresso che con le parole: "La carne e il sangue non erederanno il regno di Dio " (1 Co. 15.50) ? Tutto quanto è in noi deve essere annullato perché ci sia possibile diventare eredi di Dio, e questo non può avvenire senza la rigenerazione. Occorre insomma che sia assunta nella sua autenticità la parola di Gesù Cristo quando egli afferma che è la vita (Gv. 11.25; 14.6). Occorre essere in lui per sfuggire alla schiavitù della morte. Come potranno, affermano costoro, essere rigenerati i bambini che non hanno nozione del bene e del male? Rispondiamo a questo che l'opera di Dio, quantunque risulti segreta e incomprensibile per noi, non manca di attuarsi. Ora è evidente che il Signore rigenera i bambini che intende salvare come è evidente che egli ne salva alcuni. Se infatti nascono in stato di corruzione debbono essere purificati per poter entrare nel regno celeste in cui non è ammessa alcuna impurità. Nascendo peccatori, come attestano Davide e Paolo, occorre siano purificati per essere graditi a Dio. Che chiediamo di eccessivo? Il giudice celeste dichiara che tutti dobbiamo rinascere per entrare nel suo regno (Gv. 3.3). Egli chiude la bocca ai detrattori dimostrando ciò che può compiere negli uomini santificando la persona di Giovanni Battista nel ventre materno (Lu 1.15). Non è meritevole neppure di attenzione il cavillo secondo cui quanto è accaduto una volta non deve avvenire necessariamente sempre nello stesso modo. Questo non è infatti il nostro ragionamento; vogliamo solo dimostrare che è, da parte loro, ingiusto, voler limitare, nei riguardi dei bambini, la potenza che Dio ha manifestata in una occasione. Altrettanto priva di valore è l'altra scappatoia: pretendono che l'espressione "sin dal seno di sua madre "è caratteristica del linguaggio biblico per dire sin dalla giovinezza. Risulta invece chiaramente che, rivolgendosi a Zaccaria, l'angelo ha inteso dichiarare che Giovanni sarebbe stato riempito di Spirito Santo essendo ancora nel ventre materno. Il Signore è perciò in grado di santificare coloro che gli sembra opportuno come ha fatto con san Giovanni; la sua mano infatti non si è accorciata. 18. Per questo motivo Gesù Cristo è stato santificato sin dall'infanzia, affinché fossero in lui santificate tutte le età, secondo il suo volere. Egli ha assunto la nostra umanità e un corpo del tutto simile al nostro fuorché nel peccato perché Dio ricevesse soddisfazione nella carne di lui poiché nella carne l'offesa era stata compiuta e perché ogni giustizia e una piena obbedienza fossero adempiute nella natura nostra che egli voleva salvare, anzi perché fosse più incline a sopportarci con dolcezza e compassione, così è stato santificato nella sua umanità, pienamente sin dal concepimento per poter santificare anche i piccoli bambini mediante la partecipazione con se stesso. Se Gesù rappresenta il metro e l'esempio di tutte le grazie che il padre celeste fa ai suoi figli, anche in questo campo ci può dimostrare che la mano di Dio non è nei confronti di quella età più debole che nei confronti delle altre. Si deve comunque giungere alla conclusione che il Signore non ritrae dal mondo nessuno dei suoi eletti senza averli prima santificati e rigenerati mediante il suo Spirito. Obiettano che in verità non si può riconoscere altra rigenerazione all'infuori di quella attuata dalla semenza incorruttibile; che è la parola di Dio (1 Pi. 1.23). Si tratta di una cattiva interpretazione del testo di San Pietro; egli si rivolge, con queste espressioni, a coloro che erano stati ammaestrati dall'evangelo, per i quali la parola di Dio è certo sempre seme di rigenerazione spirituale; non si può però dedurre da questo che i bambini non possano essere rigenerati dalla potenza del Signore in un modo che permane segreto e miracoloso per noi, ma risulta agevole e facile per lui. Anzi affermare che il Signore non possa, in qualche modo, manifestarsi ad essi, significa fare dichiarazioni senza fondamento e non dimostrate.
19. Come può verificarsi questo, dicono, dato che la fede, secondo la dichiarazione di san Paolo, si ottiene dall'udire e i bambini non hanno discernimento del bene e del male? Non si accorgono che san Paolo allude solo alla forma ordinaria di cui il Signore si vale per dare la fede ai suoi, questo non significa che non abbia la possibilità di agire altrimenti, come ha realmente fatto in molti che ha toccati interiormente, per attirarli alla conoscenza del nome suo, senza far loro mai udire parola. Questo sembra loro in contrasto con la natura dei bambini i quali, secondo Mosè, non hanno ancora conoscenza del bene e del male (De 1.19) , chiedo loro per qual motivo vogliono por limiti alla potenza di Dio sicché non possa fare ora, in parte, nei bambini ciò che compie poco dopo, in modo perfetto, in loro. La pienezza della vita consiste nella conoscenza perfetta di Dio, e alcuni degli uomini che il Signore destina a salvezza muoiono nel corso dell'infanzia; in questo modo, è evidente che essi godranno della piena manifestazione di Dio. Se dunque ne godranno in modo perfetto nella vita futura, perché non potrebbero gustarne quaggiù qualche anticipazione o percepirne qualche elemento? Non affermiamo infatti che Dio li sottragga all'ignoranza finché li abbia liberati dal carcere del loro corpo. Non vogliamo pretendere che i bambini abbiano fede, tanto più che non siamo in grado di conoscere in che modo Dio operi in loro. La nostra intenzione è unicamente di dimostrare la temerarietà e la presunzione di costoro che affermano e negano, in base alla loro fantasia, ciò che a loro pare e piace senza preoccuparsi delle obiezioni. 20. Incalzano, affermando che il battesimo è, secondo l'insegnamento della Scrittura, sacramento di penitenza e di fede. Nei bambini non può esservi né fede né penitenza, è pertanto sconveniente amministrare loro il sacramento perché così facendo lo si svuota di significato. Questi argomenti contrastano con gli ordini di Dio più che con i nostri pensieri. Che la circoncisione sia stata segno di penitenza risulta da molte testimonianze della Scrittura, in particolare dal quarto capitolo di Geremia. San Paolo stesso la definisce "sacramento della giustizia della fede " (Ro 4.2) Si chieda dunque a Dio per quale motivo ha voluto che i bambini fossero circoncisi, poiché essendo la motivazione identica, se questo non è stato effettuato senza ragione non C'è inconveniente a che si amministri loro il battesimo. Il sotterfugio cui si ricorre abitualmente, intendendo i bambini di età infantile quali figura della vera infanzia che consiste nella rigenerazione e già stato smascherato. Questa è perciò la nostra conclusione: poiché nostro Signore ha voluto che la circoncisione, pur essendo sacramento di fede e di penitenza, fosse data ai bambini, non esiste inconveniente alcuno a che il battesimo sia loro amministrato; a meno che questi calunniatori intendano rimproverare Dio di aver preso questa decisione. La verità, la sapienza e la giustizia di Dio risplendono in modo abbastanza evidente in queste, come in tutte le sue opere, per confondere la loro follia, la loro menzogna e la loro iniquità. Quantunque, allora, i bambini non fossero in grado di intendere il significato della circoncisione, venivano egualmente circoncisi nella carne in vista della mortificazione interiore della loro natura corrotta, affinché, essendo istruiti in questo sin dai primi anni, riflettessero a queste cose e vi si impegnassero quando l'età lo avrebbe permesso. Questa obiezione è risolta, In breve, con una parola quando affermiamo che i bambini sono battezzati in vista dell'avvenire in una fede e in una penitenza i cui semi sono già piantati per segreta operazione dello Spirito Santo anche se le manifestazioni esteriori fanno ancora difetto. In questa ottica si possono interpretare tutti i passi che citano costoro riguardo al significato del battesimo. Quando, ad esempio, san Pietro lo definisce "lavacro di rigenerazione e di rinnovamento " (Tt 3.5) , deducono che non lo si deve dare se non a persone capaci di rigenerazione e di rinnovamento. Possiamo però replicare: la circoncisione è altresì segno di rigenerazione e di rinnovamento; non deve perciò essere data se non a coloro che vi partecipano già ora. L'ordine di Dio di circoncidere i bambini risulterebbe così, secondo la loro esegesi, folle e privo di senso. Tutte le obiezioni pertanto che si possono muovere alla circoncisione non si devono accogliere per criticare il battesimo. Non possono obiettare che bisogna accettare come un dato di fatto ciò che è stato istituito dal Signore e bisogna considerarlo buono e santo senza discutere; questa sottomissione si addice unicamente riguardo alle cose da lui espressamente ordinate. Non c'è che da risolvere questo dilemma: ovvero le ragioni che hanno spinto Dio ad istituire la circoncisione per i bambini sono valide oppure non lo sono. Se essa risulta istituita sulla base di motivazioni valide talché non esistano argomenti contrari, lo stesso si deve affermare riguardo al battesimo. 21. Costoro pretendono che si giunge così a posizioni assurde, noi rispondiamo: gli eletti del Signore ricevendo il segno della rigenerazione e del rinnovamento da bambini, qualora lascino questo mondo prima di giungere all'età della conoscenza, sono rigenerati e rinnovati dallo Spirito del Signore come a lui piace, secondo la sua potenza a noi ignota e incomprensibile. Qualora giungano ad una età in cui sono in grado di essere istruiti nella dottrina del battesimo si renderanno conto che non devono far altro, durante tutta la vita, che riflettere su quella rigenerazione di cui portano sin dall'infanzia i segni. In questo modo si deve intendere ciò che san Paolo dice nel sesto capitolo dei Romani e nel secondo dei Colossesi che siamo nel battesimo sepolti con Cristo (Ro 6.4; Cl. 2.12). Esprimendosi in questi termini, egli non pretende che queste realtà debbano precedere il battesimo, ma intende solo fornire un insegnamento riguardo alla dottrina del battesimo che si può illustrare e comprendere altrettanto bene, dopo averlo ricevuto, quanto prima di riceverlo. Nello stesso modo Mosè e i profeti ricordavano agli Israeliti il significato della circoncisione quantunque fossero stati circoncisi nella loro infanzia. Commettono perciò un grave errore pretendendo che il battesimo debba essere preceduto cronologicamente da tutto ciò che significa; si deve anche considerare il fatto che queste cose sono state scritte a persone che erano già state battezzate. Altrettanto può dirsi delle affermazioni di san Paolo ai Galati: "Noi tutti che siamo stati battezzati abbiamo rivestito Gesù Cristo " (Ga 3.27). Questo fatto è reale; quale ne è però lo scopo? Far sì che d'ora innanzi viviamo in lui; non già che non abbiamo vissuto in lui precedentemente. È evidente che agli adulti non si deve dare il segno se non hanno afferrato in precedenza il senso delle realtà; la situazione dei bambini è però diversa come vedremo in seguito. Analoga intenzione ha l'affermazione di san Pietro secondo cui il battesimo, di cui è figura l'arca di Noè, ci è dato per la nostra salvezza; non il nettamento delle sozzure carnali, ma la richiesta di una buona coscienza fatta a Dio che avviene mediante la risurrezione di Gesù Cristo (1 Pi. 3.21). Se la verità del battesimo consiste in una buona testimonianza della coscienza davanti a Dio che permane quando questo sia stato eliminato se non una cosa vana e priva di significato? Non essendo i bambini in grado di avere questa buona coscienza, il battesimo loro risulta non essere che vanità e mistificazione. I ragionamenti di questo tipo sono sempre viziati dallo stesso errore, errore che abbiamo poco sopra abbondantemente refutato: pretendere che la realtà preceda, senza eccezioni, il segno. La circoncisione invece pur essendo data ai bambini non cessò per questo di essere sacramento della giustizia della fede e segno di penitenza e di rigenerazione. Qualora fosse esistita una qualche incompatibilità tra loro Dio non avrebbe stabilito queste norme. Mostrandoci che in questo consiste la realtà della circoncisione e ciononostante facendo circoncidere i bambini ci mostra chiaramente che sotto questo profilo, il sacramento è amministrato loro in vista dell'avvenire. Nell'amministrare il battesimo ai bambini occorre dunque prendere in considerazione questa verità: esso è attestazione della loro salvezza nel suggello e nella conferma del patto di Dio con loro. Tutti gli argomenti a cui ricorrono sono pertanto da considerarsi, come ognuno può vedere, corruzioni della Scrittura. 22. Esamineremo brevemente gli altri argomenti, che possono essere risolti senza difficoltà eccessiva. Affermano che il battesimo è testimonianza della remissione dei nostri peccati. Questo è indubbiamente vero, e chiariamo che proprio per questo motivo si addice ai bambini. Essendo peccatori, come in realtà sono, hanno bisogno del perdono e della remissione dei loro peccati. Quando il Signore attesta che intende far oggetto della sua misericordia quell'età, perché dovremmo noi rifiutare il segno della realtà stessa la cui importanza è molto inferiore? L'argomento, perciò, si rivolge contro di loro: il battesimo è segno della remissione dei peccati. I bambini hanno remissione per i loro peccati; a buon diritto dunque deve esser loro concesso il segno che accompagna la realtà. Ricorrono alla citazione di Efesini cinque dove è detto che nostro Signore ha purificato la sua Chiesa mediante il lavacro dell'acqua, mediante la parola della vita (Ef. 5.26). Anche questo argomento si volge contro di loro. Deduciamo infatti da questo che se nostro Signore vuole che la purificazione della sua Chiesa sia dichiarata e garantita dal segno del battesimo, e i bambini appartengono alla Chiesa, essendo inclusi nel popolo di Dio e facendo parte del regno dei cieli, ne consegue che essi debbono ricevere la testimonianza della loro purificazione alla stregua degli altri membri della Chiesa. Paolo infatti intende parlare della Chiesa stessa, senza eccezione, quando dichiara che nostro Signore l'ha purificata mediante il battesimo. Il fatto che mediante il battesimo siamo incorporati in Cristo (1 Co. 12.13) , come attesta la menzione del dodicesimo capitolo della I ai Corinti, non muta il problema. Infatti i bambini fanno parte del corpo di Cristo come risulta da quanto è stato detto, è opportuno che siano battezzati per essere congiunti alle membra di esso. Essi pensano così polemizzare in modo rigoroso contro di noi, accumulando a sproposito citazioni prive di senso e di intelligenza. 23. Pensano in secondo luogo poter dimostrare, sulla base della prassi apostolica, che soltanto gli adulti sono in grado di ricevere il battesimo. San Pietro infatti, dicono, a quelli che volevano convertirsi al Signore e gli chiedevano che cosa dovessero fare, rispose che dovevano ravvedersi ed essere battezzati per la remissione dei loro peccati (At. 2.37-38). Similmente all'eunuco che gli chiedeva se fosse possibile ricevere il battesimo, Filippo rispose: "Nulla lo impedisce se credi " (At. 8.37). Da queste citazioni traggono la conclusione che il battesimo è stabilito unicamente per quelli che hanno fede e si pentono e non lo si deve amministrare a nessun altro. Analizzando questi testi secondo il loro metodo, si dovrebbe dedurre dal primo che la penitenza basta da sola in quanto non vi si fa menzione di fede, e dal secondo che la fede sola è necessaria visto che non si richiede il ravvedimento. Essi potranno rispondere che i due testi si completano a vicenda e si debbono leggere uno alla luce dell'altro per essere rettamente intesi. Dal canto nostro però risponderemo che analogamente una sintesi valida si può stabilire solo ricorrendo a tutti gli altri testi, suscettibili di fornirci insegnamento in questo problema, in quanto il significato di un testo scritturale dipende spesso dal suo contesto. Constatiamo dunque che in questi racconti a richiedere che cosa si debba fare, per sottomettersi al Signore, sono persone in età di comprendere. Non pretendiamo certo che queste persone si debbano battezzare prima di aver resa testimonianza della loro fede e della loro penitenza, come si può fare fra persone adulte. I casi di bambini nati da genitori cristiani è diverso. Questa diversità non è gratuita, creazione del nostro cervello, ma poggia su esplicite dichiarazioni scritturali. Constatiamo infatti che anticamente quando qualcuno si associava al popolo di Israele per servire il Dio vivente doveva, prima di ricevere la circoncisione, accettare la Legge ed essere istruito riguardo al patto che nostro Signore aveva stabilito Cl. Suo popolo in quanto per sua natura non faceva parte del popolo ebraico cui apparteneva il sacramento della circoncisione. 24. Quando il Signore prese la decisione di vincolare a sé Abramo, non lo fece circoncidere senza che egli ne comprendesse il motivo ma illustrò anzitutto il significato del patto, di cui intendeva dare conferma nella circoncisione stessa, e solo quando ebbe creduto alla promessa gli ordinò il sacramento. Perché Abramo riceve il sacramento dopo la fede e Isacco suo figlio lo riceve prima di essere in grado di intendere? Perché il primo, in età matura e non partecipando ancora al patto del Signore doveva sapere in che consistesse prima di accoglierlo. Il figlio da lui generato, fatto erede del Patto per successione, in base alla promessa fatta al padre è a buon diritto in condizione di ricevere il segno senza intenderne il significato. Per esprimerci in modo più sintetico ed esplicito: essendo i figli dei credenti resi partecipi del patto di Dio, indipendentemente dalla loro comprensione, non possono esser loro negati i segni ma sono in grado di accoglierli senza comprenderli. Questa è la ragione per cui nostro Signore afferma che i figli nati dalla discendenza di Israele gli sono stati generati come suoi figli (Ez. 16.20; 23.37) , considerandosi padre di tutti i figli di coloro cui aveva la promessa di esser loro Dio e Dio della loro discendenza. L'incredulo, nato da increduli, permane estraneo al Patto fintantoché non giunga alla conoscenza di Dio. Non stupisce il fatto che egli non sia partecipe del segno; si tratterebbe infatti di una partecipazione priva di senso. Infatti dice san Paolo, i pagani erano al tempo della loro idolatria privi del Patto e della promessa. Il problema mi pare sufficientemente chiaro: le persone adulte che vogliono sottomettersi a nostro Signore non debbono essere accolte al battesimo senza la fede e il pentimento, trattandosi dell'unica possibilità per entrare nel Patto di cui il battesimo è segno . I bambini, figli di credenti, cui il Patto appartiene per ereditarietà in virtù della promessa sono atti a parteciparvi. Altrettanto può dirsi riguardo a coloro che confessavano le loro colpe e i loro peccati per essere battezzati da Giovanni (Mt. 3.6) , in essi vediamo soltanto degli esempi che vorremmo imitare noi oggi. Qualora infatti si presentasse un ebreo, un turco o un pagano non ci sentiremmo in grado di amministrargli il battesimo senza averlo istruito dovutamente e avere ottenuto da lui una confessione soddisfacente. Il fatto che Abramo sia stato circonciso solo dopo esser stato istruito non impedisce che dopo di lui i bambini siano circoncisi e non ricevano istruzione che al momento in cui sono in grado di intendere. 25. Per dimostrare che la natura del battesimo richiede una rigenerazione attuale si valgono del testo di Giovanni al capo terzo: "Chiunque non è nato d'acqua e di Spirito non entrerà nel regno dei cieli" (Gv. 3.5). In questo caso, affermano, nostro Signore definisce il battesimo: "rigenerazione ". Come potranno dunque i bambini ricevere il battesimo, che non esiste senza rigenerazione, loro che non sono in grado di essere rigenerati? L'errore consiste nel voler riferire questo testo al battesimo in quanto si fa qui menzione dell'acqua; dopo aver prospettato a Nicodemo la corruzione della nostra natura e affermata la necessità della nostra rinascita, constatando che Nicodemo pensava ad una nascita corporale, Gesù Cristo dimostra come Dio opera questa rigenerazione mediante acqua e Spirito. Quasi dicesse: questo avviene mediante lo Spirito che nel purificare e lavare le anime si comporta come l'acqua. Interpreto dunque l'espressione "acqua e Spirito "nel senso dello Spirito che adempie la missione dell'acqua. Non si tratta di espressioni insolite in quanto concordano perfettamente con l'espressione del terzo capitolo dove Giovanni Battista dice: "Quello che viene dopo di me è quello che battezza con lo Spirito Santo e con fuoco ". Battezzare di Spirito Santo e di fuoco significa dare lo Spirito Santo, che ha le proprietà del fuoco nel rigenerare i credenti; così rinascere mediante l'acqua e lo Spirito significa semplicemente ricevere la potenza dello Spirito Santo, che compie nei riguardi dell'anima ciò che l'acqua compie nei riguardi del corpo. So bene che la loro interpretazione di questo testo è diversa; sono però convinto che sia questo il significato autentico e naturale del testo, l'intenzione di Cristo essendo soltanto quella di ricordarci che dobbiamo svestirci della nostra natura per poter aspirare al regno dei cieli. Volessimo imitare il loro sistema di indagine cavilloso, concedendo loro la piena validità della loro esegesi dovremmo affermare che il battesimo deve precedere la fede e il pentimento in quanto, nelle parole di Cristo, esso precede la menzione dello Spirito Santo. E in questo testo si fa indubbiamente menzione dei doni spirituali e dato che seguono il battesimo abbiamo così dimostrato la nostra tesi. Lasciamo stare però questi giochi esegetici e atteniamoci alla interpretazione che ho offerta: che cioè nessuno può entrare nel regno dei cieli, che non sia stato rigenerato d'acqua viva.
26. C'è anzi un altro argomento che dimostra l'errore della loro interpretazione; tutti quelli che non sono stati battezzati risulterebbero esclusi dal regno di Dio. Accettiamo per un istante la loro tesi di non battezzare i bambini; ci troviamo in presenza di un bambino, rettamente istruito nella nostra fede che muore prima che si sia avuta la opportunità di battezzarlo; che accadrà di lui? Nostro Signore afferma che chiunque crede nel Figlio, ha vita eterna e non viene in giudizio ma è passato dalla morte alla vita (Gv. 5.24); e non esiste alcun testo che faccia allusione ad una condanna per coloro che non siano stati battezzati. Questo non deve naturalmente interpretarsi nel senso di una svalutazione del battesimo, quasi lo si potesse lasciare da parte; la nostra intenzione è solo di mostrare che non è necessario al punto che chi non l'abbia ricevuto, per legittimi motivi, sia privo di giustificazione. Secondo la loro tesi invece tutti costoro dovrebbero essere condannati, senza eccezione, quand'anche avessero la fede mediante cui riceviamo Gesù Cristo; anzi essi condannano a morte eterna tutti i bambini in quanto negano loro il battesimo, pur riconoscendolo necessario alla salvezza. Cerchino di conciliare le loro tesi con le parole di Cristo secondo cui il regno celeste è promesso loro (Mt. 19.14). Pur accogliendo i loro ragionamenti, permane falsa, e risulta frutto di motivazioni errate, la loro ipotesi, secondo cui i bambini non possono essere rigenerati come risulta dalla credenza illustrata ampiamente più sopra: senza la rigenerazione non esiste possibilità di accesso al regno di Dio né per i piccoli né per gli adulti. Si dà il caso che esistano persone decedute da bambino, che risultano eredi del regno di Dio; esse debbono di conseguenza esser state rigenerate precedentemente. Le rimanenti realtà significate dal battesimo si attuano in loro nel tempo che il Signore ha scelto per dare loro conoscenza. 27. A valida tutela e principale garanzia della loro tesi citano pero la istituzione originaria del battesimo che deriva, a quanto dicono, dalle parole scritte nell'ultimo capitolo di san Matteo : "Andate, ammaestrate tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo, e insegnando loro ad osservare tutte le cose che vi ho comandate " (Mt. 28.19). Alcuni aggiungono quell'altro testo di san Marco: "Chi avrà creduto e sarà stato battezzato sarà salvato " (Mr. 16.16). Nostro Signore, dicono, ha così ordinato di procedere ad una istruzione prima di impartire il battesimo volendo dimostrare che la fede deve precedere il battesimo. Egli ha infatti dimostrato questo con il suo stesso esempio facendosi battezzare soltanto all'età di trenta anni (Mt. 3.13; Lu 3.23). Questa esegesi risulta errata sotto molti aspetti. È un evidente errore affermare che il battesimo sia stato, per la prima volta, istituito in quella circostanza; esso infatti è stato amministrato durante tutto il tempo della predicazione di Gesù Cristo. Essendo stato istituito molto tempo prima di entrare nell'uso, non si può dunque affermare che questa ne sia stata la prima istituzione. È dunque vano questo volere fare specifico riferimento a questi testi per limitare ad essi la dottrina del battesimo. Tralasciando però questo errore esaminiamo la validità dei loro argomenti. Non risultano così probanti da non potersi risolvere ricorrendo a qualche cavillo. Danno infatti importanza fondamentale all'ordine e alla disposizione dei termini sostenendo che si deve procedere all'istruzione prima di impartire il battesimo e si deve credere prima di ricevere il battesimo in quanto sta scritto: "istruite e battezzate ", e: "chi avrà creduto e sarà stato battezzato "; con argomenti analoghi potremmo rispondere che bisogna invece battezzare prima di insegnare ad osservare le cose che il Signore ha ordinato visto che sta scritto: "battezzateli, ed insegnate loro ad osservare tutte le cose che vi ho comandate ". Abbiamo già visto sopra, nelle citazioni concernenti la rigenerazione d'acqua e di Spirito, un caso analogo: in base a questo ragionamento saremmo in grado di dimostrare loro che il battesimo deve precedere la rigenerazione spirituale perché è menzionato prima. Non è infatti detto: "Chi sarà rigenerato di Spirito e di acqua, ma di acqua e di Spirito ". 28. La loro tesi mi pare già in qualche modo scossa. Non è però il caso di fermarsi a questa polemica perché disponiamo di argomenti assai più solidi e validi per dimostrare la verità: il compito principale che, in questo testo, il Signore impone ai suoi apostoli è quello di annunziare l'Evangelo cui egli aggiunge il ministero di battezzare, quasi deducendolo da quell'altro compito specifico e fondamentale. La menzione del battesimo fatta qui è connessa con l'insegnamento e la predicazione come sarà mostrato da un più ampio esame. Il Signore manda dunque i suoi apostoli per istruire gli uomini di tutte le nazioni della terra. Quali uomini? Indubbiamente persone in grado di accogliere questo insegnamento. Costoro, dice appresso, debbono essere battezzati dopo esser stati istruiti. E continuando il suo ragionamento ci dichiara che, credendo ed essendo battezzati, saranno salvati. Non è fatta menzione di bambini nell'uno come nell'altro caso. Che modo di ragionare è mai questo: si deve insegnare alle persone adulte a credere prima di essere battezzate, dunque il battesimo non concerne i bambini? Si agitino quanto vogliono, da questo testo Si può ricavare solo l'invito ad annunziare l'Evangelo alle persone che sono in grado di intenderlo prima di procedere al battesimo. Infatti si parla nel nostro testo di persone adulte. Valersi di queste parole per escludere i bambini dal battesimo equivale dunque a travis.re le parole del Signore. 29. Mostrerò con una similitudine in che consista il loro errore affinché ognuno possa rendersene conto. Se qualcuno, valendosi del detto di san Paolo: "chi non lavora non mangi " (2 Ts. 3.10) , pretendesse che ai bambini non si desse da mangiare sarebbe oggetto della beffa di tutti. Perché generalizza, estendendo a tutti, ciò che concerne uomini in una precisa. situazione. Non diversamente ragiona questa brava gente, riferendo ai bambini ciò che è detto, in modo specifico, degli adulti e facendone una norma generale. L'esempio di nostro Signore non reca alcun appoggio alla loro tesi. Fu certo battezzato all'età di trent'anni (Lu 3.23) , ma questo è semplicemente motivato dal fatto che egli intendeva iniziare allora la sua predicazione e dare con quel gesto fondamento al battesimo che era già stato amministrato da Giovanni. Volendo, sin dall'inizio, inserire il battesimo nel suo insegnamento, onde dargli maggiore autorità, lo santifica per prima cosa nel suo corpo e nel momento che giudica confacente a questa intenzione, cioè quando egli sta per avviarsi a compiere la missione affidatagli. Possono, insomma, ricavare questo solo dato: il battesimo trae la sua origine dalla predicazione dell'evangelo. Se poi giudicano necessario stabilire l'età di trenta anni per il battesimo, perché sono i primi a non osservare questa norma amministrando il battesimo a tutti coloro che sono, a loro giudizio, sufficientemente istruiti? Lo stesso Serveto, uno dei loro maestri, ostinato nell'insistere su quest'età dei trenta anni, si vantava a vent'anni del suo dono di profezia. Possiamo tollerare che un uomo pretenda essere dottore della Chiesa prima ancora di diventarne membro? 30. Obiettano che in base di questi argomenti la Cena si dovrebbe dare ai bambini, cosa che invece non facciamo. Quasi la differenza fra i due sacramenti non risultasse chiara nella Scrittura in tutti i modi. Questa prassi fu, è vero, seguita nella Chiesa antica, come risulta da alcune testimonianze dei dottori. Ma è stata opportunamente abolita. Se consideriamo infatti la natura e la proprietà del battesimo, constatiamo che esso rappresenta il primo passo per essere riconosciuti membri della Chiesa e partecipi del popolo di Dio. È: perciò segno della rigenerazione e della nascita spirituale mediante cui siamo resi figli di Dio. La Cena, al contrario, è stata istituita per coloro che, essendo usciti dall'infanzia, sono in grado di prender cibo solido. La parola del Signore è esplicita su questo punto. Riguardo al battesimo non pone limiti di età, ma non concede la Cena se non a coloro che sono già in grado di discernere il corpo del Signore, di esaminare se stessi e di annunziare la morte del Signore. Pretenderemmo noi avere dichiarazione più esplicita di questa: "Ciascuno esamini se stesso, e mangi di questo pane e beva di questo calice " (1 Co. 11.28) ? Occorre dunque che la Cena sia preceduta da un atto di riconoscimento che un bambino non è in grado di fare. E ancora: "Chi mangia indegnamente mangia la propria condanna, in quanto non discerne il corpo del Signore ". Se non si può prender degnamente la Cena senza discernimento non sarebbe umanamente lecito da parte nostra dare ai bambini del veleno anziché del cibo. E inoltre: "Fate questo in ricordo di me. Infatti ogni volta che prendete di questo pane e bevete di questo calice voi annunziate la morte del Signore ". Come possono annunziare la morte del Signore i bambini che non sanno parlare? Questi elementi non sono invece richiesti nel battesimo. Tra i due segni esiste perciò una grande differenza che nell'antico patto è stata rispettata fra quei segni che erano simili e corrispondenti a questi. La circoncisione infatti, praticata al posto del battesimo, era destinata ai bambini; l'agnello pasquale però sostituito ora dalla Cena, non era dato ai bambini ma soltanto a coloro che erano in grado di intenderne il significato. Se questa gente avesse un briciolo di buon senso, non sarebbe cieca al punto da non vedere fatti così evidenti che si impongono quasi da sé. 31. Quantunque non sia di mio gusto accumulare frivole speculazioni, che possono annoiare i lettori, dato che Serveto, inserendosi nel problema del pedobattismo per diffamarlo, ha creduto di essere in possesso di argomenti validissimi, si rende necessaria una breve confutazione delle sue tesi. Egli pretende che essendo perfetti i segni dati da Cristo, coloro che si presentano per riceverli debbono altresì essere perfetti o capaci di perfezione. La soluzione non è difficile: la perfezione del battesimo concerne la vita sino alla morte, limitarla ad un giorno e ad un momento specifico nel tempo significa sovvertire ogni norma. Faccio altresì notare che egli si rivela eccessivamente sciocco avendo l'illusione di trovare la perfezione nell'uomo al primo giorno del battesimo mentre siamo chiamati a raggiungere tale perfezione con un progresso che dura tutta la vita. Egli obietta che i sacramenti di Gesù Cristo hanno significato di memoriali e sono dati affinché ognuno si ricordi di essere sepolto con lui. Rispondo che i frutti della sua fantasia non meritano refutazione. Anzi, dalla parola di san Paolo, risulta che ciò che egli vuole estendere al battesimo è peculiare della Cena, cioè l'esame di se stesso. Non risulta che sia mai stato detto nulla di simile riguardo al battesimo. Concludiamo dunque che il battesimo dei bambini incapaci di effettuare un esame di se non cessa per questo di essere valido. Un'altra obiezione è la seguente: tutti coloro che non credono al figlio di Dio permangono nella morte e su di loro pesa l'ira di Dio (Gv. 3.36); di conseguenza i bambini, incapaci di fede permangono immersi nella loro dannazione; faccio notare che nel testo In questione non si parla del peccato originale in cui Adamo ha immersi tutti gli uomini, ma si tratta di una minaccia rivolta da Gesù Cristo a coloro che disprezzando l'Evangelo rifiutano, con atto di sufficienza e di orgoglio, la grazia che è loro offerta. Questo problema non concerne in nulla i bambini. C'è ancora un'altra prova contraria: tutti coloro che sono benedetti in Cristo sono liberati dalla maledizione di Adamo e dall'ira di Dio. Ora, come è stato detto, Cristo ha benedetto i bambini; ne consegue dunque che li libera dalla morte. Serveto sostiene, falsamente, che chi è nato dallo Spirito ode la voce dello Spirito; affermazione questa che non si trova in nessun testo della Scrittura. Quand'anche accettassimo questa erronea affermazione se ne potrà dedurre soltanto il fatto che i credenti sono condotti a seguire Dio nella misura in cui lo Spirito Santo opera in loro. Si commette però un grossolano errore volendo riferire a tutti ciò che è detto di un piccolo numero. La quarta obiezione è questa: essendo le realtà carnali quelle che precedono (1 Co. 15.46) , il tempo opportuno del battesimo, che è di natura spirituale, si deve situare soltanto al momento in cui l'uomo è rinnovato. Pur ammettendo che tutta la discendenza di Adamo, in quanto carnale, reca con se, sin dal ventre materno, la propria dannazione, nego tuttavia che questo impedisca a Dio di porvi rimedio quando gli sembri opportuno. Serveto infatti non può dimostrare che esiste una data prestabilita che segna l'inizio della nostra vita spirituale. San Paolo dichiara che i figli dei credenti, pur essendo per natura nella stessa condizione di perdizione di tutti, sono tuttavia santificati per grazia sovrannaturale (1 Co. 7.14). Ricorre, in seguito, ad una allegoria: Davide, salendo contro la fortezza di Sion, non prese con se ciechi e zoppi, ma uomini validi (2 Re 5.8). Se però gli butto in faccia quell'altra parabola dove è detto che Dio convoca al suo banchetto i ciechi e gli zoppi (Lu 14.21) , come se la caverà? Mi domando inoltre se in precedenza dei ciechi e degli zoppi non avevano combattuto con Davide e, di conseguenza, facevano parte della Chiesa. È però superfluo insistere più a lungo su questo punto trattandosi di una falsità da lui inventata. Un'altra allegoria è la seguente: gli apostoli sono stati pescatori di uomini (Mt. 4.19) , non di bambini. Di rimbalzo io gli chiedo che significa la parola di Gesù secondo cui l'Evangelo è una rete per catturare ogni sorta di pesci (Mt. 13.47). Non mi piace però scherzare con le cose sacre e rispondo perciò che quando è stato affidato agli apostoli l'incarico di insegnare agli uomini, non è stato loro proibito di battezzare i bambini. Vorrei però mi fosse spiegato in nome di che si devono escludere i bambini dall'umanità quando il termine greco usato dall'evangelista significa ogni creatura umana. Sostiene ancora che dovendosi le cose spirituali riferire agli spirituali (1 Co. 2.13) , e non essendo i bambini spirituali, essi non sono idonei a ricevere il battesimo. Anzitutto egli falsifica, in modo perverso, il significato di quel testo di Paolo. È qui infatti questione non di battesimo ma di dottrina: i Corinzi si compiacevano eccessivamente del loro acume e Paolo li rimprovera dimostrando che in realtà dovevano ancora impadronirsi dei rudimenti della fede cristiana. Come è possibile dedurre da questo che si debba negare il battesimo ai fanciulli che Dio rivendica con atto di gratuita adozione quantunque siano nati dalla carne? Riguardo alla obiezione secondo cui trattandosi di uomini nuovi, come noi affermiamo, dovrebbero essere nutriti di cibo spirituale, la risposta è facile: sono accolti nel gregge di Cristo mediante il battesimo e questo segno della loro adozione è sufficiente finché, cresciuti, siano in grado di sopportare cibo solido; si deve perciò attendere il tempo della prova che Dio richiede, in particolare al momento della Cena. Obietta ancora, in risposta, che Cristo convoca alla Cena tutti quelli che sono suoi. Al che io rispondo che non vi ammette se non coloro che già sono pronti a commemorare il ricordo della sua morte. Di conseguenza i bambini, che ha voluto accogliere nelle sue braccia, appartengono alla Chiesa, sia pure in una forma di inferiorità. Alla sua obiezione: essere cosa mostruosa che un uomo, quando è nato, non mangi, rispondo che le anime sono nutrite in modo diverso che mangiando il pane visibile della Cena e Gesù Cristo risulta perciò sempre nutrimento ai piccoli bambini, quantunque essi non siano partecipi del segno esteriore; diverso è invece il caso del battesimo in cui è soltanto aperta loro la porta della Chiesa. Cita il caso del buon economo che distribuisce alla sua famiglia cibo al tempo opportuno (Mt. 24.45); concordo, ma in base a quale autorità e in base a quali considerazioni sarà egli in grado di stabilire l'età del battesimo per dimostrare che darlo ai piccoli bambini significa non darlo a tempo opportuno? Fa ancora riferimento all'ordine dato da Gesù Cristo ai suoi apostoli di recarsi a mietere quando i campi sono maturi . Che cosa ha da fare questo Cl. Battesimo? Nostro Signore Gesù, per meglio incitare i suoi apostoli a compiere il loro compito mostra che i frutti della loro fatica sono maturi: può forse da questo dedursi che il solo tempo adatto e confacente per il battesimo sia la mietitura? L'undicesima obiezione è la seguente: nella Chiesa primitiva tutti i cristiani erano detti discepoli (At. 11.26) , e perciò i piccoli bambini non possono essere inclusi nel numero. Abbiamo già visto quanto sia sciocca questa sua deduzione che estende in forma generale quanto è detto solo ad una parte. San Luca chiama "discepoli "quelli che erano già stati ammaestrati e facevano professione di fede cristiana; come sotto la Legge gli Ebrei in età matura si dicevano discepoli di Mosè. Da questo non consegue però che fossero esclusi i bambini che Dio ha dichiarati essere membri della sua Chiesa ed ha considerato tali.
Sostiene che tutti i cristiani sono fratelli e noi non consideriamo tali i bambini, in quanto non diamo loro la Cena. Ribadisco ancora una volta il concetto che nessuno è erede del regno di Dio se non è membro di Gesù Cristo. D'altronde il gesto con cui Gesù Cristo ha reso onore ai piccoli bambini prendendoli in braccio, ha il significato di una adozione con cui egli li ha associati agli adulti nella comunità. Il fatto che, per un tempo, siano esclusi dalla Cena non impedisce loro di appartenere al corpo della Chiesa. E il brigante convertitosi sulla croce non fu meno fratello dei credenti per il fatto di non essersi mai avvicinato alla Cena. Egli aggiunge che nessuno è reso nostro fratello se non per lo Spirito di adozione che non è conferito se non per la fede. Rispondo che ancora una volta mira fuori bersaglio applicando n modo grossolano e superficiale ai bambini ciò che è detto di persone adulte. San Paolo, infatti, dimostra in quel testo a quale mezzo Dio ricorra ordinariamente per chiamare i suoi eletti alla fede: Egli suscita loro buoni dottori, della cui fatica e del cui insegnamento si vale per afferrarli. Chi oserà però imporgli una norma rigida sì che egli non possa incorporare in Gesù Cristo i bambini facendo uso di un'altra forma segreta? E il caso del centurione Cornelio battezzato dopo avere ricevuto lo Spirito Santo (At. 10.44) ? È: sciocchezza grossolana voler ricavare da un singolo esempio una norma generale Questo risulta dal caso dell'eunuco e dei samaritani (At. 8.27 ; 8.12). Dio ha voluto seguire un ordine diverso facendoli battezzare prima che ricevessero il dono dello Spirito Santo. Il quindicesimo argomento è del tutto privo di valore. Serveto afferma che mediante la rigenerazione siamo resi simili a Dio. Ora sono Dèi coloro a cui la parola di Dio è stata data (Gv. 10.35) , e questo non si addice ai bambini. Questa divinità dei credenti è una delle sue fantasticherie che non starò ora a vagliare; rabbia spudorata è però la sua nel tirare in questo modo per i capelli il testo dei Sl. . Gesù Cristo fa l'esegesi di questo testo quando dice che il profeta chiama Dèi i re e le persone di autorità In quanto sono da lui stabilite. Questo abile dottore per dimostrare che ne sa più del figlio di Dio riferisce alla dottrina dell'evangelo quanto è in realtà detto della carica dei magistrati al solo scopo di eliminare dalla Chiesa i bambini. Obietta ancora che i bambini non possono essere considerati nuove creature non essendo generati dalla Parola. Non ho vergogna di ripetere quanto ho detto spesso, cioè che la dottrina del l'Evangelo è seme incorruttibile per rigenerare quelli che sono in grado di intenderla. Quando però manchi l'età per ricevere questo insegnamento Dio dispone di mezzi sufficienti per rigenerare quelli che ha adottati. Riprende con le sue allegorie, affermando che sotto la Legge gli animali non erano offerti in sacrificio immediatamente dopo la nascita. Avessimo facoltà di interpretare a nostro piacimento le allegorie, potrei far notare che ogni primogenito era consacrato a Dio sin dal momento in cui usciva dalla matrice (Es. 13.2); e, in particolare, è raccomandato di offrire un agnello di un anno (Es. 12.5). Ne consegue che non occorre aspettare l'età matura per offrire a Dio i bambini ma che gli debbono essere riservati e affidati sin dalla nascita. Sostiene ancora che non si può venire a Cristo senza essere stati preparati da Giovanni Battista, quasi la missione di Giovanni Battista non avesse avuto un carattere temporale. Pur accettando questo si noterà che non v'è traccia di siffatta preparazione nei bambini che Gesù Cristo accolse in braccio e benedisse; si ritiri perciò con i suoi argomenti falsamente inventati. Sceglie infine quale avvocato Mercurio, soprannominato sovranamente grande, e le Sibille secondo cui le purificazioni sono da riservarsi agli adulti Questa è la considerazione e il rispetto che egli ha del battesimo di Cristo; sottoposto e commisurato alla cerimonie di gente profana, al punto che non è lecito fare uso se non conformandosi all'idea di un discepolo di Platone. Ha però maggior valore l'autorità di Dio cui è piaciuto consacrare a se i piccoli bambini, anzi santificarli Cl. Segno solenne anche se non sono in grado di intenderne la forza. Non possiamo considerare lecito ricevere norme di espiazione dai pagani, che snaturano nel nostro battesimo quella norma eterna che Dio ha stabilito nella circoncisione. Per concludere egli afferma che, qualora, si dovesse ritenere valido il battesimo senza la comprensione di esso, sarebbe valido il battesimo che i bambini fanno nei loro giochi. Per potergli rispondere mi riferisco a Dio che ha stabilito la circoncisione dovesse essere comune ai grandi e ai piccoli senza aspettare che questi ultimi diventassero adulti. Se tale è l'ordine di Dio, guai a chi pretende, con questi argomenti, rovesciare la santa ed eterna istituzione di Dio. Non ci si deve stupire se questi spiriti dannati, tormentati da frenesia buttano fuori assurdità così grossolane per giustificare i loro errori, visto che Dio punisce proprio con questi deliri il loro orgoglio e la loro ostinazione. Penso aver dimostrato in modo sufficientemente probante quanto siano fragili gli argomenti a cui Serveto ricorre in questa materia per venire In aiuto ai suoi confratelli. 32. Quanto è stato detto dimostra in modo sufficientemente chiaro come questa gente metta sossopra la Chiesa del Signore senza ragione né motivazioni valide, sollevando dibattiti e problemi, in vista di annullare quella santa prassi diligentemente seguita dai credenti sin dall'età apostolica; è stato infatti dimostrato in modo evidente che essa trova fondamenti validi e stabili nella Sacra Scrittura e abbiamo d'altro lato abbondantemente refutato tutte le obiezioni che si sogliono fare contro di essa Non sussiste perciò il minimo dubbio che ogni buon servitore di Dio si dichiari pienamente soddisfatto di questa trattazione, a lettura ultimata, e si renda chiaramente conto del fatto che tutte le critiche mosse a questa santa istituzione, per abolirla e rovesciarla, sono false macchinazioni del Diavolo, che ha lo scopo di sminuire i frutti di consolazione e di fiducia che il Signore ha voluto concederci, mediante le sue promesse e intende oscurare la gloria del nome suo, che risulta invece tanto più grande quanto più la sua misericordia risulta abbondantemente sparsa sugli uomini. Quando infatti il Padre celeste ci attesta in modo visibile, mediante il segno del battesimo, che per amor nostro vuole prendere cura della nostra discendenza ed essere Dio anche dei nostri figli, non abbiamo forse motivo di rallegrarci seguendo l'esempio di Davide constatando che Dio assume nei nostri riguardi l'aspetto di padre di famiglia, estendendo la sua provvidenza non solo a noi ma ai nostri figli dopo la nostra morte? In questa allegrezza Dio è grandemente glorificato. Per questo motivo Satana si sforza di sottrarre ai nostri figli la comunione del battesimo perché, avendo cancellato questa dichiarazione del Signore, che ha la funzione di confermarci le grazie che vuole fare ai nostri figli, a poco a poco finiamo Cl. Dimenticare le stesse promesse che ha fatto loro. Ne deriva non solo il misconoscimento della misericordia di Dio per noi e l'ingratitudine nei suoi confronti ma anche disinteresse riguardo alla istruzione dei nostri figli nel timore e nella sottomissione alla sua legge, nella conoscenza del suo Evangelo. Non è infatti piccolo stimolo per spingerci a nutrirli in pietà e obbedienza a Dio il pensiero che sin dalla nascita siano stati accolti dal Signore nel popolo suo, quali membri della sua Chiesa. Non rifiutiamo dunque la grande bontà del nostro Signore ma presentiamogli liberamente i nostri figli cui ha promesso accesso alla comunità di coloro che egli riconosce quali familiari e membri della sua casa, cioè della Chiesa cristiana.
CAPITOLO 17/a LA CENA DI GESÙ CRISTO ED I FRUTTI DA ESSA RECATI 1. Quando Dio ci ha accolti nella sua famiglia, e non solo in qualità di servi, ma di figli, egli adempie quanto compete ad un buon padre, che prende cura della sua figliolanza, assumendo contemporaneamente la responsabilità di curarci e di nutrirci per tutta la durata della nostra vita. Non accontentandosi di ciò, ci ha dato un pegno per meglio manifestare questa liberalità che dura senza fine. Ha dato perciò alla sua Chiesa, per mano del figlio suo, il secondo sacramento, cioè la Cena spirituale in cui Gesù Cristo ci attesta che è il pane vivificante di cui le anime nostre devono essere nutrite e saziate in vista della immortalità. Dato che la conoscenza di questo grande mistero è fondamentale e richiede, a causa della sua profondità, particolare attenzione, e Satana, dal canto suo, in vista di sottrarre alla Chiesa questo inestimabile tesoro, lo ha già da lungo tempo oscurato, dapprima con nebbia ed oscurità e poi con tenebre fitte, suscitando inoltre dibattiti e polemiche al riguardo per creare negli uomini avversione a questo sacramento, e si è servito nel nostro tempo degli stessi artifici e degli stessi inganni, mi sforzerò in primo luogo di esprimere in modo intelligibile anche ai profani ed ai semplici, quanto è necessario conoscere riguardo a questi temi ed esporrò, in seguito, i problemi con cui Satana ha cercato di ottenebrare il mondo. In primo luogo i segni sono costituiti dal pane e dal vino che rappresentano per noi il nutrimento spirituale che riceviamo dal corpo e dal sangue di Gesù Cristo. Come Dio rigenerandoci nel battesimo ci incorpora nella sua Chiesa e ci adotta quali figli suoi, così, come abbiamo già detto, compie il suo ufficio di buon padre di famiglia, e padre previdente, nel darci costantemente il cibo necessario per mantenerci in quella vita a cui ci ha generati mediante la sua parola. Il solo nutrimento dell'anima è Gesù Cristo. Perciò il padre celeste ci chiama a se acciocché saziati della sua sostanza riceviamo di giorno in giorno nuovo vigore fino a giungere all'immortalità celeste. Il mistero della comunione con Gesù Cristo risulterebbe incomprensibile ai sensi naturali, ce ne presenta perciò una immagine e una figura in segni visibili adatti alla nostra debolezza. Dandocene la caparra, egli rende questa realtà altrettanto sicura per noi che se l'avessimo dinnanzi agli occhi; una similitudine così familiare infatti, parla agli spiriti più insensibili e semplici: come il pane e il vino nutrono i nostri corpi in questa vita provvisoria, così sono le anime nostre nutrite da Cristo. Tale è dunque il fine di questo sacramento: garantirci che il corpo del Signore è stato offerto una volta in sacrificio per noi in modo che ora lo possiamo ricevere, e ricevendolo percepiamo in noi l'efficacia di questo dono unico, che ne è stato fatto. Ed anche che una volta è stato sparso per noi il suo sangue che ci è bevanda perpetua. Questo esprimono le parole della promessa quando è detto: "Prendete e mangiate questo è il mio corpo che è dato per voi " (Mt. 26.26; Mr. 14.22; Lu 22.19; 1 Co. 11.24). Ci è dunque ordinato di prendere e mangiare il corpo che è stato dato per la nostra salvezza, affinché, vedendo che ne siamo fatti partecipi, abbiamo certa fiducia che la potenza di questo dono si paleserà in noi. Perciò chiama il calice: patto del suo sangue. Essendo strumento per confermare la nostra fede, ogniqualvolta ci offre da bere il suo sangue rinnova in qualche modo, anzi mantiene, con noi il patto che ha ratificato in questo sangue. 2. Le nostre anime possono ricavare da questo sacramento grande consolazione e fiducia: riconoscendo che Gesù Cristo si è incorporato a noi e noi in lui al punto che possiamo dire che tutto ciò che gli appartiene è nostro e dire suo tutto ciò che è nostro. Osiamo perciò esprimere la certezza che nostra è la vita eterna e il regno dei cieli non può esserci tolto, più di quanto potrebbe essere tolto a Cristo stesso. E, d'altra parte, non possiamo essere dannati a causa dei nostri peccati, più di quanto potrebbe esserlo lui, poiché ci ha liberati da questi peccati assumendone l'imputazione quasi fossero suoi. Si tratta di un meraviglioso scambio, che, nella sua bontà infinita, ha voluto effettuare con noi: ricevendo la nostra povertà ha trasferito in noi le sue ricchezze, accogliendo su di se la nostra debolezza ci ha resi partecipi della sua forza, assumendo la nostra mortalità ha fatto nostra la sua immortalità, prendendo il carico della nostra iniquità, da cui eravamo oppressi, ci ha offerto la sua giustizia perché fossimo fondati in essa, venendo in terra ha aperto la via del cielo, facendosi figlio dell'uomo ci ha resi figli di Dio. 3. Tutte queste realtà ci sono promesse da Dio, in questo sacramento, con tale pienezza che dobbiamo essere certi della loro realtà come se Gesù Cristo stesso, in persona, ci stesse davanti agli occhi e fosse offerto al nostro tatto. Questa parola infatti non può venir meno o risultare falsa: "Prendete, mangiate, bevete, questo è il mio corpo che è dato per voi, questo è il mio sangue che è sparso per la remissione dei vostri peccati ". Nel dare l'ordine di prendere egli ci attesta che è nostro, nell'ordinare che si mangi e beva ci dà la prova che diventa una medesima sostanza con noi. Quando dice: "Questo è il mio corpo dato per voi, questo è il mio sangue sparso per voi "dichiara e insegna che non sono tanto da considerarsi suoi quanto piuttosto nostri. Poiché li ha assunti e lasciati non per utilità sua, ma per amor nostro e nostro giovamento. Occorre osservare, con attenzione, il fatto che la forza e la sostanza fondamentali del sacramento, in una forma quasi assoluta, sono rinchiusi in queste parole "che è dato, che è sparso, per voi "Ci gioverebbe altrimenti assai poco la distribuzione del corpo e del sangue di Gesù Cristo, se non fossero stati una volta offerti per la nostra remissione e la nostra salvezza. Per questo motivo ci sono rappresentati sotto forma di pane e di vino: per insegnarci e dimostrarci che non soltanto ci appartengono, ma ci sono vita e nutrimento. Abbiamo detto poc'anzi che mediante le realtà materiali che ci vengono presentate nei sacramenti dobbiamo essere condotti alle realtà spirituali per via di proporzioni e similitudini. Vedendo il pane che ci è presentato quale segno e sacramento del corpo di Cristo, dobbiamo immediatamente cogliere questa similitudine: come il pane nutre, alimenta, conserva la vita del nostro corpo, così il corpo di Gesù Cristo è cibo e nutrimento per la conservazione della nostra vita spirituale. E quando vediamo il vino essere offerto qual segno del suo sangue, bisogna pensare all'utilità e al giovamento del vino per il corpo umano, onde intendere ciò che il sangue di Gesù Cristo ci procura spiritualmente: esso cioè conferma, conforta, rallegra, dà forza. Se consideriamo infatti attentamente il giovamento recatoci dal fatto che il sacro corpo di Gesù Cristo ed il suo sangue, siano stati offerti e sparsi per noi, vediamo chiaramente che le caratteristiche attribuite al pane ed al vino si adattano loro perfettamente in base a questa similitudine e a questa analogia. 4. L'elemento fondamentale del sacramento non è dunque l'offrirci semplicemente il corpo di Cristo, ma piuttosto il garantire e confermare la promessa mediante cui Gesù Cristo ci annunzia che la sua carne è realmente nutrimento e il suo sangue bevanda dai quali siamo nutriti in vista della vita eterna, e attesta che è il pane della vita e che chiunque ne avrà mangiato vivrà eternamente. Per attuare questa garanzia, riguardo alla promessa suddetta, il sacramento ci rinvia alla croce di Cristo in cui tale promessa trova la sua garanzia e il suo pieno compimento. Non riceviamo infatti Gesù Cristo in forma salvifica se non in quanto è stato crocifisso, e avendo una chiara comprensione della potenza della sua morte. Di fatto, nel definirsi pane della vita, Gesù non intendeva alludere al sacramento (come molti hanno erroneamente inteso ) ma al fatto che tale ci era stato dato dal Padre e si era dimostrato quando, facendosi partecipe della nostra umana mortalità, ci aveva resi partecipi della sua divina immortalità, offrendosi in sacrificio ha preso su di se la nostra maledizione per colmarci della sua benedizione, ha travolto e inghiottito la morte nella sua morte, ha risuscitato alla gloria e all'incorruttibilità, nella sua risurrezione, la nostra carne corruttibile che aveva rivestito. 5. Queste realtà devono però essere riferite a noi. Ciò si verifica quando il Signore Gesù si dà a noi con tutti i suoi benefici. In primo luogo questo accade mediante l'Evangelo, e in modo più chiaro nella Cena quando la riceviamo in un atteggiamento di fede autentica. Non è dunque il sacramento che ha il potere di far sì che Cristo sia per noi pane di vita, ma ricordandoci che tale ci è stato fatto una volta onde ne fossimo costantemente nutriti, ci fa percepire il sapore di quel pane affinché ne ricaviamo nutrimento. Ci attesta infatti che quanto Gesù Cristo ha fatto e sofferto ha lo scopo di vivificare la nostra vita; in secondo luogo ci attesta che questa vita è duratura. Gesù Cristo non potrebbe essere per noi pane di vita, se, un tempo, non fosse nato, morto, risuscitato per noi, analogamente l'efficacia di questi fatti ha da essere permanente affinché ne derivi frutto. Questo concetto è molto bene espresso nelle parole dette in san Giovanni: "Il pane che io darò, è la mia carne, che darò per la vita del mondo " (Gv. 6.51); con queste parole voleva indubbiamente dire che il suo corpo sarebbe stato alimento per la vita spirituale dell'anima nostra in quanto egli lo avrebbe offerto alla morte per la salvezza nostra. Poiché lo ha dato una volta, quale pane, quando lo ha offerto alla crocifissione per la redenzione del mondo. Egli lo offre quotidianamente, quando mediante la parola del suo Evangelo, offre se stesso affinché siamo resi partecipi del fatto che è stato crocifisso per noi e di conseguenza sigilla una tale partecipazione con il mistero della Cena, in cui, anzi, attua lui stesso interiormente quanto significa esteriormente. Due errori sono da evitare a questo punto: il primo è che depauperando eccessivamente il valore dei segni, non si finisca Cl. Scinderli dai misteri a cui sono in qualche modo vincolati e, conseguentemente, se ne riduca l'efficacia. L'altro è che esaltandoli oltre misura si giunga ad offuscare la verità interiore. Nessuno può negare, a meno di essere del tutto privo di sensibilità religiosa, che Cristo sia il pane di vita da cui sono nutriti i credenti per la vita eterna; ciò che però non è chiaro a tutti sono le modalità di tale partecipazione. Vi sono infatti quelli per cui mangiare la carne di Cristo e bere il suo sangue significano, semplicemente, credere in lui. Sembra però che egli stesso abbia inteso esprimere una realtà più profonda in quel fondamentale discorso in cui ci esorta alla manducazione del suo corpo: che cioè siamo vivificati dalla reale partecipazione a quanto di se ci offre, partecipazione espressa con i termini: "bere e mangiare ", affinché non si potesse pensare che la vita, che riceviamo da lui, consista in una semplice conoscenza. Come ad offrire nutrimento al corpo, è l'atto di mangiare del pane e non semplicemente guardarlo, nello stesso modo occorre che l'anima sia realmente resa partecipe di Cristo per essere nutrita a vita eterna. Riconosciamo certo che tale manducazione si compie solamente nella fede perché non si può concepire in alcun altro modo. La differenza che ci separa da coloro che sostengono quella tesi, è però nel fatto che essi considerano che mangiare non è altro che credere. Affermo che credendo mangiamo la carne di Cristo e questa manducazione è frutto della fede; in altri termini essi dicono che la manducazione si identifica con la fede stessa, mentre preferisco dire che proviene da quella. Il contrasto terminologico è minimo ma diventa sostanziale nella realtà. Quantunque l'Apostolo, infatti, insegni che Gesù Cristo abita nei nostri cuori per fede (Ef. 3.17) , non di meno nessuno identifica questo abitare con la fede stessa. Tutti riconoscono invece che egli ha voluto esprimere, con questo, un singolare beneficio della fede in quanto essa fa sì che Cristo abiti nei credenti. Nel definirsi pane di vita, il Signore ha voluto non solo attestare che la nostra salvezza consiste in una fiducia nella sua morte e nella sua risurrezione, ma che in virtù della reale comunione che abbiamo con lui, la sua vita viene trasferita in noi e diventa nostra, così come il pane di cui ci cibiamo dà vigore al nostro corpo. 6. Sant'Agostino, che citano a sostegno della loro tesi, scrivendo che mangiamo il corpo di Cristo credendo in lui ha inteso dimostrare soltanto che tale manducazione viene dalla fede. È questo un fatto che non contesto, ma aggiunge che riceviamo Cristo non contemplandolo da lontano ma quando si unisce a noi per diventare nostro capo e fare di noi le sue membra. Pur non rifiutando categoricamente questo modo di esprimersi non penso ci dia una interpretazione esatta ed esauriente dell'espressione "mangiare il corpo di Cristo ". Sant'Agostino fa spesso uso di questa espressione; quando ad esempio dice nel libro terzo della dottrina cristiana: "In questa parola "se non mangiate della carne del figlio dell'uomo non avrete in voi la vita "siamo in presenza di una espressione figurata che cioè abbiamo a comunicare alla passione del Signore Gesù e avere questo pPensiero impresso nella nostra mente, che la sua carne è stata crocifissa per noi ". E ancora, quando afferma in molte omelie su san Giovanni che i tremila uomini convertiti dalla predicazione di san Pietro, credendo in Gesù Cristo, hanno bevuto il suo sangue quello stesso che avevano sparso perseguitandolo. In molti altri testi però esalta, fin dove gli è possibile questa comunione con Gesù Cristo mediante la fede, affermando che le anime nostre sono nutrite dalla sua carne altrettanto quanto i nostri corpi lo sono dal pane di cui ci cibiamo. È quanto intende Crisostomo in alcuni testi, dicendo che Gesù Cristo ci fa essere suo corpo non solo per fede ma altresì nella realtà 8. Non intende dire che otteniamo un tale beneficio all'infuori della fede; ma vuole evitare che si pensi che abbiamo tale comunione solo per immaginazione. Tralasciamo di parlare di coloro che vedono nella Cena soltanto un segno mediante cui manifestare la nostra professione di fede cristiana davanti agli uomini, poiché ritengo aver sufficientemente refutato tale errore, nel trattare i sacramenti in generale. Basterà per ora porre attenzione al fatto che il calice è detto patto nel sangue di Gesù Cristo (Lu 22.20); occorre dunque vi sia contenuta una promessa, che serva a confermare la fede. Non si fa uso adeguato della Cena se non guardando a Dio per ricevere conferma della sua bontà. 7. Insoddisfacente risulta altresì l'interpretazione di coloro che, pur avendo confessato che in qualche modo abbiamo comunione Cl. Corpo di Cristo, dovendo precis.re questa comunione, ci fanno partecipi del suo Spirito soltanto, tralasciando ogni menzione della carne e del sangue. Eppure queste parole non furono dette invano: che la sua carne è nutrimento, e il suo sangue bevanda, e nessuno avrà vita se non colui che avrà mangiato questa carne e bevuto questo sangue, e altre affermazioni analoghe. Essendo evidente che la comunicazione di cui è questione nella Cena, oltrepassa di molto ciò che essi ne dicono, prima di esaminare l'eccesso opposto, faremo brevemente cenno alla portata di questa comunione. Dovremo infatti impegnarci in seguito in una polemica molto più ampia con certi dottori, o sognatori di assurde fantasie, che dando un'interpretazione massiccia ed assurda dell'espressione "mangiare il corpo di Cristo, e bere il suo sangue "spogliano Gesù Cristo del suo corpo trasformandolo in fantasma. Ci sforzeremo di far questo nei limiti in cui risulta possibile illustrare, con parole, un mistero così grande che riconosco non poter comprendere nel mio spirito, e ne faccio esplicita ammissione, affinché nessuno ne valuti la grandezza in base alle mie parole così deboli e inadeguate alla realtà. Esorto anzi i lettori a non lasciare che il loro spirito si rinchiuda entro limiti e confini così ristretti, ma si sforzi di salire più in alto di quanto possa condurli io stesso. Ogniqualvolta affronto questa materia, dopo essermi sforzato di esaurire il tema, constato quanto io sia lontano dal raggiungere la perfezione. E quantunque l'intendimento abbia maggior capacità nel concepire e valutare di quanto ne abbia la lingua nell'esprimere, nondimeno risulta egli stesso trasceso e schiacciato da tanta grandezza. Non posso dunque far altro che lasciarmi afferrare da un sentimento di ammirazione dinanzi a questo mistero, che l'intendimento non è in grado di rettamente, concepire, né la lingua di esprimere. Esporrò nondimeno la sostanza del mio pensiero che sarà, spero, approvata da tutte le persone di cuore retto e tementi Iddio, non ho infatti il minimo dubbio che essa corrisponda a verità. 8. La Scrittura ci insegna anzitutto che Cristo è stato, sin dall'inizio, parola del Padre, vivificante, fonte e origine di vita da cui ogni cosa ha tratto forza e sussistenza. San Giovanni, pertanto, lo chiama a volte: parola di vita (1 Gv. 1.1) , altre volte dice che la vita è stata eternamente in lui (Gv. 1.4) , volendo dire che ha sempre largito la sua vita in ogni creatura per dare loro forza e vigore. Tuttavia egli stesso aggiunge poco dopo, che la vita è stata manifestata quando il figlio di Dio, presa la nostra carne, si è dato a vedere e a toccare. Quantunque infatti egli spandesse già precedentemente la sua forza sulle creature, essendo l'uomo separato da Dio a causa del peccato, ed avendo perduto la comunione della vita ed avvolto da ogni lato nella morte, era necessario che fosse nuovamente reintegrato nella comunione di quella parola per ritrovare una speranza di immortalità. Che motivo di sperare avremmo noi, se, udendo che la parola di Dio contiene in se la pienezza della vita, ci sentissimo però lontani da essa non vedendo in noi e attorno a noi altro che morte? Da quando però questa sorgente di vita ha preso a dimorare nella nostra carne non risulta più nascosta, lontano da noi, ma si offre e si dà in modo che se ne possa beneficiare. In questo modo Gesù Cristo ci ha recato i benefici della vita di cui era fonte. Anzi, ha reso per noi vivificante la carne che ha preso e rivestita affinché, mediante la partecipazione ad essa, fossimo nutriti in vista dell'immortalità: "Io sono "dice "il pane della vita che è sceso dal cielo " (Gv. 6.48.58) e ancora: "Il pane che darò e la mia carne, che darò per la vita del mondo " (Gv. 6.51). Egli dimostra in queste parole non solo che è la vita in quanto è parola eterna di Dio scesa dal cielo a noi, ma altresì, per il fatto che, scendendo, ha sparso questa forza nella carne da lui assunta, affinché ne fossimo resi partecipi. Da questo deriva che la sua carne è realmente cibo e il suo sangue bevanda e l'uno e l'altro sono sostanze per nutrire i credenti in vita eterna. Da questo nasce pertanto una singolare consolazione: la vita si trova posta nella nostra stessa carne. In tal modo si può affermare che non solo giungiamo alla vita, ma essa stessa ci viene incontro per offrirsi a noi. Noi l'otteniamo alla sola condizione di offrirle posto nel nostro cuore. 9. Ora, quantunque la carne di Cristo non abbia in se stessa la forza di poterci vivificare, visto che nella sua condizione primitiva è stata sottoposta a mortalità ed essendo resa immortale trova la sua forza altrove, tuttavia a ragione è detta vivificante perché è stata ripiena di tale perfezione di vita da spargere su di noi quanto si richiede alla nostra salvezza. In questo senso deve intendersi ciò che dice Nostro Signore che come il Padre ha in se la vita ha pure ordinato che il Figlio avesse la vita in se (Gv. 5.26. In questo testo egli parla non delle proprietà che possedeva sin dalla eternità in virtù della sua divinità, ma di quelle che gli sono state date nella carnalità in cui ci è apparso. Egli dimostra perciò che la pienezza della vita abita anche nella sua umanità in modo tale che chiunque ha comunicazione con la sua carne e il suo sangue ottiene la partecipazione a quella vita. Questo fatto si può illustrare con un esempio familiare. Come da una fontana scorre l'acqua sufficiente per bere, irrigare i campi e molti altri usi, e non è la fontana ad avere in se tale abbondanza, ma la fonte da cui perennemente l'acqua affluisce per rifornirla si che mai non venga meno, analogamente, la carne di Cristo può paragonarsi ad una fontana in quanto riceve la vita che fluisce dalla divinità per farla penetrare in noi. Chi non si rende conto ora che la comunicazione al corpo e al sangue di Cristo è necessaria a tutti coloro che aspirano giungere alla vita celeste? E questo scopo mirano le parole dell'apostolo: "La Chiesa è il corpo di Cristo e il suo compimento. Egli è il capo da cui tutto il corpo ben collegato cresce secondo l'aiuto fornito dalle sue giunture " (Ef. 1.22; 4.15-16) , e che i nostri corpi sono membra di lui (1 Co. 6.15). Queste affermazioni possono essere realizzate solo se egli si unisce a noi interamente, corpo e spirito. L'Apostolo però specifica in che consiste questa comunione, mediante la quale siamo uniti alla sua carne, dicendo che siamo membra del suo corpo, ossa delle sue ossa, carne della sua carne (Ef. 5.30). E infine, volendo affermare che questa realtà oltrepassa ogni formulazione, conclude il suo ragionamento esclamando con ammirazione trattarsi di un gran mistero. Somma follia sarebbe dunque il non riconoscere alcuna comunione alla carne e al sangue del Signore, mentre san Paolo la dichiara così profonda da preferire adorarla piuttosto che definirla con parole. 10. L'assunto del nostro problema è dunque questo: la carne e il sangue di Gesù Cristo saziano le nostre anime non meno di quanto il pane e il vino mantengano la vita dei nostri corpi. Non risulterebbe altrimenti valida la similitudine del segno, se le nostre anime non trovassero in Gesù Cristo di che nutrirsi. Questo non si potrebbe verificare se Gesù Cristo non si unisse realmente a noi, e non ci saziasse del cibo del suo corpo e del suo sangue . Ci sembra incredibile che la carne di Gesù Cristo, separata da noi, e da così grande distanza, possa giungere sino a noi per nutrirci? Consideriamo la potenza segreta dello Spirito Santo che sopravanza nella sua grandezza tutti i nostri sensi e di cui sarebbe follia voler ridurre la dimensione infinita alla nostra. Sia pertanto la fede a ricevere quanto il nostro intendimento non è in grado di concepire: che cioè lo Spirito unisce realmente cose separate dalla distanza. Gesù Cristo ci attesta e ci garantisce nella Cena questa partecipazione alla sua carne e al suo sangue mediante la quale fa scendere in noi la sua vita come se penetrasse nelle nostre ossa e nel nostro midollo. E non è segno vuoto, ingannevole quello che ci offre nella Cena, ma vi manifesta la potenza del suo Spirito per compiere le sue promesse. E in realtà egli lo offre e lo dona a tutti coloro che si avvicinano a questo banchetto spirituale, quantunque i credenti soli vi partecipino, in quanto mediante fede vera si rendono degni di godere di questo beneficio. Per questa ragione l'Apostolo dice che il pane che rompiamo è la comunione al corpo di Cristo, e il calice che, mediante la parola dell'evangelo e la preghiera, consacriamo è la comunione del suo sangue (1 Co. 10.16). Non si deve obiettare, come fanno alcuni, che si tratta di una espressione figurata in cui il nome della cosa rappresentata è attribuita al segno. Quando affermano che evidentemente la frazione del pane non è la realtà spirituale, ma ne rappresenta solo il segno esteriore, possiamo accettare che le parole di Paolo si debbano intendere in questo modo, possiamo obiettare però che, essendoci offerto il segno, anche la sostanza ci è data in tutta la sua autenticità. A meno di considerare Dio bugiardo, infatti, nessuno oserà affermare che egli ci offra segni vani e privi di significato. Se perciò il Signore ci raffigura, nella frazione del pane, la reale partecipazione al suo corpo, non c'è dubbio che contemporaneamente egli ce lo dia. I credenti hanno da ritenere fermamente questo fatto: ogniqualvolta si trovano in presenza dei segni istituiti da Dio considerino come un dato certo il fatto che la verità della cosa rappresentata è congiunta al segno, e di questo abbiamo certa persuasione. Perché infatti nostro Signore darebbe in mano il segno del suo corpo se non fosse per renderci certi della partecipazione ad esso? Se è vero che il segno visibile ci è offerto per esserci garanzia del dono della realtà invisibile, occorre avere questa fiducia incrollabile: prendendo il segno del corpo prendiamo parimenti il corpo. 11. Affermo dunque, come è sempre stato accolto nella Chiesa ed è tuttora insegnato da coloro che predicano fedelmente, che vi sono nella santa Cena due realtà: i segni visibili che ci sono qui offerti a motivo della nostra infermità, e la verità spirituale, in questi segni figurata e parimenti offerta. Volendo illustrare in modo chiaro questa verità, affermo che nel sacramento vi sono tre elementi da prendere in considerazione, oltre al segno esteriore di cui non è ora questione: anzitutto il suo significato, in secondo luogo la sostanza o la materia, in terzo luogo l'efficacia, la forza che procede da entrambi. Il significato è espresso dalle promesse che sono scritte nel segno; Gesù Cristo con la sua morte e risurrezione costituisce la materia o sostanza. Per efficacia intendo la redenzione, la giustizia, la santificazione, la vita eterna e tutti i benefici che Gesù Cristo ci reca. Or, quantunque tutte queste cose si ricevano mediante la fede, non accetto il cavillo secondo cui dove è detto che riceviamo Gesù Cristo per fede, si intenda solo affermare che lo riceviamo mediante l'intelligenza e il pensiero. Le promesse ce lo offrono infatti, non semplicemente per farcelo contemplare illudendoci in una pura e semplice contemplazione, ma per farci godere realmente della sua comunione. In realtà non vedo come un uomo possa esser certo di avere la sua redenzione e giustizia nella croce di Gesù Cristo e la vita nella morte di lui, se non ha prima di tutto una reale comunione con lui. Mai giungerebbero a noi quei benefici se per prima cosa Gesù Cristo non si facesse nostro. Affermo pertanto che nella Cena, sotto i segni del pane e del vino, ci ha offerto realmente Gesù Cristo, cioè il suo corpo e il suo sangue, nei quali ha adempiuto ogni giustizia per procurarci salvezza: e questo accade in primo luogo affinché siamo uniti in un corpo con lui; in secondo luogo affinché, resi partecipi della sua sostanza, percepiamo la sua potenza, avendo comunione a tutti i suoi benefici. 12. È opportuno affrontare ora il problema dei miscugli iperbolici, cioè eccessivi, frutto della superstizione. Satana infatti ha, in questo campo, messo in giro con astuzia fenomenale un sacco di illusioni per distogliere l'attenzione dal cielo, e tenere le intelligenze nel mondo quaggiù: facendo credere che Gesù Cristo è vincolato all'elemento del pane. Si eviti anzitutto di concepire tale presenza secondo l'immaginazione dei Sofisti, quasi il corpo di Cristo scendesse sul tavolo e fosse quivi localizzato per essere toccato dalle mani, masticato in bocca e inghiottito nello stomaco. Fu papa Nicola a dettare questa bella formula a Berengario come attestato del suo pentimento. Sono parole di tale enormità da lasciare stupefatti; infatti il glossatore, nel testo di diritto canonico, si vede costretto ad affermare che se i lettori non fossero avvertiti e attenti, potrebbero essere indotti da tali espressioni, in un'eresia peggiore di quella di Berengario stesso. Il Maestro delle Sentenze, quantunque si dia da fare per giustificare l'assurdità, sembra però pensare piuttosto il contrario. Poiché non essendoci dubbio che il corpo di Cristo ha la sua dimensione, come è richiesto dalla natura di un corpo umano, e che è localizzato in cielo, dove è accolto finché non venga per il giudizio, dobbiamo considerare illecito includerlo fra gli elementi corruttibili e immaginarlo presente ovunque. Di fatto questa presenza non è necessaria per avere comunione Cl. Signore Gesù Cristo dato che egli ci elargisce, mediante il suo Spirito, il beneficio di essere fatto uno con lui, nel corpo, nello spirito, nell'anima. Il legame di questa unione è lo Spirito Santo, che è quasi un canale mediante cui scende sino a noi tutto ciò che Cristo è, e Cristo possiede. Noi infatti constatiamo, in modo visibile, che il sole illuminando la terra, invia, in qualche modo, mediante i suoi raggi, la sua sostanza per generare, nutrire, far crescere i frutti; perché dovrebbero essere la luce e l'irradiazione dello Spirito di Cristo meno potenti da non poter recarci la comunione della sua carne e del suo sangue? La Scrittura pertanto, parlando della partecipazione che abbiamo con Cristo, ne sintetizza tutta la forza nello Spirito. Un testo solo risulta sufficiente: san Paolo nel capitolo ottavo dei Romani dichiara che Cristo abita in noi Cl. Suo Spirito. Dicendo questo non annulla tuttavia questa comunione del suo corpo e del suo sangue, di cui stiamo ora parlando, ma dimostra che lo Spirito è il solo mezzo per cui noi possiamo possedere Cristo e averlo dimorante In noi. 13. I teologi scolastici scandalizzati da così rozza empietà si esprimono in termini più moderati, o forse meno espliciti, si tratta però solo di un alibi più sottile. Ammettono che Gesù Cristo non sia rinchiuso nel pane e nel vino in forma locale, né corporale ma ne inventano una nuova, che non capiscono essi stessi, né tanto meno sono in grado di illustrare agli altri. La sostanza del loro insegnamento è in fondo che si debba cercare Gesù Cristo nelle specie del pane, per usare la loro espressione. Quando però affermano che la sostanza del pane è tramutata in lui, non vincolano forse la sostanza di lui al candore che pretendono essere il solo elemento che quivi rimane? Dicono però che è contenuto nelle specie del pane in modo tale da rimanere tuttavia in cielo, e definiscono tale presenza abituale. Qualunque siano però i termini inventati per mascherare le loro false dottrine e renderle accettabili, si ritorna pur sempre a questo punto: ciò che era pane diventa Cristo: in modo tale che dopo la consacrazione la sostanza di Gesù Cristo è nascosta sotto forma di pane. E questo non hanno vergogna di dirlo in modo esplicito e chiaro. Queste sono infatti le parole del loro Maestro nelle Sentenze: che il corpo di Cristo, essendo visibile in se, è nascosto sotto l'apparenza del pane dopo la consacrazione; la realtà del pane non è perciò altro secondo lui che una apparenza per distogliere lo sguardo del corpo. 14. Di qui è venuta fuori quella assurda transustanziazione per la quale i papisti combattono oggi con impegno maggiore che per tutti gli altri articoli della fede. I primi inventori di questa teoria non erano in grado di capire come il corpo di Gesù Cristo potesse essere unito con la sostanza del pane senza che sorgessero, immediatamente, molte assurdità evidenti. Sono perciò stati costretti a ricorrere a questo misero sotterfugio: il pane si è mutato nel corpo di Cristo non nel senso che il pane si è fatto corpo, ma nel senso che Gesù Cristo, per nascondersi sotto le specie del pane, annulla la sostanza di quello. Stupisce che siano caduti in tanta ignoranza, per non dire stupidità, osando contraddire, per sostenere tale mostruosità, non solo la Sacra Scrittura, ma anche ciò che era sempre stato creduto dalla Chiesa antica. Ammetto che fra gli antichi alcuni abbiano a volte adoperato il termine "mutamento ", non per abolire la sostanza dei segni esteriori, ma per sottolineare il fatto che il pane consacrato a quel mistero risulta differente dal pane comune, e da ciò che era prima. Nondimeno tutti affermano, unanimemente, che nella santa Cena sono presenti due elementi: uno terrestre, l'altro celeste, e non avvertono il minimo dis.gio nell'affermare che il pane e il vino sono segni terreni. È chiaro, qualsiasi cosa dicano costoro, che su questo punto sono in contrasto con gli antichi, la cui autorità spesso usano contrapporre a quella di Dio. Questa dottrina è di recente invenzione, per lo meno può considerarsi ignorata non solo ai tempi in cui la dottrina era ancora nella sua purezza, ma anche dopo, quando già era stata intaccata da molte macchie. Fra gli antichi, comunque, non c'è nessuno che non riconosca esplicitamente che il pane e il vino sono segni del corpo e del sangue di Gesù Cristo quantunque a volte in vista di sottolineare la dignità di questo mistero ricorrano a molte espressioni. Le loro affermazioni secondo cui, consacrando il pane, si opera un mutamento segreto in modo tale che sia presente altro che del pane e del vino, non è, come ho già mostrato, per significare che il pane e il vino svaniscano, ma ch devono essere considerati in modo diverso da alimenti comuni, atti solo a nutrire il ventre, dato che siamo quivi in presenza del cibo e della bevanda spirituale per nutrire le anime nostre. Accetto dunque la verità di queste affermazioni degli antichi dottori. Riguardo però al dedurre, come fanno questi fabbricanti di nuove dottrine: se c'è mutamento il pane deve essere annullato, perché è il corpo di Cristo che prende il suo posto, replico che e bensì vero che il pane è reso altro da ciò che era ma se da questo pensano poter ricavare le loro speculazioni, domando loro quale cambiamento, a loro avviso, si compie nel battesimo. Gli antichi infatti affermano che anche qui si verifica un mirabile mutamento, nel senso che un elemento corruttibile è fatto lavacro spirituale delle anime, tuttavia nessuno contesta che l'acqua mantenga la sua sostanza. Replicano che manca nel battesimo la dichiarazione esplicita che si riscontra nella Cena: questo è il mio corpo. Non è ora il momento di prendere in esame queste parole ma di precis.re semplicemente il termine: mutamento, che vale in un caso quanto nell'altro. Lascino dunque perdere queste sciocchezzuole che dimostrano chiaramente la loro mancanza di seri argomenti. In realtà non potrebbe esservi significato alcuno se la verità figurata non avesse quivi, nel segno esteriore, la sua viva immagine. Gesù Cristo ha voluto dichiarare in forma visibile che la sua carne è nutrimento. Se offrisse una vuota apparenza di pane, senza alcuna sostanza, in che consisterebbe la similitudine che ci deve condurre dalla cose visibili ai benefici invisibili che sono quivi rappresentati? Se infatti si vuole prestare loro fede non si sarebbe condotti oltre né si potrebbe dedurre altro se non che siamo nutriti da una vana apparenza della carne di Cristo, come se, ad ingannare i nostri occhi, non vi fosse al battesimo che una apparenza d'acqua, certo non vi sarebbe segno della nostra purificazione; anzi, fatto più grave ancora, in uno spettacolo ingannevole di questo tipo, non potrebbe essere che motivo di dubbio. In sostanza la natura dei sacramenti è sovvertita quando il segno terrestre non corrisponde alla realtà spirituale per significare autenticamente ciò che deve essere quivi inteso La verità della Cena risulterebbe solo annientata se non vi fosse del vero pane per rappresentare il vero corpo di Gesù Cristo. Essendo la Cena null'altro che una visibile conferma di quanto è detto nel capo sesto di san Giovanni, che cioè Gesù Cristo è il pane di vita disceso dal cielo, è assolutamente necessario che vi sia pane visibile e materiale per essere figura di quello spirituale, se non vogliamo che lo strumento dato da Dio a sostegno della nostra debolezza venga meno senza che ne ricaviamo alcun vantaggio. Come potrebbe san Paolo dedurre che nell'aver parte all'unico pane siamo fatti un pane e un corpo (1 Co. 10.17) se non vi fosse che apparenza di pane e non invece la sostanza e la realtà? 15. In realtà non si sarebbero lasciati così grossolanamente ingannare dalle illusioni di Satana se già non fossero stati stregati dall'errore che il corpo di Cristo, essendo rinchiuso sotto il pane, si mangia e si digerisce. Una teoria così priva di senso è derivata dal fatto che quel termine "consacrazione ", assume per loro il carattere di un incantesimo o di uno scongiuro di tipo magico. Ignorano il fatto che il pane non è sacramento se non per coloro cui è stata rivolta la Parola; come l'acqua del battesimo non è mutata in se stessa, ma comincia ad essere per noi ciò che non era prima, al momento in cui le si aggiunge la promessa. Questo fatto sarà illustrato ancor meglio da un sacramento analogo. L'acqua che fluiva dalla roccia del deserto (Es. 17.6) era per gli Ebrei segno e tessera della medesima realtà che ci è oggi rappresentata dal pane e dal vino della Cena; san Paolo infatti dice che hanno bevuto una stessa bevanda spirituale (1 Co. 10.4). Pure quest'acqua serviva ad abbeverare il bestiame. È dunque facile dedurre che, quando elementi terreni vengono adoperati per un uso spirituale della fede, il solo mutamento che si verifica concerne gli uomini, in quanto questi elementi diventano per loro suggelli di promesse divine. Anzi, poiché l'intenzione di Dio è, come ho già spesso ribadito, di innalzarci a se mediante i mezzi che ritiene opportuno, coloro che vogliono chiamarci a Cristo facendocelo cercare nascosto in modo invisibile sotto il pane, fanno tutto al rovescio. Di salire a Cristo non se ne parla fra loro, perché troppa è la distanza. Hanno perciò cercato di rimediare, con una soluzione più dannosa, a quanto risultava loro impossibile per natura: far sì che restando in terra non abbiano alcun bisogno di avvicinarsi al cielo per essere uniti a Gesù Cristo. Ecco perciò la necessità di trasfigurare il corpo di Cristo. Ai tempi di san Bernardo, quantunque si adoperassero già espressioni improprie, la transustanziazione non era ancora accettata. Non si era mai verificato, prima, il caso di qualcuno che non accettasse il corpo e il sangue di Gesù Cristo essere uniti nella Cena al pane e al vino. Sembra loro che una scappatoia valida esista nella citazione testuale dove le due parti del sacramento sono dette pane e vino. La verga di Mosè, rispondono, quando fu mutata in serpente, quantunque abbia assunto il nome di serpente, non cessò di mantenere la sua qualifica propria di verga (Es. 4.3.7.10) ne traggono la conclusione che non c'è alcun inconveniente a che il pane, pur essendo mutato in altra sostanza, mantenga il suo nome in quanto appare alla nostra vista quale pane. Quale similitudine o analogia pensano riscontrare fra il miracolo di Mosè, del tutto evidente, e i loro diabolici illusionismi di cui nessuno in terra può essere testimone? I maghi facevano le loro stregonerie per convincere il popolo d'Egitto che erano muniti di un potere divino per mutare le creature; Mosè li sfida e, avendo smascherato il loro inganno, dimostra che la invisibile potenza di Dio sta dalla sua parte in quanto fa inghiottire tutte le verghe degli altri dalla sua. Questa trasformazione però si è effettuata in modo visibile, e non può riferirsi in alcun modo alla questione presente come ho già detto. Infatti, poco dopo, la verga assume nuovamente la sua forma primitiva; anzi, non si può neppur sapere se tale improvviso. Mutazione sia avvenuta realmente nella sostanza. Occorre anche notare che Mosè contrapponeva la sua verga a quella dei maghi, e per questa ragione le ha lasciato il suo nome naturale, affinché non sembrasse che concedeva a quegli ingannatori la realtà di un mutamento che era nullo, ma unicamente frutto dei loro incantesimi con cui avevano stupito la vista degli ignoranti. Ora questo non si può in alcun modo riferire a parole del tutto diverse quali: "Il pane che noi rompiamo e la comunione al corpo di Cristo " (1 Co. 10.16) , oppure: "Ogni volta che voi mangiate di questo pane commemorate la morte del Signore " (1 Co. 11.26); e ancora: "Erano uniti nel rompere il pane " (At. 11.42). È ben certo infatti che i maghi, con i loro incantesimi, altro non facevano se non ingannare la vista. Riguardo a Mosè non c'è dubbio che la mano mediante la quale non è stato più difficile a Dio di trasformare una verga in serpente e da capo un serpente in verga, potesse vestire gli angeli di un corpo carnale indi spogliarli di nuovo. Se si dovesse vedere questa motivazione, o una analoga, nella Cena, questa brava gente avrebbe qualche motivo per sostenere la validità della sua tesi; dato che questo non è il caso ci sia chiaro questo punto: la ragione per raffigurarci nella Cena che la carne di Gesù Cristo è realmente alimento, non sussisterebbe se la reale sostanza del segno esteriore non corrispondesse a questo fatto. Da un errore ne nasce un altro, hanno perciò tratto da Geremia, per sostenere la loro transustanziazione, un testo che ho vergogna di citare. Il profeta si lamenta del fatto che si sia messo del legno nel suo pane (Gr. 11.19) , egli intende dire che crudelmente i suoi nemici gli hanno tolto il gusto del cibo. Come Davide che si lamenta con immagini analoghe che il suo pane sia stato mutato in fiele e la sua bevanda in aceto (Sl. 69.22). Questi acuti dottori interpretano allegoricamente che il corpo di Gesù Cristo è stato appeso al legno. Sosterranno che alcuni, fra gli antichi, hanno interpretato il testo in questo modo. Risponderò che è già sufficiente perdonare la loro ignoranza e passare sotto silenzio il loro disonore senza dover aggiungere anche questa impudenza di farsi scudo degli antichi per falsificare il significato naturale della parola profetica. 16. Altri, constatando che non si può scindere il vincolo esistente fra il segno e la realtà significata senza che la verità del mistero svanisca, confessano bensì che il pane della Cena è sostanzialmente pane, elemento terrestre e corruttibile e non soggetto ad alcun mutamento sostanziale, ma pretendono che non di meno il corpo di Gesù Cristo vi è rinchiuso. Dicessero apertamente che la presentazione del pane nella Cena significa vera presentazione del corpo, in quanto la verità è inseparabile dal suo segno, non avrei nulla da ridire. Essi però rinchiudendo il corpo nel pane ne rivendicano la ubiquità, cosa contraria alla sua natura, e poi aggiungendo che è sotto il pane, lo rinchiudono quivi come in un nascondiglio; è dunque necessario smascherare questi cavilli. Non già che io intenda ora esaminare tutti i problemi ma quanto sto per dire costituisce la premessa per la discussione che a suo tempo seguirà. Sostengono che il corpo di Cristo è invisibile e infinito per poter essere nascosto sotto il pane, poiché, secondo la loro opinione, non lo possono ricevere se non scende nel pane. Non considerano però il fatto che questo scendere, di cui abbiamo parlato, è in vista di innalzarci al cielo. È vero che ricorrono a molti argomenti interessanti, ma quando li hanno esauriti diventa chiaro che si gingillano con una presenza di tipo localizzato. Donde viene questo se non dal fatto che sono incapaci di concepire altra partecipazione al corpo di Gesù Cristo se non tenendolo in mano quaggiù, quasi per poterlo maneggiare secondo propri gusti. 17. A giustificare, con ostinazione, l'errore che, senza riflettere, hanno creato non esitano, o per lo meno alcuni fra loro, a sostenere che il corpo di Gesù Cristo ha avuto da sempre le dimensioni del cielo e della terra. Il fatto di nascere bambino, di crescere, l'esser crocifisso e messo in un sepolcro, questo dicono, è accaduto per dispensa affinché compisse in forma visibile quanto era necessario alla nostra salvezza. Il fatto che sia apparso dopo la sua risurrezione e sia salito al cielo e anzi, poi sia stato visto da santo Stefano e da san Paolo (At. 1.3-9; 7.55; 9.3) , è anche accaduto in base ad una analoga dispensa perché potesse manifestarsi visibilmente quale re sovrano. Che discorsi sono questi, vi chiedo, se non richiamare in vita l'infernale Marcione? Nessuno infatti avrà il minimo dubbio che in queste condizioni, il corpo di Gesù Cristo sia stato apparente, ridotto ad un fantasma. Altri evitano l'ostacolo ragionando in modo più sottile: questo corpo dato nel sacramento è glorioso e immortale; non vi è perciò nessun inconveniente a che sia in molti luoghi o in nessun luogo e privo di forma. Quale era il corpo, domando allora, Che Gesù Cristo dava ai suoi discepoli la notte precedente la sua passione? La parole che in quella occasione pronuncia non dimostrano forse chiaramente che si trattava del corpo mortale che doveva, poco dopo, essere offerto? Rispondono che già aveva manifestato la sua gloria a tre dei suoi discepoli sul monte (Mt. 17.2). Lo ammetto; ma non si trattava che di dar loro una qualche percezione della sua immortalità, e per breve tempo. Non siamo però in presenza, in quel caso, di un duplice corpo, c'è soltanto quello che è ritornato immediatamente alla sua consueta forma naturale. Quando distribuiva il suo corpo nella prima Cena l'ora si avvicinava in cui doveva essere colpito e sfigurato come un lebbroso, non avendo dignità alcuna né bellezza (Is. 53.4) era lungi, allora, dal voler far mostra della gloria della sua risurrezione. Offrono così occasione all'eresia di Marcione, affermando che il corpo di Gesù Cristo era visto mortale e sofferente in un luogo e risultava in un altro immortale e glorioso! Se si accetta la loro opinione, bisogna ammettere che la stessa cosa accade ogni giorno. Sono infatti costretti a confermare che il corpo di Gesù Cristo invisibilmente nascosto sotto le specie del pane, secondo le loro affermazioni, è nondimeno visibile in se. Questa gente che vomita fantasie così mostruose non solo non avverte alcuna vergogna della sua irriverenza, ma ci aggredisce con ingiurie senza fine perché non li vogliamo approvare. 18. Quando però si voglia vincolare il corpo e il sangue del Signore al pane e al vino è necessario separarli l'uno dall'altro. Essendo il pane offerto indipendentemente dal calice, il corpo, in quanto unito al pane, deve essere diviso dal sangue che è contenuto nel calice. Affermando che il corpo è nel pane e il sangue nel calice ed essendo il pane e il vino divisi l'uno dall'altro non si può evitare, con nessun cavillo, che in questo modo il sangue sia separato dal corpo. Assolutamente privo di serietà è l'argomento cui sono soliti ricorrere, secondo cui il sangue risulta già incluso nel corpo e similmente il corpo nel sangue, visto che il Signore ha distinti i segni in cui sono rinchiusi. Se rivolgiamo i nostri sguardi e i nostri pensieri al cielo e sia mo colà trasportati per cercare il Cristo nella gloria del suo regno, poiché i segni ci aiutano a raggiungerlo nella sua pienezza, saremo nutriti della sua carne sotto il segno del pane, e del suo sangue sotto il segno del vino, in modo distinto per godere di lui interamente. Quantunque abbia portato la sua carne lontano da noi, e sia corporalmente salito in cielo, nondimeno è seduto alla destra del Padre, cioè regna nella potenza, nella maestà e nella gloria del Padre. Questo regno non è soggetto a limitazione spaziale ne a determinazioni sì che Gesù Cristo non possa mostrare la sua potenza ovunque gli piaccia, in cielo e in terra, e manifestarsi presente mediante la sua potenza e la sua efficacia, assistere i suoi infondendo loro il vigore della sua vita, sostenerli, confermarli, rinvigorirli e preservarli, non meno che se fosse corporalmente presente; nutrirli, insomma, del suo corpo facendoli partecipare ad esso mediante la potenza del suo Spirito. In questo consiste il ricevere il corpo e il sangue di Gesù Cristo nel sacramento. 19. Dobbiamo ora dare una definizione della presenza di Gesù Cristo nella Cena che non lo vincoli al pane, lo rinchiuda in esso, non pretenda insomma situarlo in terra in questi elementi corruttibili recando così offesa alla sua gloria celeste; una presenza che, d'altra parte, non gli attribuisca un corpo infinito collocandolo in luoghi diversi o faccia credere che egli sia ovunque in cielo e in terra, perché questo sarebbe in contrasto con la realtà della sua natura umana. Manteniamo dunque decis.mente questi due punti: non permettere che venga recata offesa alla gloria celeste di nostro Signore Gesù Cristo, il che si verifica ogniqualvolta lo si localizza quaggiù in elementi corruttibili del mondo, né permettere d'altra parte che si attribuisca al suo corpo quanto potrebbe essere in contrasto con la sua natura umana; ciò che accade quando si afferma che è finito o lo si collochi simultaneamente in molti luoghi. Quando siano stati eliminati questi due equivoci accoglierò volentieri ogni pensiero atto ad esprimere rettamente la vera comunione al suo corpo ed al suo sangue che Gesù Cristo ci dà nella Cena. Esprimendola, in modo tale, dico, che si comprenda che li riceviamo non per mezzo dell'immaginazione o del pensiero ma che la sostanza loro ci è realmente data. Non si comprende perché questa dottrina debba risultare così odiosa alla gente e la difesa ne sia così iniquamente ostacolata c'è da pensare che Satana ha stregato molte intelligenze, quasi con tragico incantesimo. I1nostro insegnamento concorda certo pienamente con la Scrittura né contiene o crea assurdità, oscurità, ambiguità. Inoltre non è affatto in contrasto con i princìpi fondamentali della fede né con l'edificazione delle anime; in sostanza non contiene nulla che possa offendere; non ci fossero le enormità barbare e stupide dei Sofisti che hanno malvagiamente offuscata una così evidente chiarezza. Tuttavia poiché ancora oggi Satana fa ogni sforzo per denigrarla e contrastarla servendosi di spiriti forsennati e concentra quivi le sue energie, è necessario mantenerla con una fermezza ancor maggiore. 20. Dobbiamo prima di procedere esaminare l'istituzione della Cena da parte di Gesù Cristo principalmente perché i nostri avversari considerano che l'obiezione fondamentale consiste nel fatto che non accogliamo, per parte nostra le parole di Gesù Cristo nel loro significato. Volendoci scagionare di questa colpa, di cui a torto siamo incolpati, dovremo iniziare con l'esame dei testi scritturali. Tre evangelisti, san Matteo, san Marco e san Luca, e anche san Paolo, narrano che Gesù Cristo avendo preso del pane lo ruppe e avendo reso grazie lo diede ai suoi discepoli dicendo: "Prendete mangiate, questo è il mio corpo che è dato o rotto per voi "; riguardo al calice, san Matteo e san Marco si esprimono in questi termini: "Questo calice è il sangue del nuovo patto che è sparso per molti per la remissione dei peccati " (Mt. 26.26-28; Mr. 14.22-24). San Paolo e san Luca hanno una lieve variante: "Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue " (Lu 22.17.19-20; 1 Co. 11.24). I difensori della transustanziazione pensano che il pronome dimostrativo "questo "si riferisca all'apparenza del pane poiché la consacrazione si fa con la formula intera e nessuna sostanza è visibile, secondo loro, da potersi mostrare. L'ossequio dei termini li condiziona rigorosamente, ma se ne allontanano assai, affermando che ciò che era pane diventa corpo di Gesù Cristo, Gesù Cristo infatti afferma che ciò che ha preso in mano per darlo ai suoi discepoli è il suo corpo. Ora in mano aveva del pane. Chi non vede dunque che è questo stesso pane che presenta? Nulla sarebbe più irragionevole che applicare ad una apparenza vana, ad un fantasma, ciò che è detto del pane. Coloro che interpretano il verbo "essere "nel senso di "transustanziare ", quasi fosse detto: questo è mutato in corpo mio, fanno uso di argomenti ancor più cavillosi e forzati, pur non avendo gli uni e gli altri altra pretesa che attenersi alle parole di Gesù Cristo. Non si è mai visto in nessuna lingua che il verbo "essere "avesse il significato di "essere mutato in altro ". Coloro che, pur ammettendo che il pane sussista, pensano nondimeno che sia il corpo di Cristo si contraddicono fortemente. I più moderati, pur insistendo sul significato letterale, affermano che, secondo le parole di Gesù Cristo, il pane deve essere considerato suo corpo ma attenuano in seguito questa assolutezza interpretando l'espressione nel senso che il corpo di Gesù Cristo è "col "pane, "nel "pane, "sotto "il pane. Abbiamo già menzionato la loro opinione e occorrerà trattarla più ampiamente in seguito. Prendiamo per ora soltanto in esame le parole di Gesù Cristo che considerano vincolanti al punto da non poter accettare che il pane sia detto "corpo "in quanto ne è il segno. Mi chiedo perché, rifiutando ogni spiegazione, come dovendoci attenere al significato letterale dei termini, lasciano da parte quello che dice Gesù Cristo e si danno ad interpretazioni così diverse? Si tratta infatti di due cose molto differenti affermare che il pane è corpo o dire il corpo è Cl. Pane. Giudicando impossibile mantenere l'affermazione che il pane è realmente corpo di Gesù Cristo hanno cercato di aggirare l'ostacolo per vie traverse dicendo che il corpo è dato sotto e con il pane. Altri più coraggiosi non hanno esitato ad affermare che, parlando in senso proprio, il pane è il corpo, dimostrandosi così assolutamente letteralisti. Se si muove loro l'obiezione che in tal modo il pane è dunque Gesù Cristo e perciò Dio, lo negano risolutamente poiché questo non è detto nelle parole: "Ecco il mio corpo ", con tale diniego però non concludono nulla, visto che tutti confessano che Gesù Cristo ci è offerto nella Cena. Sarebbe insopportabile bestemmia voler affermare che un elemento caduco e corruttibile sia Gesù Cristo, senza una qualche interpretazione figurata. Pongo loro il seguente quesito: queste due proposizioni si possano situare sullo stesso piano: "Gesù Cristo è figlio di Dio "e "il pane è corpo di Gesù Cristo "? Se ammettono una diversità, ammissione che sarà cavata loro di bocca, sia pure a denti stretti, mi dicano allora in che consiste tale differenza. Non potranno riscontrarne altra se non che il pane è detto corpo secondo un'accezione sacramentale. Ne consegue che queste parole di Gesù Cristo non sono soggette alla regola comune e non devono valutarsi secondo la grammatica. Chiedo altresì a questi ostinati, che non possono accettare vengano prese in esame le parole di Gesù Cristo, quando è detto che il calice è il nuovo patto nel sangue (Lu 22.20; 1 Co. 11.25) secondo le affermazioni di san Luca e san Paolo, questo non dovrebbe avere lo stesso valore di quanto è stato detto riguardo alla prima parte: che il pane è corpo? Nell'un caso come nell'altro si dovrebbe seguire un unico criterio interpretativo, e potendo la brevità esser fonte di oscurità l'espressione più ampia chiarisce il significato dei termini. Quando perciò sostengono, appellandosi ad un termine, che il pane è il corpo di Gesù Cristo, citerò loro l'interpretazione di san Paolo e di san Luca come una formulazione più chiara, cioè che il pane è patto o garanzia che il corpo di Cristo ci è dato. Ove potrebbero trovare interpretazione migliore o più sicura? E non intendo con questo sminuire in alcun modo la partecipazione che, come ho riconosciuto sopra, noi abbiamo Cl. Corpo di Gesù Cristo; voglio soltanto piegare questa loro ostinazione assurda nel polemizzare riguardo ai termini. Seguendo la testimonianza di san Paolo e di san Luca penso che il pane sia il corpo di Gesù Cristo in quanto ne rappresenta il testamento o il patto. Rifiutando questo fatto non combattono affatto contro di me, bensì contro lo Spirito di Dio. Quantunque dichiarino avere in tale ossequio le parole di Gesù Cristo da non voler accettare alcuna interpretazione figurata, questa scusa non basta per giustificare l'orgoglio con cui rifiutano le motivazioni che si contrappongono alle loro. Dobbiamo tuttavia vedere in che consista questo patto nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo poiché a nulla gioverebbe che il patto di grazia fosse stato ratificato, mediante il sacrificio della sua morte, se non vi fosse congiunta quella comunicazione mediante la quale siamo resi uno con lui.
21. Risulta dunque chiaro che, in virtù della affinità esistente tra la realtà figurata e la figura, dobbiamo riconoscere che il termine "corpo "è stato attribuito al pane non in modo formale, come dicono le parole, ma in funzione di una appropriata similitudine. Non faccio uso di figure o parabole onde non mi si rimproveri di ricorrere a sotterfugi, allontanandomi dal testo. Considero che si tratta di un tipo di espressione frequente in tutta la Scrittura quando si tratta di sacramenti. Non si può infatti stabilire una correlazione tra la circoncisione e il patto con Dio, l'agnello e la liberazione dall'egitto, i sacrifici della Legge e la soddisfazione per i peccati, e infine tra la roccia donde scaturì l'acqua nel deserto (Es. 17.6) e Gesù Cristo, se non in virtù di una forma traslata di discorso. E accade non soltanto che il nome della realtà superiore sia trasferito a quella inferiore ma. Viceversa, il nome della realtà visibile sia attribuito alla realtà significata. Così come quando vien detto che Dio apparve a Mosè nel pruno (Es. 3.2) , quando l'arca del Patto è chiamata Dio o presenza di Dio (Sl. 84.8; 42.3) , la colomba è detta Spirito Santo (Mt. 3.16). Quantunque, infatti, il segno differisca sostanzialmente dalla verità che raffigura, essendo realtà corporea, visibile, terrestre, mentre quello è spirituale e invisibile, tuttavia, trattandosi non soltanto di una raffigurazione della cosa a cui è riferita, quasi ne fosse semplicemente la rimembranza mentre ne è invece, realmente e di fatto, la presenza perché il nome di quest'altro non gli dovrebbe essere dato? Se i segni inventati dagli uomini, quantunque si tratti spesso di figure di realtà assenti più che segni di realtà presenti, e si riducano spesso ad essere semplicemente vane raffigurazioni, assumono tuttavia, a volte, il nome della realtà che significano, a maggior ragione i segni istituiti da Dio potranno assumere il nome della realtà di cui sono attestato senza ingannare, e anzi possedendone l'efficacia e la verità per comunicarcela. Insomma l'affinità e la similitudine tra le due realtà è tale che questa reciproca correlazione non deve essere giudicata strana ed eccessiva. Quelli che ci dicono "tropisti "dimostrano con queste battute di spirito la loro ignoranza, visto che, in tema di sacramenti, l'uso comune della Scrittura risulta essere interamente a nostro favore. Essendo i sacramenti grandemente simili fra loro sostanzialmente concordano tutti in questa traslazione di termini. L'Apostolo insegna che la rupe, donde era venuta bevanda spirituale agli Israeliti, era stata Cristo (1 Co. 10.4) , in quanto era il simbolo sotto cui era ricevuta questa bevanda spirituale, non in modo visibile e tuttavia in modo reale, nello stesso modo il pane è oggi detto "corpo di Cristo "in quanto rappresenta il simbolo sotto cui nostro Signore ci offre la vera manducazione del suo corpo. Affinché nessuno rifiuti la nostra esegesi giudicandola nuova, ricorderò che sant'Agostino non si è espresso né ha parlato in termini diversi. "Se i sacramenti "dice "non avessero alcuna similitudine con le realtà di cui sono sacramento non sarebbero più tali. In virtù di tale similitudine assumono anche, spesso, i nomi delle realtà figurate. Così, come il sacramento del corpo di Cristo è in qualche modo il corpo stesso e il sacramento del sangue è il sangue stesso, così il sacramento della fede può esser detto fede ". Molte analoghe affermazioni si trovano nei suoi scritti che sarebbe superfluo accumulare qui, dato che questa citazione sola è sufficiente. Dobbiamo però ricordare ai lettori che lo stesso dottore conferma e ripete questo pensiero nell'epistola ad Evodio. Priva di serietà è l'obiezione che quando sant'Agostino si esprime in questi termini riguardo ai sacramenti non si riferisce alla Cena. Poiché in tal caso non sarebbe lecito riferire ad una parte ciò che vien detto del tutto. È invece chiaro che, qualora non si voglia abolire ogni norma di buon senso, non si può sostenere che quanto concerne i sacramenti in generale non debba concernere anche la Cena. Lo stesso dottore mette chiaramente fine ad ogni disputa dicendo in un altro testo, che Gesù Cristo non ha avuto difficoltà a parlare del suo corpo quando ne offriva il segno; ed ancora che è stato atto di mirabile tolleranza da parte di Gesù Cristo ricevere Giuda al pasto in cui istituiva e dava ai suoi discepoli la figura del suo corpo e del suo sangue. 22. Se un qualche ostinato tuttavia, chiudendo gli occhi all'evidenza, intende fissarsi sul termine: questo è il mio corpo quasi questo verbo facesse della Cena un sacramento diverso dagli altri, la soluzione da dare è facile. Sostengono che quel verbo "essere "possiede una tale forza da non richiedere alcuna esplicitazione. Pur accettando questo punto, dovrò rispondere però che san Paolo dicendo: il pane che rompiamo è la comunione al corpo di Cristo (1 Co. 10.16) , fa uso pure lui del verbo essere; e dire comunione significa dir altro che dire corpo stesso. Anzi questo verbo è nella Scrittura di uso quasi costante laddove si parla dei sacramenti come quando viene detto: "Questo sarà il patto tra voi e me " (Ge 17.13); "l'agnello è la Pasqua " (Es. 12.2). Insomma quando san Paolo afferma che la rupe era Cristo (1 Co. 10.4) , perché secondo loro il verbo dovrebbe avere in questo testo forza minore che nelle parole della Cena? Quando san Giovanni afferma: lo Spirito Santo non era ancora stato dato, poiché Gesù Cristo non era ancor stato glorificato (1 Gv. 7.39) dà al verbo essere altro significato? Volendo rimanere vincolati alla loro esegesi si abolirà l'essenza stessa dello Spirito Santo in quanto avrebbe preso inizio all'ascensione di Gesù Cristo. Mi dicano infine come deve essere interpretata la parola di san Paolo secondo cui il battesimo è lavacro di rigenerazione e di purificazione (Tt 3.5) , visto che, in modo evidente, risulta inutile per molti. Non vi è però argomento più atto e refutare le loro tesi che quell'altra parola di san Paolo dove è detto che la Chiesa è Gesù Cristo (1 Co. 12.12). Dopo aver fatto menzione della similitudine del corpo umano egli infatti aggiunge: "Così è di Cristo ". Con questa affermazione non intende parlare dell'unico figlio di Dio in se ma nelle sue membra. Considero pertanto acquisito il fatto che ogni persona onesta e di buon senso giudicherà detestabili e deplorevoli le calunnie dei nostri avversari i quali scrivono che per parte nostra smentiamo Gesù Cristo non prestando fede alle sue parole, mentre in realtà le accogliamo con obbedienza e attenzione maggiori di quanto facciano loro. È anzi evidente la loro mancanza di serietà; perché interessa loro relativamente poco ciò che Gesù Cristo ha realmente detto e pensato; basta loro che egli fornisca una giustificazione per la loro tesi; al contrario la cura che ci guida nella ricerca del senso autentico delle sue parole testimonia quanto rispetto noi abbiamo per l'autorità di questo sovrano maestro. La loro critica, calunniosa in verità, è questa: sono i nostri sensi umani ad impedirci di credere ciò che Gesù Cristo ha detto con la sua bocca sacra; ho già in parte detto, e dimostrerò ancor meglio in seguito, quanto siano perversi e spudorati nel muovere questo rimprovero. Non esiste infatti per noi impedimento alcuno a credere in modo assoluto a Gesù Cristo e obbedirgli quando parli. La questione è soltanto di sapere se si debba considerare delittuosa la ricerca del significato autentico e naturale delle sue parole. 23. Questi abili dottori, volendo far figura di gente colta, pretendono non allontanarsi dall'interpretazione letterale neppure di un palmo. Per parte mia affermo che quando per esempio la Scrittura definisce Dio un guerriero (Es. 15.3) , qualora non si ricorresse al senso traslato l'espressione avrebbe un significato eccessivamente massiccio e pesante, non esito perciò per parte mia ad interpretarla come una similitudine tratta dall'ambiente umano. E in realtà gli eretici, che anticamente furono detti Antropomorfisti, avevano questo unico argomento per recare molestia e scompiglio nella Chiesa che si dovevano interpretare letteralmente espressioni quali: gli occhi di Dio vedono, è giunto alle sue orecchie, con mano distesa, la terra è il suo piedistallo. E si indignavano del fatto che i santi dottori non ammettessero la corporeità di Dio visto che la Scrittura sembra attribuirgli un corpo. Indubbiamente costoro avevano la lettera della Scrittura dalla loro parte; se però tutti i testi dovessero intendersi in modo così massiccio e acritico, la vera religione risulterebbe interamente pervertita da fantasie assurde. Non c'è infatti assurdità che gli eretici non possano dedurre, apparentemente, dalla Scrittura quando sia loro concesso stabilire quanto sembra bene con l'appoggio di un termine malinteso e malinterpretato. Il loro argomento, secondo cui Gesù Cristo volendo dare ai suoi discepoli una grande consolazione non poteva esprimersi in modo oscuro, quasi enigmatico, risulta essere a nostro favore. Se infatti i discepoli non avessero inteso che il pane era detto corpo per similitudine, in quanto era pegno e simbolo, si sarebbero scandalizzati di un fatto così prodigioso. In quella circostanza san Giovanni narra infatti che avevano dubbi e scrupoli su ogni parola. Gente che si chiedeva come Gesù Cristo poteva andare al Padre e provò una gran difficoltà a capire come sarebbe partito dal mondo (Gv. 14.5-8) , che non capiva insomma ciò che gli veniva detto riguardo alle cose celesti, avrebbe potuto accogliere tranquillamente questo concetto contrario ad ogni norma razionale: che cioè Gesù Cristo, seduto a tavola davanti ai loro occhi, fosse anche incluso invisibilmente sotto il pane? Il fatto che accettino senza obiettare quanto vien loro detto e mangiano il pane in quel modo, dimostra chiaramente che interpretano le parole di Gesù Cristo come le interpretiamo noi, considerando che in ogni sacramento è usuale dare al segno il nome della realtà significata. Perciò i discepoli hanno ricevuto certa ed evidente consolazione, e non in forma enigmatica come avviene oggi in costoro. L'unico motivo per cui questi presuntuosi abbiano a dimostrarsi così ostinatamente contrari a noi è questo: il Diavolo li ha accecati con i suoi incantesimi per condurli a considerare tenebrosa ed enigmatica una interpretazione in realtà così facile e lineare. Inoltre a voler polarizzare l'attenzione sui termini, non avrebbe senso che Gesù Cristo faccia distinzione tra il suo corpo e il suo sangue. Chiama il pane suo corpo e vino il suo sangue; ovvero si tratta di una ripetizione priva di significato ovvero si tratta di una distinzione per separare l'uno dall'altro. Si potrebbe anzi dire che il calice è il corpo e d'altra parte che il pane è il sangue sostenendo che Gesù Cristo è nascosto sotto ognuno dei due. Sono d'accordo con loro quando rispondono che deve considerarsi il fine per cui sono istituiti i sacramenti, ma non potranno mai evitare che il loro errore implichi questa conseguenza: che cioè il pane sia sangue e il vino sia corpo. Non capisco come riescano ad accordare le loro dichiarazioni quando affermano che il pane e il corpo sono due cose diverse e pretendono tuttavia che il pane è corpo in senso proprio e non figurato, come se uno dicesse che il vestito è altra cosa che l'uomo e tuttavia è propriamente detto uomo. Il loro unico argomento è una furiosa e ingiuriosa ostinazione, vanno perciò gridando che, ricercando la vera interpretazione alle parole di Gesù Cristo, lo facciamo bugiardo. Risulterà ora facile per i lettori giudicare come questa gente ci calunnia, facendo credere agli ignoranti che si rovescia l'autorità delle parole di Cristo; in realtà essi le confondono e pervertirono altrettanto furiosamente quanto noi le esprimiamo fedelmente e con l'onestà che si conviene, come ho avuto modo di dimostrare esplicitamente. 24. Queste falsità e queste menzogne non si possono eliminare in modo radicale se non smascherando un'altra calunnia: noi saremmo a tal punto schiavi della ragione umana da misurare la potenza di Dio al metro delle leggi naturali essendo incapaci di attribuirle più di quanto suggerisce il senso comune. Una lettura dei nostri scritti dimostrerà in modo irrefutabile quanto perfide e disgustose siano tali calunnie. Mi appello dunque alla dottrina su esposta da cui risulta in modo sufficientemente chiaro che non riduciamo questo mistero nei limiti della capacità razionale dell'uomo né la sottoponiamo all'ordine di natura. Sono forse i filosofi naturalisti, mi domando, che ci hanno insegnato che Gesù Cristo nutre le nostre anime con la sua carne e il suo sangue altrettanto quanto sono nutriti e sostenuti i nostri corpi dal pane e dal vino? Donde viene alla carne questa efficacia di vivificare le anime? Tutti devono riconoscere che questo non avviene in modo naturale. Né sarà cosa più accettevole all'intendimento umano affermare che la carne di Cristo penetra in noi per esserci nutrimento. Chiunque abbia afferrato il senso della nostro dottrina sarà pieno di ammirazione per questa segreta potenza di Dio che noi insegniamo. Questi critici ben intenzionati e zelanti inventano invece un miracolo, non avvenendo il quale, a loro giudizio, Dio non agisce. Prego nuovamente i lettori di riflettere attentamente agli orientamenti della nostra dottrina: se deriva dal senso comune ovvero, con slancio di fede, travalica il mondo per giungere al cielo. Affermiamo che Gesù Cristo scende sino a noi mediante il segno esteriore e mediante il suo Spirito per vivificare realmente le anime nostre con la sostanza della sua carne e del suo sangue. Coloro che non ammettono che ciò possa avvenire senza molti fatti miracolosi si dimostrano oltremodo sciocchi, nulla è infatti più contrario al senso naturale che affermare le anime ricevere dalla carne la vita spirituale e celeste, proprio dalla carne che ha avuto la sua origine in terra ed è stata mortale. Nulla risulta più incredibile dell'affermazione che le realtà distanti l'una dall'altra quanto il cielo e la terra, non solo risultano esser congiunte ma a tal punto unite che le anime nostre ricevano nutrimento dalla carne di Cristo senza che essa abbandoni il cielo. Cessino dunque questi esaltati di aggredirci e renderci odiosi accusandoci di sminuire la potenza infinita di Dio. Dicendo questo ovvero commettono un grossolano errore ovvero mentono; in questo caso infatti il problema in discussione non concerne quello che Dio ha potuto fare, ma quello che Dio ha voluto fare. E accettiamo, per parte nostra, ciò che gli è piaciuto fare. Ora egli ha voluto che Gesù Cristo fosse fatto simile ai suoi fratelli, in ogni cosa, eccetto nel peccato (Eb. 4.15). Come si presenta il nostro corpo? Non ha forse una dimensione precis. E definita? Non è forse localizzato in un luogo, offerto al tatto e alla vista? Perché, replicano, Dio non potrebbe far si che un corpo occupi luoghi diversi fra loro, non sia situato n nessun luogo determinato, non abbia forma o misura? Stupidi! Cosa andate chiedendo alla potenza di Dio? Che faccia sì che un corpo sia contemporaneamente un corpo e un non corpo? Potreste anche richiedere che faccia essere la luce contemporaneamente luce e tenebre. Dio però vuole che la luce sia luce e le tenebre siano tenebre e un corpo sia un corpo. È certo in grado, quando lo voglia, di mutare le tenebre in luce e la luce in tenebre. Ma nel richiedere che la luce e le tenebre non abbiano alcuna differenziazione che cosa chiedi se non il sovvertimento dell'ordine della sua sapienza? Bisogna dunque che il corpo sia corpo e lo Spirito sia Spirito e ognuno sussista secondo le leggi e le condizioni in cui Dio lo ha creato. La condizione del corpo è appunto quella di esistere in un luogo determinato, con una dimensione e una forma sue proprie. In questo modo Gesù Cristo ha preso il suo corpo, a cui, secondo la testimonianza di sant'Agostino ha bensì dato incorruttibilità e gloria ma a cui non ha sottratto la natura e la realtà. La testimonianza della Scrittura è infatti chiara ed evidente: egli è salito in cielo donde deve anche ritornare come è stato visto salire (At. 1.9-11). 25. Replicano che hanno dalla loro parte la citazione testuale in cui la volontà di Dio è esplicitata. Senz'altro; basta concedere loro il diritto di annullare, nella Chiesa, il dono dell'interpretazione e in base al quale un testo sia inteso nel loro significato. Si tratta indubbiamente di una citazione scritturale analoga però a quelle degli Antropomorfisti che anticamente facevano Dio corporale. Anzi ragionano come Marcione e Mani che riducevano il corpo di Gesù Cristo ad una esistenza celeste e fantomatica. Infatti essi citavano questi testi: "Il primo Adamo essendo dalla terra è terrestre, il secondo Adamo, cioè il Signore, è dal cielo " (1 Co. 15.47). Ed anche: "Gesù Cristo si è annichilito prendendo forma di servo, ed essendo stato trovato in ogni cosa simile agli uomini " (Fl. 2.7). Si tratta di giocolieri fanfaroni che pensano non si possa parlare di potenza di Dio se tutto l'ordine di natura non è capovolto dalle mostruosità che fabbricano nei loro cervelli. Questo significa piuttosto vincolare Dio e assegnargli dei binari per farlo obbedire alle nostre fantasie; da quale testo hanno infatti ricavato che il corpo di Cristo, pur essendo visibile in cielo, è non di meno nascosto e invisibile sotto una infinità di pezzi di pane? Certo diranno che questo e inevitabile se il corpo di Cristo è dato nella Cena; indubbiamente, perché è sembrato loro dover ricavare dalle parole di Gesù Cristo l'idea di una manducazione carnale del suo corpo; assillati dalle loro speculazioni sono stati costretti a inventare questa esegesi contraddetta da tutta la Scrittura. Il nostro insegnamento, lungi dallo sminuire in qualche modo la potenza di Dio, risulta invece essere il più atto a glorificarla. Dato però che continuano ad accusarci di aver spogliato Dio del suo onore, perché rifiutiamo ciò che il senso comune stenta a credere, anche se promesso da Gesù Cristo, replicherò ancora una volta che non assumiamo affatto il senso naturale a norma di valutazione dei misteri della fede, anzi riceviamo con ogni docilità e spirito di mansuetudine, come ci esorta san Giacomo (Gm. 1.21) , tutto ciò che procede da Dio. Non rinunciamo però a far uso di un necessario discernimento per evitare di cadere nell'errore pernicioso da cui essi sono accecati. Leggendo infatti le parole: "Questo è il mio corpo "letteralmente e senza riflettere, inventano un miracolo assolutamente contrario all'intenzione di Gesù Cristo. Di conseguenza sorgono davanti ai loro occhi molti errori e assurdità; ma essendosi già impelagati in questo problema con eccessivo impegno eccoli che si immergono nell'abisso della potenza infinita di Dio per spegnere e cancellare ogni verità. Eccoti sorgere questa loro presunzione unita a disprezzo ed arroganza che fonda la loro affermazione secondo cui non intendono sapere in che modo il corpo di Cristo sia nascosto sotto il pane ma si accontentano di queste parole: "Questo è il mio corpo ". Per parte nostra ci sforziamo di produrre una interpretazione valida di questo, come di tutti gli altri testi, e ci impegnamo in questa ricerca con cura e umiltà. Non accogliamo così, senza esame e senza discernimento ciò che si presenta ai nostri sensi, ma, dopo aver attentamente meditato e considerato tutto il problema, accettiamo il significato che lo Spirito Santo ci suggerisce. Essendo così fondati saldamente disprezziamo quanto la sapienza terrena può obiettare, anzi, manteniamo le nostre intelligenze prigioniere e le umiliamo affinché non abbiano ad innalzarsi o a ribellarsi all'autorità divina. Da questa impostazione procede l'esposizione offerta sopra che tutte le persone, in qualche modo, familiari con la Scrittura riconosceranno essere valida per tutti i sacramenti. Seguendo in questo l'esempio della santa Vergine (Lu 1.34) , non consideriamo proibito domandarci, riguardo ad una realtà elevata, come essa si possa compiere. 26. Nulla risulterà però più idoneo a confermare la fede dei figli di Dio quanto la dimostrazione che la dottrina, da noi esposta sin qui, è semplicemente tratta dalla Scrittura e fondata sulla di lei autorità, risolverò dunque questo punto in breve. Non Aristotele ma lo Spirito Santo ci insegna che il corpo di Gesù Cristo, dopo essere risorto dai morti, mantiene la sua dimensione ed è accolto in cielo sino all'ultimo giorno. So bene che i nostri avversari dimostrano apertamente non tenere in alcun conto i testi che citiamo loro. Ogni volta che Gesù Cristo dice che se ne andrà lasciando il mondo (Gv. 14.12-28) , replicano che tale partenza non significa altro che un mutamento nella sua condizione mortale; se così fosse Gesù Cristo non si varrebbe della presenza dello Spirito Santo per supplire alla sua assenza, visto che quello non gli succederebbe. Gesù Cristo non è ridisceso dalla sua gloria celeste per riprendere condizione mortale. L'avvento dello Spirito Santo in questo mondo e l'ascensione di Cristo sono indubbiamente realtà diverse. È pertanto impossibile che egli dimori fra noi, secondo la carne, in modo tale da inviare il suo Spirito. Al contrario egli dichiara esplicitamente che non sarà sempre con i suoi discepoli nel mondo (Mt. 26.2). Sembra loro possibile eludere questa citazione dicendo che Gesù Cristo ha semplicemente inteso dire che non sarebbe stato sempre povero e bisognoso sì da aver necessità di aiuto; il contesto è in contrasto con questa esegesi, non vi si parla di povertà o di indigenza o di altra miseria della vita terrena ma di onore. L'unzione della donna non era gradita agli apostoli; sembrava loro spesa inutile, superflua, anzi manifestazione di lusso da deplorare. Avrebbero infatti preferito che fosse distribuito ai poveri il valore dell'unguento, che a loro giudizio era stato sprecato. Gesù Cristo dice che non sarà sempre presente per ricevere questo onore. Non diversamente da noi legge sant'Agostino; lo dimostra la citazione seguente, molto esplicita:"Quando Gesù diceva non mi avrete sempre con voi, si riferiva alla presenza del suo corpo. Poiché secondo la sua maestà, la sua provvidenza, la sua grazia invisibile è compiuto ciò che ha altrove promesso: sarò con voi sino alla fine del mondo; però secondo la natura umana che ha assunto, secondo la nascita dalla Vergine, secondo la sua crocifissione, resurrezione e sepoltura, questa sentenza è adempiuta: non mi avrete sempre con voi. Perché questo? Perché corporalmente si è intrattenuto quaranta giorni con i discepoli e dopo è salito al cielo, mentre i discepoli lo seguivano con lo sguardo e non con i piedi, ed ora non è più qui. Tuttavia è sempre qui per il fatto che non si è allontanato con la sua maestà ". E ancora: "Abbiamo sempre Gesù Cristo con noi, secondo la presenza della sua maestà; secondo la presenza della sua carne ha detto "non mi avrete con voi ". Poiché la Chiesa l'ha avuto presente per pochi giorni secondo il corpo, ora lo possiede per fede ma non lo vede con gli occhi ". Vediamo qui che questo santo dottore fa consistere la presenza di Gesù Cristo con noi in queste tre realtà: la sua maestà, la sua provvidenza, la sua grazia inesprimibile; grazia nella quale includo la comunione che egli ci offre nel suo corpo e nel suo sangue. Vediamo dunque che non la si deve includere nel pane, poiché ha dimostrato di avere carne e ossa che potevano essere toccate e viste. Andare e salire non significa far finta di andare e salire, significa compiere realmente ciò che le parole dicono. Qualcuno domanderà se si deve assegnare a Cristo un luogo preciso nel cielo. A ciò risponderò con sant'Agostino che tale domanda è superflua e oziosa; ci basta infatti sapere che è nel cielo. 27. Che dunque, il termine ascensione così spesso ripetuto, non indica forse che Gesù Cristo si è spostato da un luogo in un altro? Lo contestano in quanto, a loro avviso, l'altezza sta qui ad indicare soltanto la maestà del suo regno. Ma domando da capo: in che modo è avvenuta l'ascensione? Non è forse stato innalzato in alto a vista d'occhio? Gli evangelisti non affermano forse chiaramente che è stato assunto in cielo (At. 1.9; Mr. 16.19; Lu 24.51) ? Ostinati, per dimostrarsi abili sofisti, dicono che dalla nuvola è stato nascosto alla vista degli uomini affinché i credenti non lo cercassero più quaggiù in forma visibile. Se avesse voluto illustrare una sua presenza invisibile, avrebbe piuttosto dovuto svanire istantaneamente o essere nascosto dalla nuvola prima di alzare un piede. Quando però è portato in alto, nell'aria, e, frapponendo fra se e i suoi discepoli la nuvola, mostra che non lo si deve più cercare in terra, dobbiamo concludere in modo certo che ha attualmente il suo domicilio in cielo. Come d'altronde anche san Paolo dichiara, ordinandoci di attenderlo finché egli torni (Fl. 3.20). Per questa ragione gli angeli avvertono i discepoli che, guardando in aria, si ingannano, perché Gesù, accolto in cielo, verrà nel modo che lo hanno visto salire. I nostri avversari, per dimostrare la loro abilità, fanno uso dei loro soliti cavilli, dicendo che allora si manifesterà in forma visibile, dato che non si è mai allontanato dai suoi, dimorando sempre invisibilmente con loro. Gli angeli avrebbero in quel caso parlato di una duplice presenza; mentre è chiara la loro intenzione di eliminare ogni dubbio riguardo all'ascensione di Gesù Cristo di cui i discepoli erano testimoni. Essi sembrano dire: essendo stato accolto in cielo dinanzi ai vostri occhi, ha preso possesso del regno celeste; attendete pazientemente che egli torni una seconda volta quale giudice del mondo; egli non è entrato in cielo per occupare da solo quel posto, ma per accogliere con sé noi e tutti i credenti. 28. Dato che costoro, per sostenere le loro fantasie bastarde, non hanno vergogna di ricorrere all'autorità degli antichi, soprattutto di sant'Agostino, dimostrerò brevemente che in questo caso agiscono slealmente. Già alcuni uomini sapienti, e fedeli servitori di Dio, hanno dimostrato in modo sufficientemente chiaro la verità riguardo alla testimonianza degli antichi dottori; non intendo fare opera superflua, raccogliendo qui quanto si può trovare nei loro scritti. Neppure citerò tutto ciò che in sant'Agostino potrebbe servire alla nostra causa, ma mi accontenterò di dimostrare, brevemente, che si trova assolutamente schierato con noi.
CAPITOLO 17/b Riguardo alla tesi, sostenuta dai nostri avversari in vista di toglierci il suo appoggio, secondo cui si incontra spesso nei suoi libri l'affermazione che ci sono dati nella Cena il corpo e il sangue di Gesù Cristo, cioè il sacrificio che è stato una volta offerto in croce, Si tratta di una giustificazione del tutto frivola visto che chiama anche i segni "sacramenti del corpo e del sangue ". Del resto non occorre cercare più a lungo in che senso egli adoperi questi termini visto che illustra sufficientemente il suo pensiero dicendo che i sacramenti ricevono il loro nome dalla similitudine delle cose che significano e così, in un certo modo il sacramento del corpo può esser detto corpo. A questa affermazione fa riscontro anche l'altra già citata: che Gesù Cristo non si è fatto scrupolo di dire: ecco il mio corpo dando i segni di quello. Ricorrono più avanti ad un'altra espressione dello stesso dottore: il corpo di Cristo cade in terra entra in bocca. Rispondo che questo deve essere inteso nel senso detto subito appresso: che si consuma nel ventre. Di nessun giovamento è l'affermazione che il pane si consuma dopo che il mistero si è compiuto, in quanto poco prima aveva detto: "Questo mistero, che viene amministrato agli uomini, è notorio, può perciò essere oggetto di dignità e di onore, come cosa santa, ma non come miracolo ". A questo si riferisce un altro testo che i nostri avversari, troppo facilmente, interpretano a loro favore: Gesù Cristo distribuendo il pane della Cena ai suoi discepoli si è in qualche modo dato con le proprie mani . Ricorrendo infatti a questo avverbio di paragone "in qualche modo ", attesta che il corpo non è stato realmente incluso nel pane. Né si tratta di un pensiero insolito visto che altrove sostiene chiaramente e fortemente che se si toglie ai corpi le loro dimensioni e la localizzazione non potrebbero situarsi in nessun luogo e di conseguenza non esisterebbero in modo assoluto. Il loro cavillo è a questo punto troppo debole: non si riferirebbe alla Cena, in cui Dio manifesta invece un intervento particolare: poiché questa conclusione era stata in modo particolare suggerita dall'esempio del corpo di Gesù. E questo santo dottore rispondendo con deliberato proposito dice che gli ha conferito immortalità ma non gli ha tolto la sua natura. "Perciò "dice "secondo il corpo, Gesù Cristo non è ovunque diffuso. Bisogna infatti evitare di sottolineare la dignità del mediatore che è stato fatto uomo al punto da distruggere la realtà del suo corpo. Poiché dal fatto che Dio sia onnipresente non deriva che tutto ciò che è in lui lo sia pure ". La motivazione aggiunta è la seguente: Gesù Cristo essendo uno solo, è nella sua persona Dio e uomo. In quanto Dio è ovunque, in quanto uomo è in cielo. Grave lacuna sarebbe stata da parte sua il non menzionare, sia pure di sfuggita, l'eccezione di quel mistero di tanta importanza qualora fosse risultato in contrasto con il tenore del suo discorso. E anzi se si legge attentamente ciò che segue si troverà che la Cena vi è inclusa. Poiché egli dice che il figlio unico di Dio, essendo anche uomo è ovunque presente; interamente, in quanto Dio risiede nel tempio di Dio, cioè nella Chiesa, e nondimeno è in cielo come uomo, perché occorre che un vero corpo abbia la sua dimensione. Constatiamo che per unire Gesù Cristo alla sua Chiesa non sottrae il suo corpo al cielo, e lo avrebbe certo fatto qualora questo corpo ci potesse essere nutrimento solo a condizione di esser nascosto sotto il pane. In un altro testo volendo definire in che modo i credenti possiedano Gesù Cristo dice: "l'abbiamo mediante il segno della croce, il sacramento del battesimo e il mangiare e bere dell'altare ". Non è questa la sede per esaminare se sia stato ragionevole da parte sua metter sullo stesso piano un'assurda superstizione e i veri segni della presenza di Gesù Cristo. Faccio solo notare che stabilendo questo paragone, dimostra sufficientemente che non pensa a due corpi di Gesù Cristo per nasconderlo nel pane, da una parte, e lasciarlo invisibile nel cielo, dall'altra. Con più ampia spiegazione aggiunge poco dopo che abbiamo sempre Gesù Cristo, secondo la presenza della sua maestà, e non secondo la presenza della sua carne visto che, riguardo ad essa, è stato detto: "non mi avrete sempre con voi " (Mt. 26.2) . I nostri avversari replicano che egli associa a queste parole il fatto che per sua grazia, in modo indicibile e invisibile si compie la sua parola, secondo cui egli sarà con noi sino alla fine del mondo (Mt. 28.20). Ma questo non appoggia in nulla la loro tesi in quanto si tratta di una parte di questa maestà che contrappone al corpo ponendo le due realtà come diverse: la carne e la grazia. In un altro luogo mette in contrasto questi due fatti che Gesù Cristo ha lasciato ai suoi discepoli sotto il profilo della presenza corporale per essere con loro con presenza spirituale; qui risulta che distingue in modo particolare l'essenza della carne e la potenza dello Spirito che ci congiunge a Cristo, quantunque ne siamo separati da una distanza in senso spaziale. Ricorre sempre a questo tipo di discorso come quando dice: egli verrà per giudicare i vivi e i morti secondo la regola di fede con presenza corporale, poiché sotto il profilo della presenza spirituale e sempre con la sua Chiesa. Questo detto si rivolge ai credenti che egli aveva cominciato a custodire essendo presente di corpo e i quali doveva abbandonare a causa dell'assenza del suo corpo per custodirli mediante una presenza spirituale. È un cavillo sciocco interpretare corporale nel senso di visibile, visto che egli contrappone il corpo alla potenza divina; aggiungendo che egli ci custodisce, Cl. Padre, esprime chiaramente il fatto che largisce la sua grazia dal cielo mediante lo Spirito Santo. 29. Vediamo ora se abbia qualche giustificazione il sotterfugio, in cui tanto confidano, della presenza invisibile. In primo luogo essi non sono in grado di citare una sola sillaba della Scrittura con cui dimostrare che Gesù Cristo è invisibile. Considerano argomento inoppugnabile ciò che nessuna persona di buon senso ammetterà: che il corpo di Gesù Cristo non possa essere offerto nella Cena se non sotto l'aspetto di un pezzo di pane. Ma è proprio questo il punto che deve essere dimostrato e non può, pertanto, costituire la premessa del ragionamento Inoltre, divagando in questo modo, sono costretti a dare un doppio corpo a Gesù Cristo; perché, secondo loro è visibile in cielo, ed e invisibile nella Cena, per dispensazione speciale. Se questo corrisponde o meno alla realtà si può valutare in base a molti testi scritturali, in particolare alla testimonianza di san Pietro quando afferma che Gesù Cristo è in cielo fino alla sua venuta per giudicare il mondo (At. 3.21). Questi pazzi insegnano che egli è ovunque, senza forma alcuna e pretendono che è iniquo sottoporre un corpo glorioso alle leggi comuni della natura. Una risposta del genere conduce però direttamente alla tesi di Serveto, giustamente odiosa ad ogni persona che teme Dio, secondo cui il corpo di Gesù Cristo, dopo la sua ascensione è stato inghiottito dalla sua divinità . Non penso che questo sia il loro pensiero, ma quando si includono fra le qualità di un corpo glorificato anche quella di essere infinito e tale da riempire ogni cosa, evidentemente la sua sostanza viene abolita e non rimane nessuna distinzione fra la divinità e la natura umana. Inoltre se il corpo di Gesù Cristo è così variabile e di diverse forme sì da apparire in un luogo e rimanere invisibile in un altro che ne sarà della natura corporale che deve avere le sue dimensioni? Che accadrà altresì della sua unità? Tertulliano ragiona molto meglio insegnando che Gesù Cristo ha un vero corpo naturale, di cui ci è data immagine nella Cena, quale pegno e certezza di vita spirituale. L'immagine infatti risulterebbe falsa se non fosse vero ciò che essa rappresenta. In realtà Gesù Cristo si riferiva al suo corpo glorioso dicendo: "Guardate e toccate poiché uno Spirito non ha carne né ossa " (Lu 24.39). Queste le caratteristiche a cui Gesù riconosce un vero corpo quando si vede e si tocca. Se le sopprimiamo, non si può più parlare di corpo. Sempre di nuovo si rifugiano nella loro premessa: il carattere di eccezionalità di questo fatto. Nostro dovere è invece ricevere ciò che Gesù Cristo dichiara in modo assoluto considerando valido, senza eccezioni, ciò che egli vuole affermare. Egli dimostra chiaramente che non è un fantasma, come credevano i suoi discepoli, in quanto è visibile in carne ed ossa. Eliminiamo le proprietà che egli attribuisce come peculiari al suo corpo, e non saremo forse costretti a trovare una nuova definizione di presenza? Si agitino ed affannino finché vogliono questa eccezione, che hanno immaginato, non ha luogo d'essere, perché san Paolo afferma che aspettiamo il nostro salvatore dal cielo che renderà conforme al corpo della sua gloria il nostro corpo mortale (Fl. 3.21). Non possiamo infatti sperare che tale conformità avvenga sulla base delle qualità che essi immaginano, che cioè ciascuno abbia un corpo invisibile e infinito; e non si troverà certo individuo così ignorante da lasciarsi convincere da assurdità di questo genere. Rinuncino perciò ad attribuire al corpo glorioso di Gesù Cristo questa proprietà di essere contemporaneamente in molti luoghi e non essere contenuto in nessun luogo; insomma ovvero negano apertamente la risurrezione della carne, ovvero confessano che Gesù Cristo, rivestitosi della gloria celeste non si è spogliato della sua natura umana, visto che la nostra risurrezione sarà identica alla sua quando ci renderà partecipi e compagni della sua condizione attuale. Nessun insegnamento scritturale è più chiaro di questo: come Gesù Cristo ha rivestito la nostra carne, nascendo dalla vergine Maria, e ha sofferto in essa per cancellare i nostri peccati così ha assunto questa stessa carne nella sua resurrezione. Perciò tutta la speranza che abbiamo di giungere in cielo poggia sul fatto che Gesù Cristo vi è salito e, come dice Tertulliano, ha portato con sé la caparra della nostra risurrezione. Ora, faccio notare, quanto sarebbe debole questa fiducia se la carne che Gesù Cristo ha presa da noi non fosse la stessa che è entrata in cielo. Siano pertanto rifiutate queste fantasticherie che vincolano al pane sia Gesù Cristo che la speranza degli uomini. Che scopo ha infatti questa presenza invisibile, di cui cianciano tanto, se non costringere coloro che desiderano essere uniti a Cristo a gingillarsi con segni esteriori? Gesù Cristo ha voluto invece staccare dalla terra non solo i nostri occhi ma tutti i nostri sensi quando impedì alle donne, che erano venute al sepolcro, di toccarlo perché non era ancora salito al Padre (Gv. 20.17). Sapendo che Maria e le sue compagne erano mosse da un santo affetto e da grande riverenza nel volergli baciare i piedi, non c'era ragione di impedire e condannare questo gesto, finché egli fosse salito in cielo, se non in quanto voleva mostrare che soltanto là deve essere cercato. Si obietta che da allora è stato visto da santo Stefano (At. 7.55). La risposta è facile. Non si richiedeva per tale visione che Gesù Cristo cambiasse sede, gli era sufficiente dare al suo servitore un potere soprannaturale di visione, facendogli vedere attraverso i cieli. Altrettanto dicasi di san Paolo (At. 9.4). L'altra obiezione secondo cui Gesù Cristo è uscito dal sepolcro senza aprirlo (Mt. 28.6) ed è entrato dai discepoli a porte chiuse (Gv. 20.19) , non giustifica il loro errore. Come l'acqua divenne per Gesù Cristo una strada quando egli camminò sul mare (Mt. 14.25) , non ci deve stupire che la durezza della pietra si sia rammollita per lasciarlo passare. È pure verosimile che la pietra si sia alzata e abbia ripreso in seguito il suo posto. Entrare in un locale a porte chiuse non significa trapassare il legno, significa soltanto che egli si è aperto un passaggio con la potenza divina in modo da trovarsi miracolosamente fra i discepoli, quantunque le porte fossero chiuse. Neppure risulta probante per difendere la loro tesi, anzi torna a vantaggio nostro, il testo in cui san Luca narra che improvvisamente Gesù scomparve dalla vista dei discepoli che andavano ad Emmaus (Lu 24.31). Per sottrarsi alla loro vista non si è infatti reso invisibile, ma è solo scomparso. Come anche, testimone lo stesso evangelista, camminando non si è travestito o trasformato, per non essere riconosciuto, ha semplicemente mutato loro la vista (Lu 24.16). Ora i nostri avversari non solo trasfigurano Gesù Cristo per farlo entrare nel mondo, ma se lo immaginano diverso da se stesso e diverso in terra e in cielo. In breve, secondo i loro sogni, quantunque non dicano esplicitamente che la carne di Gesù Cristo è Spirito, tuttavia lo insegnano. E non contenti di ciò la vestono, secondo i luoghi dove si colloca, di qualità opposte, per cui necessariamente risulta duplice. 30. Quand'anche accettassimo ciò che vanno blaterando riguardo alla presenza invisibile, bisognerà ancora dimostrare la ubiquità di Gesù Cristo senza la quale si sforzano invano di includerlo sotto il pane. Fintanto che non ci hanno dimostrato che egli è ovunque, senza limiti di distanza né dimora, non ci potranno convincere del fatto che è nascosto sotto il pane della Cena. È questa difficoltà che li ha costretti ad introdurre la mostruosa teoria del corpo infinito si. Abbiamo dimostrato con testimonianze esplicite e inoppugnabili della Scrittura che il corpo di Gesù Cristo è, non diversamente dagli altri, contenuto in uno spazio locale, come si richiede ad ogni corpo umano. Inoltre egli ha dimostrato, mediante la sua ascensione in cielo, di non essere ovunque, ma che recandosi in un luogo, ne abbandonava un altro. La promessa che citano: "sarò con voi sino alla fine del mondo " (Mt. 28.20) non implica presenza corporale. Se così fosse Gesù Cristo dovrebbe abitare in noi corporalmente indipendentemente dalla Cena, poiché, nel testo, si parla di una comunione perpetua. Non c'è dunque ragione di impegnarsi così strenuamente in questa polemica, per rinchiudere Gesù Cristo sotto il pane, in quanto riconoscono che lo abbiamo nello stesso modo anche senza la Cena. Anzi secondo il testo Gesù Cristo non parla qui affatto della sua carne ma promette ai suoi discepoli un invisibile aiuto mediante il quale li difenderà e li manterrà contro tutti gli assalti di Satana e del mondo. Egli stava affidando loro un difficile incarico e li rassicura, promettendo di esser sempre presente, affinché non esitino ad assumere questo compito e non si dimostrino perplessi; quasi dicesse che il suo straordinario aiuto non sarebbe mai mancato. Se questa gente non provasse piacere a mischiare e confondere le cose, non sarebbe il caso di specificare questo tipo di presenza? In realtà preferiscono rivelare la loro ignoranza ricorrendo ad improperi anziché abbandonare, sia pur di poco, il loro errore. Non mi riferisco ai papisti, la cui dottrina è più accettabile, o per lo meno presentata meglio. Ve ne sono che infiammati da tale ardore non si vergognano di dire che, a causa dell'unione delle sue nature, ovunque è presente la divinità di Cristo si trova pure la sua carne, in quanto non si possono scindere. Questa unione diventa così una fusione il cui risultato è non so quale miscuglio che risulta non essere né Dio né uomo. Così l ha immaginata Eutiche, e dopo di lui Serveto. Si ricava però chiaramente, da tutta la Scrittura, il concetto che nella persona di Gesù Cristo le due nature sono unite in modo che ognuna mantenga le sue proprietà. I nostri avversari non oseranno affermare che Eutiche non sia stato condannato giustamente. Mi stupisce il fatto che non ne valutino il motivo: sopprimendo infatti la distinzione fra le due nature e insistendo sull'unità della persona egli faceva Gesù Cristo essere uomo in quanto Dio e Dio in quanto uomo. Questi forsennati preferiscono dunque mischiare cielo e terra piuttosto che abbandonare le fantasticherie strappando Gesù Cristo dal santuario dei cieli. Il volersi fondare su queste testimonianze scritturali: "Nessuno è mai salito al cielo se non il Figlio dell'uomo che vi dimora " (Gv. 3.13); ed: "Il Figlio che è nel seno del Padre è quello che ce l'ha manifestato " (Gv. 1.18) dimostra la loro stupidità in quanto disprezzano la comunicazione delle proprietà che non senza ragione è stata formulata dai Padri antichi. Quando, ad esempio, vien detto che il Signore della gloria è stato crocifisso (1 Co. 2.8) , questo non significa che in qualche modo egli abbia sofferto nella sua divinità, ma vuol dire che Gesù Cristo, soffrendo questa morte ignominiosa nella sua carne, era lui stesso il Signore della gloria. Per la stessa ragione si può dire che il Figlio dell'uomo era in cielo e in terra in quanto Gesù Cristo, secondo la carne, ha parlato quaggiù mediante la sua vita mortale e tuttavia non cessava di abitare in cielo in quanto Dio. Quando nello stesso testo è detto che "è sceso dal cielo ", questo non significa che la sua divinità abbia lasciato il cielo per rinchiudersi nella carne come in un carcere, ma significa che colui che riempie tutto ha nondimeno abitato corporalmente, in modo inesprimibile, nella sua umanità.
È in uso fra i teologi sorbonisti una distinzione elementare che non ho scrupolo di citare: Gesù Cristo è ovunque nella sua totalità, ma tutto ciò che ha in se non è ovunque. Volesse Iddio che quei poveretti meditassero attentamente il significato di questa sentenza; la loro sciocca teoria della presenza carnale di Gesù Cristo nella Cena sarebbe così distrutta. Il nostro mediatore perciò, essendo ovunque nella sua pienezza è costantemente vicino ai suoi. Nella Cena anzi si dimostra presente in modo particolare, tuttavia in vista di manifestare la sua presenza, non per recarvi tutto ciò che ha in se perché, quanto alla carne, egli deve dimorare in cielo sino alla sua apparizione per il giudizio. 31. Del resto coloro che non sono in grado di concepire una presenza della carne di Gesù Cristo nella Cena, se non in quanto legata al pane, grandemente si ingannano. Così facendo essi escludono infatti l'opera segreta dello Spirito che ci unisce a Gesù Cristo. Sembra loro che Gesù Cristo non sia presente se non discende sino a noi. Come se innalzandoci a se non ci facesse godere altrettanto bene della sua presenza. Il nostro problema, o la nostra controversia, verte unicamente sulla modalità di questa presenza perché i nostri avversari vogliono localizzare Gesù Cristo nel pane e noi, per parte nostra, affermiamo che non è lecito sottrarlo al cielo. I lettori giudichino chi si esprime con maggior verità e sensatezza, purché sia esclusa questa calunniosa teoria secondo cui si elimina Gesù Cristo dalla Cena se non lo si rinchiude nel pane. Trattandosi di un mistero di natura celeste non è richiesto che Gesù Cristo venga trascinato quaggiù per essere congiunto a noi. 32. Del resto se qualcuno mi chiedesse come questo avvenga, non avrei il minimo scrupolo a confessare che si tratta di un segreto troppo eccelso perché il mio spirito lo possa afferrare e spiegare con parole, e sostanzialmente, ne avverto la realtà per esperienza, più di quanto sia in grado di formularla. Accetto perciò le promesse di Gesù Cristo senza fare lunghe discussioni. Egli dichiara che la sua carne rappresenta il nutrimento per l'anima mia e il suo sangue la bevanda; gli presento dunque l'anima mia affinché sia saziata di tale nutrimento. Egli ordina nella sua Santa Cena di prendere, di mangiare e bere il suo corpo e il suo sangue sotto i segni del pane e del vino, non ho il minimo dubbio che egli dia ciò che mi promette e che per parte mia io lo riceva. Respingo soltanto le assurdità e le folli speculazioni contrarie alla sua maestà o alla realtà della sua natura umana, speculazioni che si rivelano essere in contrasto con la parola di Dio. La quale ci insegna che Gesù Cristo, essendo accolto nella gloria dei cieli, non si deve ricercare quaggiù (Lu 24.26) e attribuisce alla sua umanità tutto ciò che è proprio dell'uomo. Ora questo non ci deve stupire quasi fosse incredibile. Avendo il regno di Gesù Cristo una dimensione esclusivamente spirituale tutto ciò che egli attua nella sua Chiesa non deve essere riferito all'ordine naturale del mondo. E, parlando per bocca di sant'Agostino, affermo che questo mistero si compie per mezzo di uomini ma in modo divino, si amministra in terra, ma in modo celeste. Questa è la presenza corporale richiesta dal sacramento, presenza in cui riconosciamo essere e rivelarsi tanta efficacia e potenza da non recare alle anime nostre soltanto una fiducia indubitabile della vita eterna, ma altresì la certezza della immortalità della nostra carne che già risulta vivificata dalla carne immortale di Gesù Cristo e partecipa in qualche modo alla sua immortalità. Coloro che, con linguaggio eccessivo, oltrepassano queste dichiarazioni oscurano una verità che di per se è semplice ed evidente. Se qualcuno si dovesse dichiarare insoddisfatto, consideri meco che siamo in presenza del sacramento la cui realtà intera è da riferirsi alla fede. Mediante quella partecipazione del corpo che abbiamo esposta non nutriamo la fede meno di quanto fanno coloro che pensano dover trarre Gesù Cristo dal cielo. Affermo chiaramente però di rifiutare quel miscuglio che hanno intenzione di fare tra carne di Gesù Cristo e la nostra anima quasi filtrassero attraverso un alambicco perché ci deve bastare il fatto che Gesù Cristo dà vita alle nostre anime con la sostanza della sua carne anche se questa vita deriva dalla sua carne senza che entri in noi. Osserviamo altresì che la regola di fede a cui san Paolo ordina di riferire ogni interpretazione della Scrittura (Ro 12.3) , si applica perfettamente al caso nostro. Al contrario considerino a quale regola, o norme di fede, si vogliono attenere coloro che si oppongono a verità così manifeste. Poiché colui non è da Dio che non confessa Gesù Cristo essere venuto in carne (Gv. 3.4); e questa gente, malgrado i suoi cavilli, lo spoglia della realtà della sua carne. 33. Altrettanto si deve dire della comunione che costoro giudicano nulla se non ingurgitano la carne di Gesù Cristo sotto il pane. Si offende però gravemente lo Spirito Santo non volendo credere che la comunicazione al corpo e al sangue di Cristo avviene per sua azione incomprensibile. Se anzi il significato di questo mistero, quale lo insegniamo noi ed è stato accolto in modo particolare nella Chiesa antica, fosse stato rettamente inteso nella sua portata, nel corso degli ultimi quattrocento anni, ci si potrebbe dire soddisfatti e si sarebbe chiusa la porta a molte gravi e deplorevoli assurdità che hanno sconvolto la Chiesa sia nel nostro tempo che nel passato. Il guaio deriva dal fatto che gente priva di cervello richiede una presenza massiccia, di cui non v'è traccia nella Scrittura, e inoltre combatte per mantenere quelle fantasticherie assurde e temerarie che ha escogitato e fa gran chiasso come se la religione dovesse perire qualora Gesù Cristo non fosse rinchiuso nel pane. Essenziale è conoscere come il corpo di Gesù Cristo, in quanto è stato offerto in sacrificio per noi, sia fatto nostro e come noi siamo resi partecipi del suo sangue che è sparso; poiché questo significa possederlo interamente per godere di tutti i suoi benefici. Ora quegli scellerati, lasciando da parte realtà di tanta importanza, anzi disprezzandole e quasi rifiutandole, prendono piacere soltanto nel dibattere questa questione: il corpo di Cristo è nascosto sotto il pane o sotto le specie del pane? Affermano falsamente che il concetto di manducazione spirituale del corpo di Gesù Cristo sia contraria alla "vera "o "reale "manducazione, per adoperare il termine loro, visto che il dissenso verte sulle modalità di tale manducazione, in quanto essi la fanno carnale, rinchiudendo Gesù Cristo sotto il pane, noi la definiamo spirituale affermando che è l'opera segreta dello Spirito Santo a costituire il vincolo della nostra comunione con il Salvatore nostro.
Non è vera neppure l'altra obiezione, secondo cui consideriamo unicamente i frutti, i benefici che i credenti ricevono dalla carne di Gesù Cristo. Poiché ho già detto sopra che Gesù Cristo stesso rappresenta la materia, la sostanza della Cena, donde procede la conseguenza che siamo assolti dai nostri peccati mediante il sacrificio della sua morte, siamo lavati dal sangue suo e in virtù della sua risurrezione siamo innalzati alla speranza della vita celeste. Ma le sciocche fantasie di cui li ha nutriti il loro Maestro delle Sentenze ha sconvolto il loro intendimento. Ecco quanto egli dice testualmente: "I sacramenti senza la realtà sono le specie del pane e del vino, il sacramento unito alla realtà sono la carne e il sangue di Cristo, la realtà senza il sacramento è la carne mistica "e ancora, poco dopo: "La realtà significata è contenuta nella carne di Gesù Cristo; la realtà significata e non contenuta è il suo corpo mistico ". Riguardo alla distinzione che egli opera tra la carne e il potere che ha di nutrire concordo con lui, ma giudico errore intollerabile la fantasticheria che essa sia il sacramento in quanto è inclusa sotto il pane. Di qui deriva il fatto che hanno falsamente interpretato il termine di manducazione sacramentale pensando che anche i malvagi, quantunque del tutto estranei a Gesù Cristo e lontani da lui, mangiano il suo corpo. Nel mistero della Cena la carne di Gesù Cristo è realtà spirituale, quanto la nostra salvezza eterna. Ne deduco perciò la conclusione che tutti coloro che sono privi dello Spirito di Cristo non possono mangiare la sua carne più di quanto si possa bere del vino senza avere il gusto. Gesù Cristo risulta discreditato in modo veramente grave quando gli si attribuisce un corpo morto e privo di forza da dare a parte agli increduli. E questo contrasta esplicitamente con le parole: "Chiunque mangerà la mia carne e berrà il mio sangue dimorerà in me e io in lui " (Gv. 6.56). Rispondono che questo testo non parla della manducazione sacramentale; lo ammetto, a condizione che non ci si vada sempre ad arenare sullo stesso scoglio: che si possa cioè mangiare la carne di Gesù Cristo senza frutto alcuno. Sarei curioso di sentire da loro quanto tempo lo conservano nello stomaco dopo averlo mangiato. Penso sarà loro piuttosto difficile trovare una risposta a questo quesito. Obiettano che la realtà delle promesse divine non può essere sminuita e tanto meno venir meno a causa dell'ingratitudine degli uomini; lo ammetto, anzi affermo che la efficacia di questo mistero permane nella sua pienezza anche quando i malvagi si sforzano, per quanto sta loro, di annullarlo. Una cosa però è il fatto che la carne di Gesù Cristo ci sia offerta, un'altra è il fatto che noi la riceviamo. Gesù Cristo offre a tutti questo cibo e questa bevanda spirituale, gli uni se ne nutrono con gran desiderio, gli altri la disdegnano, quasi disgustati. Il rifiuto di costoro farà perdere al cibo e alla bevanda la loro natura? Diranno che questo paragone sostiene la loro tesi: che la carne di Gesù Cristo, quantunque non abbia sapore e valore per gli increduli non cessa per questo di essere carne. Contesto però che la si possa mangiare senza qualche appetenza di fede; o, per esprimerci come sant'Agostino, nego che si possa ricavare dal sacramento se non quello che ci si attinge mediante la fede, come con un recipiente adatto. Nulla viene perso o sminuito nel sacramento, la sua verità e la sua efficacia permangono anche se gli increduli, pur partecipandovi se ne vanno vuoti e senza vantaggio. I nostri avversari obietteranno che se gli increduli non ricevono altro che pane corruttibile, viene così negato valore a quelle parole: "Questo è il mio corpo "; la soluzione è facile: Dio non chiede che la sua veridicità sia garantita dal fatto che gli increduli ricevono ciò che egli dà loro ma dal carattere perenne della sua bontà che fa sì che egli si dimostri pronto a farli partecipi di ciò che rifiutano, malgrado la loro indegnità, anzi lo offre loro con liberalità. In questo è da vedersi la validità dei sacramenti che nessuno al mondo può annullare: la carne e il sangue sono dati ai reprobi in modo altrettanto reale che agli eletti di Dio e ai credenti. Come la pioggia cadendo su di una rupe vi scorre qua e là non trovando accesso in essa, così la loro incredulità respinge la grazia di Dio impedendole l'accesso. Anzi non è possibile che Gesù Cristo sia accolto, senza la fede, più di quanto è possibile che un seme possa germogliare nel fuoco. Domandare in che modo Gesù Cristo sia risultato dannazione per parecchi, se non in quanto lo hanno ricevuto indegnamente significa cavillare senza intelligenza. Da nessuna parte si legge che gli uomini si procurino dannazione ricevendo Gesù Cristo indegnamente, bensì rifiutandolo. E nessun argomento possono ricavare dalla parabola dove Gesù Cristo dice che del seme germogliò fra le spine, e fu in seguito soffocato (Mt. 13.7). In questo caso egli parla invece del significato di quella fede, che i nostri avversari non pensano si debba richiedere per mangiare la carne di Gesù Cristo e bere il suo sangue, visto che, in questo caso, fanno Giuda compagno di san Pietro. Anzi il loro errore è chiaramente refutato in quella stessa parabola quando vien detto che una parte del seme cadde sulla strada e l'altra sulla roccia e né l'uno né l'altro misero radici (Mt. 13.4-5). Onde si deduce che l'incredulità rappresenta un ostacolo tale che Gesù Cristo non è in grado di raggiungere coloro che non hanno fede. Chiunque desideri che la nostra salvezza sia accresciuta dalla santa Cena, non farà nulla di più idoneo che guidare i credenti alla fonte della vita che è Gesù Cristo per attingere da lui. La dignità della Cena è esaltata in modo adeguato quando la consideriamo ausilio e strumento per incorporarci in Gesù Cristo ovvero, essendo incorporati in lui, per fortificarci in tal comunione finché egli ci unisca a se in modo perfetto nella vita eterna. Quando sollevano l'obiezione che, se gli increduli non partecipassero al corpo ed al sangue di Gesù Cristo, san Paolo non dovrebbe considerarli colpevoli (1 Co. 11.29) , risponderò che non sono condannati in quanto hanno bevuto e mangiato il pane e il vino, ma in quanto hanno profanato il mistero, calpestando il pegno della unione sacra, che abbiamo con Gesù Cristo, che meritava di essere celebrato con ogni rispetto. 34. Dato che sant'Agostino è stato il più autorevole fra gli antichi dottori a sostenere la tesi che il sacramento non perde nulla della sua efficacia e che la grazia in esso raffigurata non vien meno a motivo della infedeltà o della malvagità degli uomini, è necessario dimostrare chiaramente, ricorrendo alle sue stesse parole, che la sua testimonianza è utilizzata in modo assolutamente superficiale da parte di coloro che vogliono dare da mangiare il corpo di Gesù Cristo ai cani. La manducazione sacramentale, se si vuol prestare fede al loro discorso, consiste nel fatto che gli increduli ricevono il corpo e il sangue di Gesù Cristo senza l'efficacia del suo Spirito e senza effetto della sua grazia. Sant'Agostino, al contrario, esaminando attentamente le parole: "Chi avrà mangiato la mia carne e bevuto il mio sangue non morrà mai ", ne dà la spiegazione seguente: Considera la forza del sacramento e non il sacramento visibile in se, anzi il suo aspetto interiore e non esteriore e il fatto che lo si mangi Cl. Cuore e non con il ventre. Conclude perciò che il sacramento della unione che abbiamo Cl. Corpo e il sangue di Gesù Cristo è nella cena offerto per gli uni a vita, a dannazione per gli altri; ma la realtà significata non può essere che data a vita a tutti coloro che ne sono resi partecipi. Se i nostri avversari vogliono trovar cavilli affermando che quel termine: realtà significata non si riferisce al corpo ma alla grazia che non è sempre congiunta ad esso, questo sotterfugio cade con i termini: visibile-invisibile. Poiché, malgrado il dispetto che ne hanno, sono costretti a confessare che il corpo di Gesù Cristo non può esser detto visibile; ne consegue che gli increduli non partecipano che a segni esteriori. Per chiarire ogni difficoltà dopo aver detto che questo pane richiede una appetenza dell'uomo interiore, Agostino aggiunge che Mosè e Aronne e Fineas e molti altri che hanno mangiato la manna sono stati graditi a Dio. Perché? In quanto prendevano spiritualmente l'alimento visibile, lo desideravano spiritualmente, lo gustavano spiritualmente per esserne spiritualmente saziati. Noi pure abbiamo ricevuto oggi l'alimento visibile, ma una cosa è il sacramento, altro è la sua efficacia. Poco dopo aggiunge: "Colui, pertanto, che non dimora in Cristo, e in cui Cristo non dimora, non mangia la sua carne spiritualmente e non beve il suo sangue quand'anche carnalmente e visibilmente mastichi i segni del corpo e del sangue ". Vediamo che ancora una volta egli contrappone il segno visibile alla manducazione spirituale. Risulta dunque pienamente smascherato l'errore secondo cui il corpo di Gesù Cristo, essendo invisibile, è mangiato realmente e in modo assoluto anche se non spiritualmente. Constatiamo altresì che agli increduli e ai profani non lascia altro che la recezione del segno visibile. Di qui la sua affermazione, abbastanza evidente: i discepoli hanno mangiato il pane che era Gesù Cristo, Giuda ha mangiato soltanto il pane di Gesù Cristo. Egli esclude in questo modo gli increduli dal partecipare al corpo e al sangue. Lo stesso intendimento ha quell'altra dichiarazione: "Perché ti stupisci che sia stato dato a Giuda il pane del Signore mediante cui fu reso schiavo del Diavolo, quando vedi, all'opposto, che l'angelo del Diavolo è stato dato a Paolo per renderlo perfetto in Gesù Cristo? ". È bensì vero che in un altro testo afferma che il pane della Cena non ha cessato di essere il corpo di Cristo per coloro che lo mangiavano indegnamente a loro condanna, e quando lo hanno preso indegnamente questo non significa che non abbiano preso nulla. In un altro testo però chiarisce il suo pensiero; dichiarando esplicitamente che i cattivi e i dissoluti, che con la bocca fanno professione di fede cristiana e la rinnegano nella vita, mangiano il corpo di Gesù Cristo, e polemizzando contro l'opinione di alcuni che pensavano che non solo ricevessero il sacramento ma anche il corpo, dice: "Non bisogna pensare che costoro mangino il corpo di Cristo, non devono infatti essere inclusi fra le membra di Cristo, poiché, pur tralasciando molti altri motivi, questo rimane chiaro che non possono esser membra di Cristo e membra di una prostituta ". Inoltre il Signore dicendo: "chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me è io in lui " (Gv. 6.26) , dimostra che cosa significa mangiare il suo corpo in realtà e non solo nel sacramento: significa dimorare in Cristo affinché dimori in noi. Come dicesse: "colui che non dimora in me e in cui non dimoro, non pensi e non creda di mangiare la mia carne e di bere il mio sangue ". I lettori meditino attentamente queste parole in cui egli contrappone mangiare il sacramento e mangiare in verità e non avranno più dubbi o punti oscuri. Riafferma ancor più chiaramente questo pensiero dicendo: "Non preparate il vostro stomaco ma il cuore, poiché per lui è apprestata la Cena. Ecco noi crediamo in Gesù Cristo e lo riceviamo per fede, conosciamo il nostro pensiero nel riceverlo: ecco prendiamo un pezzettino di pane e siamo saziati nel cuore. Perché quello che sazia non è ciò che si vede ma ciò che si crede ". Anche in questo testo, come sopra, egli limita al segno visibile ciò che gli increduli ricevono e dichiara che Gesù Cristo non può essere ricevuto per fede; altrettanto afferma altrove: Tanto i buoni che i malvagi hanno comunione ai segni ed esclude gli increduli dalla vera manducazione della Cena di Gesù Cristo. Il che non avrebbe fatto se avesse avuto l'ottusa mentalità che i nostri avversari gli vogliono attribuire. In un altro testo, parlando della Manducazione e del frutto di essa conclude: "Il corpo e il sangue di Gesù Cristo sono vita per ognuno se, quanto si prende visibilmente, viene spiritualmente mangiato e bevuto ". Coloro perciò che vorrebbero far si che gli increduli siano partecipi del sangue e della carne di Gesù Cristo ci mostrino, per essere d'accordo con sant'Agostino, il corpo di Cristo visibile, poiché egli dichiara che tutta la verità del sacramento è spirituale. È facile ricavare dalle sue parole che la manducazione sacramentale non comporta altro che il mangiare visibile ed esteriore del segno quando la incredulità escluda la partecipazione alla sostanza. E in realtà se si potesse mangiare il corpo di Gesù Cristo realmente, senza mangiarlo spiritualmente, che ne sarebbe di questo detto del medesimo dottore: "Non mangerete affatto il corpo che vedrete né berrete il sangue che spargeranno coloro che mi crocifiggeranno. Vi ho dato un sacramento che vi vivificherà quando sia spiritualmente inteso? ". Non ha certo voluto negare che il medesimo corpo offerto da Gesù Cristo in sacrificio sia anche quello che ci è dato nella Cena, ma ha indicato le modalità di questa partecipazione: è che il corpo ci dia vita per virtù segreta dello Spirito Santo pur essendo nella gloria celeste. Ammetto certo che quel saggio dottore dice, a volte, che il corpo di Gesù Cristo è preso anche dagli increduli ma lo spiega dicendo che è in modo sacramentale; e dichiara in seguito che si può parlare di manducazione spirituale quando non si mangiala grazia di Dio con i nostri morsi. Affinché gli avversari non dicano che voglio vincere la causa facendo cumulo di citazioni, vorrei sapere come si tirano d'impaccio quando egli dice che i sacramenti non danno e non recano ciò che raffigurano se non ai soli eletti. Non vorranno negare che il pane della Cena sia figura del corpo di Cristo, ne consegue che i reprobi sono esclusi dalla partecipazione ad esso. Si può citare anche una parola di Cirillo a dimostrare che, al riguardo, egli non ha avuto un pensiero diverso: "Se in una cera fusa si getta dell'altra cera entrambe si confondono. Così è inevitabile che se alcuno riceve la carne e il sangue del Signore sia con lui congiunto, affinché sia trovato essere in Cristo e Gesù Cristo in lui ". Penso aver sufficientemente chiarito il fatto che coloro che non ricevono il corpo di Gesù Cristo sacramentalmente sono esclusi da un'autentica manducazione, in quanto l'essenza del corpo non si può scindere dalla sua forza e, d'altra parte, la verità delle promesse di Dio non viene sminuita per questo, visto che egli non interrompe la pioggia dal cielo anche se i sassi e le rupi non assimilano alcuna umidità. 35. Quando siano chiari questi concetti saremo facilmente distolti da quella adorazione carnale di cui alcuni, in modo temerario e perverso, hanno fatto oggetto il sacramento, in base a un ragionamento di questo tipo: se il corpo è presente, di conseguenza e l'anima e la divinità sono anch'esse presenti Cl. Corpo, perché non posson più esser separati o scissi. Dunque Gesù Cristo deve essere adorato in questa forma. Se in primo luogo è negata questa deduzione, che essi chiamano "concomitanza ", che faranno? Quand'anche affermino che è assurdo separare l'anima e la divinità dal corpo pure non sono in grado di convincere nessuna persona di buon senso del fatto che il corpo di Gesù Cristo sia Gesù Cristo stesso. Anche se questo sembra derivare dalla loro argomentazione. Ma poiché Gesù Cristo parla distintamente del suo corpo e del suo sangue senza specificare le modalità della presenza, che conclusioni potranno ricavare da una cosa dubbia? Certo quando la loro coscienza sarà turbata da una qualche forte tentazione molto facilmente risulteranno confusi, stupiti, smarriti con i loro sillogismi, vedendosi sprovvisti della garanzia della parola di Dio che sola può rendere stabile le nostre anime, quando sono chiamate a rendere ragione, e senza la quale inciampano e precipitano in ogni circostanza, constatando che l'insegnamento e gli esempi degli apostoli sono loro contrari, e scoprendosi soli artefici delle loro fantasie. A questi interrogativi faranno seguito parecchi altri rimorsi di coscienza e altri dubbi. E che? È forse cosa senza importanza adorare Dio in quella forma senza che ce ne avesse dato l'ordine? Si poteva, trattandosi del servizio e della gloria di Dio, attuare con tanta leggerezza una cosa di cui non ci era fatta parola? Se gli inventori di queste argomentazioni avessero, con l'umiltà che si addice, mantenute le fantasticherie dei loro sensi nei limiti della parola di Dio, avrebbero prestato attenzione alle parole: "Prendete, mangiate, bevete "e avrebbero obbedito al comandamento con cui ci viene ordinato di prendere e non di adorare il sacramento. Coloro perciò che lo prendono senza adorarlo, come è stato ordinato dal Signore, sono certi di non allontanarsi dal comandamento di Dio. Questa certezza è la migliore consolazione che ci possa essere data quando prendiamo qualche iniziativa. C'è l'esempio degli apostoli, che non hanno, a quanto ci risulta, adorato il sacramento in ginocchio, ma che l'hanno preso e mangiato standosene seduti. C'è l'uso della Chiesa apostolica che, secondo quanto narra san Luca, ha avuto comunione non nell'adorazione, ma nel rompere il pane (At. 2.42). C'è la dottrina apostolica, con cui san Paolo istruisce la Chiesa dei Corinzi, dopo aver dichiarato di aver ricevuto dal Signore ciò che egli insegna (1 Co. 11.23). 36. Tutto questo deve rendere i cristiani attenti al pericolo di svolazzare, seguendo le loro fantasie, oltre i limiti della parola di Dio, trattandosi di realtà così elevate e di tanta importanza. Quanto è stato sin qui esaminato ci deve liberare da ogni dubbio poiché abbiamo mostrato che il credente, per ricevere Gesù Cristo nella Cena, deve innalzare la sua anima e il suo spirito al cielo. E in realtà se la funzione del sacramento è di aiutare l'intendimento dell'uomo, altrimenti infermo, affinché possa innalzarsi per giungere all'altezza dei misteri celesti, coloro che si baloccano con i segni smarriscono la retta via per veramente cercare Gesù Cristo. Chi oserà negare, dunque, che sia pessima superstizione l'inginocchiarsi davanti al pane per adorare quivi Gesù Cristo? Non c'è dubbio che il concilio di Nicea abbia voluto ovviare a questo inconveniente quando proibì ai credenti di fissare la propria attenzione sui segni visibili . Per questa ragione è stata istituita nella Chiesa antica la prassi che il diacono, prima della consacrazione, gridasse a voce alta e chiara al popolo di volgere l'animo in alto. E la Scrittura stessa non solo ci narra con chiarezza l'Ascensione di Gesù Cristo ma quando fa menzione di lui ci esorta ad innalzare i cuori per sottrarci ad ogni pensiero carnale (Cl. 3.1). Seguendo dunque questa norma, bisognava adorare piuttosto spiritualmente nella gloria dei cieli anziché inventare questa pericolosa forma di adorazione, frutto di una concezione grossolana e carnale di Dio e di Gesù Cristo. Coloro che hanno introdotto l'adorazione del sacramento non l'hanno solo ricavata dalla loro fantasia, procedendo oltre la Scrittura, in cui non se ne fa menzione, e dove non avrebbe certo mancato di essere menzionata se fosse stata gradita a Dio, ma anzi l'hanno fatto in esplicita opposizione alla Scrittura figurandosi un nuovo Dio secondo i propri gusti, abbandonando il Dio vivente. Se non è idolatria questo adorare i doni anziché il donatore che cosa, nel mondo, si deve dire idolatria? Così facendo hanno commesso un duplice errore: l'amore è stato sottratto a Dio per essere trasferito alle creature; e Dio stesso è stato disonorato per il fatto che si è profanato il suo dono e i suoi benefici quando si è fatto del suo sacramento un idolo abominevole. Noi, al contrario, per non cadere in questo trabocchetto radichiamo in modo assoluto e le nostre orecchie e i nostri occhi, i nostri cuori e i nostri pensieri, e la nostra lingua nel santissimo insegnamento di Dio. Poiché si tratta della scuola dello Spirito Santo, insegnante eccellente, da cui si impara tanto che non è necessario aggiungere nulla da altra fonte e si può tranquillamente ignorare ciò che in essa non viene insegnato. 37. Dato che la superstizione, quando ha oltrepassato una volta certi limiti, non ha fine, ci si è smarriti in un modo ancora più grave. Si sono inventate cerimonie, usi, che non concordavano affatto con l'istituzione della Cena al solo scopo di onorare il segno come Dio stesso. Quando muoviamo il rimprovero ai nostri avversari per questo fatto, rispondono che tali onori sono recati a Gesù Cristo. In primo luogo se questo venisse fatto nel contesto della celebrazione della Cena potrei obiettare che la vera adorazione non deve essere rivolta al segno ma a Gesù Cristo in cielo. Dato però che fanno queste loro sciocchezze fuori della Cena, non hanno la scusa di dire che onorano Gesù Cristo nel pane visto che non hanno alcuna promessa. Consacrano la loro ostia per portarla in processione, mostrarla in grande pompa, tenerla appesa nel ciborio, affinché sia adorata ed invocata. Chiedo loro in base a che potere la pensano consacrata? Ci risponderanno: in base alle parole: "Questo è il mio corpo ". Replico, ed ho le ragioni valide per farlo, che nello stesso testo è detto: "Prendete e mangiate ". Essendo la promessa congiunta con il comandamento dico che è inclusa in esso al punto che viene annullata quando ne sia separata. Questo risulterà più chiaro con un esempio. Nostro Signore ci ha dato un comandamento dicendo: "Invocami "; aggiungendo immediatamente però la promessa: "ti esaudirò " (Sl. 50.15). Se qualcuno, invocando san Pietro o san Paolo, intendesse prevalersi di questa promessa chi non lo giudicherebbe pazzo e fuori di sé? Ora vi domando, fanno forse qualcosa di diverso quelli che scindono, nella Cena, la promessa: ecco il mio corpo, dal comandamento che vi è unito facendone un uso del tutto estraneo alla istituzione di Cristo? Ci si ricordi dunque che tale promessa concerne coloro che osservano l'ordine di Gesù Cristo; al contrario coloro che si servono del comandamento per altro scopo sono del tutto privi dell'appoggio della parola di Dio. Abbiamo sin qui esaminato in che modo questo sacramento giovi alla nostra fede davanti a Dio. Nostro Signore non ha solo voluto ricordarci la grandezza della sua bontà, ma ce la offre, come abbiamo detto poco sopra, visibilmente, e ci invita a riconoscerla, Ci ammonisce parimenti a non dimostrarci ingrati verso questa benignità che egli manifesta, ma anzi a magnificarla con la lode che si conviene e celebrarla con azioni di grazia. Nell'istituire questo sacramento per i suoi apostoli, ordinò loro di ripeterlo in memoria sua (Lu 22.19). Ordine che san Paolo interpreta con le parole: "Annunziare la morte del Signore " (1 Co. 11.20: ciò significa, pubblicamente e uniti ad una voce, confessare in modo esplicito la vita e la salvezza essere nella morte del Signore, per glorificarlo mediante la nostra confessione ed esortare altri, Cl. Nostro esempio, a tributargli una medesima gloria. Riscontriamo nuovamente a questo punto lo scopo del sacramento: mantenerci nel ricordo della morte di Gesù Cristo. L'ordine di annunziare la morte del Signore finché venga al giudizio significa questo: dichiarare con esplicita confessione ciò che la nostra fede ha riconosciuto nel sacramento, che cioè la morte di Gesù Cristo è la nostra vita. In questo consiste la seconda funzione di questo sacramento: costituire una confessione esplicita di fede. 38. In terzo luogo nostro Signore ha voluto che il sacramento fosse per noi un incitamento, superiore ad ogni altro, per infiammarci e incitarci alla carità, alla pace, all'unione. Poiché nostro Signore ci rende in tal modo partecipi del suo corpo, in modo assoluto, sì da essere fatto uno con noi e da farci uno con se. Non avendo Cristo che un corpo solo, di cui tutti siamo resi partecipi, ne consegue necessariamente che mediante tale partecipazione siamo resi un corpo solo, una unità rappresentata dal pane che ci è offerto nel sacramento. Come il pane è composto da molti chicchi di grano così mischiati e confusi insieme da non potersi più distinguere o separare l'uno dall'altro, nello stesso modo dobbiamo essere congiunti insieme e uniti fra noi mediante una volontà concorde, al punto da non lasciar sussistere divisione o contrasto alcuno. Preferisco illustrare questo concetto con le parole di san Paolo: "Il calice della benedizione "egli dice "che noi benediciamo è la comunione Cl. Sangue di Cristo; il pane della benedizione che noi rompiamo è la comunione Cl. Corpo di Cristo. Noi dunque che siamo molti, siamo un corpo unico, perché partecipiamo tutti a quell'unico pane", (1 Co. 10.16-17). Grande profitto trarremo dal sacramento se avremo impresso e inciso nei nostri cuori questo convincimento: che cioè nessuno dei fratelli può essere disprezzato, respinto, ferito o offeso in alcun modo da noi senza che contemporaneamente si ferisca, disprezzi, offenda in lui Gesù Cristo e gli si faccia violenza con le nostre ingiurie; non possiamo avere dissapori o divisioni con i nostri fratelli senza essere in disaccordo e divisi da Gesù Cristo; Gesù Cristo non può essere amato da noi senza essere amato nei nostri fratelli; dobbiamo avere per i nostri fratelli, che sono membra del nostro corpo, la sollecitudine e le cure che abbiamo per il nostro corpo stesso. Come una parte del corpo non può soffrire alcun dolore senza che la sensazione si diffonda in tutte le altre, così non possiamo sopportare che i nostri fratelli siamo afflitti da qualche male senza assumerne la nostra parte con spirito di compassione. Non senza ragione Agostino ha così spesso chiamato questo sacramento: vincolo di carità. Quale pungolo risulterebbe più pungente e acuto, per incitarci ad avere fra noi mutua carità, del pensiero che Gesù Cristo, nel darsi a noi, non solo ci invita a questo dono e a questa dedizione reciproca illustrandola Cl. Suo esempio, ma nel farsi comune a tutti ci fa realmente essere tutti uno in lui? 39. Da ciò risulta molto chiaramente quanto ho già detto sopra, che cioè l'amministrazione autentica dei sacramenti consiste nella Parola. I doni infatti che ci derivano dalla Cena implicano la presenza della Parola. Si tratta di confermarci nella fede, di esercitarci nella professione del nostro cristianesimo, di esortarci ad una vita santa? Occorre che la Parola sia presente. Cosa più che perversa dunque il trasformare la Cena in un rito muto e senza predicazione come è accaduto sotto la tirannia del Papa. Hanno preteso che la consacrazione dipendesse unicamente dall'intenzione del sacerdote, quasi non concernesse affatto il popolo a cui il mistero doveva essere presentato. Questo errore è stato causato dal fatto che si sono considerate le promesse, da cui dipende la consacrazione, non riferirsi ai segni ma a coloro che li ricevono. Gesù Cristo non si rivolge al pane, ordinandogli di diventare suo corpo, ma ordina ai suoi discepoli di mangiare e promette loro che questa sarà testimonianza della Comunione Cl. Suo corpo. E san Paolo ordina soltanto di offrire e annunziare ai fedeli le promesse, dando loro il calice e il pane. Ed in realtà deve essere così. Non siamo infatti in presenza di incantesimi o pratiche magiche quasi bastasse mormorare qualche parola su oggetti insensibili, ma bisogna comprendere che la Parola mediante cui i sacramenti sono consacrati è predicazione vivente che edifica coloro che la ascoltano, che penetra nel loro intendimento, si imprime nei cuori e reca la sua efficacia compiendo ciò che promette. Ne deriva che è prassi sciocca e inutile conservare il sacramento per amministrarlo in forma straordinaria agli ammalati. Infatti ovvero lo ricevono senza che si dica loro parola, ovvero il ministro, nell'amministrarlo, ne illustra il significato e l'uso. Se non si dice nulla siamo in presenza di un gesto abusivo e privo di senso. Se ha luogo una spiegazione del mistero, affinché coloro che lo debbono ricevere lo ricevano per edificazione e con frutto, in questo annunzio consiste la vera consacrazione. Come potrà dunque considerarsi sacramento il pane consacrato in assenza di coloro ai quali deve essere distribuito, visto che questo non reca loro giovamento alcuno? Mi si dirà che questa prassi viene seguita ad imitazione della Chiesa antica. Lo ammetto. Ma in cose suscettibili di avere così gravi conseguenze non c'è provvedimento migliore e più sicuro che quello di seguire la verità pura, visto che non è possibile commettere errori senza che sorgano gravi pericoli.
40. Constatiamo però che il sacro pane della Cena di nostro Signore nutrimento spirituale dolce e saporito e utile ai veri servitori di Dio, in quanto fa loro riconoscere Gesù Cristo quale evita loro, li induce ad azioni di grazia, li esorta a reciproca carità si muta, al contrario, in veleno mortale per coloro di cui non edifica, nutre e conforta la fede e che non incita a confessione di lode e a carità. Come un alimento corporale, quando trovi uno stomaco maldisposto si guasta e finisce Cl. Nuocere più che Cl. Giovare, così questo nutrimento spirituale, quando sia dato ad un'anima macchiata di malizia e di perversità, le causa maggior danno, non per sua colpa, ma perché non vi è nulla di puro per coloro che sono contaminati da infedeltà (Tt 1.15) , quand'anche sia santificato dalla benedizione di Dio. Come dice san Paolo: "Coloro che mangiano indegnamente sono colpevoli verso il corpo ed il sangue del Signore, e mangiano e bevono il loro giudizio e la loro condanna perché non discernono il corpo del Signore" (1 Co. 11.29). Questa gente infatti che, senza un briciolo di fede o un minimo sentimento di carità, si precipita, come i porci, a prendere la Cena del Signore non discerne affatto il corpo del Signore stesso. Non credendo che egli rappresenti la loro vita lo disonorano, per quanto è loro possibile, spogliandolo di tutta la sua dignità e lo profanano e insozzano ricevendolo in questo modo. Essendo in disaccordo e in lotta con i loro fratelli osano macchiare il sacro segno del corpo di Gesù Cristo con i loro litigi e i loro dissensi e non importa loro che il corpo di Gesù Cristo sia diviso e strappato membro a membro. A ragione perciò si dovranno considerare colpevoli verso il corpo e il sangue del Signore che insozzano così gravemente, con orribile empietà. Con una manducazione indegna prendono dunque la propria condanna. Pur non avendo alcuna fede fondata in Gesù Cristo, nel prendere il sacramento, dichiarano tuttavia non aver salvezza che in lui e voler rinunciare ad ogni altra fiducia. Si accusano perciò da se e testimoniano contro se stessi firmando la loro condanna. Essendo inoltre, a causa dei loro odi e del loro malvolere, divisi e lontani dai loro fratelli, dai membri di Gesù Cristo cioè, non hanno parte alcuna con Gesù Cristo. Attestano tuttavia che la sola salvezza consiste in questo: aver comunione con Gesù Cristo ed essere uniti a lui. Per questa ragione san Paolo ordina che ognuno provi se stesso prima di mangiare quel pane e di bere quel calice. Se interpreto bene, egli ha con questo inteso chiedere ad ognuno di riflettere e di esaminare se stesso, per vedere se riconosce sinceramente Gesù Cristo essere suo salvatore ed è pronto a dichiarare questo fatto con una confessione esplicita, se è disposto, secondo l'esempio di Gesù Cristo, ad offrire se stesso per i suoi fratelli e per coloro con cui constata avere in comune Gesù Cristo. Se considera tutti i suoi fratelli membra del corpo di Cristo nella stessa misura in cui lo confessa, lui è pronto ad alleviarli, preservarli, aiutarli come sue membra. Non che questi doveri di fede e di carità possano essere perfetti già ora, ma in quanto rappresentano la meta del nostro sforzo e del nostro ardente desiderio affinché la nostra fede iniziata si accresca di giorno in giorno e la nostra carità, ancor debole, si fortifichi.
41. In linea generale però si deve constatare che volendo preparare gli uomini a prendere degnamente il sacramento si sono turbate e tormentate crudelmente le povere coscienze senza insegnare nulla di ciò che era necessario. Hanno preteso che soltanto coloro che sono in stato di grazia mangiano degnamente il sacramento, interpretando questo stato di grazia come un essere purgato e puro da ogni peccato. In base a questa dottrina tutti gli uomini che sono stati e sono in terra si devono considerare esclusi da quel sacramento perché se dobbiamo cercare la nostra dignità in noi stessi siamo perduti. Non possiamo trovare altro che rovine, distruzione, confusione; e con tutti i nostri sforzi otterremo come unico risultato di ritrovarci più indegni proprio quando avremo impiegato ogni nostra fatica a procurarci una qualche dignità. Per porre rimedio a questo difetto hanno inventato un mezzo per acquistare dignità: avendo dovutamente esaminato le nostre coscienze, rimediamo alla nostra indegnità mediante costrizione, confessione, e soddisfazione. Abbiamo più sopra visto quali siano le modalità di questa purificazione, quando fu necessario trattare l'argomento. Per quanto concerne il presente problema affermo che quei rimedi e quei palliativi risultano superficiali e inefficaci per coscienze turbate, prostrate, afflitte e atterrite dal proprio peccato. Se nostro Signore, infatti, non accoglie alla partecipazione della sua Cena se non uomini giusti e innocenti, si richiede eccezionale sicurezza per dare a qualcuno la garanzia di possedere questa giustizia che sappiamo richiesta da Dio. Chi potrà dare a quelli che hanno fatto quanto sta in loro la conferma che realmente si siano sdebitati verso Dio? E quand'anche questo fosse possibile chi oserà pretendere aver fatto quanto sta in lui di fare? Non essendoci, così, fornita alcuna certezza riguardo alla nostra dignità la partecipazione al sacramento risulterà sempre preclusa da quella terribile minaccia che coloro che mangiano e bevono indegnamente il sacramento, mangiano e bevono il proprio giudizio. 42. Risulta ora facile giudicare qual sia la natura e da chi provenga questa dottrina che domina nel papismo: privare con crudele rigore i miseri peccatori, già mezzi morti, e spogliarli della consolazione di questo sacramento in cui ci sono invece offerte tutte le consolazioni dell'evangelo. Il Diavolo non avrebbe certamente potuto inventare sistema più rapido per condurre gli uomini a perdizione che ridurli così imbestialiti e delusi affinché non trovino gusto né piacere a quel nutrimento con cui il Padre celeste voleva invece saziarli. Ad evitare di cadere in questa confusione e in questo baratro, prendiamo coscienza del fatto che questi santi alimenti sono medicina per i malati, consolazione per i peccatori, elemosina per i poveri e invece non sarebbero di giovamento alcuno a uomini savi, giusti, ricchi qualora se ne potesser trovare qualcuno. Essendoci in essi Gesù Cristo dato quale cibo comprendiamo che senza di lui verremmo meno e precipiteremmo nell'inedia come il corpo si indebolisce per mancanza di nutrimento. Anzi, essendoci dato come alimento vitale noi comprendiamo bene che, senza di lui, siamo assolutamente morti in noi stessi. L'unica e la più adeguata dignità che ci è possibile recare a Dio consiste perciò in questo: offrire la nostra miseria e la nostra indegnità affinché, in virtù della sua misericordia ci renda degni di se, esser confusi in noi stessi per esser da lui consolati, essere umiliati in noi stessi per essere esaltati da lui, accusarci per essere in lui giustificati, essere morti in noi stessi per essere in lui vivificati. Inoltre che desideriamo e ricerchiamo questa unità, che ci è raccomandata nella sua Cena. Come ci fa essere tutti uno in lui, così desideriamo che esista fra tutti noi uno stesso volere, uno stesso cuore, una stessa lingua. Quando avremo attentamente meditato e considerato queste cose non ci turberanno, né ci prostreranno, questi interrogativi: come potremmo noi, uomini sprovvisti e spogli di ogni bene, macchiati e corrotti da colpe e da peccati, semi morti, mangiare degnamente il corpo del Signore? Anzi ci renderemo conto che veniamo, miseri, ad un benigno donatore, malati al medico, peccatori alla fonte della giustizia e poveri morti a colui che vivifica, e la dignità richiesta da Dio consiste in primo luogo ed essenzialmente nella fede che attribuisce ogni cosa a Cristo e si affida interamente a lui senza riporre nulla in noi stessi; infine nella carità che presenteremo a Dio imperfetta affinché egli l'accresca visto che non la si può offrire in forma perfetta. Alcuni, pur concordando con noi nel fatto che la dignità consiste nella fede e nella carità, hanno tuttavia grandemente errato circa la misura di tale dignità richiedendo una perfezione di fede a cui nulla si possa aggiungere e una carità eguale a quella che nostro Signore Gesù Cristo ha avuto per noi. Così facendo respingono e allontanano però, da questa santa Cena, tutti gli uomini non meno di quanto facciano coloro di cui abbiamo parlato sopra. Se infatti la loro opinione dovesse essere accolta nessuno prenderebbe la santa Cena, se non indegnamente, perché tutti, fino all'ultimo dovrebbero essere ritenuti colpevoli e convinti della loro imperfezione. È certo segno di estrema ignoranza, per non dire di bestialità, il richiedere in vista del sacramento questa perfezione che lo renderebbe vano e superfluo; infatti non per i perfetti è stato istituito, ma per i deboli; per stimolare, risvegliare, incitare, ed esercitare la loro fede e la loro carità e correggerne le lacune. 43. Per quanto concerne il rito esteriore, i fedeli prendano in mano il pane o non lo prendano, lo spartiscano fra loro o ognuno mangi quello che gli viene dato, restituiscano il calice nelle mani del ministro o lo offrano al vicino, il pane sia fatto con lievito o senza, il vino sia rosso o bianco, si tratta di cose senza nessuna importanza, indifferenti e lasciate alla discrezione della Chiesa. Quantunque sia nota la prassi della Chiesa antica che tutti prendevano in mano il pane e Gesù Cristo abbia detto: "Distribuitelo fra voi ", (Lu 22.17). Risulta dalla storia che nei tempi anteriori ad Alessandro vescovo di Roma si adoperava, nella Cena, del pane lievitato, identico al pane comune. Questo Alessandro si mise in testa, per primo, di adoperare pane senza lievito. Non vedo affatto quale ne fosse la ragione se non il desiderio di stupire, con un gesto insolito, il popolino anziché istruire il suo cuore nella vera religione. Tutti coloro che sono mossi da un qualche (sia pur minimo ) sentimento di pietà considerino quanto la gloria di Dio risplenda più chiaramente in quell'uso del sacramento e quanto maggiore sia la dolcezza e la consolazione spirituale che ne deriva ai credenti, se lo paragoniamo a quei giochi di prestigio sciocchi e vani la cui utilità consiste unicamente nell'ingannare l'intelligenza del popolo che ne prova spavento e stupore. Mantenere il popolo nella religione, nel timor di Dio, significa per loro che la gente, intontita e rimbecillita dalla superstizione sia condotta, anzi trascinata dove vogliono loro. Qualcuno pensa giustificare queste invenzioni con l'argomento dell'antichità? Conosciamo l'antichità di riti quali la cresima e il soffio battesimale; sappiamo come la Cena di nostro Signore sia stata, poco dopo l'età apostolica, alterata da invenzioni umane, e questo è accaduto a causa della leggerezza e della follia, unite alla temerarietà dello spirito umano, che non si può trattenere dal farsi beffe dei misteri di Dio. Noi, al contrario, ci ricordiamo che Dio valuta a tal punto l'obbedienza alla sua parola da volere che in base ad essa noi giudichiamo i suoi angeli e il mondo. Lasciando da parte questa congerie di riti e di cerimonie si può amministrare adeguatamente la santa Cena presentandola spesso, almeno una volta alla settimana, alla Chiesa nel mondo seguente: Iniziare anzitutto con una preghiera pubblica e la predicazione, in seguito il ministro, essendo posti sul tavolo il pane ed il vino, legga l'istituzione della Cena, dichiarando in seguito le promesse che sono contenute in essa, unitamente alla scomunica a coloro che ne fossero esclusi per divieto di nostro Signore; si reati in seguito una preghiera chiedendo a nostro Signore di volere, con la stessa benignità con cui ci ha elargito questo sacro cibo, ammaestrarci e disporci a riceverlo con fede e gratitudine, e farci, per sua misericordia, degni di partecipare a quel pasto pur non essendone degni da noi stessi. A questo punto si cantino i salmi o si legga qualche testo della Scrittura e ordinatamente, come si conviene, i fedeli ricevano questi sacri cibi, i ministri spezzando e distribuendo il pane e presentando il calice. La Cena ultimata, si esortino i fedeli alla fede, alla fermezza nella confessione, alla carità e a condurre una vita cristiana. Infine siano rese grazie e si cantino lodi a Dio. Ultimato il tutto, l'assemblea sia sciolta con la benedizione. 44. Quanto abbiamo sin qui esposto riguardo a questo sacramento mostra chiaramente che non è stato istituito per esser preso una volta all'anno e per tradizione, come è ora prassi generale, ma frequentemente, per rammentare sovente ai credenti la passione di Gesù Cristo, affinché questo ricordo sostenga e confermi la loro fede, ed essi siano incitati ed esortati a confessare, e lodare il Signore e magnificare la sua bontà; e questo ricordo infine mantenga e alimenti fra loro reciproca carità e affinché se ne facciano reciproco attestato riscontrando il suo legame con il corpo di Gesù Cristo. Ogni qual volta abbiamo comunione con i segni del corpo del Signore ci impegniamo l'un l'altro, quasi contrattualmente, ad avere un atteggiamento di carità attiva, a non far nulla che possa offendere il fratello, a non omettere nulla di ciò che gli possa recare aiuto e soccorso ogni volta che lo richiede la necessità e se ne presenta l'occasione. San Luca attesta, negli Atti, che tale fu l'uso della Chiesa apostolica quando dice che i credenti erano perseveranti nell'insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, cioè nelle elemosine, nel rompere il pane e nelle preghiere (At. 2.42). Si dovrebbe così vigilare a che nessuna assemblea di credenti avvenga senza la Parola, le elemosine, la partecipazione alla Cena o la preghiera. In base agli scritti di Paolo si può legittimamente congetturare che questo ordine era istituito nella Chiesa di Corinto e notoriamente è stato in uso ancora per lungo tempo. Da qui prendono origine quegli antichi canoni attribuiti ad Anacleto e a Callisto ove è ordinato, pena la scomunica, che tutti partecipino alla Cena dopo la consacrazione. Similmente quanto è detto nei canoni detti apostolici che tutti coloro che non si fermano sino al termine del rito e non ricevono il sacramento, debbono essere redarguiti perché recano disturbo alla Chiesa. Fu stabilito, in conseguenza, nel concilio di Antiochia, che chi entrasse nella Chiesa, udisse il sermone e si astenesse dalla Cena, fosse scomunicato finché si ravvedesse da quel vizio. Questa disposizione, quantunque attenuata al primo concilio di Toledo, è stata tuttavia sostanzialmente mantenuta. Viene infatti detto quivi che chi non prende il sacramento, dopo aver udito il sermone, debba essere ammonito, e se non obbedisce all'ingiunzione debba essere respinto dalla Chiesa. 45. È facile notare che i santi Padri intesero mantenere, con questi decreti, l'uso frequente della Cena, quale era stato istituito nell'età apostolica, considerandolo utile al popolo di Dio e constatando che veniva invece tralasciato a poco a poco per negligenza. Sant'Agostino ci fornisce una testimonianza riguardo al tempo suo scrivendo: "Questo sacramento della unità che abbiamo nel corpo del Signore si celebra quotidianamente in alcune Chiese, in altre solo in certe occasioni; gli uni lo prendono a loro salvezza, gli altri a loro dannazione ". E nella prima lettera a Iunario: "In alcune Chiese non trascorre giorno senza che si riceva il sacramento del corpo e del sangue del Signore, in altre non lo si riceve che il sabato e la domenica, in altre ancora la domenica soltanto". Ora, dato che il popolo, come abbiamo detto, non si comportava a questo riguardo come avrebbe dovuto, i santi Padri criticavano severamente questa indifferenza per non lasciar sorgere il sospetto che l'approvassero. Abbiamo esempi di questo atteggiamento in san Crisostomo nella lettera agli Efesini ove dice: "A quel tale che disonorava il banchetto, non fu detto: perché sei qui seduto, ma: "perché sei entrato". Chiunque dunque sta qui ad assistere senza partecipare al sacramento si dimostra arrogante e sfrontato. Come giudichereste una persona invitata ad un banchetto che dopo essersi lavata, accomodata, apprestata a mangiare finisse Cl. Non toccare cibo? Il suo atteggiamento non suonerebbe forse offesa al pranzo e a colui che l'ha invitato? Ti trovi qui associato a coloro che si apprestano a ricevere il sacramento in preghiera, e per il fatto che non ti allontani confessi essere nel numero, e alla fine non partecipi con loro; sarebbe preferibile tu non fossi neppur venuto. Mi dirai che sei indegno, ti risponderò che neppur sei degno di pregare, visto che la preghiera e una preparazione in vista di ricevere quel sacro mistero ". 46. Anche sant'Agostino e sant'Ambrogio condannano severamente la prassi che già al tempo loro si andava diffondendo nelle Chiese orientali per cui il popolo assisteva solo alla celebrazione del sacramento senza parteciparvi. L'abitudine di prendere la comunione una volta all'anno è indubbiamente invenzione del demonio, chiunque sia stato ad introdurla. Si dice che l'autore di questo decreto sia stato Zefirino vescovo di Roma; credo però che tale decreto non avesse ai suoi tempi il significato che ha oggi. È possibile che mediante questa istituzione egli non abbia preso un cattivo provvedimento per la sua Chiesa, in quei tempi. Effettivamente la santa Cena era allora presentata ai fedeli in ogni assemblea della comunità e una gran parte dei partecipanti non prendeva il sacramento. Né si verificava il fatto che tutti insieme, in una sola volta, prendessero il sacramento, e d'altra parte era necessario che testimoniassero la loro fede con un atto esteriore, essendo frammisti ad infedeli e idolatri, quel sant'uomo aveva stabilito, a scopo disciplinare, un giorno in cui tutto il popolo dei credenti di Roma partecipando alla Cena di nostro Signore facesse confessione della sua fede. Non mancavano, del resto, di prendere la comunione frequentemente. L'istituzione di Zeffirino però, buona di per se, è stata volta al male dai suoi successori, quando fu istituita quella legge della comunione annuale; si ottiene così il risultato che quasi tutti, quando hanno fatto una comunione nell'anno si addormentano, certi di avere perfettamente assolto il loro dovere per il rimanente periodo dell'anno. È chiaro che si doveva agire diversamente. Per lo meno si doveva proporre alla comunità dei credenti la Cena di nostro Signore una volta alla settimana e si dovevano dichiarare le promesse che in essa ci nutrono spiritualmente e ci saziano. Nessuno certo deve essere costretto a prendere la comunione, ma tutti dovrebbero essere esortati a farlo e coloro che hanno negletto di farlo si dovrebbero ammonire e correggere. Allora, tutti scoprendosi affamati converrebbero insieme a quel pasto. Non senza ragione dunque ho denunciato sin dall'inizio quale frutto della astuzia del Diavolo questa prassi, che, facendoci obbligo di comunione un giorno all'anno, ci rende pigri e sonnolenti per tutto il rimanente del tempo. È vero che già ai tempi di Crisostomo questi abusi cominciavano a manifestarsi, abbiamo però visto con quanta forza egli li deplori. Amaramente si duole del fatto che il popolo non ricevesse il sacramento nel corso dell'anno quantunque vi fosse invitato, e a Pasqua lo ricevesse senza preparazione. Perciò esclama: "Pessima abitudine! Presunzione! Invano siamo dunque quotidianamente all'altare visto che nessuno riceve ciò che noi offriamo". 47. Analoga è l'intenzione che ha prodotto l'altro decreto che sottrae una metà della Cena alla maggioranza del popolo di Dio, cioè il segno del sangue riservandolo a non so quanti tonsurati e consacrati e togliendolo ai cosiddetti "laici e profani ". Poiché questi sono i titoli e gli appellativi che essi danno alla eredità di Dio. L'ordine eterno e la volontà di Dio è invece che tutti ne bevano; e l'uomo osa cambiarli e annullarli con leggi contrarie, decretando che non tutti sono autorizzati a bere. Questi legislatori, perché non li si giudichi contrari a Dio senza ragione, tirano in ballo gli inconvenienti che si potrebbero verificare se il vino fosse dato a tutti; quasi Dio non li avesse previsti e prevenuti nella sua sapienza eterna. Anzi, inventano con sottigliezza che un elemento è sufficiente per rappresentare entrambi. Se è il corpo, dicono, è tutto Gesù Cristo, che non può più essere Disgiunto o separato dal suo corpo. E il corpo contiene il sangue. Così i nostri sensi si accordano con Dio, non appena lo si abbandona si slanciano a briglia sciolta in volteggi e disquisizioni. Nostro Signore presentando il pane disse essere suo corpo; dando il calice lo chiamò suo sangue. La ragione e la sapienza umana replicano audacemente, al contrario, che il pane è sangue e il vino è corpo, come se nostro Signore, senza ragione e senza motivo, avesse fatto questa distinzione, sia nelle parole che nei segni, fra il suo corpo e il suo sangue, e come se si fosse mai udito che il corpo di Gesù Cristo o il suo sangue sia detto Dio e uomo. Avesse avuto l'intenzione di indicare la sua persona intera avrebbe detto: questo sono io, come è solito esprimersi nella Scrittura, e non avrebbe detto: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue. Egli ha voluto, per sovvenire alla debolezza della nostra fede, separare il calice dal pane, per mostrare che lui soltanto ci basta quale cibo e bevanda. Quando invece ci sia sottratta una delle due parti, non si trova più che la metà del nostro cibo. Quand'anche perciò risultasse vero ciò che essi affermano, che il sangue è Cl. Pane, essi privano però le anime credenti di ciò che Gesù Cristo ha dato quale elemento necessario per conferma della loro fede. Rifiutando dunque le loro sciocche sottigliezze guardiamoci dal lasciarci sottrarre il beneficio che ci viene dal doppio dono dello Spirito che Gesù Cristo ci ha dato. 48. So bene che i ministri di Satana, avvezzi come sono a beffarsi della Scrittura, anche in questo caso se ne ridono e inventano cavilli: in primo luogo non si deve trarre da un semplice fatto una norma generale costringendo la Chiesa ad osservarla. Perfida menzogna affermare che si tratti di un semplice dato di fatto. Gesù Cristo infatti non si è limitato a dare il calice ai suoi discepoli ma ha ordinato loro di far questo in avvenire. Le parole: bevete tutti di questo calice, hanno il significato di un ordine esplicito; e san Paolo non tramanda questo come il semplice ricordo di un fatto ma come un ordine preciso. Il loro secondo cavillo consiste nel pretendere che Gesù Cristo abbia ammesso alla celebrazione di questa Cena i soli apostoli che egli aveva precedentemente ordinati e consacrati nell'ordine del sacerdozio, che essi definiscono ordine sacro. Chiedo a questo punto che rispondono a questi cinque interrogativi, cui non possono sfuggire senza che le loro menzogne siano facilmente smascherate. Primo: quale oracolo ha loro rivelato questa soluzione così estranea alla Parola di Dio? La Scrittura fa menzione dei dodici seduti con Gesù Cristo ma non sminuisce la dignità di Gesù Cristo al punto tale da attribuir loro il titolo di sacerdoti, di cui parleremo a suo tempo. Egli ha dato allora quel sacramento ai dodici, ma ha tuttavia ordinato loro di distribuirselo. Secondo: perché nei tempi migliori della vita della Chiesa, durante il millennio che seguì l'età apostolica, tutti, senza eccezione, partecipavano ai due elementi del sacramento? Ignorava forse la Chiesa antica quali persone Gesù Cristo avesse ammesso alla sua Cena? Spudoratezza estrema voler negare questo o addurre delle scuse. Le Storie ecclesiastiche e i testi degli Antichi sono espliciti nel testimoniare di questo fatto. "Il nostro corpo "dice Tertulliano "è saziato dalla carne e dal sangue di Gesù Cristo affinché l'anima nostra sia nutrita da Dio ". Sant'Ambrogio dice all'imperatore Teodosio: "Prenderesti tu con le mani macchiate di sangue il corpo del Signore? Potresti bere il suo sangue? ". San Girolamo: "I preti che consacrano il pane della Cena e distribuiscono il sangue del Signore al popolo ". San Crisostomo: "Non siamo come ai tempi della legge antica quando il prete mangiava la sua parte e il popolo ciò che rimaneva: qui uno stesso corpo vien dato a tutti e uno stesso calice; tutto ciò che è nell'eucarestia è comune al prete e al popolo". Molte testimonianze si leggono pure in sant'Agostino. 49. A che pro discutere di un fatto così evidente? Si leggano tutti i dottori greci e latini, non ce n'è uno che non menzioni questo fatto. Questo uso non è stato abolito finché si è mantenuto nella Chiesa una minima traccia di purezza. Anche san Gregorio, che a diritto possiamo dire l'ultimo vescovo di Roma, ne attesta la presenza ancora ai tempi suoi quando dice: "Voi avete imparato che sia il sangue dell'agnello non sentendone parlare ma bevendolo ", "Poiché tutti i credenti lo bevono nella Cena ". Questa prassi si è ancora mantenuta durante altri quattrocento anni, quantunque ogni cosa fosse già corrotta. E non la si osservava infatti come prassi trascurabile, ma come legge inviolabile. L'istituzione di nostro Signore era ancora tenuta in onore e non si aveva dubbi circa il fatto che fosse sacrilegio separare le cose che Dio aveva unite. Lo attestano le parole di Gelasio vescovo di Roma: "Abbiamo udito che alcuni ricevendo solo il corpo del Signore si astengono dal calice; costoro, peccando per superstizione, devono essere costretti a ricevere il sacramento nella sua totalità, ovvero essere respinti del tutto. La scissione di questo mistero non può avvenire senza gravi sacrilegi ". I motivi addotti da san Cipriano si consideravano allora, ed erano di fatto, sufficienti a convincere ogni cuore di credente. "Come potremmo esortare il popolo "dice "a spargere il suo sangue per la confessione di Cristo, se gli rifiutiamo il sangue di lui quando deve combattere? Come lo renderemo capace di bere il calice del martirio se non ammettendolo a bere innanzitutto il calice del Signore "? Riguardo alla tesi dei Canonisti, secondo cui la citazione di Gelasio si riferisce ai preti, si tratta di una obiezione così sciocca e puerile da non meritare confutazione. 50. In terzo luogo. Perché Gesù Cristo invitò semplicemente a mangiare del pane, ma riguardo al calice disse che tutti insieme ne bevessero? Ciò che fecero. Sembra quasi che volesse espressamente prevenire questa malizia diabolica. Quarto: se nostro Signore ha, come essi pretendono, ritenuto degni della sua Cena i soli sacerdoti, chi mai ebbe l'ardire e l'audacia di chiamare a partecipare ad essa gli altri che ne sarebbero stati esclusi da nostro Signore, visto che detta partecipazione è un dono riguardo al quale nessuno avrebbe avuto autorità senza ordine di colui che solo poteva darlo. Come si arrischiano oggi di distribuire i segni del corpo di Gesù Cristo al popolo se non ne hanno l'ordine o l'esempio da nostro Signore? Quinto: mentiva san Paolo dicendo ai Corinzi di aver appreso dal Signore ciò che aveva loro insegnato? Poiché egli dichiara in seguito che, secondo questo insegnamento, tutti indifferentemente dovevano partecipare ai due elementi della Cena. Se san Paolo aveva appreso dal Signore, che tutti, senza discriminazione, dovevano essere ammessi, coloro che ne escludono invece quasi tutto il popolo di Dio, considerino da chi l'hanno appreso, perché non possono attribuire questo ordine a Dio, in cui non c'è sì e no che cioè non si contraddice né muta parere. Anzi, si rivestono tali abominazioni del titolo di Chiesa, e sotto questa veste, le si giustifica come se la Chiesa fosse rappresentata da questi anticristi che calpestano, con tanta facilità, disperdono ed annullano l'insegnamento e le istituzioni di Gesù Cristo, o come se non dovessimo considerare Chiesa, la Chiesa apostolica in cui ha fiorito il Cristianesimo.
CAPITOLO 18 LA MESSA PAPALE, SACRILEGIO CHE NON SOLO HA PROFANATA MA INTERAMENTE ABOLITA LA CENA DI GESÙ CRISTO 1. Con queste e altre consimili invenzioni Satana si è sforzato di ottenebrare la santa Cena di Gesù Cristo, per corromperla, oscurarla, intaccarla perché non si mantenesse e durasse nella sua purezza. Il colmo della abominazione, è stato però raggiunto quando egli ha instaurato un segno mediante il quale questa santa Cena, fosse non solo oscurata e pervertita, ma interamente cancellata, abolita e annullata nel ricordo degli uomini; quando cioè ha accecato il mondo intero con quel pestilenziale errore che fa ritenere la messa sacrificio e oblazione per ottenere la remissione dei peccati. Poco mi importa sapere qual sia stato il senso originario di questa opinione, e come sia stata trattata dai dottori scolastici, che ne hanno parlato in modo più accettevole di quanto abbiano fatto i loro successori. Tralascio perciò tutte le loro soluzioni perché si tratta solo di frivole sottigliezze che non servono ad altro che ad oscurare la verità del Vangelo. Sappiano i lettori che ho intenzione di combattere contro questa teoria maledetta con cui l'anticristo di Roma e i suoi accoliti hanno stordito la gente, facendo credere che la messa sia opera meritoria per il prete che offre Gesù Cristo e per coloro che assistono all'offerta da lui fatta; ovvero si tratti di un sacrificio di soddisfazione per ottenere il favore di Dio. Non è solo questa l'opinione del popolino, l'atto stesso che essi compiono è fatto in modo tale da diventare una sorta di espiazione per dare a Dio soddisfazione per i peccati dei vivi e dei morti. Di fatto i termini cui ricorrono hanno questo significato e l'uso quotidiano dimostra che le cose stanno così. So bene quanto questa peste si è da tempo radicata, sotto quali apparenze di bene si nasconda, come si ammanti del nome di Gesù Cristo, come per molti la somma della fede sia espressa nel solo termine "messa "; ma quando sia stato chiaramente dimostrato, mediante la parola di Dio, che questa messa, quantunque abbellita e rivestita, reca sommo disonore a Gesù Cristo, calpesta e seppellisce la sua croce, fa dimenticare la sua morte, ci sottrae il frutto che ce ne viene, distrugge e vanifica il sacramento al quale era affidato il ricordo di quella morte, saranno le sue radici così profonde che la scure potente della parola di Dio non le possa recidere, troncare, abbattere? Potranno i bei rivestimenti nascondere il male sì che non venga svelato da questa luce? 2. Esaminiamo dunque la prima affermazione: quivi viene commessa intollerabile bestemmia e disonore a Gesù Cristo. Egli, infatti, e stato istituito e consacrato sacerdote e pontefice del Padre suo non per un tempo, come coloro che sono istituiti nell'antico patto, il cui sacerdozio e la cui prelatura non poteva essere immortale, poiché la vita loro era mortale e dovevano perciò avere successori che li sostituissero dopo la morte. Gesù Cristo non è mortale, non ha bisogno di vicari. Egli è stato dunque designato dal Padre quale sacerdote in eterno, secondo l'ordine di Melchisedec per adempiere l'ufficio di sacerdote eternamente e in modo permanente (Eb. 5.5-10; 7.7-21; 9.2; 10.21; Sl. 110.4; Ge 14.18). Questo mistero era stato molto tempo innanzi figurato in Melchisedec di cui, dopo esser stato una volta ricordato dalla Scrittura quale sacerdote dell'iddio vivente, non viene fatto in seguito più menzione quasi avesse vissuto in eterno, senza fine. In virtù di questa similitudine, Gesù Cristo è stato detto sacerdote secondo l'ordine di Melchisedec. Coloro che quotidianamente offrono sacrifici necessitano di sacerdoti per fare le loro oblazioni, sacerdoti che si collochino al posto di Gesù Cristo quali successori e vicari. Con questa sostituzione non spogliano solo Gesù Cristo del suo onore sottraendogli la sua prerogativa di sacerdote eterno, ma si sforzano di deporlo dalla destra del Padre suo dove non può essere seduto, immortale, senza fungere, nel contempo, da sacerdote eterno per intercedere per noi. Non ci vengano a dire che i loro sacerdoti non sono vicari di Gesù Cristo nel senso che lo sostituiscono, ma fungono solo da suffraganei del suo eterno sacerdozio, che non cessa per questo di esistere nella sua pienezza; le parole dell'apostolo sono infatti troppo precise perché le possano eludere. Egli afferma che venivano fatti sacerdoti in gran numero perché non potevano durare in eterno a causa della morte (Eb. 7.23). Gesù Cristo, dunque, che non può essere impedito dalla morte, è solo e non ha bisogno di compagni. Nella loro arroganza osano valersi dell'esempio di Melchisedec per sostenere la loro empietà. È detto infatti che egli offerse del pane e del vino e vedono in questo la prefigurazione della loro messa; come se la similitudine fra lui e Gesù Cristo fosse da cercarsi nell'offerta del pane e del vino. Si tratta di sciocchezze così inconsistenti che neppure meritano confutazione. Melchisedec ha dato del pane e del vino ad Abramo e alla sua scorta perché avevano bisogno di nutrimento come la gente stanca, reduce da una battaglia; che c'entra il sacrificio? Mosè loda per questo l'umanità e la liberalità di questo santo monarca. Costoro invece, in quattro e quattro otto, inventano un mistero di cui non è fatta menzione alcuna. Giustificano però il loro errore con un altro argomento: il testo dice, poco dopo, che egli era sacerdote del Dio altissimo. Rispondo a questo che il voler riferire al pane e al vino ciò che l'Apostolo dice della benedizione, è grave errore; egli voleva semplicemente dire che, in qualità di sacerdote di Dio, ha benedetto Abramo. Lo stesso Apostolo, la cui esegesi deve ritenersi la migliore, mostra che la dignità di Melchisedec consiste nel fatto che è superiore ad Abramo per poterlo benedire (Eb. 7.7). Se l'offerta di Melchisedec fosse stata figura del sacrificio della messa, perché, mi chiedo, l'Apostolo avrebbe tralasciato un elemento così importante e così prezioso, visto che ha analizzato i più piccoli dettagli, che avrebbero anche potuto essere tralasciati. Tutte le loro chiacchiere e i lori sforzi non otterranno il risultato di rovesciare il fatto costantemente citato: il diritto e l'onore del sacerdozio non appartengono più a uomini mortali visto che sono stati trasferiti a Gesù Cristo che è eterno. 3. La seconda caratteristica della messa, abbiamo detto, consiste nel fatto che essa annulla e distrugge la croce e la passione di Gesù Cristo. Il indubbio che innalzando un altare si abbatte la croce di Cristo. Poiché offrendo se stesso sulla croce in sacrificio per santificarci a perpetuità, e procurarci redenzione eterna (Eb. 9.12) , non c'è dubbio che egli ha compiuto un sacrificio, il cui effetto e la cui efficacia durano in eterno. In caso contrario non dovremmo tenerlo in maggior conto dei buoi e dei vitelli immolati sotto la Legge, il cui sacrificio è risultato privo di effetto e di valore, in quanto doveva essere costantemente ripetuto. Si deve perciò riconoscere ovvero che il sacrificio di Gesù Cristo in croce non ha avuto valore di purificazione e santificazione eterna, ovvero che Gesù Cristo ha compiuto un sacrificio unico, valido una volta per tutte. È quanto afferma l'Apostolo che quel gran sommo sacerdote, o pontefice, Gesù Cristo mediante il sacrificio di se stesso, è apparso una volta, alla fine dei tempi, per cancellare, distruggere, abolire il peccato (Eb. 9.26). E ancora: la volontà di Dio è stata di santificarci mediante l'offerta di Gesù Cristo una volta per tutte (Eb. 10.10); ed oltre: che mediante una sola offerta ha resi perfetti quelli che sono santificati (Eb. 10.14). Egli aggiunge una significativa considerazione: essendoci stata procurata la remissione dei peccati una volta per tutte, non ha più motivo di essere alcun sacrificio per i peccati (Eb. 10.20. Questo è stato espresso da Gesù Cristo stesso nelle ultime parole che pronunciò rendendo lo spirito quando disse: "È compiuto " (Gv. 19.30). Siamo soliti dare alle ultime parole di un morente valore normativo, quasi di ordine divino; ecco che Gesù Cristo, morendo, ci dice che, mediante il suo unico sacrificio, è adempiuta, in modo perfetto, la nostra salvezza. Come potrebbe dunque esser lecito aggiungere ogni giorno innumerevoli altri sacrifici come se il suo non fosse perfetto, quantunque egli ce ne abbia in modo così evidente dichiarato e illustrato la perfezione? La santissima Parola di Dio, infatti, non solo ci dichiara ma ci grida e attesta che quel sacrificio è stato adempiuto una volta e la sua efficacia, e il suo valore, sono eterni; coloro pertanto che ne cercano e ne desiderano altri, non lo accusano forse di essere imperfetto e inefficiente? E la messa creata e diffusa al punto che tutti i giorni si fanno centomila sacrifici, a che scopo tende, quali risultati raggiunge, se non seppellire e annullare la passione di Gesù Cristo con cui egli si è offerto quale unico sacrificio al Padre? Chi, se non una persona accecata, non si accorge che è stata una somma astuzia di Satana, per ostacolare e combattere la verità di Dio così chiara e manifesta? Non ignoro certo le argomentazioni illusorie con cui quel padre di menzogna è solito mascherare questa diavoleria, facendo credere che non si tratta di sacrifici molteplici e diversi, ma di uno solo, ripetuto molte volte. Senza difficoltà sono però dissipate queste sue tenebrose fumisterie. L'Apostolo, infatti, in tutta la sua argomentazione, non afferma soltanto che non vi sono altri sacrifici, ma che quello solo è stato offerto una volta e non si deve ripetere. Coloro che si danno a ragionamenti più sottili pensano trovare una scappatoia affermando che non si tratta di ripetere il sacrificio ma semplicemente di applicazione. Questo sofisma si può però refutare senza difficoltà. Perché Gesù Cristo non si è offerto una volta a condizione che il suo sacrificio fosse quotidianamente ratificato mediante offerte, ma affinché il frutto ci fosse dato nella predicazione dell'evangelo, e nell'uso della Cena. Perciò san Paolo, avendo detto che Gesù Cristo, nostro agnello pasquale, è stato immolato, ci ordina di mangiare (1 Co. 5, 7). Ecco dunque in che modo il sacrificio della croce di nostro Signore Gesù è applicato. Quando si dà a noi, e noi lo riceviamo con fede sincera. 4. Occorre però esaminare su quali basi i messaioli fondino il loro concetto di sacrificio. Citano la profezia di Malachia in cui nostro Signore dichiara che si offrirà profumo al suo nome per ogni luogo e oblazione pura (Ma.1.2). Non si tratta però di una cosa nuova o insolita nei profeti; dovendo parlare della vocazione dei pagani e indicare il culto spirituale di Dio, essi ricorrono all'esempio delle cerimonie della Legge, per dimostrare più facilmente ai contemporanei in che modo i pagani dovessero esser condotti ad una autentica partecipazione al patto di Dio; hanno così l'abitudine di descrivere le cose adempiute nell'evangelo sotto figure del loro tempo. Si comprenderà questo fatto facendo alcuni esempi. Volendo dire che tutti i popoli si convertiranno a Dio, affermano che saliranno a Gerusalemme. Volendo dire che i popoli del Mezzogiorno e dell'oriente adoreranno Dio, affermano che offriranno in dono le ricchezze dei loro paesi. Volendo indicare la vasta e profonda conoscenza che sarebbe stata data ai credenti nel regno di Cristo, dicono che le ragazze profetizzeranno, i giovani avranno visioni e i vecchi dei sogni (Gl. 3.1). Queste citazioni si devono accostare ad un'altra profezia di Isaia ove è detto che vi saranno in Assiria e in Egitto altari eretti al Signore come in Giudea (Is. 19.19-21). Domando ai papisti, in primo luogo: queste promesse non si sono adempiute nella fede cristiana? In secondo luogo: dove sono questi altari e quando sono stati edificati? Desidererei infine sapere, se a loro giudizio, quei due regni, menzionati con Giuda, dovessero avere ognuno il suo tempio come quello di Gerusalemme. Riflettendo attentamente a questi interrogativi saranno costretti a riconoscere che, in quel caso, il profeta descrive verità spirituali sotto immagini e figure del tempo suo. Ora e proprio questa l'interpretazione che noi proponiamo. Espressioni di questo genere sono molto frequenti, non intendo perciò dilungarmi in citazioni. Questi sciocchi però si ingannano grossolanamente non riconoscendo altro sacrificio che quello della loro messa, i credenti invece compiono ora reali sacrifici a Dio, e offrono oblazioni pure, come vedremo appresso. 5. La terza funzione della messa consiste nel cancellare dalla memoria degli uomini la vera e unica morte di Gesù Cristo. Come fra gli uomini la validità di un testamento dipende dalla morte del testatario, nello stesso modo anche nostro Signore ha confermato con la sua morte il testamento Cl. Quale ci ha garantito la remissione dei nostri peccati e la giustizia eterna. Coloro che hanno l'ardire di recar modifiche o innovazioni in questo testamento smentiscono la sua morte e la reputano di nessun valore. Che è infatti la messa se non un nuovo testamento interamente diverso? Non promette forse ogni messa nuova remissione dei peccati e acquisizione di giustizia, cosicché vi sono altrettanti testamenti quante sono le messe? Torni dunque Gesù Cristo, e confermi con una nuova morte questo nuovo testamento, anzi, confermi con morti infinite gli infiniti testamenti delle messe! Non è senza motivo, pertanto, che ho detto all'inizio che la morte unica e autentica di Gesù Cristo è cancellata e dimenticata a causa delle messe. Anzi la messa non tende forse direttamente a far sì che se fosse possibile Gesù Cristo venisse da capo ucciso e messo a morte? Poiché, come dice l'Apostolo, dove c'è testamento è necessario vi sia la morte del testatario (Eb. 9.16). La messa reca con se un nuovo testamento di Gesù Cristo, richiede dunque la sua morte. Anzi, è necessario che la vittima offerta in sacrificio sia uccis. E immolata. In ogni messa Gesù Cristo viene offerto in sacrificio; questo significa che in ogni momento, in mille luoghi, e crudelmente messo a morte. E non è questo argomento mio ma dell'apostolo, che dice: se Gesù Cristo avesse dovuto offrire se stesso molte volte, avrebbe dovuto soffrire più volte dalla fondazione del mondo. Conosco la loro replica, con cui, anzi, ci accusano di calunnia; dicono infatti che attribuiamo loro quello che non hanno mai pensato perché è in realtà impossibile. Sono pronto a riconoscere che ne la vita né la morte di Gesù Cristo sono in loro potere, e non discuto se abbiano proposito deliberato o meno di uccidere Cristo. Voglio solo illustrare quale assurdità sia nascosta nella loro mala dottrina quando venga accolta e lo dimostro solo per bocca dell'apostolo. Replichino finché vogliono che questo sacrificio e incruento; attesto, per conto mio, che i sacrifici non possono mutare natura a seconda del piacere degli uomini, o ricevono qualifiche diverse a loro piacimento. Verrebbe a cadere così la sacra e inviolabile istituzione di Dio. Ne consegue dunque che questa affermazione dell'apostolo, non può essere annullata, che cioè lo spargimento di sangue è richiesto in ogni sacrificio perché vi possa essere purificazione. 6. Bisogna ora esaminare la quarta funzione della messa: essa ci sottrae il frutto che proviene dalla morte di Gesù Cristo, in quanto ci impedisce di conoscerlo o prenderlo in considerazione. Chi infatti si considera riscattato dalla morte di Gesù Cristo, vedendo nella messa una nuova redenzione? Chi crederà che i suoi peccati gli sono perdonati vedendo un'altra remissione? Né ci si sottrae a questa critica affermando che non otteniamo la remissione dei peccati nella messa, se non per il fatto che essa ci è già stata procurata dalla morte di Cristo. Questo equivarrebbe a dire che siamo riscattati da Cristo a condizione però di riscattarci noi stessi. Questa è la dottrina diffusa dai ministri di Satana, e da essi rivendicata oggi con proteste, spade, fuoco: quando offrono Gesù Cristo al Padre nella messa, in virtù di questa offerta, acquistiamo remissione dei peccati e siamo resi partecipi della passione di Gesù Cristo. Che valore può ancora avere la passione di Gesù Cristo? Non è forse ridotta a semplice esempio di redenzione da cui impariamo ad essere redentori di noi stessi? Lui stesso volendo garantirci nella Cena, che le nostre colpe ci sono perdonate, non limita la nostra attenzione al sacramento ma ci rimanda al sacrificio della sua morte, dichiarando che la Cena è un memoriale stabilito per insegnarci che la vittima per cui Dio fu placato doveva essere offerta una volta soltanto. Non basta affermare che Gesù Cristo è unica vittima per riconciliarci con Dio, se non si aggiunge subito che è stata una offerta unica, cosicché la nostra fede sia vincolata alla croce. 7. Vediamo ora l'ultimo beneficio della messa: la santa Cena in cui nostro Signore aveva lasciato stampato e inciso in ricordo della sua passione, è eliminata dalla messa, risulta anzi perduto e cancellato. La Cena è un dono di Dio che deve essere preso e ricevuto con azioni di grazia, al contrario si finge che il sacrificio della messa sia un tributo offerto a Dio che lo riceve da noi come una soddisfazione. Tanto è diverso il prendere dal dare tanta è la differenza tra il sacramento della Cena e un sacrificio. Si tratta indubbiamente in questo caso di una sciagurata ingratitudine da parte dell'uomo: laddove egli doveva riconoscere un'azione di grazia, l'ampiezza della bontà divina e la sua liberalità, vuol far credere a Dio che lo vincola a sé.
Il sacramento ci promette non solo che siamo restituiti alla vita mediante la morte di Gesù Cristo ma siamo vivificati costantemente poiché allora è stato compiuto tutto ciò che concerne la nostra salvezza. Il sacrificio della messa dice una cosa ben diversa: bisogna che Gesù Cristo sia sacrificato ogni giorno perché possiamo avere qualche profitto. La Cena doveva essere offerta e distribuita nelle pubbliche assemblee della Chiesa per educarci alla comunione mediante cui siamo tutti congiunti insieme a Gesù Cristo. Il sacrificio della messa spezza e distrugge questa comunione. Da quando si è introdotto quell'errore che occorrono sacerdoti per compiere sacrifici per il popolo, quasi la Cena fosse stata riservata a loro, non è più stata data alla comunità dei credenti come invece imponeva il comandamento di nostro Signore. Si è così aperta la via alle messe private, espressioni di un pensiero di scomunica più che della comunione quale è stata istituita da nostro Signore; poiché il prete sacerdote infatti nel trangugiare il suo sacrificio, si isola dall'insieme del popolo dei fedeli. Onde evitare equivoci, definisco messe private tutte quelle in cui non si verifica alcuna partecipazione alla Cena di nostro Signore da parte dei fedeli, qualsiasi sia il numero di coloro che assistono. 8. Riguardo al termine di messa, non ho mai capito donde sia venuto; verosimilmente, a mio avviso, è stato derivato dalle offerte che si facevano durante la Cena. Per questa ragione gli antichi dottori non usano comunemente il termine al singolare. Ma lasciamo stare la questione terminologica. Le messe private contrastano, a mio avviso, con l'istituzione di Gesù Cristo, e pertanto si tratta di una profanazione della Chiesa. Che cosa ci ha infatti ordinato il Signore? Di prendere il pane e distribuirlo fra noi. Quale interpretazione di questo fatto dà san Paolo? Che la frazione del pane rappresenta la comunione del corpo di Cristo (1 Co. 10.16). Quando dunque un uomo mangia da solo, senza rendere gli altri partecipi, che analogia c'è con quell'ordine? Essi replicano che egli lo fa nel nome della Chiesa tutta. Con quale autorità? Non significa forse beffarsi apertamente di Dio il compiere per proprio conto ciò che doveva farsi in comune nella comunità dei credenti? Data la chiarezza delle parole di Gesù Cristo e di san Paolo possiamo concludere in breve che ovunque il pane non sia rotto per essere distribuito ai credenti non c'è alcuna Cena, ma una falsa e perversa per contraffazione. Una finzione di questo genere è corruzione, e la corruzione di un così grande mistero non si compie senza empietà. Nel caso delle messe private siamo dunque in presenza di un grave e deplorevole abuso. Anzi, poiché un errore ne genera sempre un altro, quando ci si allontana dalla retta via, da quando si è introdotto l'uso di offrire messa senza comunione si è a poco a poco presa l'abitudine di cantar messe infinite in tutti gli angolini dei templi. Così si distrae la gente di qua e di là mentre dovrebbe essere raccolta in un luogo unico per essere il sacramento della sua unità. I papisti contestino, se lo possono, il fatto che non sia idolatria il mostrare nelle loro messe il pane, per farlo oggetto di adorazione. Invano pretendono che questo pane sia testimonianza della presenza del corpo di Cristo. Comunque si interpretino le parole: "Ecco il mio corpo ", non sono state pronunciate perché un sacrilego, senza Dio né legge, né fede né coscienza, muti e tramuti ogni qual volta gli sembra bene, il pane in corpo di Cristo per abusarne a suo piacimento, ma perché i credenti, in obbedienza al comandamento del loro maestro Gesù Cristo, abbiano con lui autentica partecipazione nella Cena. 9. Questa perversione risulta infatti sconosciuta a tutta la Chiesa antica. Quantunque i più spudorati papisti si facciano scudo degli antichi dottori, ricorrendo falsamente alla loro testimonianza, è in realtà chiaro come il sole a mezzogiorno che la loro prassi è del tutto contraria all'uso antico e si tratta di un abuso che è sorto nei tempi in cui ogni cosa, nella Chiesa, era corrotta e depravata. Prima di terminare domando però ai nostri dottori specialisti in messe: sapendo che Dio preferisce l'obbedienza a tutti i sacrifici e che egli chiede si ottemperi alla sua voce più che offrirgli sacrifici (1 Re 15.22) come si può pensare gli sia gradito questo tipo di sacrificio, di cui non esiste alcuna indicazione né conferma in una sola sillaba della Scrittura? Inoltre, conoscendo la dichiarazione dell'apostolo secondo cui nessuno deve attribuirsi o usurpare per se il titolo e l'onore del sacerdozio, se non coloro che sono chiamati da Dio, come Aronne (Eb. 5.4) , e che Gesù Cristo stesso non ha preso questo incarico da se, ma ha obbedito alla vocazione del Padre, devono dimostrare ovvero che Dio ha creato e istituito il loro sacerdozio, ovvero confessare che il loro ordine e la loro confessione non sono da Dio; visto che, senza essere chiamati, vi si sono insediati da se con temerarietà. Non sono però in grado di citare un solo testo scritto che giustifichi il loro sacerdozio. Che ne sarà dunque dei sacrifici visto che un sacrificio non può essere offerto senza prete? 10. A chi voglia contestare, valendosi dell'autorità degli antichi, che si debba dare del sacrificio della Cena una interpretazione diversa da quella che abbiamo dato e a questo scopo ricorra a citazioni frammentarie e staccate dal contesto, risponderò che gli antichi non si possono citare a difesa, per giustificare quella fantasticheria del sacrificio della messa creata dai papisti. Gli antichi usano bensì il termine "sacrificio ", ma precisando sempre che intendono solo il ricordo di quel vero e unico sacrificio compiuto sulla croce da Gesù Cristo, il quale chiamano sempre nostro unico Salvatore. "Gli Ebrei "dice sant'Agostino "sacrificando animali si preparavano profeticamente al sacrificio che Gesù Cristo ha offerto; i credenti, nella offerta e nella comunione del corpo di Gesù Cristo, celebrano il ricordo del sacrificio già compiuto ". Questo pensiero è espresso più ampiamente nell'opera intitolata della fede, a Pietro Diacono attribuita anch'essa a sant'Agostino; ecco il testo: "Tieni per certo, e non dubitare in alcun modo, che il figlio di Dio, essendosi fatto uomo per noi, si sia offerto in sacrificio di onore soave a Dio suo Padre a cui si offrivano, nei tempi dell'antico Patto, animali, ma a cui si offrono ora i sacrifici di pane e di vino. In queste vittime animali, vi era una figura della carne di Cristo ch'egli doveva offrire per noi, e del suo sangue che doveva spargere per la remissione dei peccati; nei sacrifici cui ricorriamo vi sono azioni di grazia e ricordo della carne che Cristo ha offerto per noi e del sangue che ha sparso ". Ne consegue che questo dottore, dico sant'Agostino, chiama spesso la Cena: "sacrificio di lode ". Risulta così che nei suoi libri è detta "sacrificio "per la sola ragione che è ricordo, immagine, attestato del sacrificio unico, vero, autentico, singolare, con cui Gesù Cristo ci ha riscattati.
Un testo interessante si trova altresì nel quarto libro della Trinità. Dove conclude, dopo aver parlato di un unico sacrificio, che vi sono quattro cose da considerare: la persona di colui che offre, di colui a cui si offre, che cosa si offre e per chi. Ora il nostro mediatore stesso e lui solo ha offerto se stesso al Padre suo per rendercelo propizio. Ci ha fatto essere uno con se, offrendosi per noi; ha offerto l'oblazione ed è stata nello stesso tempo l'offerta. Con questa interpretazione concorda anche san Crisostomo. Il. Riguardo al sacerdozio di Gesù Cristo gli antichi Padri l'hanno avuto in tanta considerazione che sant'Agostino dichiara che sarebbe un'azione degna dell'anticristo il voler istituire un vescovo o un pastore quale intercessore tra Dio e gli uomini R. Per parte nostra affermiamo che il sacrificio di Gesù Cristo ci è presentato in modo tale che quasi lo si può contemplare, ad occhio nudo, sulla croce; come si esprime l'Apostolo dicendo che Gesù Cristo era stato crocifisso fra i Galati quando l'annunzio della sua morte era stata annunziata loro (Ga 3.1). Considerando però che gli antichi stessi hanno fuorviato questo ricordo in una direzione diversa da quella che richiedeva l'istituzione del Signore, vedendo nella loro cena non so qual spettacolo d'immolazione reiterata, o per lo meno rinnovata, l'atteggiamento più sicuro per i credenti è di attenersi all'ordine del Signore, puro e semplice, che la chiama cena, affinché la sola autorità di lui costituisca la norma. È vero che avendo essi avuto retta intelligenza di questo mistero, e non essendo mai stata loro intenzione l'allontanarsi dal sacrificio unico di Gesù Cristo, non mi sentirei di tacciarli di empietà; non penso però si possa giustificare il fatto di aver, in qualche modo, errato nella forma esteriore. Hanno prestato attenzione alle forme giudaiche più di quanto richiedesse l'ordine di Gesù Cristo. Questo è dunque il punto su cui meritano di essere redarguiti: si sono conformati eccessivamente all'antico Patto, e non accontentandosi della semplice istituzione di Cristo, hanno accondisceso alle ombre della Legge in modo eccessivo. 12. Esiste è vero, una somiglianza, tra i sacrifici della legge mosaica e il sacramento dell'eucaristia, nel senso che quelli hanno rappresentato l'efficacia della morte di Cristo quale ci è oggi palesata nell'eucaristia. Ma una diversità sussiste riguardo al modo di rappresentazione. Poiché nell'antico Patto i preti raffiguravano il sacrificio che Gesù Cristo doveva compiere, la vittima, in quel caso, sostituiva Gesù Cristo, vi era l'altare per compiere il sacrificio; ogni cosa insomma avveniva in modo tale che si vedeva visibilmente attuata una forma di sacrificio per l'ottenimento del perdono dei peccati. Ma da quando Gesù Cristo ha attuato la realtà di quelle cose il Padre celeste ha stabilito per noi una forma diversa: egli ci presenta il frutto del sacrificio che gli è stato offerto dal figlio suo, ci ha dunque dato un tavolo su cui mangiare e non l'altare per offrire sacrifici. Non ha consacrato dei sacerdoti per immolare vittime, ma ha istituito dei ministri per distribuire al popolo il sacro nutrimento. Ed essendo il mistero grande ed eccellente, maggiore ha da essere il rispetto di cui è circondato. Perciò il metodo più sicuro consiste nel rinunciare alla temerarietà dei sensi umani, per attenersi esclusivamente a quanto ci insegna la Scrittura. Se poniamo mente al fatto che si tratta della cena del Signore e non della Cena degli uomini, nulla ci deve distrarre o allontanare dalla volontà di lui; né autorità vane, né distanza di tempo, né altri elementi esteriori. L'Apostolo perciò, volendo ripristinare nella sua pienezza, fra i Corinzi, la Cena che era stata corrotta da alcuni errori, considera che l'argomento migliore e più diretto consiste nel richiamarli a quella unica istituzione che si deve considerare, secondo quanto egli afferma, norma perpetua (1 Co. 11.20). 13. Ad evitare che qualche litigioso, per polemizzare più oltre, tragga spunto dai termini "sacrificio "e "sacerdote ", preciserò brevemente in quale accezione li ho adoperati nel corso di questa discussione. Dichiaro anzitutto non comprendere in base a quali motivazioni si debba estendere il termine "sacrificio "a tutte le cerimonie pratiche concernenti il culto. Constatiamo che, secondo l'uso costante della Scrittura, il termine "sacrificio "è riferito a quell'atto che i Greci chiamano ora tsusia ora prosfora ora telete, che indicano in forma generale ogni cosa offerta a Dio; si richiede perciò una distinzione, distinzione che si deve ricavare dai sacrifici della legge mosaica, sotto l'ombra dei quali, il Signore ha voluto rappresentare al suo popolo tutta la realtà dei sacrifici spirituali. Ora, quantunque i tipi di questi sacrifici siano stati molti, tuttavia si possono ricondurre a due categorie. Poiché ovvero l'offerta era fatta a mo' di soddisfazione per il peccato, la cui colpa veniva riscattata davanti a Dio, ovvero si faceva come atto cultuale, a testimoniare dell'onore che si rendeva a Dio. In questa seconda categoria si distinguono tre tipi di sacrifici. Infatti sia che, con suppliche, si chiedesse favore e grazia, sia che si tributasse lode a Dio per i suoi benefici, sia che si intendesse semplicemente rinnovare il ricordo del suo patto, in ogni caso si trattava sempre di manifestare una riverenza per il suo nome; si deve perciò includere in questa seconda categoria ciò che nella Legge è chiamato "olocausto ", "libazione ", "oblazione ", "primizie ", "sacrifici incruenti ". Per questa ragione noi pure distingueremo due tipi di sacrifici e definiremo il primo così: quelli destinati a garantire l'onore e il rispetto di Dio con cui i credenti lo riconoscono come colui da cui deriva e proviene ogni bene e gli rendono, per questo motivo, la grazia che gli è dovuta. L'altra categoria: sacrifici di propiziazione e di espiazione. Il sacrificio di espiazione è quello che viene fatto per placare l'ira di Dio, dare soddisfacimento alla sua giustizia, e così facendo, cancellare i peccati e purificare il peccatore affinché, essendo lavato dalle macchie sue ed essendo reintegrato nella condizione di purezza della giustizia, sia nuovamente posto in rapporto di grazia con Dio. I sacrifici che venivano offerti al tempo della Legge per cancellare i peccati erano così detti (Es. 29.36) , non in quanto fossero sufficienti a cancellare l'iniquità e riconciliare gli uomini con Dio, ma in quanto raffiguravano il vero sacrificio che è stato infine compiuto in perfetta aderenza alla verità, da Gesù Cristo, e da lui solo, perché nessun altro lo poteva fare. Ed è stato compiuto una volta sola perché soltanto di quello si possono dire eterne sia l'efficacia che la forza. Come ha attestato lui stesso dicendo che ogni cosa era stata adempiuta (Gv. 19.30) , che cioè quanto era necessario a riconciliarci con la grazia del Padre, per ottenere la remissione dei peccati, giustizia e salvezza, era con la sua sola offerta compiuto, consumato, perfettamente adempiuto, e mancante di nulla; in modo tale che dopo di lui nessun altro sacrificio poteva più aver luogo. 14. Dobbiamo pertanto concludere che si bestemmia in modo obbrobrioso e intollerabile Gesù Cristo, il suo sacrificio, compiuto per noi, e la sua morte in croce, quando si fa una offerta con l'intenzione di ottenere la remissione dei peccati, la riconciliazione con Dio, la giustizia. A che altro tende la messa, se non renderci partecipi della passione di Cristo con una nuova offerta? Non avendo infine la loro presunzione alcun limite, hanno giudicato insuffficiente la pretesa che il loro sacrificio sia comune a tutta la Chiesa, in modo generico, ed aggiungono perciò che è in loro potere riferirlo in modo specifico a questo o a quello, a loro piacimento; o piuttosto a chiunque voglia, pagando bene, Acquistare la loro merce. Non potendo mantenere le tariffe di Giuda, ma volendo, in qualche modo, seguirne l'esempio, hanno mantenuto la similitudine della cifra: quello vendette Gesù Cristo per trenta monete d'argento, essi, per quanto sia loro possibile, lo vendono per trenta denari di rame. Egli però lo vendette una volta sola, costoro ogni volta che trovano un compratore. Contesto perciò che i sacerdoti del Papa lo siano di diritto: abbiano cioè il potere d'intercedere presso Dio mediante questa offerta e placare l'ira sua cancellando i peccati. Poiché Gesù Cristo è il solo sacerdote del nuovo Patto, cui sono stati trasferiti tutti i sacrifici antichi, in quanto hanno il loro termine in lui. Quantunque la Scrittura non faccia alcun accenno del sacerdozio eterno di Gesù Cristo, tuttavia, poiché Dio, abolendo quello stabilito al tempo della Legge, non ne ha stabilito altri, l'argomento degli apostoli risulta decisivo: nessuno si deve attribuire da se quell'onore qualora non vi sia chiamato (Eb. 5.4). Come ardiscono dunque questi sacrileghi dirsi sacerdoti del Dio vivente da cui non hanno avuto riconoscimento del loro ufficio? Come osano usurpare questo titolo per farsi boia di Cristo? 15. Si legge in Platone, al capitolo secondo della Repubblica, un testo interessante da cui risulta che questa stessa perversa opinione regnava tra i pagani. Egli afferma, infatti, che usurai, adulteri, spergiuri e ingannatori, dopo aver effettuato molte crudeltà, rapine, frodi, estorsione e altre male azioni, si ritenevano a posto avendo stabilito una cerimonia annuale per cancellare il ricordo di tutti i loro peccati. Il filosofo pagano prende in giro questa assurda illusione di pensare poter soddisfare Dio così facendo, quasi bendargli gli occhi perché non veda tracce del peccato e potersi dedicare, d'altra parte a fare il male con maggior lena. Sembra quasi che egli alluda in questo testo al rito della messa quale è oggi nel mondo. Tutti sanno che è cosa condannabile frodare il prossimo. Tutti considerano delitto grave opprimere vedove, ingannare orfani, sfruttare i poveri, procacciarsi con traffico illecito beni altrui, arraffare qua e là quanto più possibile con frodi e spergiuri e usurpare con la violenza e l'oppressione tutto ciò che non è nostro. Come mai tanta gente osa farlo quasi senza paura di punizione? Considerando attentamente tutto il problema, comprendiamo che il loro ardire deriva dal fatto che hanno la certezza di poter soddisfare Dio con il sacrificio della messa, pagandogli ciò che gli devono, o utilizzando questo mezzo di riconciliarsi con Dio.
Platone, continuando il suo discorso, si fa beffe della sciocca opinione che si illude di riscattare le colpe che si dovrebbero scontare nell'altro mondo. A che scopo mi chiedo, mirano la celebrazione di tanti anniversari e la maggior parte delle messe se non a permettere a coloro che sono stati in vita crudeli tiranni, ladri o predoni, o dediti ad ogni sorta di male, di riscattarsi nel Purgatorio? 16. Nell'altra categoria di sacrifici, detti sacrifici di ringraziamento e di lode, sono da annoverarsi tutti gli atti di carità compiuti nei riguardi del nostro prossimo, atti che, in un certo modo, son fatti a Dio stesso che viene così onorato nella persona dei suoi membri; sono altresì da includersi le nostre preghiere, lodi, azioni di grazie e tutto quanto facciamo per onorare e servire Dio. Queste offerte derivano tutte dal sacrificio fondamentale con cui siamo dedicati e consacrati, corpo e anima, per essere templi di Dio. Non è infatti sufficiente che le nostre azioni esteriori siano volte al suo servizio, ma è necessario che anzitutto noi stessi, con tutte le nostre opere siamo a lui consacrati affinché tutto ciò che è in noi, serva alla gloria sua ed esalti la sua magnificenza. Questo tipo di sacrifici non ha la funzione di placare l'ira di Dio e ottenere la remissione dei peccati, né di procurar giustizia ma ha solo lo scopo di magnificare e glorificare Dio. Questo tipo di sacrifici non gli può infatti essere gradito se non procede da coloro che, avendo ottenuto remissione dei peccati, sono già riconciliati con lui e altrimenti giustificati. Anzi questo sacrificio è così necessario alla Chiesa che non può essere tralasciato. Sarà pertanto eterno, finché durerà il popolo di Dio come ha scritto il Profeta. In questo senso bisogna intendere la testimonianza di Malachia: "Poiché dal sol levante fino al ponente grande è il mio nome fra le nazioni, e in ogni luogo s'offrono al mio nome profumi ed oblazioni pure; poiché grande è il mio nome fra le nazioni, dice il Signore " (Mach 1.2); come potremmo noi eliminarlo! Nello stesso modo san Paolo ci ordina di offrire a Dio i nostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio, qual culto logico (Ro 12.1). In questo testo egli si esprime in modo molto appropriato aggiungendo che questo e il nostro culto razionale, reso a Dio. Si intende con questo un modo spirituale di servire e onorare Dio che è implicitamente contrapposto ai sacrifici carnali della legge mosaica. Analogamente le elemosine e le buone azioni sono definite "vittime cui Dio prende piacere " (Eb. 13.10, ed è detta "sacrificio di odor soave " (Fl. 4.18) la liberalità con cui i Filippesi avevano aiutato san Paolo nella sua indigenza, son dette "sacrifici spirituali "tutte le opere dei credenti. 17. È forse necessario prolungare la nostra ricerca, visto che questo modo di parlare si riscontra così spesso nella Scrittura? Anche quando il popolo si trovava ancora guidato dall'insegnamento generico della Legge, i profeti dichiaravano abbastanza chiaramente che i sacrifici di animali avevano qual contenuto una sostanza e una verità che permane anche oggi nella Chiesa cristiana. Per questa ragione Davide chiedeva che la sua preghiera salisse al Signore come fumo di incenso (Sl. 141.2); Osea definisce le azioni di grazia sacrifici delle labbra (Os 14.2) e Davide, in un altro testo, sacrifici di lode (Sl. 50.23); affermazione che l'Apostolo ha imitato, ordinando di offrire sacrifici di lode a Dio, che egli interpreta come il frutto di labbra confessanti il suo nome (Eb. 13.15). Questo tipo di sacrifici non potrebbe non essere presente nella Cena di nostro Signore, nella quale annunciando e commemorando la sua morte e formulando azione di grazia, non facciamo altro che offrire sacrifici di lode. A motivo di questo incarico di sacrificio, tutti noi credenti, siamo detti un sacerdozio reale (1 Pi. 2.9) , poiché in Gesù Cristo offriamo a Dio sacrifici di lode, cioè il frutto di labbra confessanti il suo nome, come abbiamo udito dall'apostolo. Non potremmo comparire davanti a Dio con i nostri doni e le nostre offerte senza un intercessore, e questo mediatore è Gesù Cristo che intercede per noi, in virtù del quale offriamo noi stessi e tutto quanto ci appartiene al Padre. Egli è nostro pontefice essendo entrato nel santuario celeste, e ce ne apre la porta. Egli è il nostro altare su cui poniamo le nostre oblazioni; in lui osiamo tutto quello che osiamo. Insomma è colui che ci ha fatto essere re e sacerdoti per il Padre (Re 1.6). 18. Non ci resta da desiderare se non che i ciechi vedano, i sordi odano, e i bambini capiscano che questa abominazione della messa, essendo presentata in recipienti d'oro (sotto il nome cioè di parola di Dio ) ha così ubriacato, stordito e instupidito tutti i re e i popoli della terra, dal più grande al più piccolo, cosicché resi più stupidi degli animali, fanno consistere il principio e la fine della loro salvezza in questo baratro mortale. Certo Satana non inventò giammai strumento più efficace per combattere e abbattere la pace del regno di Gesù Cristo. Questa messa è una Elena per la quale i nemici della verità combattono oggi con tanta crudeltà, furore, e rabbia. E realmente si tratta di una Elena con cui si prostituiscono di prostituzione spirituale, fra tutte la più esecrabile. Non tocco neppure Cl. Mignolo i gravi e deplorevoli abusi con cui potrebbe esser stata contaminata o corrotta, secondo la loro giustificazione, la purezza della loro sacra messa: quanto sia cioè deplorevole il mercato che esercitano, quanti e quali illeciti guadagni realizzino i sacerdoti con il loro recitar messe, con quanta rapina soddisfino la loro ingordigia. Intendo soltanto mostrare, con poche e semplici parole, in che consista la santissima santità della messa per cui è stata così a lungo tanto ammirata e fatta oggetto di tanta venerazione. Occorrerebbe redigere un trattato molto più ampio per illustrare, secondo loro, chiaramente e degnamente così grandi misteri. Ma non ho l'intenzione di rinvangare qui immondizie, che si palesano agli occhi di tutti. Deve essere chiaro agli occhi di tutti che la messa, considerata nei suoi aspetti più elevati, e in base ai quali potrebbe esser maggiormente stimata, è, dalla radice alla sommità, piena di ogni sorta di empietà, di bestemmie, di idolatrie, di sacrilegi, anche senza considerare le sue conseguenze e le supplicazioni. 19. I lettori hanno qui in sunto tutto quanto ho considerato necessario conoscere riguardo a questi due sacramenti, il cui uso è stato affidato alla Chiesa cristiana sin dall'inizio del nuovo Patto e fino alla consumazione del secolo. Il battesimo rappresenta l'ingresso in questa Chiesa e una prima professione di fede; la Cena è un nutrimento costante, mediante cui Gesù Cristo nutre spiritualmente i suoi credenti. Come vi è un solo Dio, una sola fede, un solo Cristo e una sola Chiesa, che è il suo corpo, così il battesimo e unico e non è mai ripetuto. La Cena invece è distribuita spesso, affinché coloro che sono stati raccolti e inseriti nella Chiesa, abbiano la certezza che sono costantemente nutriti e saziati da Gesù Cristo. All'infuori di questi due sacramenti la Chiesa dei credenti non deve accoglierne altri, non essendovene altri istituiti da Dio. Poiché è facile comprendere che non spetta all'autorità o alla facoltà degli uomini inventare e istituire nuovi sacramenti. Ricordiamo quanto è stato più chiaramente esposto sopra: che i sacramenti sono istituiti da Dio per essere segni di qualche promessa sua e attestare la sua buona volontà nei nostri riguardi; consideriamo altresì che nessuno è stato consigliere di Dio (Is. 40.13; Ro 11.34) , per poterci promettere nulla di certo riguardo alla sua volontà, né renderci certi e sicuri di qual sia il suo sentimento nei nostri confronti, né dire ciò che vuol darci, né ciò che vuole negarci. Ne consegue che nessuno può stabilire o istituire segni che siano testimonianze della volontà o della promessa di Dio. Lui solo offrendoci dei segni può testimoniare di se nei nostri riguardi. Esprimendoci più brevemente e anche in forma più semplice e più chiara: non può esistere sacramento privo di una promessa di salvezza. E tutti gli uomini, raccolti insieme, non sarebbero in grado di prometterci nulla riguardo alla nostra salvezza. Non possono, pertanto, di per se stessi stabilire o istituire alcun sacramento. 20. La Chiesa cristiana si accontenti perciò di questi due, e non solo non ne ammetta, approvi o riconosca altri nel tempo presente, ma non ne desideri né richieda un terzo, sino alla consumazione dei secoli. Il fatto che ai Giudei, furono dati, oltre quelli che avevano ordinariamente, altri sacramenti, secondo la successione dei tempi (la manna, l'acqua che scaturisce dalla roccia, il serpente di rame e altri simili: Es. 16.13; 17.6; 1 Co. 10.3 ; Nu. 21.8; Gv. 3.14) era motivato dal fatto che, mediante questa varietà, dovevano essere ammoniti a non arrestarsi a queste figure, la cui realtà non era duratura, ma aspettare da Dio qualcosa di meglio che durasse senza mutamenti e senza fine. Ben diverso deve essere il nostro modo di procedere; a noi è stato rivelato e manifestato Gesù Cristo, che ha in se tutti i tesori della scienza e della sapienza (Cl. 2.3) in sì grande quantità e abbondanza, che sperare o richiedere qualche accrescimento di questi tesori, sarebbe veramente voler tentare Dio, irritarlo e provocarlo. Dobbiamo aver fame soltanto di Gesù Cristo, e cercare, contemplare, desiderare, possedere lui solo sino al gran giorno in cui nostro Signore manifesterà appieno la gloria del suo regno e, apertamente, si farà vedere da noi quale egli è (1 Gv. 3.2). Il tempo in cui viviamo è perciò definito nella Scrittura come l'ultima ora, l'ultimo giorno, gli ultimi tempi (1 Gv. 2.18; 1 Pi. .1.20), affinché nessuno si inganni desiderando inutilmente dottrine e rivelazioni nuove. Poiché dopo aver in molte volte e in molte maniere parlato anticamente ai padri mediante i profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi mediante il suo figlio beneamato (Eb. 1.2) , che solo è in grado di manifestarci il Padre (Lu 10.22). In realtà lo ha manifestato a noi nella misura in cui era necessario, diventando per noi uno specchio in cui lo dobbiamo contemplare (1 Co. 13.12). Così come è stata sottratta agli uomini l'autorità di fare e stabilire nuovi sacramenti nella Chiesa di Dio, sarebbe auspicabile che in quelli istituiti da Dio stesso fossero introdotte meno invenzioni possibile. Come infatti il vino si guasta e perde il suo sapore nell'acqua e tutta la farina fermenta a causa del lievito, così la purezza dei misteri divini si guasta e corrompe quando l'uomo vi aggiunge qualcosa di suo. Constatiamo perciò che i sacramenti nella forma odierna, sono scaduti dalla loro purezza e dalla loro autorità. Ovunque si incontrano pompa, cerimonie e commedie più del necessario e, al contrario, non si fa conto o menzione alcuna della parola di Dio senza la quale i sacramenti stessi non sono sacramenti e le cerimonie da Dio stesso istituite non possono essere evidenziate nella moltitudine delle altre e sono anzi declassate e sommerse. Quanto poco appare nel battesimo ciò che soltanto dovrebbe essere messo in evidenza cioè il battesimo stesso! La Cena è stata interamente annullata quando è stata trasformata in messa, eccetto una volta all'anno, in cui appare in qualche modo, ma squartata, dispersa, spezzata, divisa. E del tutto deformata.
CAPITOLO 19/a VERA NATURA DELLE ALTRE CINQUE CERIMONIE FALSAMENTE DETTE SACRAMENTI 1. La discussione che precede sul tema dei sacramenti è tale da convincere ogni persona docile e sobria a non spingere la sua curiosità oltre i limiti, e a non ricevere, senza il fondamento della parola di Dio, altri sacramenti all'infuori di quei due che abbiamo visto istituiti dal Signore. Dato però che la teoria dei sette sacramenti è stata sempre così diffusa fra la gente, ha fatto oggetto di tante polemiche e prediche e sin dall'antichità si è piantata nel cuore di tutti e vi permane tuttora radicata, mi sembra utile esaminare in modo più approfondito quei cinque altri riti che, comunemente, sono annoverati fra i sacramenti del Signore e, avendone svelato il carattere falsamente sacramentale, far conoscere ai semplici che cosa siano in realtà e come siano stati, sin qui, accolti fra i sacramenti senza ragione. In primo luogo tengo a precis.re che non sollevo la questione terminologica per amore di polemica ma, poiché l'abuso del termine conduce a cattive conseguenze, sono costretto a refutarlo perché la verità della cosa stessa risulti chiara. So bene che i cristiani non debbono essere vincolati con superstizione alle parole, purché la realtà sia autentica e valida. Non sarebbe dunque il caso, per un termine, di sollevare una questione, quand'anche risultasse usurpato ingiustamente a condizione che la dottrina fosse pura. C'è però un'altra ragione per rifiutare il termine "sacramento ". Coloro infatti che ne contano sette, attribuiscono a tutti questa definizione: "Sono segni visibili della invisibile grazia di Dio "e li fanno veicoli dello Spirito Santo, mezzi per il conferimento della giustizia e fondamento della remissione dei peccati. Lo stesso Maestro delle Sentenze afferma che i sacramenti dell'antico Patto sono stati, impropriamente, indicati con questa definizione in quanto non conferivano ciò che raffiguravano. [: accettabile, vi domando, l'idea che non debbano essere ritenuti sacramenti quei segni che il Signore stesso ha consacrato esplicitamente di sua bocca, e a cui ha commesso promesse così ricche e questo onore sia invece trasferito a cerimonie inventate dalla mente umana? Perciò ovvero i papisti mutano la loro definizione, o si astengono dall'usurpare indegnamente quel termine che ingenera opinioni false e perverse. L'estrema unzione, dicono essi, è sacramento ed è anch'essa figura e causa della grazia invisibile. Non potendosi assolutamente accettare la conclusione, che pretendono far derivare dal termine, conviene prevenirli riguardo all'uso stesso del termine e opporre subito resistenza a ciò che rischia di causare errori. Analogamente, volendo dimostrare che l'estrema unzione è sacramento, aggiungono questa motivazione: essa consiste nel segno esteriore e nella parola di Dio. Non riscontrandosi però né comandamento né promessa da riferire a questo che altro possiamo fare se non opporci? 2. È dunque evidente che la nostra polemica non concerne i termini ma la realtà stessa; è chiaro altresì che questa discussione non è superflua se tali sono le conseguenze. Dobbiamo pertanto ricordare quanto è stato sopra dimostrato con inoppugnabili motivazioni: la facoltà di istituire i sacramenti spetta a Dio solo. Dovendo il sacramento recare consolazione e conferma alle coscienze dei credenti, è chiaro che non potrebbero ricevere questo carattere di certezza da un uomo. Il sacramento deve essere una testimonianza della misericordiosa volontà di Dio nei nostri riguardi, di cui nessun angelo e nessun uomo può essere testimone, perché nessuno è stato consigliere di Dio (Is. 40.13; Ro 11.34). Egli stesso ci dichiara, mediante la sua parola, quali siano le sue intenzioni. Il sacramento è un sigillo da cui è sigillato il testamento e la promessa di Dio. Non potrebbero essere sigillo di tali promesse realtà materiali o appartenenti a questo mondo se non fossero a ciò destinate dal potere di Dio. L'uomo dunque non ha facoltà di istituire sacramenti poiché non appartiene al suo potere far sì che i grandi misteri di Dio siano nascosti sotto cose così vili. Bisogna che la parola di Dio preceda a far sì che il sacramento sia sacramento, come è detto molto bene da sant'Agostino. Inoltre, se non vogliamo cadere in molte assurdità, è necessario distinguere tra i sacramenti e le altre cerimonie. Gli Apostoli hanno pregato in ginocchio (At. 9.40; 20.30; faremo di ciò un sacramento? Gli antichi si volgevano verso Oriente per pregare, la visione del sol levante sarà per noi sacramento? Il gesto di alzare le mani è legato nella Scrittura con la preghiera (1 Ti. 2.8) , ne faremo un sacramento? Di questo passo ogni atteggiamento dei santi sarebbe sacramento. 3. Se pensano ridurci al silenzio con l'autorità della Chiesa antica, dico che falsamente ne invocano la tutela. Questo numero di sette non si trova infatti in alcuno dei dottori della Chiesa né si è in condizione di determinare quando sia entrato nell'uso. Riconosco, è vero, che i dottori della Chiesa fanno, a volte, uso del termine con una certa libertà e in diverse occasioni; ma indicando indifferentemente con esso ogni cerimonia in uso nella cristianità. Quando però parlano dei segni che ci debbono essere testimonianza della grazia di Dio si accontentano di questi due: battesimo ed eucarestia. Citerò alcuni testi di sant'Agostino per documentare la mia affermazione. Egli si esprime così a Ianuario: "Voglio che tu sappia che nostro Signore Gesù, come afferma egli stesso nell'evangelo, ci ha imposto un gioco lieve e un carico leggero. Ha pertanto stabilito nella Chiesa cristiana un numero limitato di sacramenti, facili da osservare, di significato evidente quali il battesimo, consacrato al nome della Trinità e la comunione al corpo e al sangue del Signore e qualche altro ordinato nella Scrittura ". E ancora nel libro: Della dottrina cristiana: "Dalla risurrezione di nostro Signore possediamo pochi segni ordinati da lui o dai suoi apostoli. Quelli che abbiamo sono facili da osservare ed eccellenti nel loro significato quali il battesimo e la celebrazione del corpo e del sangue del Signore ". Non fa menzione alcuna di quel numero sette in cui i papisti vedono così grande mistero, perché? È concepibile questo silenzio da parte sua se questo numero fosse già stato accolto nella Chiesa, considerando anche che la sua curiosità nell'osservare le cifre è sempre stata grande, come si sa, forse più del necessario? Facendo menzione del battesimo e della Cena passa sotto silenzio gli altri. Non esprime chiaramente con questo il fatto che quei due segni hanno una preminenza singolare in dignità e tutte le altre cerimonie devono essere di grado inferiore? Affermo pertanto che, riguardo al loro numero di sette sacramenti, i papisti, non hanno solo la parola di Dio contraria ma anche la Chiesa antica, quantunque facciano finta di no e si vantino di averla dalla loro parte. DELLA CONFERMAZIONE. 4. Secondo la prassi della Chiesa antica i figli dei cristiani giunti nell'età che, comunemente, si dice: di giudizio, erano presentati al vescovo per fare confessione della loro fede cristiana come i pagani convertiti al momento del loro battesimo. Quando infatti un uomo maturo voleva essere battezzato veniva istruito per qualche tempo finché fosse in grado di fare una confessione di fede davanti al vescovo e a tutto il popolo. Quelli che erano stati battezzati nella loro infanzia, non avendo fatto tale confessione al momento del loro battesimo, diventati adulti, si presentavano una seconda volta al vescovo per essere esaminati sulla base del catechismo allora in uso. Affinché questo atto avesse maggior dignità e prestigio si ricorreva alla cerimonia della imposizione delle mani. Il giovane, Avendo così confermato la sua fede, era accompagnato con una benedizione solenne. Questa cerimonia è spesso menzionata dagli antichi dottori. Per esempio da Leone vescovo di Roma quando afferma: "Se alcuno si converte dall'eresia non lo si battezzi una seconda volta ma gli sia conferita, mediante l'imposizione delle mani da parte del vescovo, la potenza dello Spirito Santo che gli mancava precedentemente ". I nostri avversari non mancheranno di gridare, a questo punto, che tale cerimonia deve essere detta sacramento in quanto vi è conferito lo Spirito Santo. In un altro testo, però, Leone dichiara cosa intenda con questa affermazione che chi è stato battezzato da eretico non debba essere ribattezzato ma confermato con l'imposizione delle mani pregando gli dia il suo Spirito Santo; questo accade perché quell'uomo ha ricevuto solo la forma del battesimo e non la santificazione. Anche Girolamo fa menzione di questo contro i Luciferiani. E quantunque si inganni chiamandola prescrizione apostolica, è tuttavia molto lontano dalle assurde fantasticherie che hanno ora i papisti. Precisa anzi il suo pensiero aggiungendo che questa benedizione è stata lasciata ai vescovi soli più per motivo di onore che per necessità. Quanto a me approverei una tale imposizione delle mani qualora si attuasse semplicemente come forma di intercessione. Sarei del tutto favorevole a che se ne facesse uso anche oggi purché con purezza e senza superstizioni. 5. Coloro che sono venuti in seguito hanno rovesciato e sepolto questi antichi ordinamenti e al loro posto hanno introdotto quella tal confermazione da essi inventata e l'hanno fatta valere qual sacramento di Dio. E per ingannare la gente hanno fatto finta che il suo potere fosse quello di conferire lo Spirito Santo come accrescimento della grazia, data con l'innocenza al battesimo, confermare al combattimento coloro che al battesimo fossero stati rigenerati a vita. Ora questa confermazione viene effettuata con l'unzione e con le parole: "Ti segno del segno della santa croce e confermo con l'unzione di salvezza nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ". Queste cose sono belle ed edificanti, dove è però la parola di Dio che annunzi in questo caso la presenza dello Spirito Santo? Non sono in grado di citarne neppure la traccia. In base a che cosa possono pretendere che la loro unzione è uno strumento dello Spirito Santo? Vediamo dell'olio, un liquido grasso e spesso, ma nulla più. "La parola "dice sant'Agostino "sia aggiunta agli elementi e questi diventeranno sacramenti ". Mostrino dunque questa Parola se vogliono farci vedere nell'olio qualcosa di più dell'olio stesso. Se si dichiarano, come è il caso, ministri dei sacramenti non sarebbe il caso di polemizzar più a lungo. La prima regola di un ministro è di non prendere alcuna iniziativa senza mandato. Citino dunque qualche mandato che sia stato loro dato per compiere questo e non si discuterà oltre. Se tale mandato manca non possono negare che il loro modo di agire sia frutto di una presunzione assai grave. Per la stessa ragione nostro Signore poneva ai Farisei la domanda se il battesimo di Giovanni fosse dal cielo o dagli uomini. Qualora avessero risposto: dagli uomini, lo dichiaravano vano e frivolo. Se invece lo dicevano: dal cielo, si vedevano costretti ad accogliere la dottrina di Giovanni. Nel timore di recare offesa a Giovanni non osarono dichiarare che il suo battesimo fosse dagli uomini (Mt. 25.27). Analogamente se la confermazione è dagli uomini risulta chiaramente che si tratta di cosa frivola e vana. Vogliono dimostrare che è dal cielo? Lo provino. 6. Pretendono garantirsi con l'esempio degli apostoli, i quali, a loro giudizio, non hanno compiuto nulla senza motivo. È ben vero, e non sarei io a rimproverarli qualora potessero dimostrare di imitare gli apostoli. Ma che cosa questi ultimi hanno fatto? San Luca narra, nel libro degli Atti che gli apostoli, residenti a Gerusalemme, avendo udito che i territori della Samaria avevano ricevuto la parola di Dio vi delegarono Pietro e Giovanni e costoro essendovi giunti, pregarono per i Samaritani affinché lo Spirito Santo fosse loro concesso, che non era ancora sceso su alcuno di loro, quando erano stati battezzati solo nel nome di Gesù; e narra ancora che, dopo aver pregato, gli apostoli imposero le mani a costoro, e in seguito a questa imposizione i Samaritani ricevettero lo Spirito Santo (At. 8.14-17). Lo stesso san Luca fa menzione in altre circostanze, di questa imposizione delle mani.
Constato che in questo caso gli apostoli hanno eseguito fedelmente il loro compito. Il Signore voleva che le grazie visibili e meravigliose del suo Spirito Santo, che spandeva allora sul suo popolo, fossero amministrate dagli apostoli e distribuite mediante questa imposizione delle mani. In questa cerimonia non mi pare si possa individuare qualche profondo mistero; penso che gli apostoli l'hanno adoperata per significare che offrivano a Dio quello a cui imponevano le mani e lo raccomandavano a lui. Se riscontrassimo oggi, nella Chiesa, quel ministero che era stato allora ordinato agli apostoli dovremmo logicamente mantenere l'imposizione delle mani. Dato però che questa grazia non è più conferita, a che serve l'imposizione delle mani? Certo lo Spirito Santo sussiste tuttora nel popolo di Dio, e la Chiesa non può esistere senza la guida e il consiglio dello Spirito; abbiamo la promessa, che non verrà mai meno, secondo cui Cristo chiama a se coloro che hanno sete affinché bevano l'acqua della vita (Gv. 7.37) , ma quei poteri eccezionali e quelle manifestazioni appariscenti che erano conferite mediante l'imposizione delle mani, sono cessate dovendo avere una durata limitata nel tempo. Bisogna infatti che la nuova predicazione dell'evangelo e il nuovo regno di Cristo fossero esaltati e magnificati mediante miracoli tali che, sino a quel momento, non si erano né visti né uditi. Quando il Signore ha messo fine a questi miracoli, non per questo ha abbandonato la sua Chiesa, ma ha solo dichiarato che la magnificenza del suo Regno e la dignità della sua parola erano sufficientemente garantite. In che cosa dunque questi commedianti seguono gli apostoli? Sarebbe opportuno che mediante l'imposizione delle mani si manifestasse immediatamente, e in modo evidente, la forza dello Spirito Santo. Questo non accade. Perché dunque ricorrere all'imposizione delle mani? Riconosciamo certo che essa fu in uso presso gli apostoli ma con tutt'altra intenzione. 7. Questo riferimento all'imposizione delle mani è del tutto privo di significato, altrettanto quanto il pretendere che il soffio, con cui il Signore soffiò sui suoi discepoli (Gv. 20.22) , sia un sacramento, mediante cui viene conferito lo Spirito Santo. Quando il Signore lo fece non volle significare con questo che lo dovessimo fare anche noi. E in questo stesso modo gli apostoli hanno fatto uso dell'imposizione delle mani, durante il tempo in cui piaceva al Signore rispondere alle loro preghiere con il dono dello Spirito, e non affinché quelli, che in seguito sarebbero venuti, imitassero senza alcun frutto questo segno di per se vuoto e inutile come fanno ora queste scimmie. Anzi, qualora riuscissero a dimostrare che nell'imposizione delle mani seguono gli apostoli (con cui tuttavia non c'è nulla in comune all'infuori di questa assurda e perversa imitazione ) donde hanno ricavato quell'olio che chiamano salutare? Chi ha insegnato loro a cercare la salvezza nell'olio, ad attribuirgli poteri di dar conforto spirituale; è forse san Paolo il quale ci sottrae così fortemente agli elementi di questo mondo (Ga 4.9) , e che non condanna nulla in modo così radicale quanto il soffermarsi a pratiche del genere? (Cl. 2.20). Al contrario mi permetto di dichiarare coraggiosamente, non sulla base di un mio giudizio ma su quello di Dio, che rinunciano alla salvezza in Cristo quelli che definiscono l'olio olio di salvezza e rifiutano il Cristo, non avendo parte in modo alcuno al regno di Dio. L'olio infatti esiste per lo stomaco e lo stomaco per l'olio e il Signore li distruggerà entrambi; cioè tutti questi deboli elementi che si logorano con l'uso non appartengono in nulla al Regno di Dio che è invece di natura spirituale ed eterna. E che? Dirà qualcuno, vuoi tu misurare con lo stesso metro l'acqua in cui siamo battezzati e il pane e il vino sotto cui ci è presentato il corpo e il sangue del Signore nella Cena? Rispondo che nei sacramenti vi sono due elementi da considerare: la sostanza dell'oggetto corporale, che ci è presentato, e il segno che vi è posto mediante la parola di Dio, segno in cui sta tutta la sua forza. In quanto dunque il pane, il vino e l'acqua, che costituiscono i sacramenti, quali ci si presentano, mantengono la loro sostanza naturale, è vera la parola di san Paolo: il nutrimento è per il ventre ed il ventre per il nutrimento, il Signore distruggerà entrambi (1 Co. 6.13); tali sostanze infatti deperiscono e si disfano con la figura di questo mondo. Ma in quanto queste cose sono santificate dalla parola di Dio, per diventare sacramenti, non ci vincolano alla carne ma ci forniscono un insegnamento spirituale. 8. Consideriamo più da vicino quante mostruosità genera quest'olio. Questi oliatori affermano che lo Spirito Santo è conferito al battesimo per creare l'innocenza e nella confermazione per aumentare le grazie, che nel battesimo siamo rigenerati a Vita nuova, e nella confermazione siamo equipaggiati per il combattimento. Sono a tal punto privi di pudore che si spingono sino a negare la perfezione del battesimo senza confermazione. Quale perversità! Non siamo forse sepolti mediante il battesimo con Cristo per essere resi partecipi della sua risurrezione? (Ro 6.4). Ora san Paolo interpreta questa compartecipazione alla morte e alla vita di Gesù Cristo nel senso che rappresenta la mortificazione della nostra carne e la vivificazione dello spirito in quanto il nostro vecchio uomo è crocifisso affinché camminiamo in novità di vita. In che cosa potremmo essere meglio equipaggiati nel combattimento contro il Diavolo? Se osano calpestare in questo modo, senza rispetto, la parola di Dio, dovrebbero, per lo meno, rispettare la Chiesa di cui si pretendono figli obbedienti. In realtà questa falsa dottrina non potrebbe essere condannata in modo più severo di quanto fu anticamente decretato al concilio di Milevo, ai tempi di sant'Agostino: chiunque dichiara il battesimo essere dato per la sola remissione dei peccati e non per aiuto della grazia dello Spirito Santo sia anatema . Riguardo a quella citazione di san Luca, a cui già ci siamo riferiti, secondo cui i Samaritani erano stati battezzati nel nome di Gesù eppure non avevano ricevuto lo Spirito Santo (At. 8.16) , non è detto che essi non avessero ricevuto nessun dono dello Spirito, credevano infatti in Gesù Cristo, e lo confessavano di tutto cuore; è dichiarato che non avevano le manifestazioni evidenti e le grazie visibili connesse Cl. Dono dello Spirito. In questo senso è detto che gli apostoli ricevettero lo Spirito nel giorno della Pentecoste (At. 2.4) , quantunque già da lungo tempo fosse stato loro detto da Cristo: "Non siete Voi che parlate ma lo Spirito del Padre parla in voi " (Mt. 10.20). Considerate, a questo punto, voi tutti che siete di Dio, la sottile e pestilenziale malizia di Satana! Egli fa sì che sia conferito nella sua confermazione ciò che in realtà era dato al battesimo per distoglierci astutamente dal battesimo. Chi dubiterà ora che questa dottrina sia satanica, la quale avendo sottratto al battesimo le promesse che gli erano specifiche le trasferisce altrove? Si vede, ripeto, su che fondamento poggia questa fantastica unzione. La parola di Dio dichiara che tutti coloro che sono battezzati in Cristo hanno rivestito Cristo con tutti i suoi doni (Ga 3.27). La parola di questi oliatori è che non abbiamo ricevuto alcuna promessa al battesimo in grado di fortificarci nel combattimento contro il Diavolo. La prima dichiarazione è verità; implicito è dunque che quest'ultima sia menzogna. Posso dunque definire questa confermazione in modo più preciso di quanto abbiano fatto sin qui: si tratta di una chiara contumelia, una bestemmia contro il battesimo di cui ne oscura, per non dire annulla, l'uso, e si riduce ad una falsa promessa del Diavolo per sottrarci alla verità di Dio o, se preferiamo, si tratta di olio contaminato dalla menzogna del Diavolo per ingannare i semplici e gli ingenui. 9. Inoltre questi oliatori affermano che tutti i credenti devono ricevere, mediante l'imposizione delle mani, lo Spirito Santo dopo il battesimo per essere cristiani compiuti, poiché non c'è nessun vero cristiano se non colui che è unto mediante il crisma episcopale. Sono parole loro. Ho sempre creduto che tutto ciò che riguarda la fede cristiana fosse contenuto e dichiarato nelle Scritture; ora, a quel che vedo, bisogna cercare altrove la norma autentica della religione. La sapienza di Dio, la verità celeste, tutta la dottrina di Cristo darebbero dunque solo l'avvio al cristiano, l'olio lo renderebbe perfetto. In base a tale dottrina sono condannati gli apostoli e tutti i martiri che, è ben evidente, non sono mai stati unti. Infatti non esisteva allora questo olio santo mediante cui la loro fede cristiana potesse essere resa compiuta, anzi che li facesse cristiani, dato che non lo erano ancora. Non ho bisogno di proseguire, questi oliatori si confutano da se. Quanta parte del loro popolo infatti si fa cresimare dopo il battesimo? Neppure la centesima. Perché dunque tollerano l'esistenza di questi mezzi cristiani nel loro gregge, mentre potrebbero così facilmente porre rimedio alla loro imperfezione? Perché tanta negligenza nel permettere che i loro sudditi omettano di fare ciò che non può essere omesso senza rendersi colpevole di grave delitto? Perché non obbligare in modo tanto più insistente ad una azione così necessaria e senza la quale, secondo la loro opinione non si può ottenere salvezza se non in caso di impedimento per morte subitanea? Certo tollerando che essa sia così facilmente disprezzata, confessano tacitamente che non ha il valore che essi fingono di attribuirle. 10. Pretendo infine che si deve avere, per questa sacra unzione, una riverenza maggiore che per il battesimo in quanto è conferita dalla mano dei grandi prelati laddove il battesimo è semplicemente amministrato dai sacerdoti. A questo punto sono impazziti del tutto dando alle loro invenzioni tale valore da osare, in nome di queste, insultare le sante istituzioni di Dio? Lingua sacrilega oseresti tu contrapporre al sacramento di Cristo del grasso infetto dal puzzo del tuo alito e carico di incantesimi dalle tue parole? Oseresti tu paragonarlo all'acqua santificata dalla parola di Dio? Paragonarla sembrava troppo poco alla tua presunzione, hai dovuto anteporla. A questo mirano i decreti della santa Sede apostolica!
Alcuni di loro hanno voluto mettere un freno a questa rabbia insensata che pareva eccessiva, a loro giudizio, ed hanno affermato che l'olio della confermazione deve tenersi in maggior considerazione del battesimo non in quanto possieda e conferisca maggior potere, utilità, ma in quanto è dato da persone di maggior dignità e si compie in una parte del corpo più degna, cioè sulla fronte, o che conferisce un maggior accrescimento di potenza quantunque il battesimo abbia maggior valore per quanto concerne la remissione dei peccati. Per quanto concerne la prima motivazione non si rivelano forse Donatisti vincolando la forza del sacramento alla dignità del ministro? Ammettiamo tuttavia che la confermazione possa considerarsi rivestita di maggior dignità in considerazione della dignità della mano episcopale. Se qualcuno chiede loro donde venga ai vescovi questa prerogativa che argomento possono addurre se non le loro fantasie? Gli apostoli, affermano, furono i soli a valersi di quel diritto, in quanto essi soli hanno distribuito lo Spirito Santo. Sono forse apostoli solo i vescovi? Anzi sono essi in qualche modo apostoli? Concediamo loro anche questo; perché non ricorrere al medesimo argomento affermando che i vescovi sono i soli a poter toccare il sangue nella Cena di nostro Signore, che negano ai laici, in quanto nostro Signore l'ha data, come essi pretendono, soltanto agli apostoli? Se agli apostoli soltanto perché non trarne la conseguenza che debba essere dato solo ai vescovi? In quel caso essi fanno gli apostoli semplici sacerdoti, nel caso nostro ne fanno dei vescovi. Inoltre Anania non era affatto apostolo pure fu inviato a san Paolo per fargli ricuperare la vista, battezzarlo e riempirlo di Spirito Santo (At. 9.17-19). Aggiungerò ancora questo oltre la misura: se tale ufficio spettava di diritto ai soli vescovi perché hanno osato affidarlo ai semplici preti come si legge in alcune epistole di Gregorio? 2. Quanto frivola, sciocca ed assurda è l'altra motivazione, che cioè la loro confermazione debba essere considerata più degna del battesimo di Dio, in quanto è la fronte che viene umettata d'olio mentre nel battesimo è la testa. Quasi il battesimo fosse fatto con l'olio e non con l'acqua. Chiamo a testimoni, in questo caso, tutti coloro che temono Iddio perché giudichino se questi falsari non si sforzano di contaminare la purezza del sacramento con il lievito della loro falsa dottrina. Ho affermato altrove che difficilmente si può riconoscere ciò che è di Dio in mezzo alla moltitudine delle invenzioni umane. Se qualcuno non mi prestò fede in quel caso, per lo meno creda ora ai suoi maestri. Ecco l'acqua, il segno di Dio, disprezzata e rifiutata; così tanto onorano nel battesimo soltanto il loro dio. Al contrario affermiamo che nel battesimo la fronte è bagnata con un'acqua paragonato alla quale il loro olio è da considerarsi semplicemente letame, sia nel battesimo che nella confermazione. E se qualcuno viene a dire che costa più caro sarà facile rispondere che la loro vendita è un inganno, iniquità e furto. La loro empietà risulta manifesta nel terzo argomento, quando insegnano che nella confermazione viene conferito un accrescimento di potere maggiore che nel battesimo. Gli apostoli hanno amministrato le grazie visibili dello Spirito Santo mediante l'imposizione delle mani. In che si dimostra utile il grasso di questi ingannatori? Lasciamo da parte questi maestri che giustificano la bestemmia con altre bestemmie. Si tratta di un nodo insolubile e val meglio reciderlo che perder tempo a scioglierlo. 12. Vedendosi privi della garanzia della parola di Dio, e di ogni ragione plausibile, pretendono trattarsi di una prassi tradizionale, molto antica e confermata dal consenso di molte generazioni. Quand'anche ciò risultasse vero, non sarebbe un argomento valido. Il sacramento non viene dalla terra ma dal cielo, non dagli uomini ma da Dio soltanto. Mostrino che Dio è autore della loro confermazione se vogliono che la si consideri sacramento. Perché tirare in ballo l'antichità visto che gli antichi non menzionano in nessun caso più di due sacramenti? Dovessimo trarre dagli uomini la garanzia della nostra fede avremmo un argomento inoppugnabile in questo: gli antichi non hanno mai considerato sacramento ciò che falsamente essi chiamano sacramento. Gli antichi parlano dell'imposizione delle mani; la chiamano forse sacramento? Sant'Agostino afferma esplicitamente che non è altro se non una forma di preghiera . E non vengano in questo caso a confondere le carte, con le loro assurde distinzioni, dicendo che il testo di sant'Agostino non deve intendersi riferito all'imposizione delle mani confermata ria ma all'imposizione delle mani curatoria e riconciliatoria. Il libro è nelle mani di tutti. Se interpreto le parole in un senso diverso da quello che sant'Agostino ha dato, scrivendole, mi si sputi in faccia. Egli parla degli eretici che si riconciliavano con la Chiesa e dichiara che non dovevano essere battezzati ma bastava imporre loro le mani affinché, mediante il vincolo della pace, Dio conferisse loro il suo Spirito. E prevedendo l'obiezione che sarebbe irragionevole ripetere l'imposizione delle mani piuttosto che il battesimo, egli aggiunge che esiste una sostanziale differenza in quanto quella non è che una forma di preghiera che si fa sull'uomo. Che tale sia il senso del suo dire risulta ancora da un altro suo testo dove dice: "Si impongono le mani agli eretici che si riconducono alla Chiesa per unirli nello spirito della carità, in cui consiste il dono di Dio e senza la quale nessuna santificazione può essere salutare per l'uomo ". 13. Io augurerei che riprendessimo la prassi seguita dagli antichi prima che questo aborto di sacramento entrasse in uso. Non che esistesse allora una simile forma di confermazione, che non si può neppur nominare senza che venga recata ingiuria al battesimo, ma una istruzione cristiana mediante cui i fanciulli, o coloro che sono usciti dall'infanzia, avessero occasione di dichiarare le motivazioni della loro fede in presenza della Chiesa. Sarebbe questa una eccellente forma di istruzione: avere un formulario in cui fossero contenuti e illustrati, in modo semplice, i punti fondamentali della nostra religione, cui la Chiesa universale deve consentire senza divergenza, e il bambino verso i dieci anni si presentasse alla Chiesa per fare la sua confessione di fede. Interrogato su ogni punto vi dovesse rispondere; qualora ignorasse qualcosa o non avesse afferrato bene il significato fosse istruito in tal modo da saper confessare, presente e testimone la Chiesa, la vera fede, pura e unica con cui tutto il popolo dei credenti onora Dio. È indubbio che, se venisse attuata questa disciplina, si porrebbe rimedi alla pigrizia di molti genitori, essi non potrebbero infatti tralasciare l'istruzione dei loro figli, di cui ora non si danno molta cura senza incorrere in vergogna. Vi sarebbe nel popolo una migliore intesa nella fede comune né si riscontrerebbe una così grande ignoranza in molti. Parecchi non sarebbero così facilmente trascinati da nuove dottrine; insomma ognuno avrebbe, in qualche modo, uno schema della dottrina cristiana. DELLA PENITENZA. 14. Viene appresso la penitenza, riguardo alla quale si esprimono in modo così confuso e disordinato che non si può ricavare nulla di chiaro e di certo dalla loro dottrina. Abbiamo in altra sede trattato diffusamente l'insegnamento della Scrittura riguardo alla penitenza, e in seguito ciò che costoro insegnano. Ora dobbiamo semplicemente accennare alle ragioni molto superficiali, anzi del tutto prive di valore, in base alle quali ne fanno un sacramento. Illustrerò tuttavia, brevemente, anzi tutto la prassi della Chiesa antica, riferendosi alla quale i papisti hanno contrabbandato le loro assurde fantasie, e le mantengono tuttora. Gli antichi seguivano nella penitenza pubblica questa prassi: quando il penitente aveva soddisfatto le penitenze che gli erano state imposte, era riconciliato con la Chiesa mediante l'imposizione delle mani. Questo rappresentava un segno di assoluzione che doveva, da un lato dare conforto al peccatore e dall'altro ammonire il popolo che il ricordo della sua offesa doveva essere cancellato. Questo segno è stato sovente definito da san Cipriano concessione o dono di pace. Anzi, affinché quest'atto avesse maggior autorità era stato stabilito che non si dovesse fare senza il consenso del vescovo. A questo si riferisce il decreto del secondo concilio di Cartagine secondo cui un prete non deve riconciliare pubblicamente un penitente. In un altro decreto del concilio di Orange: coloro che abbandonano questo mondo prima della fine della loro penitenza potranno ricevere la comunione senza l'imposizione delle mani riconciliatorie; ma se qualcuno riacquista la salute sia riconciliato dal vescovo. Si trova pure un decreto simile nel terzo concilio di Cartagine. Tutti questi statuti avevano lo scopo di tutelare quella severità che si voleva fosse mantenuta. Il vescovo doveva essere a conoscenza della causa in quanto si sarebbe potuto trovare preti troppo inclini a concedere il perdono. San Cipriano attesta però, in un altro scritto, che il vescovo non era solo ad imporre le mani sul penitente ma tutto il clero partecipava con lui a questo gesto. Da allora, col passar del tempo, questa prassi è stata così pervertita che si è giunti a trasformare questa cerimonia in assoluzione privata, cioè fuori della penitenza pubblica. Di qui nasce la distinzione fatta da Graziano nella raccolta delle Decretali tra la riconciliazione pubblica e quella privata. Per quanto mi riguarda affermo che la norma di cui parla san Cipriano è santa e utile alla Chiesa e vorrei fosse oggi applicata. Riguardo all'altra non la riprovo del tutto, nondimeno non penso sia di grande utilità. Noi constatiamo comunque che l'imposizione delle mani nella penitenza è cerimonia istituita dagli uomini e non stabilita da Dio; di conseguenza deve essere considerata cosa indifferente o essere inclusa nelle pratiche di cui non si deve far conto come dei sacramenti fondati invece sulla parola di Dio.
15. I teologi romanisti che hanno il vezzo di insozzare e corrompere ogni cosa con le loro glosse si danno un gran daffare per dimostrare il carattere sacramentale della penitenza. Non c'è da stupirsi per questa loro difficoltà: cercano quello che non esiste. Non sapendo, infine, che fare, da gente priva di argomenti, lasciano che tutto permanga in sospeso, nel vago, incerto e confuso in una diversità di opinioni. Così da un lato affermano che la penitenza esteriore è sacramento. Quand'è così bisogna considerarla segno della penitenza interiore, cioè della contrizione del cuore, che diventa perciò la sostanza del sacramento; affermano d'altra parte che entrambi sono sacramenti, non due ma uno solo, nella sua pienezza. E che fatto esteriore è solo sacramento, l'interiore sacramento e sostanza, e la remissione dei peccati è sostanza del sacramento, non sacramento. Per dare una risposta a tutte queste interpretazioni si riferisca a quanto dicono costoro la definizione che abbiamo dato sopra e si riscontrerà che manca ogni corrispondenza, visto che la penitenza non è affatto una cerimonia esterna istituita dal Signore per confermare la nostra fede. Risponderanno che la mia definizione non è normativa al punto che debbano sentirsi vincolati necessariamente, ascoltino dunque sant'Agostino, a cui fanno finta di obbedire con assoluta riverenza: "I sacramenti "dice "sono istituiti in forma visibile per gli uomini carnali, affinché siano, per gradi condotti dalle cose che si vedono a quelle che si intendono con l'intelletto ". Che cosa si può trovare, in questa definizione, che assomigli a quello che chiamano sacramento della penitenza? Sant'Agostino afferma ancora in un altro testo: "Il sacramento è così detto perché in lui una cosa è vista e una cosa è intesa. Ciò che si vede ha figura corporea, ciò che vi è inteso ha una conseguenza spirituale ". Neppure questo si addice al sacramento della penitenza, così come lo presentano, in cui non esiste alcuna forma corporea che sia rappresentazione di frutti spirituali. 16. A volerli confutare, sul loro stesso terreno ci si può chiedere: se esiste qui un qualche sacramento non è forse più opportuno affermare che è rappresentato dall'assoluzione del prete piuttosto che dalla penitenza esteriore o interiore? Sarebbe infatti facile affermare che si tratta di una cerimonia stabilita per dare alla nostra fede conferma della remissione dei peccati, e riferita alla potestà delle chiavi, come la chiamano, cioè: quanto avrai legato e sciolto sulla terra sarà legato e sciolto nei cieli. Si potrebbe obiettare, in risposta, che molti sono assolti dal prete senza che tale assoluzione rechi alcun vantaggio, mentre, secondo la loro dottrina, i sacramenti della nuova legge devono recare in efficacia quanto rappresentano in figura. La risposta non è difficile: come nella Cena siamo in presenza di una doppia manducazione, l'una sacramentale, comune ai buoni e ai malvagi, l'altra spirituale riservata in particolare ai buoni, analogamente si potrebbe dedurre che l'assoluzione si riceve sotto una doppia forma. È vero che non sono sin qui riuscito a capire come possano affermare che i sacramenti della nuova legge hanno tale efficacia; come ho dimostrato trattando questa materia a suo tempo. Ho inteso qui soltanto affermare che questo scrupolo non impedisce che si definisca l'assoluzione del prete "sacramento "; risponderanno per bocca di sant'Agostino che la santificazione è a volte presente senza la presenza del sacramento e questo sacramento è a volte presente senza la santificazione interiore . Che i sacramenti compiono quanto raffigurano solo per gli eletti; anche che gli uni rivestono Cristo nella recezione del sacramento, gli altri sino alla santificazione. Il primo modo si verifica sia per i buoni che per i malvagi, il secondo solo per i buoni. Certo si sono fuorviati in modo puerile e sono stati accecati dal sole non essendo in grado di comprendere, in questo problema, un fatto così evidente. 17. Qualsiasi interpretazione diano del loro sacramento contesto però si debba considerare tale. In primo luogo perché non c'è alcuna promessa di Dio, ed è questa che costituisce l'unico fondamento del sacramento. Abbiamo già dichiarato in precedenza che il potere delle chiavi non si riferisce in alcun modo ad una forma di assoluzione specifica ma alla sola predicazione dell'evangelo, rivolto a molte come ad una sola persona, senza distinzione; nostro Signore cioè, con questa promessa, non intende affatto porre le basi di una assoluzione specifica da farsi particolarmente al singolo ma di una assoluzione rivolta indistintamente a tutti i peccatori senza carattere particolare. In secondo luogo ogni cerimonia che si può produrre in questo caso è pura invenzione degli uomini, mentre è stato precedentemente stabilito che le cerimonie sacramentali riferentisi ai sacramenti non possono essere stabilite se non da Dio; quanto hanno inventato e raccontato, circa il sacramento della penitenza, non è dunque altro che finzione e inganno. Anzi, hanno rivestito questo sacramento di un titolo che non gli competeva, affermando che si tratta di una seconda tavola di salvezza dopo il naufragio. Se qualcuno ha macchiato Cl. Peccato la veste di innocenza ricevuta al battesimo la può lavare mediante la penitenza. È dichiarazione di san Girolamo, affermano. Sia di chi vuole, non se ne può giustificare il significato perverso, qualora la si interpreti a modo loro, quasi il battesimo possa essere cancellato dal peccato, e non debba invece essere ricordato dai peccatori ogniqualvolta cercano la remissione dei peccati, affinché riprendano coraggio, forza, e fiducia di ottenere quella remissione dei peccati, promessa loro appunto nel battesimo. L'insegnamento dato da san Girolamo, in forma un po' troppo approssimativa, che cioè il battesimo da cui sono scaduti coloro che meritano la scomunica è rimediato mediante la penitenza, è da questi falsari utilizzato per difendere la loro empietà. Molto appropriatamente si dirà il battesimo sacramento di penitenza poiché è stato dato come consolazione per coloro che si sforzano di far penitenza. E affinché non si pensi trattarsi di una mia fantasia ricorderò che è stata questa opinione ferma e generale nella Chiesa antica. Nel libro intitolato Della fede, che si attribuisce a sant'Agostino, il battesimo è appunto definito "sacramento di fede e di penitenza ". Perché ricorrere a testimonianze incerte; si può forse trovare qualcosa di più esplicito delle parole dell'evangelista: Giovanni ha predicato il battesimo di penitenza per la remissione dei peccati? (Mr. 1.4; Lu 3.3).
CAPITOLO 19/b DELLA ESTREMA UNZIONE. 18. Il terzo sacramento contraffatto è l'estrema unzione; solo il prete la può dare, in fin di vita, con l'olio consacrato dal vescovo e con la formula: con questa santa unzione e per sua misericordia Dio ti perdoni tutto ciò con cui lo hai offeso con l'udito, la vista, l'odorato, il tatto e l'olfatto. Pretendono che il potere e l'efficacia di questo sacramento sia duplice: cioè la remissione dei peccati e il sollievo della malattia fisica, se fosse ancora il caso, o la salvezza dell'anima. Sostengono che ad istituire questo sacramento sia stato san Giacomo con le parole: "C'è fra voi qualche infermo? Chiami gli anziani della Chiesa, e preghino su di lui, ungendolo d'olio nel nome del Signore; e ritroverà la salute, se ha commesso dei peccati gli saranno rimessi ", (Gm. 5.14). Si può, riguardo a questa unzione ripetere quanto si è già detto riguardo all'imposizione delle mani: trattasi di un trucco da giocolieri, una scimmiottatura con cui, senza ragione e senza utilità, vogliono imitare gli apostoli. San Marco narra che gli apostoli nel loro primo viaggio missionario, risuscitarono i morti, cacciarono i diavoli, purificarono i lebbrosi, guarirono i malati secondo l'ordine che avevano ricevuto dal Signore; e aggiunge che nel guarire i malati fecero uso dell'olio. "Ungevano d'olio molti malati "dice "e li guarirono " (Mr. 6.13). È questo che san Giacomo tenne presente quando ordinò di chiamare gli anziani per ungere il malato. Chi però consideri con quanta libertà nostro Signore, e i suoi apostoli, si sono comportati in queste forme esteriori, comprenderà facilmente che queste cerimonie non nascondevano affatto sì grandi misteri. Nostro Signore, volendo restituire la vista al cieco, fece del fango con polvere e saliva (Gv. 9.6). Ne guariva alcuni toccandoli, altri con la parola (Mt. 9.29; Lu 18.42). Nello stesso modo gli apostoli hanno guarito alcune malattie con la sola parola, altre mediante il contatto, altre con l'unzione (At. 3.6; 5.16; 19.12). Potranno obiettare che questa unzione non è stata accolta dagli apostoli senza ragione, non più di tutte le altre cose. Lo ammetto. Non nel senso però che rappresentasse uno strumento mediante cui ridare la salute, ma solo un segno, con cui venisse ricordato ai semplici donde proveniva questo potere, ad evitare che ne attribuissero il merito agli apostoli. Si tratta di una cosa comune nella Scrittura: significare lo Spirito Santo e i suoi doni mediante l'olio. Del resto la grazia di guarire i malati non si riscontra più al giorno d'oggi, come altri miracoli che il Signore ha voluto fossero compiuti un tempo, per rendere mirabile a tutti la predicazione del suo Evangelo, che risultava allora nuova. Quand'anche ammettessimo l'estrema unzione essere stata un sacramento del potere, amministrato in quel tempo dagli apostoli, non ci appartiene ora in alcun modo visto che l'amministrazione di quei poteri non ci è più affidata. 19. Perché poi vedere un sacramento in questa estrema unzione più che in tutti gli altri segni e simboli menzionati nella Scrittura? Perché non fare uso di qualche piscina, come quella di Siloè in cui si tuffavano in certe occasioni i malati (Gv. 9.7) ? Sarebbe inutile, dicono. Non più inutile certo dell'unzione. Perché non si coricano sui morti, visto che san Paolo risuscitò un giovane morto stendendosi su di lui (At. 20.10) ? Perché non fanno un sacramento di fango composto di terra e saliva? Tutti questi esempi, affermano, rivestono un carattere di eccezionalità, ma questo dell'unzione è ordinato da san Giacomo. D'accordo, ma san Giacomo parlava per un tempo in cui la Chiesa godeva di quella benedizione che abbiamo menzionato. È: ben vero che ci vogliono far credere la stessa forza risiedere oggi nella loro unzione, noi però sperimentiamo il contrario. Nessuno deve stupirsi della spudoratezza con cui hanno ingannato le anime, che vedevano accecate e inebetite in quanto le avevano private della loro luce e della loro vita, cioè della parola di Dio, non hanno neppure il pudore di ingannare i sensi del corpo che vive e sente. Sono dunque degni di essere presi n giro quando si vantano di possedere la grazia di guarigione. Certo nostro Signore assiste i suoi in ogni tempo e soccorre, quando è necessario, le loro infermità non meno di un tempo, ma non manifesta più quella potenza né i miracoli che si compivano per mano degli apostoli in quanto quel dono è stato limitato Nel tempo ed è scomparso in parte anche a causa dell'ingratitudine degli uomini. 20. Non senza ragione gli apostoli raffiguravano, mediante l'olio, la grazia che era stata loro affidata, per far vedere che era la potenza di Dio, non la loro a guarire, costoro al contrario recano somma ingiuria allo Spirito Santo affermando che un po' d'olio puzzolente e inefficace contenga in realtà la potenza dello Spirito. È come pretendere che ogni olio sia virtù dello Spirito in quanto viene così chiamato nella Scrittura, o tutte le colombe siano lo Spirito Santo per il fatto che sotto tale forma è apparso (Mt. 3.16; Gv. 1.32). Imparino a leggere. Per conto nostro ci basta per ora sapere, in modo inequivocabile, che la loro unzione non è sacramento in quanto non è cerimonia istituita da Dio e non ha ricevuto da lui alcuna promessa. Quando infatti richiediamo al sacramento queste due cose: si tratti di una cerimonia istituita da Dio e vi sia congiunta una promessa, noi chiediamo parimenti che tale cerimonia sia stabilita per noi e la promessa concerna noi. Nessuno oggi richiede perciò che la circoncisione sia considerata sacramento della Chiesa cristiana, quantunque sia stata stabilita per ordine di Dio e vi fosse congiunta una promessa, in quanto non è stata ordinata a noi e la promessa che vi era congiunta non è stata fatta a noi. Che la promessa connessa con la loro unzione, non ci concerne affatto, l'abbiamo chiaramente insegnato prima, ed essi ce ne danno le prove. La cerimonia non potrebbe essere assunta se non da coloro che hanno la grazia di conferire guarigione e non da questi macellai più abili ad uccidere e ferire che guarire. 21. Quand'anche avessero ottenuto che l'affermazione di san Giacomo concernente l'unzione, convenga al nostro tempo (cosa da cui sono ben lungi ) non per questo avranno ottenuto di farci approvare la loro unzione di cui ci hanno sin qui imbrattati. Giacomo vuole che tutti i malati siano unti, costoro ungono di grasso non dei malati ma dei corpi semi morti quando l'anima è già pronta ad uscire o, come dicono, in estremità. Se posseggono nel loro sacramento una medicina per temperare la sofferenza della malattia o recare qualche sollievo all'anima si mostrano assai crudeli nel non recare in tempo quel rimedio. San Giacomo chiede che il malato sia unto dagli anziani della Chiesa, costoro non ammettono altro untore all'infuori del prete. Interpretare il termine "anziani ", nel testo di san Giacomo, nel senso di prete ed affermare che il plurale è stato adoperato per riverenza è argomento del tutto privo di serietà; come se la Chiesa di quel tempo avesse tanta abbondanza di preti da poter recare le loro fiale d'olio in lunga processione. Quando san Giacomo ordina semplicemente di ungere i malati non intende parlare che di olio comune, e nel testo di san Marco non si fa menzione di olio speciale, costoro non tengono in considerazione l'olio se non è consacrato dal vescovo, cioè scaldato dal suo alito, caricato di incantesimi dai suoi mormorii, salutato nove volte in ginocchio dicendo a tre riprese: ti saluto olio santo; ti saluto sacro crisma; ti saluto santo balsamo. Tale è il loro rituale. Donde hanno preso questi esorcismi? San Giacomo afferma che quando il malato sarà stato unto con olio e si sarà pregato per lui, se è in peccato sarà assolto ed essendo perdonato dinanzi a Dio, otterrà anche sollievo alla sua pena: egli non intende affermare che i peccati siano cancellati dal grasso ma che le preghiere dei credenti raccomandando il fratello afflitto a Dio, non saranno vane. Costoro, perversamente, pretendono che in virtù della loro sacra unzione, cioè della loro abominevole unzione, i peccati siano perdonati. Ecco l'uso che fanno, quando li si lasci in preda alla loro folle fantasia, della testimonianza di san Giacomo. Per non logorarci inutilmente nella confutazione delle loro menzogne consideriamo semplicemente le loro storie: vi si narra che Innocenzo, papa di Roma al tempo di sant'Agostino, stabilì che non solo i preti ma tutti i cristiani usassero dell'unzione per i loro malati. Come conciliano questo con quanto vogliono farci credere? DEGLI ORDINI ECCLESIASTICI 22. Il sacramento dell'ordine si trova, nel loro elenco al quarto posto, ma risulta così fertile che partorisce altri sette sacramenti. Roba da ridere! Ti dicono che ci sono sette sacramenti e quando li si vuol contare ne vengono fuori tredici; e non possono ricorrere al cavillo di dire che i sette sacramenti dell'ordine sono un solo sacramento in quanto tendono tutti ad un sacerdozio unico e sono come gradini per raggiungere quello. Risulta infatti che ognuno di questi ha cerimonie particolari, anzi, quando si afferma che vi sono grazie diverse, non si può, secondo la loro dottrina, dubitare del fatto che ci si trovi in presenza di sette sacramenti. Perché stare a discutere su questo quasi si trattasse di una cosa dubbia, quando essi stessi dichiarano esplicitamente che ve ne sono sette? Menzioneremo, in primo luogo, quanta assurdità vi sia nella loro pretesa che gli ordini siano sacramenti; discuteremo appresso se la cerimonia mediante la quale si introduce un ministro nel suo stato debba ricevere quel nome. Stabiliscono dunque sette ordini o gradi ecclesiastici, cui danno i titoli di sacramento e sono i seguenti: ostiari, lettore, esorcista, accolita, suddiacono, diacono, sacerdote. Sono sette, come dicono, in virtù delle sette grazie dello Spirito Santo, espresse in sette forme, e di cui devono essere riempiti coloro che sono promossi a questi ordini sacri, ma tale grazia è loro accresciuta e più abbondantemente elargita in ogni successiva promozione. In primo luogo il numero è invenzione, frutto di una errata esegesi della Scrittura. È: loro sembrato infatti leggere, in Isaia, la menzione di sette grazie dello Spirito Santo (Is. 11.2) , quantunque in realtà in quel testo ne menzioni solo sei e non abbia inteso fare l'elenco di tutte le grazie dello Spirito. In altri testi della Scrittura è altresì detto Spirito di vita (Ez. 1.20) , di santificazione e d'adozione dei figli di Dio (Ro 1.4; 8.15) così come è detto, in quel testo di Isaia, Spirito di sapienza, di intelligenza, di consiglio, di forza, di conoscenza e di timore del Signore. Tuttavia altri, più perspicaci, non fanno menzione di sette ordini, bensì di nove, per un parallelismo, dicono, con la Chiesa trionfante. E ancora c'è discussione fra loro in quanto gli uni considerano la tonsura come primo ordine, il vescovato come ultimo. Gli altri escludendo la tonsura includono l'arcivescovato. Isidoro fa una nuova distinzione scindendo salmisti e lettori, affidando ai primi il canto e ai secondi la lettura delle Scritture per l'insegnamento del popolo, distinzione che è mantenuta nei canoni. In così grande diversità d'opinioni che dobbiamo lasciare o accettare? Affermeremo che vi sono sette ordini? Il Maestro delle Sentenze lo insegna ma dottori molto meglio informati dicono altrimenti. Per di più questi stessi dottori sono discordi, e dal canto loro i sacri canoni ci indicano una soluzione diversa. Questo è il consenso che esiste fra gli uomini quando iniziano a disputare delle cose di Dio senza la sua parola. 23. Dove la loro follia sorpassa ogni limite è quando pretendono fare di Cristo il precursore di ogni loro ordine. In primo luogo, affermano, egli ha esercitato l'ufficio di ostiario quando ha espulso dal tempio venditori e compratori (Gv. 2.15; Mt. 21.12); e lo dichiara affermando: "Io sono la porta ". Ha assunto l'ordine di lettore quando nella sinagoga ha letto Isaia . È stato esorcista quando, toccando le orecchie e la lingua del sordo muto, gli ha reso l'udito e la favella (Mr. 7.33). Ha dichiarato di essere accolita con le parole: "Chiunque mi segue non cammina nelle tenebre" (Gv. 8.12). L'ufficio di suddiacono è stato da lui adempiuto quando, cintosi di un asciugamano, ha lavato i piedi agli apostoli (Gv. 13.4). Distribuendo il suo corpo e il suo sangue nella Cena (Mt. 26.20 ha esercitato l'ordine di diacono. Ha compiuto ciò che compete al sacerdote quando si è offerto sulla croce al Padre (Mt. 27.50). Cose simili non si possono ascoltare senza ridere e mi stupisce che si siano potute scrivere senza suscitare il riso, se quelli che le hanno scritte erano uomini dotati di humor. Degno di menzione è però la sottigliezza con cui arzigogolano attorno al termine "accolito ", traducendolo "ceroferario ", da un termine che, penso, deve significare "mago ", ignoto però in tutte le lingue e in tutti i paesi. Accolita significa in greco "colui che segue e accompagna ", Cl. Loro ceroferario intendono "colui che porta i ceri ". Qualora prendessi sul serio queste follie al punto da volerle confutare meriterei di essere oggetto di beffa, tanto sono cose vane e prive di serietà. 24. Tuttavia, affinché non possano più oltre ingannare anche le donnette, bisogna smascherare le loro menzogne. Con gran pompa e solennità creano i loro lettori, salmisti, ostiari, accoliti per impegnarli in compiti che poi affidano ai bambini, o a coloro che chiamano laici. Chi accende infatti il più delle volte i ceri o versa l'acqua e il vino? Dei ragazzini o qualche poveretto che si procura così il pane. Non sono questi che aprono e chiudono le porte delle Chiese? Chi ha mai visto nei loro templi un accolito o un ostiario fare il suo lavoro? Chi anzi fungeva da accolito nella sua infanzia, cessa di esserlo quando è ordinato tale. Si è indotti a credere che agiscono intenzionalmente in questo modo, rinunciando a ciò che compete alla loro carica non appena ne ricevono il titolo. Perciò è necessaria per loro l'ordinazione a tali sacramenti, e il dono dello Spirito Santo: per non più far nulla. Replicano che questo abbandonare e disprezzare il proprio compito deve imputarsi alla perversità dei tempi presenti? Dovranno parimenti ammettere che nella Chiesa odierna l'Ordine sacro, così altamente magnificato, è privo di frutti e di significato, e le loro Chiese sono soggette ad una maledizione radicale in quanto lasciano maneggiare da laici e ragazzi ceri e paramenti, che nessuno dovrebbe essere autorizzato a toccare se non chi è consacrato accolito, Chiese che affidano a ragazzi il canto che dovrebbe essere riservato a bocche consacrate. A che prò consacrare esorcisti? So bene che gli Ebrei hanno avuto i loro esorcisti (At. 19.13). Constato però che costoro ricevevano il loro titolo dagli esorcismi che compivano. Chi ha invece mai sentito dire che questi esorcisti falsificati abbiano compiuto un atto della loro professione? Pretendono di essere investiti del potere di imporre le mani agli arrabbiati, gli infedeli, i demoniaci? Non sono però in grado di convincere i diavoli che posseggono tale autorità, e non solo perché i diavoli non obbediscono ai loro ordini ma anche perché sono i diavoli stessi a comandarli; a mala pena infatti si troverebbe fra loro il 10% che non sia posseduto dallo spirito maligno. Tutte le loro chiacchiere riguardo agli ordini minori, se ne contino cinque o sei, è semplicemente frutto di menzogna e di ignoranza. Abbiamo poc'anzi, trattando dell'ordine della Chiesa, fatto menzione degli accoliti, ostiari, lettori, quali erano anticamente. La mia intenzione, a questo punto è semplicemente di condannare questa novità che consiste nel trasformare gli ordini ecclesiastici in sette sacramenti, novità di cui non si trova traccia nei dottori antichi ma solo in quei babbei di teologi della Sorbona e di canonisti. 25. Consideriamo ora le loro cerimonie. Tutti coloro che sono accolti nella loro sinagoga sono anzitutto ordinati chierici. Segno di tale ordinazione è la tonsura sulla sommità del capo affinché la corona attesti, come essi pretendono, la dignità reale dei chierici chiamati a governare se stessi e gli altri, secondo la parola di san Pietro: "Voi siete una gente eletta, un sacerdozio reale e una nazione santa " (1 Pi. 2.9). Questo è un sacrilegio in quanto hanno usurpato per se stessi un titolo che apparteneva alla Chiesa intera. San Pietro infatti si rivolge a tutti i credenti; costoro invece hanno riferito esclusivamente a se stessi le sue parole, quasi avesse detto siate santi soltanto ai tonsurati, e loro soltanto fossero stati acquisiti dal sangue di Gesù Cristo. Ma lasciamo stare questo discorso. Trovano altre motivazioni alla loro tonsura: la sommità della loro testa scoperta dovrebbe significare che i loro pensieri devono contemplare senza impedimenti la gloria di Dio, faccia a faccia, o dimostrare che i vizi della bocca e degli occhi sono per loro sorpassati, o significare l'abbandono dei beni temporali, e la corona dei capelli che rimangono è figura dei beni che essi trattengono per il sostentamento della loro vita. E tutto questo in figura, perché il velo del tempio non è ancora stato squarciato, per quanto ci concerne. Perciò, volendo far credere di aver pienamente adempiuto il loro ufficio, raffigurando queste cose mediante la loro tonsura, non sentono più il bisogno di compierle nella realtà. Fino a quando penseranno ingannarci con queste menzogne e queste illusioni? Tagliando una ciocca dei loro capelli i chierici dimostrano che hanno rinunciato all'abbondanza dei beni terreni, che contemplano la gloria di Dio essendo liberati da ogni impedimento, che hanno mortificato le concupiscenze degli occhi e delle orecchie. Ma se non esiste fra tutte le condizioni umane una che sia pari alla loro per rapacità, ignoranza e immoralità. Perché non ci dimostrano la loro santità nei fatti, anziché rappresentarcela in figura mediante segni falsi e menzogneri? 26. Quando infine sostengono che la loro chierica trae la sua origine e la sua motivazione dai Nazirei, che valore ha questo argomento se non dimostrare che i loro misteri derivano dalle cerimonie giudaiche, anzi si debbono considerare pure Giudaicherie? E quando citano il caso di Priscilla, Aquila e san Paolo, che, avendo fatto un voto, si tagliarono i capelli per essere purificati (At. 18.18) , dimostrano solo una grande stupidità. Poiché di Priscilla non è fatta menzione alcuna e si parla di uno solo degli altri due, e non è chiaro di quale, dato che la tonsura di cui parla san Luca si può riferire tanto a san Paolo quanto ad Aquila. Anzi non si può concedere loro ciò che rivendicano; che cioè abbiano preso esempio da san Paolo, farò notare infatti alle persone semplici che san Paolo non si è mai raso il capo in vista di una qualche santificazione, ma semplicemente per adattarsi alla debolezza del suo ambiente. Mi piace definire questo tipo di voto, voto di carità, e non di pietà, e formulato cioè non in vista di un qualche atto di pietà o per servizio di Dio, ma per venire incontro alla ignoranza dei deboli, come afferma egli stesso dicendo di essersi fatto giudeo con i Giudei ecc. (1 Co. 9.20). Anzi egli ha fatto questo in una sola occasione, e per breve tempo, per adattarsi ai Giudei. Costoro, però volendo imitare le purificazioni dei Nazirei senza uno scopo ottengono il risultato di dar vita ad un nuovo Giudaismo. Con una analoga mancanza di coscienza è redatta la lettera decretale che impone ai chierici, secondo l'Apostolo, di non lasciarsi crescere i capelli, ma di raderli in tondo come cerchi; quasi l'Apostolo, insegnando ciò che è decoroso per ogni uomo (1 Co. 11.4) , si fosse preoccupato assai della tonsura circolare dei loro chierici. Da questi ordinamenti i lettori possono dedurre cosa siano gli altri ordini cui si dovrebbe giungere, passando attraverso un tale ingresso.
27. Dalla testimonianza di sant'Agostino risulta chiara l'origine della tonsura dei chierici. Dato che anticamente nessun uomo si lasciava crescere i capelli, se non persone effemminate desiderose di apparire graziose ed eleganti, si giudicò che autorizzare i chierici a farlo, avrebbe costituito cattivo esempio. Fu dunque decretato che tutti i chierici si radessero per non far nascere il sospetto di volersi mettere in mostra e adornarsi con raffinatezza. La tonsura era, in quei tempi, abitudine così diffusa che alcuni monaci, volendosi mostrare più santi degli altri, e aver qualche motivo di distinguersi, si lasciavano crescere i capelli. Lungi dall'essere riservata ai chierici, la tonsura risultava invece una prassi quasi generale. Quando, più tardi la capigliatura lunga tornò in uso, e si convertirono a Gesù Cristo molti popoli, quali la Francia, la Germania, l'Inghilterra, abituati a questa moda, i chierici, verosimilmente, per le ragioni summenzionate, presero l'abitudine di farsi radere interamente. Quando in seguito, la Chiesa è stata interamente corrotta, e tutti gli ordinamenti antichi sono stati o pervertiti o mutati in superstizione, non riscontrandosi più motivo alcuno in questa tonsura clericale (in realtà non c'era altro che una assurda e immotivata imitazione dei predecessori ) , è stato creato questo gran mistero che costoro, con grande faccia tosta, tirano ora in ballo per garantire i loro sacramenti. Nei loro riti di consacrazione gli ostiari ricevono le chiavi del tempio, a significare che ne sono custodi; ai lettori si dà una Bibbia; agli esorcisti il formulario e il registro degli scongiuri; agli accoliti i ceri e la patena. Sono queste le grandi cerimonie che contengono, se dobbiamo creder loro, tanta potenza da essere non solo segni e prove ma causa della grazia invisibile. Tale ne è infatti, secondo la loro definizione, il significato, quando le si accetti come sacramento. Per concludere brevemente, affermo che è irragionevole, da parte dei teologi sofisti e canonisti, l'aver fatto di questi ordini minori dei sacramenti, visto che si tratta di cerimonie, sono loro stessi ad ammetterlo, sconosciute alla Chiesa primitiva e inventate molto tempo dopo. Dato che nei sacramenti sono contenute promesse di Dio, la loro istituzione non spetta agli angeli né agli uomini, ma soltanto a colui che ha potere di fare promesse. 28. Rimangono i tre ordini così detti "maggiori "in cui è stato incluso il suddiaconato, da quando si è fatto strada la moltitudine degli ordini minori. Usano per definirli il termine singolare di "ordini sacri o, in quanto pensano poter riscontrare testimonianze nella parola di Dio; occorre, invece, dimostrare quanto sia perverso il loro uso della Scrittura a sostegno di questa tesi. Iniziamo con l'ordine dei preti o del sacerdozio. Questi due termini infatti indicano la medesima realtà e si chiamano "sacerdoti "o "preti "coloro cui è affidato, per usare le loro parole, l'ufficio di fare sull'altare sacrificio del corpo e del sangue di Cristo, di recitare le preghiere e benedire i doni. Essi ricevono pertanto al momento della loro consacrazione il calice con la patena e l'ostia quali segni del potere da essi posseduto di offrire a Dio sacrifici di riconciliazione. Vengono loro unte le mani per dimostrare che hanno il potere di consacrare. Tutte queste cose sono lungi dal trovare appoggio nella parola di Dio, anzi non si potrebbe corrompere in modo più perverso i suoi ordini e le sue leggi.
In primo luogo deve considerarsi stabilito una volta per tutte quanto abbiamo detto nel capitolo precedente: quelli che si dicono preti, avendo la pretesa di offrire sacrifici di riconciliazione, non potrebbero recare a Cristo maggiore offesa. Lui solo è stato ordinato dal Padre e consacrato con giuramento per essere sacerdote secondo l'ordine di Melchisedec in un sacerdozio senza fine e senza successori (Sl. 110.4; Eb. 4.6; 7.3). È lui che ha offerto una volta per tutte un sacrificio di riconciliazione eterna, e di perdono, e che ora, entrato nel santuario celeste, prega per noi. È bensì vero che in lui siamo tutti sacerdoti, ma unicamente per offrire a Dio lode e ringraziamento e per offrire a noi stessi quanto ci appartiene. È stata però concessa al Signore Gesù una superiorità particolare: placare Dio, e cancellare i peccati con il suo sacrificio. Usurpando costoro tale autorità, come dovremmo considerare il loro sacerdozio se non un deplorevole sacrilegio? È certo, nel caso loro, somma impudenza volerlo rivestire del titolo di sacramento. Riguardo all'imposizione delle mani, cui si ricorre per insediare i veri sacerdoti e i ministri della Chiesa nella loro funzione, non ho nulla in contrario a che la si consideri sacramento. Si tratta anzitutto di una cerimonia ricavata dalla Scrittura; in secondo luogo si tratta di una cerimonia che non può considerarsi vana, in quanto, come dice san Paolo, è segno della grazia spirituale di Dio (1 Ti. 4.14). Il fatto che non l'abbia riferita insieme agli altri due elementi, al sacerdozio di tutti i credenti, deriva unicamente dal fatto che si tratta di un atto che non è ordinario comune fra tutti i credenti, ma concerne un compito particolare. D'altra parte, se riferisco questo onore al ministero ordinato da Gesù Cristo non è il caso che i preti romanisti, creati secondo l'ordine del Papa, se ne vantino. Coloro che diciamo essere ordinati da Gesù Cristo quali dispensatori dell'evangelo e dei sacramenti, non sono ordinati per fungere da macellai in quotidiani sacrifici. L'ordine che è stato dato loro è quello di predicare l'Evangelo e di pascere il gregge di Cristo non quello di compiere sacrifici (Mt. 28.19; Mr. 16.15; Gv. 21.15). La promessa delle grazie dello Spirito Santo fatta loro non concerne l'espiazione dei peccati ma il retto governo della Chiesa. 29. Le cerimonie corrispondono pienamente alla realtà. Nostro Signore, inviando i suoi apostoli per predicare l'Evangelo, soffia su di loro (Gv. 20.22). Mediante questo segno egli intende raffigurare la potenza dello Spirito Santo che poneva su di loro. Questa brava gente ha conservato questo gesto di soffiare, e quasi sputasse lo Spirito Santo dalla bocca, mormora sui preti che consacra dicendo: "ricevete lo Spirito Santo ". A tal punto si impegnano a non lasciar nulla da imitare, in modo perverso, e non dico imitare come ciarlatani o attori che pur mantengono nel loro atteggiamento un certo stile, ma come scimmie impazienti di imitare ogni cosa a sproposito e senza discrezione. Seguiamo l'esempio di nostro Signore, affermano. Nostro Signore però ha fatto molte cose che non ha voluto fossero imitate. Dice ai suoi discepoli: "Ricevete lo Spirito Santo "e in un'altra occasione dice a Lazzaro: "Lazzaro esci " (Gv. 11.43). Dice al paralitico: "Alzati e cammina " (Mt. 9.6). Perché non ripetere a tutti i morti e a tutti i paralitici le stesse parole? Egli ha voluto mostrare l'opera della sua divina potenza quando ha riempito i suoi apostoli della grazia dello Spirito Santo, soffiando su di loro. Sforzandosi di fare altrettanto assumono le prerogative di Dio, quasi lo sfidano. Sono lungi però dal raggiungere il loro scopo e non fanno altro che beffarsi di Cristo con le loro assurde scimmiottature. Sono, è vero, così sfrontati da pretendere che lo Spirito Santo sia ad essi conferito. La realtà di questa pretesa però è verificata sul piano dell'esperienza dove ci è mostrato che tutti quelli che sono consacrati preti da cavalli diventano asini, e da sciocchi, pazzi furiosi. Non voglio tuttavia stare a polemizzare su questo punto; deploro soltanto il fatto che da questa cerimonia, che per Cristo aveva valore di segno particolare per il miracolo che compiva, sia stata tratta questa deduzione; la pretesa di essere imitatori di Cristo è comunque lungi dal recare loro aiuto. 30. Inoltre donde hanno ricavato l'unzione? Dai figli d'Aronne, rispondono, da cui deriva il loro ordine. Preferiscono dunque ricorrere ad esempi non appropriati anziché ammettere che quanto fanno temerariamente è frutto di loro invenzione. Non considerano invece il fatto che pretendendosi successori dei figli d'Aronne recano offesa al sacerdozio di Gesù Cristo che è stato solo raffigurato dal sacerdozio levitico e di cui è stato compimento, come già abbiamo avuto modo di rilevare, e l'epistola agli Ebrei attesta in modo inequivocabile. Se trovano tanto piacere nelle cerimonie mosaiche perché non fanno tuttora sacrifici di buoi di vitelli e di agnelli? Mantengono certo ancora una gran parte del tabernacolo e di tutta la religione giudaica: ma manca loro il fatto di sacrificare vitelli e buoi. Chi non vede che la pratica di questa unzione è molto più pericolosa e perniciosa che la circoncisione, principalmente quando si associa con una superstizione ed una concezione faris.ica della dignità delle opere? I Giudei fondavano la loro giustizia nella circoncisione; costoro fanno consistere le grazie spirituali nell'unzione. Non possono dunque pretendersi imitatori dei leviti se non facendosi apostati di Gesù Cristo e rinunciando all'ufficio di pastore. 31. Eccoti il loro olio sacro che imprime un carattere che non si può cancellare, che dicono "indelebile "; quasi l'olio non potesse essere cancellato o ripulito con sale e polvere e, qualora sia penetrato in profondità, con sapone. Questo carattere però è spirituale. Che relazione esiste fra l'olio e l'anima? Hanno forse dimenticato la citazione di sant'Agostino che separando la Parola dall'acqua non rimane nulla che acqua, e che è in virtù della Parola che essa diventa sacramento? Qual è la parola presente nel loro grasso? Si tratta forse dell'ordine dato a Mosè di ungere i figli d'Aronne (Es..30.30) ? Gli furono però analogamente dati ordini riguardo alle vesti sacerdotali e agli altri paramenti di cui dovevano rivestirsi Aronne e i suoi figli; indicazioni riguardo all'uccisione di un vitello e al suo sangue che doveva essere arso, ai montoni da uccidersi e bruciarsi e alla consacrazione delle orecchie e dei vestiti d'Aronne e dei suoi figli mediante il sangue di uno dei montoni, ed altre innumerevoli cerimonie che mi stupisco siano state omesse mantenendo solo l'unzione. Amano essere bagnati? Perché poi con olio piuttosto che con sangue? È indubbiamente interessante quell'impegno a cui consacrano le loro forze nell'inventare una religione nuova, composta d'elementi laici, cristiani, pagani come un vestito d'Arlecchino. La loro unzione e dunque puzzolente in quanto risulta priva di sale cioè priva della parola di Dio.
Rimane l'imposizione delle mani che si può definire, lo ammetto, sacramento, qualora sia usata come si deve quale autentica promozione di legittimi ministri; contesto però si riscontri tale sacramento in quella commedia che essi recitano ordinando i loro preti. Sono infatti privi di comandamenti e non considerano il fine cui tende la promessa, vogliono essere autorizzati ad adoperare il segno? Occorre il tal caso che lo adeguino alla verità per cui e stato istituito e creato. 32. Riguardo all'ordine dei diaconi, sarei del tutto favorevole qualora questo ufficio fosse ripristinato nella sua purezza integrale quale si riscontra al tempo degli apostoli e nella Chiesa antica. Ma i diaconi che essi Ci propongono che cosa hanno in comune con quelli? Non faccio riferimento alle persone per non essere accusato di dare una valutazione della loro dottrina sulla base dei vizi umani; ribadisco però che è da parte loro irragionevole fare riferimento ai diaconi ordinati nella Chiesa antica, per giustificare i loro diaconi, quali ce li presenta la loro dottrina. Affermano che compete ai loro diaconi di assistere il sacerdote e di provvedere tutto ciò che è richiesto nei sacramenti per esempio nel battesimo e nella cresima: mettere il vino nei calici e il pane nella patena, mettere in ordine l'altare, portare la croce, leggere il Vangelo e l'Epistola al popolo. Si riscontra forse in tutto questo un solo elemento dell'autentico ufficio dei diaconi? Consideriamo ora come procedono alla loro istituzione: il vescovo solo pone una mano sul diacono che deve ordinare, gli mette sulla spalla sinistra la stola per significare che ha preso il giogo leggero di Dio per sottoporre al timor di Dio tutto ciò che appartiene al lato sinistro; gli pone in mano un testo dell'evangelo affinché prenda coscienza di esserne annunciatore. Che cosa hanno a fare tutte queste cose con i diaconi? Agiscono come uno che, volendo ordinare degli apostoli, affidasse loro l'incarico di incensare, adornare le immagini, accendere i ceri, scopare i templi, metter trappole per i topi, e scacciare i cani. Chi accetterebbe che costoro fossero detti apostoli e paragonati agli apostoli di Cristo? Non ci vengano dunque a spacciare per diaconi quelli che sono ordinati soltanto per i loro giochi e le loro commedie. Li designano anche Cl. Termine di leviti deducendo la loro istituzione da quella dei figli di Levi. Qui per conto mio riconosco che questo è vero, se si dichiarano per parte loro, pronti ad ammettere la realtà che cioè, rinnegando Gesù Cristo, tornano nuovamente alle cerimonie levitiche e alle ombre della religione mosaica. 33. È: forse il caso di parlare dei suddiaconi? Quantunque avessero anticamente la cura dei poveri si è affidato loro non so qual frivolo impegno; recare tovaglioli e tovaglie sull'altare, offrire l'occorrente ai sacerdoti per lavarsi, metter sull'altare il calice e la patena e altre cose simili. Quando affermano di essere preposti a ricevere le offerte si deve intender questo in senso che le fanno sparire e le divorano.
La cerimonia cui ricorrono per insediarsi nel loro ufficio si adatta benissimo ad esso: il vescovo pone loro in mano il calice e la patena; l'arcidiacono il tovagliolo con l'acqua e altri vecchiumi. Vorrebbero che riconoscessimo la presenza dello Spirito Santo in queste sciocchezze: chi mai se ne potrà convincere? Per terminare e non dover ripetere ancora una volta quanto è già stato esposto, riaffermiamo questo fatto che sarà sufficiente per coloro che hanno uno spirito docile e modesto e per cui questo libro è stato scritto: c'è sacramento solo laddove si riscontra una cerimonia congiunta con la promessa; o più esattamente laddove la promessa è evidenziata dalla cerimonia. In questi casi non si ode una sola sillaba di promessa. Invano dunque si cercherebbe una cerimonia a conferma della promessa. D'altra parte non si riscontra alcuna cerimonia istituita da Dio: non vi può dunque essere sacramento. DEL MATRIMONIO. 34. L'ultimo sacramento della loro lista è il matrimonio. Tutti riconoscono che è stato istituito da Dio, ma nessuno si era accorto che fosse un sacramento fino al tempo di papa Gregorio. Quale persona di buon senso se ne sarebbe infatti accorta? Si tratta, è certo, di un'ordinanza divina buona e santa. Ma lo sono altrettanto i mestieri di contadino, muratore, calzolaio e barbiere che tuttavia non sono sacramenti. Per l'esistenza di un sacramento non si richiede soltanto che sia opera di Dio, occorre sia una cerimonia esteriore ordinata da lui per confermare una promessa. Che non vi sia nulla di tutto ciò nel matrimonio i bambini stessi lo vedono. Affermano che è in se una realtà sacra, cioè della unione spirituale di Cristo e della Chiesa. Se intendono il termine "segno "nel senso di un contrassegno che ci sia stato proposto da Dio a sostegno della nostra fede non colgono nel segno. Se intendono semplicemente parlare di una similitudine, dimostrerò che la loro argomentazione è del tutto falsa. San Paolo dice: "Come una stella differisce dall'altra in luminosità, così sarà della risurrezione dei morti " (1 Co. 15.41) , ecco un sacramento! Cristo dice: "Il regno dei cieli è simile ad un granel di senape " (Mt. 13.32) , ecco un altro sacramento! E ancora: "Il regno dei cieli è simile a lievito " (Mt. 13.33) , eccoci un terzo sacramento. Isaia dice: "Il Signore condurrà il suo gregge come un pastore " (Is. 30.2) , ecco il quarto. In un altro testo: "Il Signore verrà innanzi come un eroe " (Is. 42.13) , ecco il quinto. Dove andremo a finire! Secondo un ragionamento di questo genere tutto si potrebbe considerare sacramento. Quante sono le similitudini e le parabole nella Sacra Scrittura, altrettanti dovrebbero essere i sacramenti. Il furto stesso sarebbe sacramento in quanto è scritto: "Il giorno del Signore sarà come un ladro " (1 Ts. 5.2). Chi è in grado di sopportare le assurde divagazioni di questi sofisti? Ammetto che sia buona cosa, ogni qualvolta ci troviamo in presenza di una vigna rammentarci le parole di nostro Signore: "Io sono la vigna, voi siete i tralci, il Padre mio è il vignaiolo " (Gv. 15.5); e quando incontriamo un pastore ricordarci quell'altra parola di Cristo quando afferma: "Io sono il buon pastore; le mie pecore ascoltano la mia parola " (Gv. 10.11-27). Ma se venisse in mente a qualcuno di trasformare queste similitudini in sacramenti sarebbe il caso di mandarlo dal medico. 35. Allora ricorrono alla parola di san Paolo nella quale, essi dicono, il termine sacramento è riferito al matrimonio. Il testo è il seguente: "Chi ama sua moglie ama se stesso. Nessuno ebbe mai in odio la sua carne; anzi la nutre e la cura teneramente come anche Cristo fa per la Chiesa. Poiché siamo membra del suo corpo, della sua carne e delle sue ossa; perciò l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno una stessa carne. Questo sacramento è grande: dico riguardo a Cristo e alla sua Chiesa " (Ef. 5.29-32). Trattare in questo modo la Scrittura significa però confondere il cielo e la terra. San Paolo vuole mostrare ai mariti che devono avere per le loro mogli un particolare affetto e per questo offre loro l'esempio di Cristo. Come egli ha sparso tutti i tesori della sua bontà Per la Chiesa, cui si era unito, così ognuno manifesti, nei riguardi della propria moglie, un affetto simile. Egli prosegue affermando: "Chi ama sua moglie ama se stesso come Cristo ha amato la Chiesa ". Ora per dimostrare in che modo Cristo abbia amato la Chiesa come se stesso, anzi come si sia unito alla Chiesa, sua sposa, riferisce a lui ciò che Mosè dice esser stato detto di Adamo. Quando nostro Signore ebbe condotto Eva davanti ad Adamo, questi, sapendola formata dalla sua costola, dice: "Questa è ossa delle mie ossa e carne della mia carne " (Ge 2.23). San Paolo dichiara che tutto ciò è stato adempiuto in Cristo e in noi quando dice che siamo membra del suo corpo, della sua carne, delle sue ossa, anzi siamo una carne con lui, egli conclude esclamando: "Questo è un gran mistero! ". Ad evitare che l'ambiguità dell'espressione potesse ingannare qualcuno aggiunge espressamente che non intende riferirsi alla comunione carnale dell'uomo e della donna, ma all'unione spirituale di Cristo e della sua Chiesa. In realtà è un grande mistero che Cristo abbia accettato gli fosse tolta una costola da cui noi fossimo formati, cioè essendo forte volle essere debole affinché per la sua potenza, fossimo fortificati, sì che non viviamo soltanto una vita nostra, ma egli vive in noi. 36. Sono stati tratti in inganno dal termine "sacramento "che si legge nella traduzione comune. È forse questa una buona ragione perché tutta la Chiesa debba subire le conseguenze della loro ignoranza? San Paolo ha adoperato il termine "mistero ", che significa cosa segreta; il traduttore, pur potendo ricorrere alla traduzione letterale e tradurre "segreto ", o trascrivere letteralmente, considerando il fatto che fra i Latini il termine era abbastanza frequente ha preferito ricorrere al termine sacramentum senza dargli però un significato diverso da quello che san Paolo aveva dato con il termine greco mistero; e poi inveiscono contro lo studio delle lingue; abbagli di questo tipo, in questioni così facili e chiare si prendono solo perché si ignorano le lingue. Perché poi fermarsi tanto sul termine sacramento in questo testo, e lasciarlo passare, senza dargli peso, quando fa loro comodo? Il traduttore infatti l'ha adoperato sia nella prima lettera a Timoteo (1 Ti. 3.9) , che in questa stessa epistola agli Efesini (Ef. 1.9) , con il significato di mistero. Perdoniamo loro questo errore, dovrebbero però avere chiara memoria delle loro menzogne per non cadere in contraddizione con se stessi. Infatti, dopo aver onorato il matrimonio Cl. Titolo di sacramento, lo definiscono impudicizia, sozzura carnale; questa è leggerezza e incostanza. Non è però assurdo rifiutare ai preti un sacramento? Qualora affermino di proibire non il sacramento ma solo il piacere dell'atto carnale neppure questo vale come scappatoia. Essi stessi insegnano infatti che l'atto carnale è un elemento sacramentale e l'unione che abbiamo con Cristo è figurata in esso in conformità alla natura, in quanto l'uomo e la donna sono fatti una sola carne unicamente nell'unione carnale. Alcuni di costoro hanno riscontrato in questo caso due sacramenti: uno concernente l'unione di Dio e dell'anima nel rapporto tra fidanzato e fidanzata, e uno da riferirsi a Cristo e alla Chiesa nel rapporto tra marito e moglie. Comunque sia l'atto carnale è a loro giudizio sacramento, non era perciò lecito precluderlo ad un cristiano, a meno di non affermare che i sacramenti dei cristiani sono così diversi da non poter coesistere uno con l'altro. Un altro inconveniente della loro dottrina è costituito da questo fatto: affermano che nei sacramenti viene conferita la grazia dello Spirito Santo, riconoscono che l'atto carnale è sacramento però negano che in questo atto sussista la presenza dello Spirito Santo. 37. Per evitare di ingannare la Chiesa soltanto in un punto chi potrebbe enumerare la moltitudine di errori, di menzogne, di inganni, di cattiverie che hanno associato a questo sbaglio? Si potrebbe affermare che dando al matrimonio carattere sacramentale hanno solo cercato una scusa per ogni abominazione. Poiché avendo ottenuto vittoria su questo punto hanno avocato a se l'istruttoria delle cause matrimoniali, trattandosi di cose sacre a cui non potevano metter mano i giudici laici. Inoltre a garantire la loro tirannia hanno stabilito leggi che risultano per un verso cattive nei confronti di Dio e per l'altro ingiuste nei riguardi degli uomini, ad esempio: I matrimoni contratti fra giovani sotto la tutela dei genitori possono considerarsi validi e irrevocabili anche quando siano contratti senza il consenso dei suddetti; non sia lecito contrarre matrimonio fra cugini fino al settimo grado; infatti in quello che per loro è quarto grado, secondo il retto intendimento del Diritto risulta essere il settimo; e di quelli che siano stati contratti in questa forma siano sciolti ed annullati. Inventano così a loro piacimento gradi di parentela contrari alle leggi di tutte le nazioni e allo stesso ordine di Mosè (Le 18.6). Non sia lecito ad un uomo che abbia ripudiato sua moglie adultera risposarsi. I genitori spirituali, cioè il padrino e la madrina, non possano contrarre fra loro matrimonio. Non siano celebrate nozze dalla Settuagesima sino all'ottava di Pasqua né durante le tre settimane anteriori alla nascita di san Giovanni (che ora vengono computate prendendo quella di Pentecoste e le due precedenti ) , né dall'avvento all'epifania e infinite altre leggi simili che sarebbe impossibile esaminare. È giunto però il momento di allontanarci dal loro fango, in cui ci siamo soffermati più a lungo di quanto avrei voluto. Penso tuttavia aver reso qualche servizio smascherando, in parte, la stupidità di questi asini.
CAPITOLO 20 IL GOVERNO CIVILE 1. Avendo noi stabilito due sfere nell'uomo, e avendo già parlato della prima, costituita dall'anima e dall'uomo interiore e concernente la vita eterna, si richiede, a questo punto, che trattiamo altresì della seconda, che concerne solo lo stabilirsi di una giustizia civile e la riforma dei costumi. Infatti, quantunque un tale argomento sembri estraneo alla teologia e alla dottrina della fede che trattiamo, il suo esame mostrerà che a ragione noi lo congiungiamo a quella. Soprattutto considerando il fatto che si incontra oggi gente barbara e forsennata, che vorrebbe rovesciare ogni autorità quantunque sia stabilita da Dio. D'altra parte gli adulatori dei prìncipi, magnificandone, Senza misura né limite, la potenza, li fanno quasi gareggiare con Dio. Cosicché non prendessimo l'iniziativa di refutare questi due errori la pienezza della fede ne sarebbe offuscata. Anzi risulta molto utile, in vista della edificazione nel timore di Dio, il sapere quanto egli sia buono nel provvedere in modo così adeguato al genere umano, affinché siamo incitati a servirlo per testimoniare che non siamo ingrati o insensibili. Prima di inoltrarci in questa materia occorre anzitutto ricordare la distinzione fatta sopra per evitare che ci accada ciò che comunemente accade a molti: confondere avventatamente due cose del tutto diverse. Costoro infatti, quando odono essere promessa nell'evangelo una libertà che non riconosce fra gli uomini né re né maestri ma si attiene solamente a Cristo, non riescono a comprendere qual sia il frutto della loro libertà fintantoché esiste, posta su di loro, una qualche autorità. Pensano che le cose non possano procedere innanzi se il mondo intero non assume una nuova struttura in cui non esistano leggi, magistrati, giudizi o cose simili che considerano limitazioni della loro libertà. Colui però che saprà discernere tra il corpo e l'anima, tra questa vita presente, transitoria, e la vita a venire che è eterna, intenderà parimenti con sufficiente chiarezza che il Regno spirituale di Cristo e l'ordine civile sono cose assai diverse l'una dall'altra. È follia giudaica il ricercare, o il limitare il Regno di Cristo negli elementi di questo mondo; noi perciò giudicando, come apertamente insegna la Scrittura, il frutto che dobbiamo ricevere dalla grazia di Cristo essere spirituale, vigiliamo attentamente per mantenere nei suoi limiti questa libertà, che ci è promessa e ci è offerta in Cristo. Perché lo stesso Apostolo, che ci ordina di stare saldi e non lasciarci sottoporre al giogo della schiavitù (Ga 5.1) , Ci insegnerebbe in un altro testo che i servi non abbiano a preoccuparsi della condizione in cui si trovano (1 Co. 7.21) , per il fatto che la libertà spirituale può assai bene coesistere con una schiavitù civile? In tal senso debbono essere intese le altre parole di lui che seguono: "Nel Regno di Cristo non c'è né Giudeo né Greco, non c'è né schiavo né libero, non c'è né maschio né femmina " (Ga 3.28). Parimenti: "Qui non c'è Greco e Giudeo, circoncisione e incirconcisione, barbaro, Scita, ma Cristo è ogni cosa e in tutti " (Cl. 3.2). Con queste affermazioni egli intende dire che è indifferente la condizione in cui viviamo fra gli uomini o la nazione da cui riceviamo le leggi, visto che il Regno di Dio non consiste in tali cose. 2. Questa distinzione, tuttavia, non ha lo scopo di farci considerare l'ordine civile realtà contaminata e non concernente un cristiano. È bensì vero che gli utopisti, in cerca di sregolata licenza, adoperano oggi questo linguaggio: poiché siamo, mediante Cristo, morti agli elementi di questo mondo e siamo trasportati nel Regno di Dio, fra i celesti, è cosa troppo meschina per noi e insegna della nostra eccellenza occuparci di questi problemi immondi e profani, concernenti gli affari del mondo, verso cui i cristiani debbono essere in una condizione di distacco e estraneità. A che servono le leggi, dicono costoro, in mancanza di processi e di giudizi? I giudizi riguardano forse l'uomo cristiano? Quando non è lecito uccidere a che pro avere leggi e tribunali? Come abbiamo ricordato, in altra occasione, questo tipo di regime essere diverso dal Regno spirituale e interiore di Cristo, così occorre, d'altra parte, sapere che non è affatto in contrasto con esso. Quel regno spirituale ci dà, già sulla terra, una anticipazione del Regno celeste e pone, in questa vita mortale e transitoria, qualche gusto della beatitudine immortale e incorruttibile. Scopo di questo governo temporale è invece garantire e mantenere il servizio di Dio nella sua forma esteriore, la pura dottrina, la religione, custodire la Chiesa nella condizione della sua integrità, educare ad ogni sentimento di rettitudine, richiesta dalla convivenza umana, gli uomini per il tempo che abbiamo a vivere fra loro, adeguare i nostri costumi ad una giustizia civile, mantenere l'intesa degli uni con gli altri, stabilire e conservare una pace e una tranquillità comune; si tratta di cose superflue, Lo ammetto, nella misura in cui il Regno di Dio, così come è ora in noi, annulla l'interesse della vita presente. Ma se tale è la volontà del Signore che camminiamo sulla terra, pur bramando la nostra vera patria, e tali ausili risultano necessari al nostro viaggio, coloro che li vogliono sottrarre all'uomo gli sottraggono la sua stessa natura umana. La loro tesi, secondo cui dovrebbe esistere nella Chiesa di Dio una perfezione tale da costituire la sola legge valida, è una insensata fantasia in quanto tale perfezione non si potrà mai trovare nella comunità umana. L'insolenza dei malvagi è infatti sì grande e la cattiveria sì ribelle che a fatica la si può frenare con la severità delle leggi, che potremmo aspettarci da loro se venisse concessa licenza assoluta al male quando a stento, si possono trattenere con la forza? 3. Avremo occasione più opportuna di parlare in seguito della utilità di un governo civile. Per il momento ci preme solo fare intendere come sia somma barbarie volerlo rifiutare non essendo meno necessario fra gli uomini del pane, dell'acqua, del sole e dell'aria, e la sua dignità essendo assai maggiore di quelli. Non si rende infatti solo necessario affinché gli uomini mangino, bevano, siano garantiti nella loro esistenza, quantunque tutte queste cose siano implicite facendo sì che possano vivere insieme, ma affinché l'idolatria e la bestemmia contro il nome di Dio e la sua verità, e altri scandali contro la religione, non si diffondano pubblicamente e non siano sparsi fra i popoli, affinché non sia turbata la tranquillità pubblica, siano tutelati i beni di ognuno, i rapporti umani avvengano senza danno o frode e regnino fra gli uomini onestà e modestia, affinché, insomma, si manifesti fra i cristiani una forma evidente di religione e si attui fra gli uomini un rapporto di umanità. Non deve sembrar strano che affidi ora al potere civile il compito di stabilire saggi ordinamenti in materia di religione, compito che più sopra sembravo aver sottratto alla autorità degli uomini. Poiché in questo caso non attribuisco agli uomini il diritto di creare, a loro piacimento, leggi concernenti la religione e il modo di adorare Dio più di quanto facessi prima, pur approvando una legislazione civile che vigili affinché la vera religione contenuta nella legge di Dio non sia pubblicamente violata e contaminata da una licenza che permanga impunita. Esaminando nei dettagli i singoli elementi del governo civile, questo esame aiuterà i lettori ad intendere quale concezione se ne debba avere. Tre sono gli elementi: il primo riguarda il magistrato nella veste di custode e di tutore della legge, il secondo è la legislazione in base alla quale il magistrato governa; il terzo è il popolo che deve essere governato dalla legge e obbedire al magistrato. Vediamo dunque in primo luogo la condizione del magistrato, se cioè la sua vocazione sia legittima e approvata da Dio, quale sia il suo compito, quali siano i limiti della sua autorità. In secondo luogo con quali leggi debba essere retto un governo cristiano. Infine in che modo il popolo si possa giovare delle leggi e quale obbedienza debba ai suoi superiori. 4. Riguardo alla condizione del magistrato, nostro Signore non ha solo attestato che essa gli risulta accettevole, ma, fatto più importante, ne ha sottolineato la dignità in modo singolare con titoli eminenti. Lo mostra, in sintesi, il fatto che tutti coloro che sono costituiti in un posto di preminenza sono chiamati dèi (Es. 22.8; Sl. 82.1-6) , titolo da non valutarsi privo d'importanza, con il quale è anzi provato che hanno ricevuto mandato da Dio e autorità e rappresentano appieno la sua persona essendone in qualche modo vicari. Non è questa una glossa di nostra invenzione ma l'interpretazione stessa di Cristo: "Se la Scrittura ", egli dice, "chiama dèi coloro ai quali la Parola di Dio è stata diretta. . . " (Gv. 10.35). Che significa questo se non che hanno incarico e missione da Dio per servirlo nel loro ufficio, e (come dicevano Mosè e Giosafat ai giudici che istituivano su ognuna delle città di Giuda ) per esercitare la giustizia non in nome degli uomini, ma in nome di Dio? (De 1.16; 2). Lo stesso concetto afferma la sapienza di Dio per bocca di Salomone: per mezzo suo regnano i re, esercitano la giustizia i magistrati, i prìncipi mantengono la loro autorità e i giudici della terra giudicano rettamente (Pr 8.14-16). Questo equivale ad affermare che, non in virtù della perversità umana, re e magistrati hanno in terra la loro autorità, ma che questa deriva dalla provvida e santa decisione di Dio, cui piace governare gli uomini in questo modo. È quanto dimostra chiaramente san Paolo quando annovera la presidenza fra i doni di Dio (Ro 12.8) , che essendo distribuiti diversamente agli uomini devono essere impiegati all'edificazione della Chiesa. Poiché, quantunque egli parli in quel testo dell'assemblea degli anziani ordinati nella Chiesa primitiva, per vegliare sulla pubblica disciplina, ufficio che nella epistola ai Corinzi egli chiama "doni di governo " (1 Co. 12.28) , tuttavia, essendo l'autorità civile istituita allo stesso fine, è indubbio che egli ci raccomanda ogni forma di legittima autorità. Egli lo dimostra, ancor più chiaramente, quando affronta direttamente questo argomento. Insegna infatti che tutte queste autorità sono ordinate da Dio e non ve n'è alcuna che non sia da lui stabilita (Ro 13.1). Inoltre che i prìncipi sono ministri di Dio, per onorare coloro che fanno il bene e manifestare la vendetta della sua giustizia contro quelli che agiscono male.
A questo punto va fatta menzione dell'esempio di quei santi personaggi, dei quali alcuni hanno ottenuto dei regni, quali Davide, Giosia, Ez.chia, altri autorità e responsabilità in regni, come Giuseppe e Daniele, altri la guida di un popolo libero come Mosè, Giosuè e i giudici, la cui condizione fu accettevole a Dio, come egli stesso ha dichiarato. Non sussiste perciò alcun dubbio che la condizione di superiorità civile rappresenti non solo una vocazione santa e legittima davanti a Dio, ma sia anche vocazione sacra e onorevole fra tutte. 5. Coloro che vorrebbero vedere gli uomini vivere alla rinfusa, come sorci nel pagliaio replicano che, anticamente, furono stabiliti re ed autorità sul popolo ebraico perché questi era ribelle, ma non è oggi confacente alla perfezione recata da Gesù Cristo nel suo Vangelo essere tenuti in tale schiavitù. Così dicendo rivelano non solo la loro stupidità ma altresì il loro orgoglio diabolico vantandosi di possedere una perfezione di cui non sono poi in grado di mostrare la pur minima parte. Ma quand'anche fossero gli uomini più perfetti che si possano trovare è facile refutarli. Davide infatti, dopo aver esortato i re e i prìncipi a baciare il Figlio di Dio in segno di omaggio (Sl. 2.12) , Non chiede loro di abbandonare la carica per ridursi ad essere cittadini privati, ma li esorta a sottoporre la loro autorità e il loro potere a nostro Signore Gesù Cristo affinché lui solo abbia preminenza su tutti; similmente Isaia nel promettere che i re saranno i balii della Chiesa e le regine le balie (Is. 49.23) , non degrada il loro onore, anzi li stabilisce con titoli onorifici signori e protettori dei fedeli servi di Dio. Questa profezia infatti concerne la manifestazione di nostro Signore Gesù. Tralascio deliberatamente molte altre testimonianze che si offrono ai lettori soprattutto nel libro dei Salmi. Una affermazione caratteristica si trova però in san Paolo quando egli esorta Timoteo affinché rivolga pubbliche preghiere per i re; egli aggiunge subito dopo questa motivazione: affinché possiamo menare una vita tranquilla e quieta, sotto di loro, in ogni pietà e onestà (1 Ti. 2.2). È evidente che con queste parole li considera tutti tutori e custodi della situazione della Chiesa. 6. A questo debbono costantemente pensare i magistrati poiché questa considerazione può risultare per essi di incitamento a compiere il proprio dovere, e di straordinaria consolazione nell'aiutarli ad affrontare, con pazienza, le difficoltà e le noie che debbono incontrare nel loro ufficio. A quanta integrità, avvedutezza, clemenza, moderazione e innocenza si dovranno sentir vincolati quando si considerino ordinati ministri della giustizia divina! Avranno il coraggio di tollerare la presenza di qualche iniquità nella loro sede quando la sapranno essere trono dell'iddio vivente? Avranno l'ardire di pronunciare inique sentenze dalla loro bocca quando la sapranno destinata ad essere organo della verità di Dio? Potranno sottoscrivere con libera coscienza qualche decreto ingiusto con la mano che sapranno essere da Dio ordinata a redigere le sue sentenze? Quando insomma abbiano coscienza di essere sostituti di Dio si consacreranno con tutte le forze e si applicheranno con tutto l'ingegno per offrire in ogni loro azione agli uomini l'immagine della provvidenza, della bontà, della giustizia divina. Anzi debbono avere costantemente dinanzi agli occhi il fatto che Dio maledice tutti coloro che nell'opera sua lavorano in modo fiacco, quando si tratta di attuare la sua punizione (Gr. 48.10) , a maggior ragione saranno dunque maledetti coloro che, in così giusta vocazione, si comportino slealmente. Perciò Mosè e Giosaphat, volendo esortare i giudici al compimento del proprio dovere, hanno considerato che l'argomento più adatto a commuovere il loro cuore fosse quello summenzionato cioè: badate a ciò che farete, perché amministrate la giustizia non per conto di uomini ma per conto di Dio il quale sarà con voi negli affari della giustizia. Ora il timor dell'eterno sia su voi, agite con circospezione perché per l'Eterno, che è l'Iddio vostro, non esiste perversità (De 1.16; ). In un altro testo è detto che Dio si è seduto in compagnia degli dèi e in mezzo agli dèi esercita il suo giudizio (Sl. 82.1). Questo deve toccare il cuore di coloro che hanno una qualche responsabilità. Perché sono avvertiti, in tal modo, del fatto che sono luogotenenti di Dio a cui dovranno rendere conto della loro carica (Is. 3.14). A ragione debbono essere spronati da questo ammonimento. Poiché se commettono qualche errore non recano solo ingiuria agli uomini, che ingiustamente opprimono, ma anche a Dio di cui corrompono i sacri giudizi. Hanno d'altra parte motivo di grande consolazione considerando che la loro vocazione non è realtà profana né estranea al servizio di Dio ma, anzi, è una santa missione visto che essi compiono ed eseguono l'ufficio di Dio stesso. 7. Al contrario coloro che, dimostrandosi insoddisfatti di tante testimonianze scritturali, criticano questa santa vocazione quasi si trattasse di cosa assolutamente contraria alla religione e alla pietà cristiana, che fanno se non deridere Dio stesso, su cui ricadono tutti i rimproveri che si muovono al suo ministero? Certo questo tipo di persona non respinge solo i superiori perché non ne tollera il governo, ma, in realtà, rifiuta Dio stesso. Se quanto nostro Signore ebbe a dire del popolo di Israele è vero: che cioè non potevano tollerare che egli regnasse su di loro avendo rifiutato l'autorità di Samuele (1 Re 8.7) , perché questo non dovrebbe risultare oggi altrettanto vero per coloro che prendono la libertà di sparlare contro tutte le autorità stabilite da Dio? Obbiettano che nostro Signore ha proibito ai credenti di occuparsi di affari di governo o di autorità, dicendo ai discepoli che i re dominano sui popoli ma non deve essere così fra di loro dove, anzi, colui che è primo deve diventare il più piccolo (Lu 22.25-26). Che bella esegesi! Una disputa era sorta fra i discepoli per sapere chi fra loro fosse rivestito di maggiore dignità. Nostro Signore per reprimere questa vana ambizione dichiara che il loro ministero non è paragonabile ad un regno, in cui un uomo ha autorità in veste di capo sugli altri. In che, vi chiedo, questo paragone sminuisce la dignità dei re? Anzi, che cosa dimostra in sostanza se non che la condizione di un re non è il ministero apostolico? Quantunque poi vi siano tipi e forme diverse di autorità, esse non differiscono però sotto questo profilo: le dobbiamo accogliere indifferentemente tutte quali ministri ordinati da Dio. Infatti Paolo ha inteso parlare di tutte queste forme diverse quando ha detto che non vi è autorità se non da Dio (Ro 13.1). Proprio quella che risulta meno gradita all'uomo è raccomandata fra tutte in modo particolare: cioè la signoria e il dominio di uno solo. In quanto implica la servitù di tutti, eccetto quell'unico, al cui piacere gli altri sono sottomessi, questo tipo di autorità non è stato mai gradito a tutte le persone di animo nobile e grande. La Scrittura, d'altra parte, per ovviare a questa malvagità dei giudizi umani, afferma esplicitamente che, per un atto di provvidenza della divina sapienza, i re governino, e comanda in modo speciale di onorarli (Pr 8.15; l Pietro.2.17). 8. È certo vana occupazione per uomini privati, che non hanno alcuna autorità per assumere decisioni, il disputare intorno alla forma migliore di governo. È inoltre pericoloso stabilirla in forma astratta in quanto l'elemento determinante è dato dalle circostanze. E quand'anche si stabilisca un paragone tra le forme di governo facendo astrazione delle circostanze, non risulterebbe affatto semplice discernere qual sia la più conveniente tanto i vantaggi ne sono equivalenti, ognuno nel proprio settore. Si annoverano tre tipi di governo civile: la monarchia, cioè il governo di uno solo, si chiami re, duca o in altro modo; l'aristocrazia, regime fondato sul governo dei capi e della nobiltà: la democrazia, governo popolare in cui ogni membro del popolo ha potere. È bensì vero che un re, o un'altra persona che detenga il potere, è facilmente condotta alla tirannia. Ma è altrettanto facile che i nobili al potere si accordino per creare un governo ingiusto; e ancor più frequente il caso di sedizioni laddove il popolo detiene il potere. Paragonando le tre forme di governo che ho elencate, risulta però da preferirsi il potere nelle mani di uomini che sappiano governare mantenendo la libertà fra il popolo; non in se stessa, ma perché Si verifica raramente, ed è quasi un miracolo, che i re sappiano moderare la loro volontà sì da non allontanarsi mai dalla giustizia e dalla rettitudine. Li d'altra parte raro che abbiano la prudenza e l'intelligenza necessaria per saper discernere ciò che è bene e utile. Perciò, in mancanza di uomini adatti e a causa del peccato, la forma di autorità maggiormente accettabile e più sicura risulta essere quella di un governo costituto da parecchie persone che si aiutino a vicenda e si ammoniscano nell'esercizio del loro compito; e qualora uno si innalzi oltre il dovuto siano gli altri a fungere da censori e da guida nei suoi riguardi. È questa infatti una forma di governo che è stata dimostrata valida dall'esperienza, e che Dio stesso ha confermato, con la sua autorità, ordinandone l'attuazione nel popolo d'Israele, durante il periodo in cui ha voluto mantenerlo nella condizione migliore finché non ha prodotto in Davide l'immagine di nostro Signore Gesù. In realtà, la forma migliore di governo riscontrandosi laddove esiste una libertà ben regolata e destinata a durare considero che chi si trovi in tale condizione deve ritenersi felice e compiere il suo dovere, impegnandosi a mantenerla. Anzi i reggitori di un popolo libero debbono applicare ogni loro sforzo acciocché la libertà del popolo, di cui sono responsabili, non svanisca in alcun modo nelle loro mani. Che anzi, qualora si dimostrassero svogliati nel mantenerla, o tollerassero che essa decada, sarebbero da considerarsi traditori e sleali verso la patria. Ma se coloro che, per volontà di Dio, vivono sotto dei prìncipi, e sono loro sudditi naturali, trasferiscono il potere a se tentando di attuare una qualche rivolta o un cambia Mento, un tentativo del genere non si dovrà considerare solo assurdo e vano ma altresì deplorevole e dannoso. Inoltre, non limitando la nostra attenzione ad una sola città, ma prendendo in esame il mondo tutto, e considerando molti paesi, constateremo che non è accaduto senza volere della provvidenza divina che regioni diverse siano rette da diverse forme di governo. Come infatti gli elementi non possono mantenersi se non in proporzioni e a temperature ineguali, così i governi non si possono ben mantenere se non sulla base di certe ineguaglianze. Né è necessario dimostrare ogni cosa a coloro cui è norma sufficiente la volontà di Dio. Se infatti la sua volontà è di stabilire sui regni dei sovrani e sui popoli liberi dei governi di qualsivoglia altro tipo, a noi spetta soltanto il sottoporci e l'obbedire a qualsiasi autorità ci governi nel luogo dove viviamo. 9. Occorre, a questo punto, stabilire brevemente qual sia l'ufficio dei magistrati, secondo quanto è scritto nella Parola di Dio, ed esaminare in che consista. Quand'anche la Scrittura non insegnasse che detto ufficio concerne le due Tavole della Legge, saremmo in grado di ricavarlo dagli scritti profani. Poiché non ve n'è alcuno fra essi che, dovendo illustrare il compito dei magistrati nello stabilire le leggi e ordinare il governo, non abbia cominciato dalla religione e dal servizio di Dio. Così facendo tutti hanno confessato che non si può stabilire felicemente alcun regime politico, in questo mondo, senza provvedere anzitutto a che Dio sia onorato, ed emanare leggi che, tralascino l'onore di Dio, procurando il solo bene degli uomini significa mettere l'aratro davanti ai buoi. Poiché dunque la religione ha occupato il primo e il sommo posto nell'interesse dei filosofi, e questa priorità è stata costantemente osservata, di comune accordo, fra i popoli, prìncipi e magistrati cristiani dovrebbero avere vergogna della loro ottusità qualora non Si consacrassero con impegno a questo compito. Già abbiamo mostrato che, a ragione, questa carica è loro commessa, in modo speciale, da Dio ed essendo suoi vicari e suoi rappresentanti si debbono impegnare al mantenimento del suo onore governando per sua grazia. I buoni sovrani, da Dio eletti, sono lodati in modo particolare nella Scrittura per aver ripristinato il servizio di Dio quando era corrotto o decaduto, ovvero per la cura con cui hanno provveduto a che la vera religione prosperasse e fosse mantenuta nella sua integrità. Al contrario la storia sacra annovera fra le lacune, causate dalla mancanza di un buon governo, le superstizioni che avevano il sopravvento perché Israele risultava privo di re e ognuno faceva quello che gli pareva (Gd. 21.25). Risulta perciò facile smascherare la follia di coloro che vorrebbero che i magistrati, calpestando Dio e la religione, si occupassero esclusivamente di far giustizia agli uomini. Dio avrebbe stabilito delle autorità per risolvere, nel suo nome, problemi e contestazioni concernenti i beni materiali dimenticando l'essenziale: essere cioè servito secondo le norme della sua legge. La brama di innovazioni e sommovimenti radicali, senza disciplina, spinge cotesti spiriti ribelli e insofferenti, a sopprimere, qualora fosse loro possibile, ogni giudice in terra che li tenga a bada. Per quanto concerne la seconda Tavola, Geremia ammonisce i re ad esercitare la giustizia e liberare colui che è oppresso dalla mano del calunniatore, a non violare il diritto dello straniero, della vedova e dell'orfano, a non commettere ingiustizia alcuna, a non spargere sangue innocente (Gr. 22.3). Con questo concorda l'esortazione del Salmo 82: Fare giustizia al povero e al bisognoso, soccorrere i poveri e i miseri, sottrarre i deboli e i poveri dalla mano dell'oppressore. Parimenti Mosè ordina ai governanti, che aveva stabilito al posto suo, di ascoltare la causa dei loro fratelli, giudicare con giustizia le questioni che si potevano avere Cl. Fratello o con lo straniero, non avere riguardi personali nei giudizi ma dare ascolto al piccolo come al grande; non temere alcun uomo poiché il giudizio appartiene a Dio (De 1.16). Tralascio quanto sta scritto in un altro testo: che i re non abbiano gran numero di cavalli, non lascino prendere i loro cuori dall'avarizia e non si innalzino sul loro prossimo, orgogliosamente, ma consacrino tutto il tempo della loro vita alla meditazione assidua della legge di Dio (De 17.16). Parimenti: Che i giudici non abbiano riguardi personali né accettino donativi (De 16.19). Questo esame dei problemi attinenti all'ufficio dei magistrati non ha tanto lo scopo di istruirli riguardo ai loro compiti, quanto illustrare agli altri chi sia un magistrato e a che scopo sia stato da Dio istituito. Constatiamo dunque che i magistrati sono stati stabiliti in veste di tutori e di garanti della quiete, dell'ordine, della moralità e della pace pubblica (Ro 13.3) e si debbono consacrare al mantenimento del benessere e della pace comune. Davide promette di essere esempio di queste virtù, quando sarà innalzato al trono, cioè di non dissimulare i peccati e le iniquità ma odiare i malvagi oppressori e orgogliosi e non ricercare se non consiglieri giusti e fedeli (Sl. 101). Ora i magistrati non possono assolvere questi compiti se non difendendo i buoni dagli attacchi dei malvagi e recando aiuto agli oppressi; sono perciò rivestiti di autorità per reprimere e punire severamente i malfattori che rischiano di turbare la pace pubblica con la loro malvagità. Constatiamo infatti, per esperienza, la verità del detto di Solone: ogni ordine sociale consiste in due elementi: la ricompensa dei buoni e la punizione dei malvagi, eliminate le quali cose risulta distrutta e annullata ogni disciplina nella società umana. Molti hanno scarso interesse nel procacciare il bene quando non vedono che la virtù è ricompensata. D'altra parte non si può tenere a freno l'iniziativa dei malvagi se non vedono la vendetta e la punizione essere preparata. Questi due elementi sono perciò inclusi nell'esortazione del profeta ai re e alle altre autorità di fare giustizia e giudicare (Gr. 21.12; 22.3). "Giustizia "consiste nel garantire il diritto agli innocenti, preservarli, difenderli, sostenerli e liberarli. "Giudicare "significa resistere alla presunzione dei malvagi, reprimere la loro violenza e punire i loro misfatti. 10. A questo punto sorge però un problema difficile e complesso: se cioè non sia vietato in modo assoluto ad un credente di uccidere. Poiché se Dio lo proibisce nella sua Legge (Es. 20.13; De 5.17; Mt. 5.21) e il profeta predice, riguardo la Chiesa di Dio, che in essa non si commetterà alcun male (Is. 11.9; 65.25) , possono i magistrati spargere sangue umano senza commettere peccato? D'altra parte se consideriamo che il magistrato, nel punire, non compie nulla di per se, ma dà semplicemente esecuzione agli stessi giudizi di Dio, questo scrupolo non costituisce un radicale impedimento. È bensì vero che la legge di Dio vieta di uccidere, anzi, proprio affinché gli omicidi non rimangano impuniti, il sommo legislatore pone la spada in mano ai suoi ministri affinché la usino contro di loro. Non si addice ai credenti il recare danno o offesa al prossimo. Non si può però considerare un recar danno o offesa il vendicare, per ordine di Dio, le offese patite dai buoni. Risulta pertanto facile concludere che, in questo caso, i magistrati non sono sottoposti alla legge comune e, quantunque il Signore vincoli con essa le azioni di tutti gli uomini, non vincola la sua giustizia, che esercita per mano loro. Un principe che vieti a tutti i suoi sudditi di portare armi o ferire alcuno non impedisce ai suoi rappresentanti di attuare la giustizia che ha, in modo particolare, affidato loro. Vorrei risultasse sempre chiaro ai nostri occhi la considerazione che, in questo campo, nulla si compie in base ad una temeraria iniziativa dell'uomo, ma in base all'autorità divina che così vuole, adempiendo la quale non ci si può fuorviare dalla retta via. Considerando questa verità non troveremo nulla da ridire nella punizione pubblica, a meno che non si voglia impedire alla giustizia di Dio di punire il male. Se non è lecito a noi imporre una legge a Dio perché calunniare i suoi ministri? Non portano la spada invano, dice Paolo, essendo ministri di Dio per essere strumenti della sua giustizia e punire coloro che fanno il male (Ro 13.4). Se perciò i prìncipi e le altre autorità hanno coscienza del fatto che nulla risulta più gradito a Dio dell'ubbidienza loro, volendo essere grati a Dio nella pietà, nella giustizia e nell'integrità si impegnino nella correzione e nella punizione dei malvagi. Mosè era certo mosso da questo sentimento quando, sentendosi ordinare dal Signore la liberazione del suo popolo, uccise l'Egiziano (Es. 2.12; At. 7.28). Similmente quando punì l'idolatria del popolo con la morte di tremila uomini (Es. 32.27). Pure Davide risulta mosso da questo zelo quando, sul finire dei suoi giorni, ordinò al figlio Salomone di mettere a morte Joab e Scimei (3Re 2.5-6.8-9). Egli include perciò fra le virtù di un sovrano anche questa: cancellare la presenza dei malvagi sulla terra affinché tutti gli iniqui siano esclusi dalla città di Dio. A questo si riferisce altresì la lode data a Salomone: hai amato la giustizia e odiato l'iniquità. Come è possibile che Mosè, uomo di animo dolce e pacifico, possa essere infiammato di tale crudeltà al punto che, pur avendo le mani insanguinate del sangue di fratelli, non desista dalla strage sino ad aver ucciso tremila uomini? Come può Davide, uomo di tanta mansuetudine nella sua vita privata, dettare, nei suoi ultimi istanti, il testamento così disumano da ordinare al figlio di non accompagnare in pace fino alla tomba la vecchiaia di Joab e Scimei? È indubbio che l'uno e l'altro, nell'eseguire la vendetta ordinata loro da Dio, hanno santificato con questa crudeltà (se così può essere definita ) le loro mani che altrimenti avrebbero macchiate con il perdono. "I re hanno orrore di fare il male "dice Salomone "poiché il trono è reso stabile dalla giustizia " (Pr 16.12). "Il re assiso sul trono dissipa Cl. Suo sguardo ogni male " (Pr 20.8); cioè per punirlo. "Il re savio passa gli empi al vaglio dopo aver fatto passare su loro la ruota " (Pr 20.26). "Si tolga dall'argento le scorie e ne uscirà un vaso per l'artefice; togli l'empio dalla presenza del re e il suo trono sarà reso stabile dalla giustizia " (Pr 25.4). "Chi assolve il reo e chi condanna il giusto sono in abominio all'eterno " (Pr 17.15). "Il malvagio non cerca che ribellione, ma un messaggero crudele gli sarà mandato contro " (Pr 17.2). "Chi dice all'empio tu sei giusto i popoli lo malediranno e le nazioni lo esecreranno " (Pr 24.24). Un'autentica giustizia consiste, per loro, nel punire i malvagi con la spada sguainata, volendo invece astenersi da ogni repressione e mantenere le mani nette, mentre è invece sguainata la spada dei malvagi per commettere omicidi e violenze, lungi dall'essere lodati per la loro bontà e giustizia, si rendono, così facendo, colpevoli di somma ingiustizia. Ritengo tuttavia che non debba esservi in questa giustizia eccesso di violenza e il suo simbolo non debba essere costituito da una forca già rizzata. Non sono fra quelli che intendono favorire una forma di sregolata crudeltà o pretendono che una buona e giusta sentenza non possa essere pronunciata con clemenza, che deve invece essere elemento costante nelle decisioni di un re in quanto rappresenta come dice Salomone, la vera garanzia del trono (Pr 20.28). Qualcuno anticamente ha detto giustamente che è questa la principale virtù del principe. Un magistrato deve evitare due eccessi, recar danno più che rimedio con una severità eccessiva, ovvero, per atteggiarsi ad una assurda e superstiziosa clemenza risultare crudele nella sua umanità abbandonando ogni cosa con leggerezza e causando il danno di molti. Non senza ragione è stato detto anticamente: è difficile vivere sotto un principe che non permette nulla, più difficile ancora risulta però l'esistenza sotto un principe che lascia ogni cosa in decadenza. 2. Essendo a volte necessario ai re e ai popoli intraprendere una guerra per esercitare quella vendetta, in base a quanto detto sopra, possiamo ritenere legittima una guerra avente questo scopo. Se infatti è loro concessa autorità e potenza per salvaguardare la tranquillità dei loro stati e dei loro territori, reprimere le sedizioni di uomini ribelli e nemici della pace, recare aiuto alle vittime della violenza, punire i misfatti, quale motivo è più valido per l'uso di tale autorità che l'abbattere gli sforzi di coloro che recano turbamento, sia alla sicurezza dei singoli che alla quiete pubblica, o che attuano, con spirito sedizioso, sommosse, violenze, oppressioni ed altre male azioni? Se debbono avere funzioni di custodi e difensori della legge è necessario che gli uomini di governo pongano freno agli sforzi di tutti coloro che minacciano, con la loro ingiustizia, l'osservanza delle leggi. Anzi, se a ragione puniscono i briganti, i quali non hanno recato danno se non a poche persone, potrebbero forse lasciare che il brigantaggio devasti una intera regione senza porvi rimedio? Senza rilevanza è la condizione di colui che si avventa sul territorio altrui per commettere saccheggi e delitti, sia re o uomo di bassa condizione. Tutti quelli che agiscono in questo modo debbono essere reputati briganti, e in quanto tali puniti. La stessa natura ci insegna che è dovere del principe usare la spada, non solo per correggere gli errori dei cittadini privati, ma altresì per la tutela dei paesi loro affidati, qualora siano aggrediti. Similmente lo Spirito Santo ci dichiara nella Scrittura che tali guerre sono legittime. 12. Si potrà obiettare che nel Nuovo Testamento non si trova alcuna testimonianza né alcun esempio che dimostri la legittimità della guerra per un cristiano; risponderò in primo luogo che permangono tuttora valide le motivazioni esistenti anticamente e non vi è all'opposto alcun motivo per cui un principe non debba tutelare i propri sudditi. In secondo luogo sono d'avviso che non si debbano cercare dichiarazioni concernenti questo problema nella dottrina degli apostoli, considerando che la loro intenzione è stata quella di insegnare in che consista il Regno spirituale di Cristo e non quella di fornire regolamenti di governo terreni.
Penso infine che si possa ricavare dal Nuovo Testamento il fatto che Gesù Cristo non ha, al riguardo, cambiato nulla con la sua venuta. Se infatti la disciplina cristiana, come dice sant'Agostino, condannasse ogni guerra, san Giovanni Battista, ai soldati che vennero a lui per interrogarlo sulla loro salvezza, avrebbe consigliato di abbandonare le armi e rinunciare in modo assoluto a quella vocazione. Egli ha invece soltanto proibito loro di commettere violenza o torto ad alcuno e ha loro ordinato di accontentarsi del loro salario (Lu 3.14). Ordinando loro di accontentarsi del proprio salario non ha proibito di guerreggiare. I magistrati debbono però evitare di dar corso, sia pure in forma minima, alla loro cupidigia. Anzi, all'opposto, dovendo eseguire una condanna evitino l'ira, l'odio e una severità eccessiva, avendo, come afferma sant'Agostino, compassione di colui che puniscono a causa dei suoi misfatti. E quando occorra prendere le armi contro un nemico, cioè contro briganti armati, non assumano l'iniziativa in modo frettoloso ma, anzi, quando si presenti l'occasione cerchino di evitare questo provvedimento se proprio non sono costretti da impellenti necessità. Dovendo infatti agire meglio dei pagani, fra cui esisteva il detto che la guerra non deve tendere ad altro scopo che procurare la pace, bisogna ricercare tutte le soluzioni prima di ricorrere alle armi. Ogniqualvolta insomma vi sia effusione di sangue i magistrati non debbono lasciarsi trascinare da sentimenti particolaristici ma debbono essere animati da un senso di responsabilità per il bene pubblico; in caso contrario commettono abuso pericoloso della loro autorità, conferita non in vista di un vantaggio personale ma di un servizio reso agli altri. deriva altresì la legittimità delle guarnigioni, delle alleanze e di altre difese civili. Definisco "guarnigioni "le truppe dislocate nelle città limitrofe per la tutela del paese; definisco "alleanze "le federazioni che prìncipi vicini costituiscono in vista dl un aiuto reciproco, qualora scoppiasse qualche disordine nel loro territorio o per resistere insieme a comuni nemici del genere umano. "Difesa civile "è ogni provvedimento che concerne le azioni militari. 13. Mi sembra utile aggiungere ancora, per concludere, un punto: i tributi e le imposte che i prìncipi ricevono sono un reddito loro dovuto, di cui però essi debbono far uso essenzialmente per assolvere il loro ufficio, quantunque sia lecito, è vero, utilizzarlo per mantenere in modo decoroso la condizione personale che può considerarsi, in qualche misura, legato alla dignità del loro incarico. Vediamo infatti che Davide, Ez.chia, Giosia, Giosaphat e altri santi re e similmente Giuseppe e Daniele hanno vissuto in modo lussuoso del bene pubblico, senza scrupolo di coscienza, nella condizione in cui si trovavano posti. Anzi leggiamo in Ez.chiele che grandi possedimenti furono assegnati ai re per ordine di Dio (Ez. 48.21). In questo testo, quantunque sia descritto il regno spirituale di Cristo, è stato scelto tuttavia l'immagine di un regno umano giusto e legittimo. D'altra parte il principe deve ricordarsi che i suoi possedimenti non sono tanto da considerarsi redditi privati, quanto piuttosto mezzi per realizzare il bene pubblico di tutto il popolo come testimonia anche san Paolo (Ro 13.6). Pertanto non ne possono abusare con prodigalità senza recare offesa al popolo, debbono anzi vedere in questi averi il sangue stesso del popolo dl cui sarebbe estrema inumanità non aver rispetto. Debbono inoltre considerare le taglie, imposte e altre forme di tributi un sussidio per le necessità di ordine pubblico, per cui gravare senza motivo la popolazione deve considerarsi atto di tirannia e di saccheggio. Questa impostazione del problema non incoraggia i prìncipi a far spese sconsiderate (non è infatti il caso di accrescere la loro cupidigia già di per se più accesa di quanto dovrebbe ) , ma essendo necessario non prendere iniziative, se non con retta coscienza davanti a Dio, affinché non si giunga a disprezzarne la maestà, osando più di quanto è lecito, è necessario che essi comprendano i loro limiti. Né risulterà superfluo questo insegnamento anche per i cittadini privati, i quali impareranno così a non criticare e condannare le spese dei prìncipi anche quando oltrepassino la misura e le abitudini comuni. 14. Ai magistrati fanno seguito le leggi che si possono considerare veramente quali nervi, o come Cicerone le definisce, seguendo Platone, l'anima di ogni Stato; leggi senza le quali non possono in alcun modo sussistere magistrati e che viceversa sono da questi conservate e mantenute. Non si può pertanto ricorrere ad una espressione più adeguata che quella di chiamare "magistrato muto "le leggi e "legge vivente "il magistrato. Formulando il proposito di illustrare quale debbano essere le leggi che presiedono al governo di uno Stato cristiano non intendo iniziare una lunga discussione riguardo alla legislazione migliore, discorso senza fine che non si addice al nostro scopo. Menzionerò solo, quasi per inciso, quali siano le leggi di cui questo Stato può far santamente uso davanti a Dio e da cui possa essere rettamente governata nel consesso umano. Avrei tralasciato questo problema non vedessi pericolosi errori commettersi al riguardo. Alcuni infatti negano che uno Stato possa essere retto in modo conveniente qualora, abbandonando la legislazione mosaica, sia governata sulla base di leggi comuni alle altre nazioni. Lascio ad altri il compito di valutare quanto sia perniciosa questa opinione e pericolosa. Mi basterà mostrare ora il suo carattere di assoluta falsità e assurdità. Bisogna, in primo luogo, far uso della distinzione tripartita, che si effettua comunemente nella legislazione divina promulgata da Mosè: leggi morali, cerimoniali, giuridiche, Ognuna di queste parti deve fare oggetto di un esame particolare perché si possa intendere rettamente quali ci concernono attualmente e quali no. Nessuno deve però lasciarsi irretire dal fatto che anche la legislazione cerimoniale e giuridica è in qualche modo inclusa in quella morale. Gli antichi, infatti, nel proporre questa distinzione, pur non ignorando che le cerimonie e i giudizi fanno riferimento ai costumi, non le hanno definite morali perché entrambi questi aspetti della Legge si potevano abolire o mutare senza che i costumi risultassero corrotti o depravati, hanno riservato invece l'aggettivo "morale "per quell'aspetto della Legge da cui dipende realmente l'integrità dei costumi. 15. Inizieremo dunque con la legge morale; essendo questa espressa in due articoli, che ordinano di onorare sinceramente Dio con vera fede e pietà sincera, e sentirci legati al nostro prossimo da vero affetto essa risulta norma di giustizia vera ed eterna, stabilita per ogni uomo, che intende conformare la sua vita alla volontà di Dio, qualunque sia il paese in cui abita o il tempo in cui vive. Poiché l'eterna e immutabile volontà di Dio è che lo onoriamo e ci amiamo vicendevolmente. La legislazione cerimoniale ha avuto valore pedagogico per gli Ebrei (Ga 4.4) , è stata cioè una dottrina elementare che nostro Signore ha ritenuto dover dare a quel popolo, come esercizio nel tempo della sua infanzia, sino al tempo della pienezza, in cui fossero manifestate le realtà che erano allora raffigurate solo in ombra. La legislazione giudiziaria data loro per reggere la comunità favoriva l'apprendimento di alcune norme di giustizia ed equità per una vita comune pacifica senza danno reciproco. Ora come l'aspetto cerimoniale, pur appartenendo alla sfera della pietà che rappresenta il primo elemento della legge morale (in quanto educava la Chiesa ebraica al timore di Dio ) , risultava tuttavia distinta dalla vera pietà, parimenti le loro legislazioni giuridiche, pur non avendo altro fine che la conservazione della carità che è stabilita dalla legge di Dio, tuttavia conservava suoi caratteri distinti e non veniva inclusa sotto il comandamento della carità. Come dunque sono state abrogate le cerimonie, mentre la vera pietà e la religione permangono nella loro pienezza, così possono essere cassate e abrogate le leggi giuridiche, senza che i doveri della carità risultino in alcun modo violati. Se questo risulta vero (e di certo lo è ) viene concessa libertà ad ogni nazione di darsi quelle leggi che giudica convenienti, le quali risultino nondimeno commisurate alla legge eterna della carità cosicché, avendo solo forme diverse, raggiungano lo stesso scopo. Non penso debbano considerarsi leggi, usi barbari e bestiali quali il remunerare ladroni con premi, permettere convegni di persone dei due sessi senza distinzione o altre cose ancor più spregevoli ed esecrande, estranee non solo ad ogni norma di giustizia ma altresì ad ogni concetto di umanità. 16. Quanto abbiamo detto sin qui risulterà di facile comprensione se in ogni legge sapremo valutare questi due elementi: la norma giuridica e la giustizia su cui poggia questa norma. Il concetto di giustizia, in quanto elemento naturale, permane sempre identico in ogni popolo. Tutte le leggi del mondo, di qualsiasi natura siano, sono pertanto da ricondursi ad un unico concetto di giustizia. Le costituzioni o ordinanze, in quanto connesse con le circostanze da cui dipendono parzialmente, possono senza inconvenienti, risultare diverse purché tendano tutte egualmente ad uno stesso fine di giustizia. Ora non essendo la legge di Dio, che definiamo morale, se non una testimonianza della legge naturale e della coscienza che nostro Signore ha impresso nel cuore di ogni uomo, non c'è dubbio che in essa sia pienamente manifesta quella giustizia di cui discorrevamo. È necessario pertanto che lo scopo, la norma, il fine di ogni legge sia rappresentato unicamente da questa giustizia.
D'altra parte le leggi che risulteranno adeguate a questa norma, tendenti a questo scopo e saranno mantenute entro questi limiti, non ci debbono dispiacere quand'anche differissero dalla legge mosaica o fra di loro. La legge divina proibisce il furto. Si possono leggere nell'esodo le pene comminate ai ladri nella legislazione ebraica (Es. 22.1-3). Le più antiche leggi di altre nazioni punivano i ladri imponendo loro la restituzione del doppio degli oggetti rubati. Nelle leggi posteriori si è operata una distinzione tra furto palese e furto occulto. Altre hanno previsto pene sino all'esilio, altre alla fustigazione, altre ancora sino alla pena capitale. La legge di Dio proibisce la falsa testimonianza. Un falso testimone veniva punito, fra gli Ebrei, con la stessa pena che avrebbe avuto l'accusato qualora fosse stato condannato (De 19.18-21). In alcune nazioni la pena si limitava alla gogna, in altri però giungeva sino alla forca. La legge di Dio proibisce l'omicidio. Tutte le legislazioni umane, di comune accordo, puniscono con la pena capitale l'omicidio sia pure con forme diverse. Tutte queste legislazioni tendono allo stesso scopo in modi diversi. Tutte infatti sono unanimi nel pronunciare la condanna di quei delitti che sono condannati dalla legge eterna di Dio: l'omicidio, il furto, l'adulterio, la falsa testimonianza con la sola differenza che le pene non risultano identiche, cosa non necessaria e neppur conveniente. Esistono regioni che sarebbero in breve tempo spopolate a causa dei brigantaggi e degli omicidi qualora non applicassero terribili supplizi agli omicidi; e vi sono periodi storici che richiedono un aumento delle pene. Si verificano disordini in una nazione? Bisognerà correggere, con nuovi editti, quei mali che sono soliti verificarsi come conseguenze. In tempo di guerra ogni sentimento di umanità sarebbe dimenticato senza una intensificazione delle punizioni per gli eccessi commessi. Similmente in periodi di peste e di carestie ogni cosa sarebbe messa sossopra se non venisse attuata una maggiore severità. Vi sono vizi nazionali, a cui una nazione è più incline, che è necessario reprimere con maggior severità. Chi si dimostra risentito per questa diversità, atta a mantenere l'osservanza della legge di Dio, non dovrebbe essere considerato individuo nocivo e invidioso del bene pubblico? L'obiezione che alcuni sono soliti fare, secondo cui si reca ingiuria alla legge di Dio data da Mosè quando, considerandola abrogata, le si preferiscono altre leggi è troppo frivola per dover essere presa in considerazione. Le legislazioni, infatti, che tutti i governi hanno istaurato nei loro stati non sono preferite a quella mosaica in quanto migliori, ma sulla base delle condizioni e delle circostanze dettate dal tempo, il luogo, la situazione. Inoltre essa non è abrogata o annullata visto che non è mai stata stabilita per i Gentili. Nostro Signore non l'ha data per mano di Mosè perché fosse pubblicata a tutte le nazioni, e osservata in tutti i paesi, ma, avendo accolto il popolo ebraico sotto la sua particolare tutela e protezione e sotto il suo governo, ha voluto legiferare anche in modo particolare e come compete ad un buon e saggio legislatore ha posto, nello stabilire ogni legge, una singolare attenzione al bene di quel popolo. 17. Ci rimane da rispondere ora all'interrogativo che avevamo posto per ultimo: in che modo la comunità dei credenti possa valersi delle leggi, dei tribunali e dei magistrati; donde nasce anche un altro interrogativo: in che onore i superiori debbano essere tenuti da parte dei privati cittadini, e quali siano i limiti dell'obbedienza loro dovuta. Molti considerano la funzione del magistrato inutile, fra cristiani, non essendo loro lecito fare ricorso alla magistratura in quanto ogni vendetta, violenza, processo è proibito ad un credente. Al contrario, dato che san Paolo attesta chiaramente che i magistrati sono ministri di Dio per il bene (Ro 13.4) , dobbiamo ritenere che è volontà di Dio che la loro autorità e il loro aiuto ci proteggano e tutelino dalla cattiveria e dall'ingiustizia dei malvagi e ci sia possibile vivere in pace sotto la loro salvaguardia. Invano Dio li avrebbe dati, per nostra tutela, qualora non ci fosse lecito ricorrere a questo vantaggio e a questo beneficio; ne consegue evidentemente che possiamo ricorrere al loro aiuto senza commettere peccato. Siamo in presenza di due tipi di persone. Vi sono di quelli che ardono dal desiderio di litigare e non sono soddisfatti se non quando si trovano impegnati in una causa con qualcuno. Anzi, iniziano un processo mossi da odio implacabile e da una disordinata brama di recar danno e ottenere vendetta. Conducono innanzi le loro cause con testardaggine ostinata sino alla rovina dei loro avversari. Tuttavia, per non sembrare agire senza rettitudine, mascherano la loro perversità sotto veste di giustizia. Se è lecito ad ognuno costringere il prossimo in tribunale per ottenere giustizia non ne consegue che sia lecito odiarlo e volerlo danneggiare e perseguitarlo, senza misericordia, in modo ostinato. 18. Imparino dunque costoro la massima che dice: i tribunali sono legittimi per quelli che ne usano rettamente. Usare rettamente significa per il postulante questo: essendo ingiustamente offeso o leso nella sua persona o nei suoi beni egli viene a porsi sotto la tutela del magistrato, espone la sua causa, formula la sua giusta ed equa richiesta, agisce senza brama di vendetta o di danno, senza odio o amarezza, senza ardore di contesa; al contrario mostrandosi piuttosto disposto ad abbandonare il suo e patire qualcosa piuttosto che nutrire odio e ira contro il suo avversario. Per l'accusato: essendo citato si presenti alla convocazione per difendere la sua causa con le migliori ragioni e possibili giustificazioni senza amarezza alcuna, animato dal solo desiderio di difendere il suo in spirito di giustizia. D'altra parte se gli animi sono viziati da malvolere, corrotti dall'invidia, infiammati da indignazione, mossi da spirito di vendetta o, comunque, così accesi che la carità ne sia sminuita, la più giusta causa del mondo non può che risultare iniqua e malvagia. Poiché occorre che questo concetto sia chiaro fra tutti i credenti: nessuno può intentar causa, per quanto rette ed eque siano le ragioni, se non ha verso il suo avversario un sentimento di benevolenza e di affetto quale avrebbe se la questione dibattuta fra loro fosse amichevolmente trattata e già risolta. Qualcuno obietterà che siamo lungi dal riscontrare nei processi tale moderazione e tale temperanza e se dovesse riscontrarsi una volta sembrerebbe una enormità. Ammetto che a causa della perversità degli uomini non si incontrano attualmente molte persone che ricorrano ai tribunali con questo spirito di giustizia, tuttavia la realtà in se non cessa per questo di essere buona e giusta non vi si sovrapponessero cattivi elementi. Del resto, ricordandoci che la tutela del magistrato è un santo dono di Dio, tanto più eviteremo di corromperla con i nostri vizi. 19. Coloro che rifiutano, in modo assoluto, ogni ricorso all'autorità giuridica debbono rendersi conto che, così facendo, rifiutano una santa istituzione di Dio e un dono che è puro per coloro che sono puri, a meno che intendano accusare san Paolo di aver commesso un grave errore nel respingere le menzogne e le critiche infondate dei suoi accusatori, smascherandone anche la malizia e i sotterfugi, quando ha rivendicato in sede giudiziaria le garanzie che gli erano dovute in base alla sua cittadinanza romana; e quando ha giudicato fosse il caso di appellarsi alla sede imperiale di Cesare contro la sentenza iniqua del Legato (At. 22.1-25; 24.12; 25.10 ). Questo atteggiamento non risulta affatto in contrasto con il divieto, fatto ad ogni credente, di bramare la vendetta (Le 19.18; Mt. 5.39; De 32.35; Ro 12.19). È precis.mente questo desiderio di vendetta che vogliamo esclusa da ogni procedimento penale fra credenti. In una causa civile non si comporta rettamente se non colui che fa altro che affidare la sua causa al giudice in qualità di tutore dell'ordine pubblico, e lo fa con semplicità e innocenza, non pensando minimamente a rendere male per male con spirito di vendetta; nel caso di un processo penale, nella parte lesa, non approvo se non colui che si appella al tribunale senza essere mosso da desiderio di vendetta o risentito dell'offesa patita ma guidato solo dalla volontà di mettere freno alla malvagità di colui che lo accusa, e mettere fine alla sua attività, affinché non rechi danno al pubblico bene. Quando dunque sia eliminato ogni spirito di vendetta non si commette nulla contro il comandamento che vieta ai cristiani di vendicarsi. Si obietterà che non solo è proibito ai cristiani di desiderare la vendetta ma altresì chiesto loro di aspettare la mano del Signore che promette di recare aiuto agli afflitti e agli oppressi, coloro pertanto che richiedono l'intervento del magistrato per se e per gli altri anticipano questa vendetta di Dio; rispondo che non è affatto così. Si deve considerare che la punizione del magistrato non procede da un uomo ma da Dio e risulta, come dice San Paolo (Ro 13.4) attuata da Dio mediante il ministero degli uomini. 20. Questo non è in contrasto con le parole di Cristo che proibiscono di resistere al male e ordinano di presentare la guancia destra a colui che ci percuote sulla sinistra e dare il mantello a chi ci spoglia della tunica (Mt. 5.39). È: bensì vero che, con tali parole, egli chiede che il cuore dei suoi servi sia così libero da spirito di vendetta da preferire che l'ingiustizia sia raddoppiata piuttosto che pensare a restituirla; ma da questo spirito di sopportazione neppur noi intendiamo distogliere i credenti. Essi devono infatti comportarsi realmente come un popolo nato e creato per soffrir contumelie, ingiustizie, essere soggetto alle malvagità, agli inganni, alle beffe dei malvagi. Non solo, ma devono altresì sopportare tutti questi mali con pazienza, rassegnati al fatto che avendo sofferto una offesa devono essere pronti a sopportarne un'altra e non aspettarsi dalla vita se non perenne crocifissione. E tuttavia rendano bene a coloro da cui hanno ricevuto offese, preghino per coloro che li maledicono, si sforzino di vincere il male con il bene (Ro 12.21); in questo soltanto sta la loro vittoria. Avendo tali disposizioni d'animo non chiederanno un occhio per occhio né un dente per dente (come insegnavano i Farisei ai loro discepoli, invitandoli a chiedere giustizia ) , ma, secondo l'insegnamento dato da Cristo ai suoi, sopporteranno nei loro corpi e nei loro beni le offese in modo tale da essere pronti a perdonarle subito (Mt. 5.39). D'altra parte questa dolcezza e moderazione di sentimenti non impedirà loro di ricorrere, pur serbando intatta l'amicizia verso i loro nemici, alla tutela del magistrato per salvaguardare i loro beni, o di richiedere, per amore del bene pubblico, la punizione di uomini malvagi e pericolosi che non si possono correggere altrimenti che con il castigo. Sant'Agostino è nel vero quando dice che tutti questi comandamenti hanno lo scopo di rendere un uomo dabbene, e timorato di Dio, pronto a sopportare pazientemente la malvagità di quelle persone che egli desidererebbe vedere buoni, affinché il numero dei buoni cresca, piuttosto che aggiungere se stesso alla schiera dei malvagi. In secondo luogo che concernono più i sentimenti interiori del cuore che l'atteggiamento esteriore, affinché nell'intimo del cuore siamo pazienti amando i nostri nemici; pur facendo però esteriormente quanto sappiamo necessario per la tutela di coloro cui dobbiamo amicizia. 21. Del tutto errata è infine l'obiezione, che si è soliti fare, secondo cui ogni processo sarebbe condannato da san Paolo (1 Co. 6.5-8). Si deduce facilmente dalle sue parole che vi era, nella Chiesa di Corinto, una tendenza passionale e disordinata al litigio, al punto da fornire agli infedeli l'occasione per sparlare dell'evangelo e dell'intera religione cristiana. È questo il punto che in primo luogo san Paolo denuncia nella loro situazione: l'intemperanza dei loro litigi causa la diffamazione dell'evangelo fra gli infedeli. Anzi, egli denuncia il fatto che litigando tra fratelli, e dimostrandosi così lontani dal sopportare una ingiustizia erano così bramosi dei beni altrui da aggredirsi e danneggiarsi a vicenda. È dunque contro questa rabbiosa bramosia di litigio che egli combatte e non contro ogni forma di processo. Egli dichiara però che deve considerarsi assolutamente errato l'atteggiamento di colui che si impegna nella conservazione dei propri beni sino al litigio, e non è capace di sopportare piuttosto la perdita dei propri beni e qualche danno. Anzi, poiché si risentivano, per qualche piccolo contrattempo o danno recato loro al punto da iniziare subito un processo, afferma che questo è il segno che sono eccessivamente irritabili e di conseguenza intolleranti. A questo si riduce tutto il problema. Certo i cristiani debbono seguire questa linea di condotta: abbandonare il loro diritto piuttosto che iniziare una causa che sarà difficile concludere senza animo esacerbato e infiammato d'ira nei confronti dei fratelli. Quando però qualcuno constati che è in grado di tutelare i propri averi, senza recar offesa o sminuire un atteggiamento di carità, non commette nulla che sia in contrasto con la parola di san Paolo se agisce in questo modo, particolarmente quando si tratti di questioni di grande importanza e in cui gli risulti impossibile subire danno. Insomma (come si è detto all'inizio ) ad ognuno sarà buon consigliere la carità, indispensabile in ogni contesa al punto che si debbono considerare iniqui e maledetti tutti coloro da cui essa risulti violata o ferita.
22. Il primo dovere dei sudditi, verso i superiori, consiste nel tenere in alta considerazione il loro ufficio riconoscendo in esso un compito affidato da Dio e tributare perciò loro l'onore e la riverenza che si conviene a vicari e luogotenenti di Dio. Vi sono infatti persone che obbediscono ai loro magistrati e si ribellerebbero all'idea di non avere un'autorità suprema alla quale essere soggetti, in quanto riconoscono che questo è necessario al bene pubblico, ma considerano il magistrato unicamente come un male necessario al genere umano. San Pietro però richiede di più da noi, quando desidera che si onori il re (1 Pi. 2.17) , e Salomone quando dice di temere Dio e il sovrano (Pr 24.21). Infatti san Pietro include in questo termine "onorare "la buona opinione, la stima che egli vuole si abbia dei re. Salomone stabilendo un legame tra Dio e il sovrano attribuisce loro grande dignità e grande onore. San Paolo stesso conferisce ai superiori una posizione di onore quando dice che dobbiamo essere loro sottomessi, non solo per timore ma per motivo di coscienza (Ro 13.5). Egli intende dire con ciò che i sudditi non debbono essere spinti a mantenersi sotto l'autorità dei loro prìncipi solo per timore e paura di essere puniti (come colui che si sente più debole e cede alla forza del suo nemico, vedendo profilarsi la minaccia di una vendetta qualora resista ) , ma debbono vivere in questo spirito di obbedienza per timore di Dio come servissero lui stesso in quanto da lui procede l'autorità dei loro prìncipi. Non mi riferisco alle persone, quasi dovessimo ricoprire con un carattere di dignità ogni follia, sciocchezza, crudeltà o temperamento malvagio e conferire, in tal modo, lode di virtù a dei vizi. Dico solamente che la condizione di superiorità è per sua natura degna di onore e riverenza affinché stimiamo coloro che ci dirigono e li rispettiamo a motivo del potere che hanno ricevuto. 23. Deriva da questo un altro fatto: avendo in siffatto onore e riverenza le proprie autorità, i sudditi debbono loro obbedienza, Si tratti dell'obbedienza alle loro leggi, del pagamento delle imposte, dell'accettazione di qualche carica pubblica che giovi alla difesa comune o dell'esecuzione di qualche ordine. Ogni persona, dice san Paolo, sia sottoposta alle autorità superiori; poiché chi resiste all'autorità, si oppone all'ordine di Dio (Ro 13.1). E scrive anche a Tito in questi termini: "Esortali ad essere soggetti ai loro prìncipi e autorità, obbedire ai loro magistrati, essere pronti ad ogni buona opera " (Tt 3.1). San Pietro pure afferma: "Siate soggetti, per amore del Signore, ad ogni autorità creata dagli uomini: al re, come a colui che ha preminenza, ai governatori, come mandati da lui per punire i malfattori e per lodare quelli che fanno il bene " (1 Pi. 2.13). Anzi, affinché i sudditi dimostrino di obbedire, non per calcolo, ma liberamente, san Paolo aggiunge che debbono richiedere, con preghiere, a Dio la conservazione e la prosperità di coloro, sotto la cui autorità sono chiamati a vivere: "Io esorto dunque "dice "che si facciano supplicazioni preghiere, intercessioni, ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che sono in autorità, affinché possiamo menare una vita tranquilla e quieta, in ogni pietà e onestà " (1 Ti. 2.1-2).
Nessuno si inganni al riguardo. Non si può resistere al magistrato senza resistere a Dio perciò, quantunque sembri possibile disprezzare impunemente un magistrato debole e impotente, Dio è potente e sufficientemente forte da vendicare questo disprezzo della sua volontà. In questa obbedienza includo anche la riservatezza che debbono avere i cittadini privati riguardo alla cosa pubblica. Non intromettersi, né temerariamente ingerirsi, nelle mansioni del magistrato e soprattutto non assumere iniziative di carattere pubblico. Anche riscontrandosi, nel governo comune, errori che richiederebbero correzione, i cittadini non debbono provocare sommosse e prendere l'iniziativa per porvi rimedio o mettere le mani ad un'opera che non è di loro competenza; sono tenuti invece ad esporre la situazione al superiore che solo è autorizzato a disporre delle realtà pubbliche. Intendo dire che non si deve fare nulla in questa materia senza un ordine preciso. Laddove infatti sia dato un ordine dall'autorità superiore i cittadini sono rivestiti dell'autorità pubblica. Poiché come si è soliti dire che consiglieri di un principe sono i suoi occhi e le sue orecchie, in quanto ha affidato loro il compito di vigilare per lui, così possiamo definire sue mani coloro che ha stabilito per eseguire ciò che occorre fare. 24. Abbiamo sin qui tratteggiata la figura ideale del magistrato, quale deve essere per rispondere veramente al suo titolo: padre del paese che governa, pastore del popolo, custode della pace, tutore della giustizia, garante dell'innocenza; a ragione dovremmo ritenere fuor di senso chi volesse rifiutare una siffatta autorità. Poiché accade però, il più delle volte, che la maggior parte dei prìncipi si allontani dalla retta via e, non avendo alcuna cura di compiere il proprio dovere, gli uni si adagino nei piaceri e nelle voluttà, gli altri, avendo l'animo all'avarizia, mettono all'asta leggi, privilegi, diritti, giudizi, altri saccheggino il misero popolo per soddisfare la loro prodigalità disordinata, altri esercitino puro e semplice brigantaggio, saccheggiando case, violando vergini e donne sposate, colpendo innocenti, non risulta facile persuadere molti che costoro debbano essere riconosciuti quali prìncipi e si debba loro obbedienza per quanto possibile. Non ravvis.ndo infatti nei loro superiori, a causa di vizi così enormi e contrari non solo alla carica del magistrato ma anche ad ogni senso di umanità, alcuna traccia dell'immagine di Dio che deve risplendere in un magistrato e non vedendo alcun aspetto di quel ministro di Dio dato per lode dei buoni e punizione dei malvagi, non sono in grado di riconoscere in lui quel superiore la cui autorità e dignità sono raccomandate dalla Scrittura. Certo da sempre è stato radicato nel cuore degli uomini un sentimento di odio e di esecrazione per i tiranni, pari all'amore e alla stima per i sovrani giusti che assolvono il loro compito. 25. Tuttavia la parola di Dio ci condurrà più innanzi se rivolgiamo ad essa il nostro sguardo. Ci renderà obbedienti non solo al governo di prìncipi che adempiono rettamente il loro ufficio e assolvono con integrità il loro mandato, ma a tutti coloro che occupano, in qualche modo, una posizione di preminenza, quand'anche non adempiano quanto la loro condizione richiede. Quantunque nostro Signore attesti che il magistrato è un dono singolare della sua liberalità, dato per la conservazione della salvezza degli uomini, e ordini ai magistrati stessi ciò che debbono fare, nondimeno dichiara che hanno ricevuto il governo da lui solo quali essi siano e comunque governino. Talché coloro che, nell'esercizio del loro governo, hanno riguardo soltanto al bene pubblico sono esempi e specchio della sua bontà; ma d'altra parte coloro che agiscono ingiustamente e con violenza, sono da lui incaricati di punire l'iniquità del popolo. Gli uni e gli altri però, nello stesso modo, sono rivestiti della dignità e della maestà che è data ad autorità legittime. È necessario citare a questo punto alcune testimonianze per provare il mio dire. Non è difficile dimostrare che un malvagio sovrano rappresenta l'ira di Dio in terra (Gb. 34.30; Is. 3.4; 10.5; Os 13.2; De 28.29); e penso questo sia da tutti accettato, senza contraddizione. Considerando così le cose non giudichiamo il re diversamente da quanto faremmo con un ladro che ci deruba dei nostri averi, o un adultero che infrange il nostro matrimonio o un omicida che cerchi di colpirci visto che tutte queste calamità sono annoverate nella Legge fra le maledizioni di Dio. Occorre però insistere per dimostrare e provare ciò che difficilmente entra nello spirito dell'uomo: in una persona perversa e indegna di qualsiasi onore, che ricopra una carica pubblica, risiede la dignità e l'autorità che nostro Signore ha conferito nella sua parola ai ministri della sua giustizia e che i sudditi, per quanto concerne l'obbedienza dovuta alla sua autorità, gli debbono la stessa riverenza che tributerebbero ad un buon sovrano se lo avessero. 26. Esorto in primo luogo i lettori a considerare attentamente e osservare di qual provvidenza e speciale dispensazione Dio faccia uso nel distribuire i regni e stabilire i re nel modo che gli pare opportuno; la Scrittura ne fa sovente menzione. Così in Daniele è scritto: "Egli muta i tempi e le stagioni, depone i re e li stabilisce " (Da 2.21-37). E ancora: "Affinché i viventi conoscano che l'Altissimo domina sul regno degli uomini, che egli lo da a chi vuole " (Da 4.17). Dichiarazioni del genere, quantunque siano frequenti nella Scrittura sono ripetute con particolare insistenza in quello scritto di Daniele. Tutti sanno che tipo di sovrano sia stato Nebucadnetsar, che conquistò Gerusalemme, un ladro e saccheggiatore; tuttavia nostro Signore dichiara per bocca del profeta Ezechiele che gli ha dato la terra d'Egitto come salario della sua prestazione fornitagli saccheggiando e distruggendo (Ez. 29.19). E Daniele gli dice: "Tu, o re, sei il re dei re, al quale il Dio del cielo ha dato un impero potente, forte, glorioso. A te l'ha dato, dico, e tutti i paesi dove dimorano i figli degli uomini, le bestie selvatiche e gli uccelli del cielo. Egli te le ha date nelle mani e ti ha fatto dominare su loro tutti " (Da 2.37). Inoltre fu detto dallo stesso Daniele al figlio di lui Belsazar: "L'Iddio altissimo ha dato a Nebucadnetsar tuo padre, regno, grandezza, gloria, maestà; e a motivo di questa grandezza che gli aveva dato, tutti i popoli, nazioni e lingue temevano e tremavano alla sua presenza " (Da 5.18). Quando vediamo che egli è stato stabilito re da Dio dobbiamo ricordare il comandamento celeste che ci ordina di temere e onorare il sovrano e non avremo scrupoli nel dare ad un tiranno quell'onore di cui nostro Signore si sarà degnato rivestirlo. Quando Samuele preannunziò al popolo d'Israele ciò che avrebbe dovuto soffrire a causa dei suoi re disse: "Questo sarà il modo di agire del re che regnerà su di voi. Prenderà i vostri figli e li metterà sui suoi carri per farne suoi guerrieri, li metterà ad arare i suoi campi, mietere il suo grano, fabbricare le sue armi. Prenderà le vostre figlie per farne profumiere, cuoche, fornaie. Prenderà le vostre vigne, i vostri campi, i vostri migliori giardini per darli ai suoi servi. Prenderà i vostri servi, le vostre cameriere, i vostri asini per adoperarli nei suoi lavori; anzi prenderà la decima dei vostri greggi e voi sarete suoi schiavi " (1 Re 8.2). I re non potevano certo agire in questo modo avendo la pretesa di vivere secondo giustizia, la legge infatti li esortava a serbare temperanza e sobrietà (De 17.16). Ma Samuele invocava sul popolo una autorità cui era necessario obbedire e illecito resistere. Quasi avesse detto: la cupidigia dei re si manifesterà in questi oltraggi, a voi non spetterà reprimerla ma solo sottomettervi ai loro ordini ed eseguirli. 27. Si trova, tuttavia, in Geremia un testo che è opportuno citare a questo punto anche se risulta di una certa ampiezza in quanto risolve questo problema in modo esemplare: "Io ho fatto, dice il Signore, la terra, gli uomini e gli animali che sono sulla faccia della terra con la mia gran potenza e con il mio braccio steso; e do la terra a chi mi pare. E ora do tutti questi paesi in mano a Nebucadnetsar mio servo, e tutte le nazioni saranno a lui soggette e potenze e re finché giunga anche il tempo per il suo paese. E avverrà che ogni nazione o regno che non vorrà sottomettersi e non vorrà piegare il collo sotto il suo giogo, quella nazione la punirò con la fame, la spada, la peste. Servite dunque al re di Babilonia e vivrete " (Gr. 27.5). Risulta da queste parole con quanta obbedienza nostro Signore ha voluto fosse onorato questo tiranno perverso e crudele per il solo fatto che possedeva il regno. E questo possesso mostrava soltanto che il sovrano era posto sul trono per ordine di Dio, e da questi era innalzato alla maestà regale cui non era lecito contrastare. Quando sia ben chiara e fissa in mente l'idea che la volontà di Dio, in virtù della quale è stabilita l'autorità di ogni re, è la stessa che elegge anche i sovrani iniqui, facendo si che vengano ad occupare la posizione di autorità, non verranno alla mente folli pensieri di sedizione, per esempio che un re debba essere trattato secondo i suoi meriti e non è ragionevole mantenersi sudditi di colui che per parte sua non agisce nei nostri riguardi come un re. 28. Invano si obietterà, a questo punto, che tale ordine fu dato in modo speciale al popolo di Israele; si devono infatti considerare le motivazioni su cui esso poggia. "Ho dato, dice il Signore, il regno a Nebucadnetsar; siategli pertanto soggetti e vivrete " (Gr. 27.17). Non c'è dunque dubbio che si debba sottomissione a chiunque abbia ricevuto superiorità. Quando il Signore innalza qualcuno al potere ci dichiara che la sua volontà è che quello regni. Di questo abbiamo testimonianze nell'insieme della Scrittura; nel capo vent'ottesimo dei Proverbi: "Per i misfatti di un paese vi sono parecchi mutamenti di prìncipi " (Pr 28.2). E in Giobbe al capo dodicesimo: "Scioglie l'autorità dei re e nuovamente li innalza" (Gb. 12.18). Detto questo non rimane altro che obbedire se vogliamo aver vita. Si legge nel profeta Geremia un altro ordine di Dio con cui invita i membri del suo popolo a desiderare la prosperità di Babilonia, presso la quale erano prigionieri e di pregare per lei in quanto la sua prosperità significava per loro prosperità (Gr. 29.7). Con queste parole è dunque ordinato agli Israeliti di pregare per la prosperità di colei che li ha vinti pur essendo stati da lei spogliati di tutti i loro beni, cacciati dalle loro case, trasportati in esilio, gettati in una miserevole schiavitù; e non soltanto viene loro chiesto quello che è chiesto a tutti: pregare per i propri persecutori ma di chiedere che il regno di quel re fosse mantenuto florido e pacifico, affinché potessero vivere in pace sotto di lui.
Per questo stesso motivo Davide, pur essendo già eletto re per ordine di Dio e unto dell'olio santo, ingiustamente perseguitato da Saul considerava tuttavia sacra la persona di lui in quanto il Signore lo aveva santificato rivestendolo della maestà regale: "Non mi accada "diceva "di compiere contro il mio signore l'azione di mettergli le mani addosso per fargli del male. Poiché è il Cristo, cioè l'unto del Signore " (1 Re 24.7): Ti ho risparmiato e ho detto: non metterò le mani addosso al mio signore, perché egli è l'unto dell'eterno " (1 Re 24.2); e ancora: "Chi potrebbe mettere le mani addosso all'unto dell'eterno senza rendersi colpevole? Il Signore vive. Se non lo colpisce il Signore o giunga il suo giorno o sia ucciso in guerra, non avvenga che lo metta la mano sul Cristo del Signore " (1 Re 26.9-11). 29. Dobbiamo dunque avere, nei riguardi dei nostri superiori, finché dominano su di noi e quali essi siano, un sentimento di riverenza analogo a quello che riscontriamo in Davide. Insisto nel ripetere questo affinché impariamo a non scegliere le persone a cui dobbiamo obbedienza, ma ci limitiamo a riconoscere che sono posti, per volontà del Signore, in una posizione rivestita di inviolabile maestà. Qualcuno farà però osservare che esiste reciprocità di doveri da parte dei superiori verso i loro sudditi. Ho già esaminato questo punto. Se alcuno volesse dedurne che si deve obbedienza solo ad un giusto signore, ragionerebbe in modo perverso. Poiché anche i mariti e i padri hanno degli obblighi verso le proprie mogli e verso i propri figli. Qualora si verifichi il caso che assolvano male il loro compito, che cioè trattino con asprezza i loro figli e siano violenti, contrariamente a quanto è loro ordinato (Ef. 6.4) e che i mariti disprezzino e tormentino le mogli, le quali per comandamento di Dio debbono invece amare e proteggere come persone fragili (Ef. 5.25; 1 Pi. .3.7) se ne dovrebbe dedurre che i figli non debbono ubbidire al padre o le mogli al marito? Sono invece loro sottomessi, per legge di Dio, quand'anche si tratti di uomini malvagi o iniqui. Anzi non essendo chiamati a considerare in che modo gli altri assolvano il loro dovere nei nostri riguardi ma solo a ricordarci e tener presente ciò che dobbiamo fare per adempiere il nostro dovere, questa considerazione deve valere anche per coloro che sono sottoposti ad altri. Quando perciò ci troviamo ad essere crudelmente oppressi da un principe disumano o depredati o oppressi da un avaro o da un prodigo, o disprezzati e Ma.custoditi da un indolente, e anche se siamo afflitti per il nome di Dio da un sacrilego o incredulo, richiamiamo, in primo luogo, alla mente le offese che abbiamo commesse contro Dio (Da 9.7) , offese che indubbiamente sono punite da questi flagelli. Di qui nascerà umiltà per dominare la nostra impazienza. In secondo luogo poniamoci chiaramente innanzi il pensiero che non spetta a noi porre rimedio a questi mali ma non resta altro che implorare l'aiuto di Dio, nelle cui mani sono i cuori dei re e i cambiamenti di governi (Pr 21.1). È Dio che sta nell'assemblea degli dèi e avrà fra loro il giudizio (Sl. 82.1) , al solo suo sguardo cadranno e saranno confusi tutti i giudici e re della terra che non avranno adorato il suo Cristo (Sl. 2.10-12) , che avranno emanate leggi inique per opprimere in giudizio il povero e calpestare il diritto dei deboli, per depredare la vedova e l'orfano (Is. 10.1-2). 30. In questo appare chiaramente la sua meravigliosa bontà e potenza e provvidenza. Poiché a volte suscita qualcuno dei suoi servitori e li munisce del suo mandato per punire un dominio ingiusto e liberare dalla calamità un popolo ingiustamente afflitto; altre volte volge a questo fine il furore di uomini che pensano e macchinano altri progetti. Nel primo modo ha liberato il popolo d'Israele dalla tirannia di Faraone per mezzo di Mosè (Es. 3.7) , e lo ha liberato per opera di Otniel dalla tirannia di Cusan re di Siria, e mediante altri, sia re che giudici, da molte servitù (Gd. 3.9) e i capitoli seguenti . Nel secondo modo piegò l'orgoglio di Tiro per mezzo degli Egiziani, l'orgoglio degli Egiziani mediante gli Assiri, la prepotenza degli Assiri per mezzo dei Caldei, l'arroganza di Babilonia mediante i Medi e i Persiani, dopo che Ciro ebbe vinti i Medi, l'ingratitudine dei re di Giuda e di Israele sia per mano degli Assiri che dei Babilonesi. Ministri ed esecutori della giustizia divina erano tanto gli uni che gli altri, pure grande è la differenza che sussiste fra loro. I primi, in quanto erano chiamati con legittima vocazione da Dio, per eseguire questi incarichi, ribellandosi ai re non violavano punto la maestà regale che era stata data a quelli da Dio ma correggevano un'autorità inferiore in nome di una superiore così come è lecito ad un re punire i suoi luogotenenti e i suoi ufficiali. I secondi, quantunque fossero guidati dalla mano di Dio dove a lui sembrava opportuno, e compissero la sua opera loro malgrado, non nutrivano in cuor loro altro pensiero che quello di compiere il male. 31. Quantunque le azioni risultassero diverse considerando gli agenti, poiché gli uni agivano avendo coscienza di compiere il bene e gli altri erano mossi da altri sentimenti (come abbiamo detto ) , tuttavia, nostro Signore compiva la sua opera sia con gli uni che con gli altri, nello stesso modo, spezzando lo scettro di sovrani malvagi e rovesciando dominazioni ingiuste. I principi intendano queste cose e traggano motivo di stupore. Dobbiamo però guardarci, sopra ogni cosa, dal disprezzare e recare oltraggio all'autorità dei superiori che deve essere per noi rivestita di maestà, visto che risulta confermata da tante parole di Dio, quand'anche sia esercitata da persone molto indegne che la corrompono con la loro malvagità (per quanto sta in loro ). Poiché quantunque la punizione di un'autorità sregolata sia atto di vendetta di Dio, non ne consegue però che ci sia affidata e sia per noi lecita; a noi non è chiesto se non obbedire e sopportare. Mi riferisco sempre a privati cittadini. Perché se esistessero, nel nostro tempo, magistrati istituiti per la tutela del popolo e per porre freno alla eccessiva licenza e cupidigia dei sovrani (come anticamente i cosiddetti efori presso gli Spartani e i tribuni della plebe presso i romani o di demarchi ateniesi, o come al giorno d'oggi i tre stati, in ogni regno, quando siano convocati ); alle persone investite di tali cariche sarei lungi dal proibire, secondo i compiti del loro ufficio, l'opposizione e la resistenza alle intemperanze e crudeltà del sovrano, che anzi li giudicherei spergiuri se, constatando che sovrani disordinati opprimono il popolo non prendessero posizione, perché, così facendo, verrebbero meno al compito di tutelare la libertà del popolo cui sono stati preposti da Dio. 32. Nel concetto di obbedienza che, secondo quanto abbiamo insegnato, è dovuta ai superiori, esiste però sempre un limite o più esattamente una norma che deve essere seguita in ogni cosa: tale obbedienza non ci deve distogliere dall'obbedire a colui alla cui volontà tutti gli editti regi debbono attenersi, al cui volere tutti i decreti devono cedere il passo e sotto la cui maestà deve essere abbassata e umiliata ogni potenza. Che perversione sarebbe in verità la nostra se, per soddisfare gli uomini, incorressimo nell'indignazione di colui, per amor del quale ubbidiamo agli uomini. Il Signore dunque è il re dei re e a lui, non appena apre la bocca, dobbiamo ubbidienza fra tutti, su tutti, per tutti. In forma derivata dobbiamo essere soggetti agli uomini che hanno preminenza su di noi, non diversamente però che a lui. E se costoro ordinano qualcosa contro Dio non si debbono tenere in alcuna considerazione. E non si deve in tal caso avere stima alcuna della dignità dei superiori che non viene sminuita quando venga sottoposta alla potenza di Dio, unica vera. Per questa ragione Daniele afferma di non aver offeso il re, pur avendo disubbidito all'editto ingiusto da lui emanato (Da 6.23); egli aveva oltrepassato in questo i limiti della sua competenza e non solo aveva commesso un eccesso nei riguardi degli uomini ma aveva alzato il capo contro Dio e così facendo era decaduto da ogni autorità. All'opposto il popolo di Israele è rimproverato da Osea per aver ottemperato troppo facilmente alle leggi inique del suo re (055.13). Poiché, dopo che Geroboamo ebbe fatto fare il vitello d'oro tralasciando il tempio di Dio, tutti i sudditi, volendo compiacergli, si erano con troppa leggerezza votati a quelle nuove superstizioni (3Re 12.30); e si riscontrò ancor più forte nei loro figli e successori questa facilità a sottostare al desiderio di sovrani idolatri e conformarsi al loro modo di fare vizioso. Il profeta rimprovera aspramente questa accettazione dell'editto regio, ed è lungi dal considerare degno di lode quel rispetto cui si appellano i cortigiani, quando, volendo ingannare i semplici, magnificano l'autorità regia, affermando che non è lecito far nulla contro gli ordini dati. Quasi Dio stabilendo uomini mortali, per governare, avesse abbandonato i suoi diritti, ovvero l'autorità terrena fosse sminuita quando si sottopone al dominio sovrano di Dio, alla presenza del quale ogni autorità celeste trema. Sono conscio dei pericoli che possono sorgere da questo atteggiamento di fermezza, da me richiesto, perché i sovrani non tollerano di essere contraddetti, la loro indignazione (come dice Salomone ) è annunzio di morte (Pr 16.14). Ma essendo stata enunciata dal celeste messaggero san Pietro la norma che bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (At. 5.29) , dobbiamo trarre consolazione da questo pensiero che realmente rendiamo a Dio l'obbedienza che ci richiede, quando siamo pronti a soffrire ogni cosa piuttosto che rinunciare alla sua santa Parola. E affinché non ci venga meno il coraggio, san Paolo ci sprona con un'altra esortazione (1 Co. 7.23) che siamo stati acquistati da Gesù Cristo a prezzo si alto che gli è costata la nostra redenzione, affinché non ci rendessimo schiavi delle male cupidigie degli uomini, e ancor meno della loro empietà. Lode a Dio. (fine) |