Testo Italiano

 

 

 

ARNOLDO ARLENIO

PARASSILO E NICOLA STOPIO,

 

uomini dottissimi e solertissimi, amici

suoi carissimi: Michele Martino

Stella, saluta.

 

Il fatto che LEON BATTISTA ALBERTI si fece anche troppo banditore di se stesso, come negli altri libri, anche in questo opuscolo «De equo animante», evita che a qualche lettore petulante possa sembrare che io pretenda di aggiungere qualcosa a quest'opera, se con la mia diligenza (quale che sia) desidero conferire qualche nitidezza e decoro di veste ad uno scritto così forbito e limpido. Chi inopportunamente si azzardasse a fare ciò, o perderebbe del tutto il suo tempo, o porterebbe come suol dirsi legna alla selva, o quanto meno sembrerebbe voler affondare la falce nella messe altrui. Io che, in verità, fin da ragazzo non ho mai dato peso a siffatte lagne degli stolti (buona parte dei quali, come non fa mai nulla di buono - ma moltissimo male -, così non consente agli altri di sollevarsi a dar buona prova di sé), non ritenni compatibile con la mia professione permettere che un uomo insigne, sia pure in un'opera minore, perisse per la muffa o disgraziatamente corroso dalle tignole e dagli scarafaggi, ma bensì di dare questa alla luce quanto prima, non appena avessi trovato una tipografia e un po' di tranquillità. Perciò quando, sùbito dopo la nostra separazione dovetti lasciare l'Italia, nulla ho chiesto più ardentemente a tutti gli Dei che poter mostrare ai nostri persecutori un qualche buon documento di un amore degno, di un'opera non disprezzabile. Ora, poiché siete stati voi i promotori del ritrovamento di questo libretto, a voi proprio ho voluto dedicare il primo frutto di tale impegno e della nuova tipografia. Ora tocca a voi, poiché vi è stato offerto con animo amico, con pari animo accoglierlo, a braccia aperte. Se farete ciò, e voglio sperare che lo farete, mi incoraggerete nel migliore dei modi a pubblicare altre cose con la medesima cura. Auguratevi anche che riesca a salvarsi colui che altri, con stupefacente accanimento, vogliono morto.

Statevi bene.


LEON BATTISTA ALBERTI

 

 

A LEONELLO PRINCIPE DI FERRARA E

DELIZIA DELL'UMANO GENERE[1]

 

 

 

IL CAVALLO VIVO[2]

 

 

Essendo giunto qui a Ferrara per vederti e salutarti, o principe illustrissimo, non si può dire facilmente quanta gioia io abbia provato vedendo la tua città così bella, i tuoi sudditi così miti e te, loro principe, così raffinato e colto. Ho compreso allora quanto sia importante vivere in uno stato nel quale, godendo della serenità e tranquillità dell'animo[3], si obbedisca ad un principe ottimo e rispettosissimo delle leggi e dei buoni costumi. Ma di ciò altrove[4].

Si è aggiunto a questo piacere il fatto che mi si è presentata qui una occasione assai gradita, data la mia consuetudine di esercitare l'ingegno: occasione che, invero, e per te e per me, io ho accolto assai volentieri. Avendo infatti i tuoi sudditi stabilito di innalzare nel foro[5] in onore di tuo padre[6], con grande magnificenza di mezzi, statue equestri[7] ed essendosi cimentati in tale impresa ottimi artisti, per tuo ordine[8] scelsero[9] quale giudice ed esperto me che mi diletto alquanto di pittura e di scultura[10].

Perciò, guardando e riguardando codeste opere eseguite con mirabile arte, mi venne l'idea di prendere in considerazione con un certo impegno non solo la bellezza formale, ma anche le naturali inclinazioni dei cavalli.

Pensavo quanto essi siano adatti ad ogni uso pubblico e privato dell'uomo, alla violenza della guerra come agli agi della pace[11]. Ed infatti, sia che si portino dalla campagna quelle cose che servono per metter su casa o quelle necessarie per il nutrimento della famiglia, sia che si procaccino sul campo di battaglia l'eccellenza della gloria e il decoro della libertà, certamente nel compiere tali cose l'uomo si serve ampiamente dell'aiuto e dell'opera di questi animali: cosicché ritengo che non si possa conseguire la salvezza e la gloria senza l'ausilio dei cavalli. E che dire del fatto che di questo solo animale si servono e si adornano perfino gli dei stessi[12]?

 

Non Febo dal carro fiammeggiante,

non il padre Nettuno che gode

nell'oceano dello scettro tridente,

 

non certo tutti gli altri dei sembrerebbero sufficientemente adorni in relazione alla loro maestà o equipaggiati per le loro imprese se, principalmente, non chiamassero i cavalli al loro carro.

Il cavallo è un animale dal gradevole aspetto, nel quale stupisce che tanta forza e tanta fierezza si trovino congiunte con una mansuetudine quasi incredibile e che un animo così tranquillo e docile alberghi in un petto così ardente. Questo animale col quale si potrebbe calpestare il petto coperto di ferro di un nemico furente[13] si lascia guidare con tenui tocchi di briglia. Ché anzi il cavallo sa avanzare in ordine di combattimento con tutta la falange avendo cadenzato il passo al ritmo di suoni ed inni; a non tollerare nessun altro cavaliere che il suo unico padrone[14] ed a questo porgere i dardi raccolti da terra[15] affinché esultante ritorni vincitore fra i suoi.

Sarebbe lungo ricordare quanti benefici i cavalli hanno arrecato ai loro padroni, così che furono attribuiti ad essi come onori certamente non immeritati un monumento sepolcrale dal divino Augusto, piramidi dagli Agrigentini, una statua presso il tempio di Venere da Cesare dittatore e da Alessandro il Macedone esequie fastose e come tumulo ed epitaffio una città fondata in suo onore e ad esso intitolata[16].

Pertanto queste cose e più ancora di tal genere essendomi tutte venute in mente, poiché tale argomento mi sembrò non indegno di applicarvi l'ingegno e poiché peraltro ho visto che tu ti diletti molto di ciò che scrivo[17] e si dà anche il caso che sono libero da impegni, ho stabilito di esercitarmi secondo la mia consuetudine, e di scrivere di tali cose in questi giorni durante i quali mi trattengo presso di te[18].

Ho consultato perciò con molta diligenza tutti gli autori che ho potuto[19], più o meno noti, che tràttino in qualche modo del cavallo; e da ciascuno ho riportato[20] nel mio libretto tutto quanto vi fosse di elegante e di degno[21]. Gli autori che ho potuto consultare sono stati i greci Senofonte, Absirto, Chirone, Ippocrate e Pelagonio; i latini Catone, Varrone, Virgilio, Plinio, Columella, Vegezio, Palladio, il Calabro, Crescenzio, Alberto, Abate[22], ed inoltre moltissimi galli ed etruschi, in verità non illustri ma tuttavia utili e competenti. E perfino dai migliori studiosi di medicina ho desunto ciò che mi è sembrato attinente alla materia[23].

Quanto agli altri[24], vorrei che nel leggermi tengano presente che io non ho scritto per i maniscalchi o per gli stallieri[25] ma per un principe, e per giunta eruditissimo; e che nello scrivere di questo argomento sono stato sintetico, forse più di quanto potrebbero desiderare gli inesperti[26]. Per la quale cosa, o principe, vorrei che ti persuadessi, nel leggermi, che con tutta[27] questa mia fatica a nulla maggiormente io ho mirato che ad esserti sempre più gradito in tutto ciò che potessi. Ma entro in argomento.


LEON BATTISTA ALBERTI

 

 

PICCOLO TRATTATO SUL CAVALLO

 

 

 

Si procuri che siano di bell'aspetto, di età accertata e adatta allo scopo, quei cavalli che si vuole siano progenitori di una razza. Coloro che hanno trattato di queste cose consigliano soprattutto che si scelga come riproduttore un cavallo che sia di grande corpo e, per quanto possibile, di membra tutte salde e robuste ed insieme di bellezza quasi perfetta.

Stabiliscono che per essere bellissimo il cavallo debba avere[28] un capo piccolo e di mirabile magrezza, orecchie molto accostate e sottili, fronte spaziosa fra i sopraccigli, occhi sporgenti, nereggianti e limpidi; elogiano le froge molto turgide e dilatate, la bocca non serrata ma dischiusa ad arco. La criniera piace molto se ha il ciuffo corto, se è quasi crespa ed anche piuttosto abbondante, rivolta dalla parte destra[29]. Il collo poi piace allungato ed esile presso la nuca e che si incurvi poi quanto più vicino alle spalle.

Alcuni apprezzano anche un cavallo dalle scapole scarne, di spina dorsale non sporgente, non incavata, ma uniforme e - come vogliono - molto grossa[30]; di coda ricca, fluente e ondeggiante ma nel contempo ben salda e nervosa; dal petto superbo, atto a sostenere le armature complete, e quindi dai bracci tra loro ampiamente distanziati. Gli antichi apprezzarono il ventre non pronunziato; gli autori però che più tardi s'occuparono di queste cose, apprezzarono il ventre oblungo e che abbia piene e sporgenti le parti che sono fra le cosce; i testicoli né troppo gonfi, né prolassati, ma librati e di pari misura.

La linea delle cosce sia tale che esse, mentre per la consistenza e la grossezza dei muscoli siano atte agli sforzi, conferiscano anche grazia al resto del corpo. Le ginocchia siano non curve, non gonfie, ma ben articolate in una solida massa; gli stinchi sottili e lisci e per niente bitorzoluti. Gli internodi[31] che si impiantano nei piedi siano non cadenti a perpendicolo (come quelli delle capre), non gracili, né maggiormente sviluppati in questa o in quella parte, ma agili e politi. Il cavallo sia di unghia tornita, incurvata in modo uguale, ben dura, cava, risonante, opaca, solida ed alquanto elastica[32].

Alcuni amano il cavallo di colore cinerino nell'insieme, con la spina nerastra dalla cervice alla coda; altri lo preferiscono di color fuliggine che abbia commisto al nero un tono fulvo; altri ancora, bianco pezzato[33].

Di tali fattezze gli autori ritengono opportuno che sia il padre; e questo stesso vogliono anche che sia insigne per gloria di corone e celebre per le vittorie riportate nelle gare.

La fattrice è ritenuta tanto più adatta quanto più si avvicini ai maschi per aspetto e costumi. In particolare, la vogliono di petto e di scapole ben disegnati, formosa e muscolosa in tutte le membra, purché però non sia di corpo eccessivamente grande e grasso, ma ben formato e soprattutto ampia di anche e di ventre. Per le altre cose, la vogliono pari al maschio per età e per costituzione di tutte le membra[34].

Entrambi i genitori siano di buona salute e maturi per procreare una prole sana. Per l'uno e per l'altro riproduttore è particolarmente adatta alla procreazione quella età che sia fra il terzo e il decimo anno dalla nascita. Vi è anche chi afferma che fino al trentatreesimo anno i cavalli maschi possono essere non inadatti al coito[35].

Affermano che nei cavalli l'età si riconosce mediante l'osservazione dei denti. Dicono infatti che verso il trentunesimo mese cadono entrambi i denti medi superiori; e poco dopo anche i due corrispondenti inferiori. Quando poi abbiano compiuto i quattro anni, cadono parimente a coppie, di qua e di là, i denti più vicini a quelli che hanno già perduto, e spuntano poi quelli che gli antichi chiamarono "columellares"[36]. Intorno al quinto anno si dice che li perdano ugualmente a due a due. Nel sesto anno poi, come il cavallo perviene al termine della crescenza, così anche la dentizione è completa: tuttavia dicono che i denti divengano più saldi nel settimo anno. Dopo questo tempo, dicono che essi non offrano più nessun sicuro indizio dell'età, se non forse perché cominciano a diventare cariati e giallastri, e contemporaneamente le sopracciglia cominciano ad incanutirsi, le tempie ad incavarsi, il collo a inflaccidirsi e le unghie ad apparire corrose. Quando appaiono questi segni il cavallo mostra chiaramente di aver vissuto ben oltre il decimo anno. Nel dodicesimo anno dicono che in ciascun dente medio si sviluppi una midolla completamente nera[37].

Il metodo seguito da altri per riconoscere i cavalli vecchi è il seguente. Prendono cioè con le dita la pelle che si stende sopra la mascella, la tirano a sé e subito la rilasciano. Se essa ritorna subito alla precedente levigatezza, indica che il cavallo è giovane; se invece rimane rugosa, dimostra allora, secondo il numero e la profondità delle rughe, che il cavallo è vecchio. Ancora diverso è il metodo seguito da altri. Ritengono infatti che l'età sia segnata sulle labbra, cosicché càlcolano che il cavallo sia vissuto tanti anni quante siano le rughe presso l'estremità del taglio della bocca. Dicono poi che i cavalli vivano fino a cinquant'anni e che si siano trovati anche cavalli di settantacinque anni[38]. Fin qui dell'aspetto e dell'età dei riproduttori.

Vi sono ancora alcune altre cose non trascurabili a riguardo. Bisogna scegliere anche soggetti fecondi, pieni di vigore amoroso e per nulla stanchi ed esauriti, affinché non ne derivi una prole gracile e fiacca. Alcuni dicono anche che i cavalli maschi per quindici anni consecutivi non si accontentino di una monta unica per ciascun anno[39]. Bisogna inoltre scegliere il tempo nel quale farli accoppiare. È necessario infatti badare che la prole non venga alla luce allorquando ciò accadrebbe su prati nudi ed aridi oppure d'estate o d'inverno; cosicché alla madre non manchi il nutrimento né al figlio il latte. Per il resto, portano la gravidanza undici mesi per volta ed ogni dodicesimo mese partoriscono. Si consiglia di farli accoppiare nell'equinozio di primavera.

Devono essere preparati al connubio in modo che spontaneamente, volentieri, scambiandosi nitriti di gioia, si desiderino sùbito fortemente. Perciò, quasi come in legittime nozze, bisogna somministrare cibo fin tanto che le forze siano largamente sufficienti alla fecondazione. Ché, se risultino alquanto frigidi, bisogna stimolarli con mezzi che eccitino l'appetito sessuale. Il luogo del corpo dove esplode il piacere deve essere toccato con squilla, ortica, pepe tritato e stimolanti di tal genere; bisogna anche massaggiare con la mano spalmata di siffatti afrodisiaci, alternativamente, le froge dei soggetti che si apprestano all'accoppiamento. Deriva infatti da ciò che lo spirito[40] sia acceso quasi da un fuoco e che per tale ragione i soggetti siano più ansiosi di soddisfare il desiderio e di estinguere l'ardore della libidine. Bisogna poi badare a che l'animale non si precipiti nel piacere smodatamente, affinché non annulli, volente o nolente, la fecondità del congiungimento e il vantaggio dell'operazione[41] o col rinunziarvi per disaccordo o con l'incorrere nella stanchezza[42]. Dicono che allora si ottiene una regolarità in queste cose, quando siano accoppiati soltanto a giorni alterni[43] e soltanto nel vespero, in un luogo né caldo né sporco, ma ameno ed ombroso.

Le puledre invero sogliono essere alquanto riluttanti ai primi accoppiamenti; e perciò, affinché il maschio bramoso non si sobbarchi anche alla fatica di inseguirle[44], dicono che sia necessario trattenerle durante l'accoppiamento, senza violenza, con la mano e con la briglia. Se poi, compiuti i preparativi della monta, la femmina comincerà violentemente a rifiutare del tutto l'amore e a respingere il maschio, dicono che bisogna far cessare l'insistenza in quel momento molesta dello stallone troppo sfrenato. Se invece le puledre diventeranno troppo focose nell'amore, tagliata la criniera[45] gli ardori si calmeranno.

Quando la cavalla sarà incinta, e quando, dopo il parto, alleverà il puledrino[46], gli autori prescrivono di isolarla dalla mandria. E ciò affinché la prole non corra pericoli per la violenza di qualche cavallo lascivo o rissoso[47]. Bisogna anche evitare che il puledro, stando in ozio, si indebolisca per la fame e per il freddo; che si infetti per il sudiciume o inflaccidisca di pitùita per l'eccessiva abbondanza del latte materno. Se il puledro resterà orfano o se la madre si rivelerà inadatta all'allattamento, bisogna provvedere a che qualche altra femmina allevi il puledro. Parimente bisogna somministrargli di tanto in tanto anche del foraggio, tale però che risulti facile alla digestione. Di tal fatta sono la crusca di frumento, la farina d'orzo e le erbe più tenere. Inoltre alla gestante bisogna far mangiare le cose migliori e quelle che si sia constatato esserle più gradite fino a che diventi completamente sazia, ma senza fastidio, e possa essere sollecitamente provvista di latte.

Gli autori prescrivono poi che i puledri, finché son piccoli, siano lasciati ai giuochi, non siano trattati duramente, non siano incitati ad ardue prove, non costretti a percorrere vie difficili, sassose o coperte di nero fango, affinché una pietra particolarmente dura da essi urtata non abbia a rompere le tenere unghie o a danneggiare penosamente il tessuto corneo[48]; oppure affinché, se cadano sui ginocchi o striscino con le tibie e coi tendini, questa circostanza non procuri loro qualche danno.

Cautamente, dunque, devono essere incitati agli esercizi di agilità ed al moto in un rorido praticello - di mattina in più ampi spazi -, sotto la guida della madre[49].

Quanto più forti cominciano a diventare con l'età, tanto più devono essere abituati, col procedere degli anni, a quell'attività per la quale ciascuno sembri specialmente nato. Non tutti infatti sono stati dotati dalla natura così che possano fare le medesime cose[50]. Alcuni sono particolarmente feroci nelle azioni di guerra, altri sono meglio disposti a meritare le corone olimpiche, altri sono più acconci per gli usi domestici, per le esigenze della vita civile, per le opere agresti.

Si ritiene però che allora i cavalli si riveleranno di ottima indole quando siano pronti ad ogni genere di movimenti; di corpo particolarmente scattante; di piedi scalpitanti; di orecchie sensibilissime, attente e mobili; di sopracciglia corrugate e di occhi penetranti; di coda eretta quando si accingano a mostrare le forze; e qualora anche tutte le altre membra siano protese, scattanti e quasi rilucenti quando si slancino nel salto o nella corsa[51]. Pertanto solo questi cavalli di indole generosissima, che sono così dotati, possono ritenersi nati per difendere la patria dal nemico, per estendere il dominio dei prìncipi e per diversivo di questi[52]: e tanto più saranno pronti a conseguire la gloria, quanto più con la sua perizia e diligenza l'allevatore sia riuscito ad abituarli all'esercizio del coraggio.

Ma certo i cavalli, sebbene sembrino dati dalla natura stessa agli uomini per gli usi della guerra, devono essere educati innanzi tutto mediante gli esercizi propri del tempo di pace.

Per essi infatti è esattamente come per i cittadini; fra i quali, o per l'esempio dei commilitoni o per lo spirito di emulazione o per l'incitamento dei capi o per la forza stessa degli eventi e delle necessità contingenti, ciascuno può d'un tratto esser chiamato e sospinto alle armi, intraprendendo come recluta anche[53] un tirocinio militare; laddove quelle cose che concernono i buoni costumi, il dovere, la dignità civile, non s'imparano senza i precetti dei sapienti, né si conseguono senza applicazione e diligenza. Perciò, affinché il cavallo sia mite, mansueto, docile e obbediente ai giusti comandi, e si sottometta di buon grado al padrone, ritengo che soprattutto si debba allenare con ogni cura e con la massima assiduità.

Il tempo adatto per infondere nel cavallo le buone qualità giungerà verso il compimento del terzo anno di vita: in questa età i cavalli debbono essere tenuti lontani da ogni lascivia e dissolutezza e da ogni danno dell'amore e della libidine. Dicono infatti che si esauriscono troppo e che invecchiano anzitempo quei cavalli giovani non ancora maturi e saldi per l'amore che, spinti dall'età, indulgano alla libidine[54]. Ma non d'un tratto deve essere esercitato in pieno il comando e deve essere imposta al principiante tutta la molestia della soggezione: bisogna invece dapprima imporre le redini, poi il freno, ed in seguito i cuscinetti[55]; una volta sistemati questi, i cavalli sono avviati alle loro mansioni[56].

Il cavallo non abituato a sopportare queste cose e lascivo per l'età, deve essere attirato senza alcuna durezza ma quasi con blandimenti e condotto al suo lavoro. Da principio devono essere accumulate nella mangiatoia della scuderia le tenere erbe alle quali era abituato nei prati; in seguito deve essergli offerto il fieno e insieme, quasi come companatico, deve essergli somministrato l'orzo a piene mani[57], di mattina e di sera; mentre mangia, poi, quasi furtivamente, deve essere legato con garbo mediante corregge. Queste non siano dure; e non siano né corte tanto che non gli sia lasciata alcuna possibilità di muoversi, né tanto lunghe da essere quasi come un fastidioso laccio gettato a tener fermi i piedi penosamente legati e ad immobilizzare le ginocchia. Perché si provveda con maggiore cautela a ciò, gli esperti raccomandano di assicurare le corregge parte a destra, parte a sinistra. Raccomandano anzi a questo scopo che i lacci dei piedi siano lasciati lenti per meglio adeguarli all'irrequietezza dei cavalli legati.

Nella scuderia dunque bisognerà disporre cose di tal fatta che siano gradite ed evitare quelle sgradite. E poi, quasi per fare amicizia e familiarizzare col cavallo, bisogna accarezzarne frequentemente il petto e poi tutto il corpo[58], e bisogna specialmente aver cura dei piedi sollevandoli assai spesso per pulirli e strofinarli.

Quando si siano abituati ad esser condotti al pascolo quietamente per la briglia, si adoperi un fascio d'erbe alquanto dure o un bastoncino di legno a mo' di morso, oggi per un poco, domani per un poco di più e, quando siano trascorsi tre giorni, ancora per un poco di più[59]. Da questo momento si aggiunga alle briglie un freno di ferro cosparso di miele e di sale, e si conduca il cavallo per mano attraverso la corte ed i luoghi vicini. Si invitino alcuni osservatori che lo accarezzino ed altri che quasi lo esortino con gli applausi, e finalmente sia presentato in pubblico: nel foro, nelle arene e nei luoghi molto affollati[60]. La forma e la disposizione del morso siano poi non tali che il cavallo stia impacciato con le fauci tumescenti[61] e, sopra, le narici quasi spaccate, ma tali che, come esso si presenti insigne con la testa libera nei movimenti e lietamente eretta - adeguandosi garbatamente alla disciplina -, così il suo sguardo regoli costantemente i passi.

Con pari delicatezza bisogna mostrargli i cuscinetti[62] coi quali deve esser bardato; dopo di ciò, con garbo, questi devono essergli posti sul dorso e più volte tolti e rimessi, infine devono essere ben distesi[63] e legati con bende; il cavallo poi va istruito in modo tale che sopporti senza fastidio un mozzo di stalla che stia su di esso per un po' proteso verso il collo e per un po' dritto in arcione, e mentre monti e mentre salti giù[64]. Certo bisogna badare che qualcosa non prema troppo duramente sul dorso né lo stringa troppo: questo inconveniente infatti non solo provoca un grave danno alle scapole e al dorso, ma fa sì che il cavallo cammini coi piedi anteriori storti e gettati senza garbo.


In che modo si debba addestrare il cavallo

agli usi della guerra

 

 

Dicono inoltre[65] che il cavallo ammaestrato in tal modo deve essere poi addestrato ad ogni altro utile esercizio, cioè a sopportare le fatiche per la dignità e la gloria della patria, a salvare i cittadini, a sconfiggere i nemici e ad ogni altro lodevole compito di tal genere[66].

In tale impresa bisogna curare le seguenti cose: che sia mite e obbediente; che sappia avanzare per schierarsi in battaglia e sostare quietamente negli agguati; che sia pronto nell'accorrere, rapido nel mutar direzione, deciso e costante nella carica; che sia in grado di saltare agilmente e di nuotare a lungo; che sia ardimentoso, feroce e insieme disciplinato nella zuffa; lieto e festoso nella parata del trionfo[67]. Forse bisogna fare attenzione fra le prime cose anche a ciò di cui sogliono curarsi i Sarmati[68], i quali abituano i cavalli in modo che possano sopportare la fame ed essere soddisfatti soltanto del bere.

Per condurre a termine in gran parte queste cose vi sono due ottimi mezzi: la redine, con la quale si può ottenere che, se per caso assalga il nemico in modo avventato e inopportuno o senza che ne sia stato dato il segnale od in luogo sfavorevole, oppure se per caso fugga per viltà o per paura abbandonando il posto, sia costretto all'obbedienza; e gli speroni, i quali - al contrario - sono stati inventati proprio perché sia incitato a fare il suo dovere se per caso si mostri pigro e neghittoso. Pertanto deve essere ammaestrato con la mano e col piede[69] del cavaliere badando, ove si tratti di un soggetto recalcitrante, di stimolarlo col calcagno nudo e con una leggera sferza prima di usare gli sproni. Ché, se indipendentemente dalla volontà del padrone abbia assunto un'andatura disordinata, bisogna che, scuotendo alquanto le redini con la mano, si faccia urtare il freno contro la bocca ad ogni passo. Appena abbia obbedito, sùbito conviene astenersi da tale provocazione affinché il ribelle creda in séguito che per il suo andamento errato gli capiti di urtare in quel modo contro il morso[70]. Se poi cominci a mordere il freno, forse per caparbietà, bisogna strappare dalla mascella inferiore i primi quattro denti decidui che volgarmente sono detti "cascaliones"[71].

Giova poi, perché apprenda la disciplina, che gli si pongano accanto alcuni cavalli anziani, con l'esempio dei quali, contribuendovi l'esercizio, di giorno in giorno avverta meno il fastidio e si abitui ad imitare le capacità di quelli già "scafati". Impari da questi a seguire, a precedere, a penetrare quasi nel mezzo della schiera, a fermarsi, a dirigersi verso luoghi elevati e scoscesi, a fuggire per lungo tratto in breve tempo.

Vi è chi prescrive che debbano esser mostrati al cavallo alcuni tronchi di forma orribile e spaventosa e che questo debba esser garbatamente condotto vicino e attorno ad essi facendolo poi fermare dappresso affinché impari a riconoscerli esattamente qualunque ne sia l'aspetto[72]. Talvolta bisogna anche legarlo sul posto. Bisogna poi che vi siano cumuli di paglia gettati lungo il cammino affinché senza molto pericolo si abitui a saltare. Infine, senza arrecargli danno, bisogna cercare di abituarlo a non avere alcun timore infondato, a non temere i rumori o il movimento delle schiere[73]. Ma bisogna usare moderatamente di questi mezzi; e bisogna innanzitutto badare a che, mentre non ne derivi danno alla sua salute, nel contempo non acquisisca qualche abitudine cattiva e quasi sfrontata. Inoltre bisogna badare a che non perseveri nell'avere continuamente paura, nel fuggire, nel disdegnare le redini e nel voler abusare della sua libertà: affermano infatti che ciò accade se per caso dall'istruttore sia mantenuto lo stesso identico sistema, e sempre nel medesimo luogo, nell'addestrarlo alla corsa, al salto ed alle evoluzioni; o se lo si comandi suo malgrado con eccessiva e inconsueta ostinazione. A tal riguardo, dicono che bisogna farlo correre ora moderatamente, ora un po' più intensamente, in salita e in discesa; che bisogna farlo andare ora più frequentemente in una direzione, ora in un'altra; e che soprattutto bisogna badare a che per caparbietà non abbia la meglio insolentemente.

Nel far ciò è necessario che l'istruttore moderi la propria impazienza cosicché gradatamente il cavallo non avvezzo e intimorito possa acquistare dimestichezza con le cose che per il momento gli fanno paura. E bisogna badare a che per causa del rigido governo dell'istruttore una certa sofferenza non venga ad accrescere il terrore già contratto[74]. Così pure bisogna badare accuratamente a che il giovane cavallo non solo riesca addestrato egregiamente in quelle cose per le quali sarà impiegato in futuro, ma innanzi tutto a che quelle medesime, laboriose e difficili, egli possa compiere con la purezza di stile e l'ardimento che son propri della sua età. Si tenga presente che ciò invero potrà accadere se ne conserveremo integra la salute.


Quali cose per lo più determinano

nei cavalli le malattie

 

 

Come contrarie alla buona salute sono citate le seguenti cose: l'ozio, la sazietà, la sporcizia; e così le cose opposte: la stanchezza, la fame e, forse, un eccesso di cure. È facile in effetti che da tali cose derivino moltissime gravi malattie.

Dalla fame infatti deriva inquietudine interna o mancanza di forze; di qui debolezza fisica, perdita della fierezza, ipocondria, onde poi perfino la cecità: poiché le sue membra, aride e magre, avranno assorbito sostanze non abbastanza digerite, avviene che un bruciore opprime lo stomaco, il sangue ardente affatica le vene e affiora all'epidermide un sudore che lo consuma[75]. Di qui derivano la scabbia, il fuoco persiano e ripugnanti malanni di tal genere. Dalla stanchezza deriva l'alterazione degli umori, e di qui insensibilità, danni ai nervi, e indurimento delle giunture. Dall'ozio, e quindi dalla cattiva digestione e dalla pienezza, derivano molti più mali. L'ostruzione infatti, e quasi ogni genere di ascessi, derivano da un eccesso di sangue racchiuso nelle vene e da un esorbitante riempimento dei vasi, per l'impeto del chimo che bolle e fermenta nei visceri. Dalla sporcizia, come da un certo contagio, sono guastate l'integrità e la purezza degli umori: in particolare il vapore maleodorante del fimo dentro la scuderia, provocando secrezioni per il suo calore, penetrando per la sua acutezza, macerando per la sua umidità, è fortemente nocivo alla tibie e ai piedi del cavallo. E ciò massimamente quando, essendo stato il cavallo condotto fuori dal luogo caldo, il vapore maleodorante assorbito diventa più denso e si rapprende per il freddo: ché anzi finanche la pioggia guasta - come dicono - la pelle delle bestie. Tali dunque[76] sono le cause dalle quali derivano moltissime malattie. Né, a tal proposito, bisogna trascurare che ogni animale, se sia stato troppo a lungo ozioso in una stalla particolarmente oscura, diventa - com'è ovvio - del tutto indolente, ombroso e timoroso di ogni piccolo rumore e di ogni forma[77] che gli si presenti, diversa da quelle della sua specie.

Infine i naturalisti[78] affermano che, siccome con un moderato e disciplinato esercizio delle membra il vigore si accresce si rafforza e fiorisce in ogni età e si conserva la buona salute, interessa massimamente in quale tempo e luogo, in quale misura e in quale modo i cavalli siano sottoposti all'esercizio stesso. Dicono che il tempo per iniziare l'esercitazione è adatto e particolarmente salutare allorché essa venga eseguita non nelle ore più calde, non durante il freddo intenso, né nel cuore della notte, ma quando l'aria è mite: di mattina all'alba, e di sera fino al tramonto del sole prima del crepuscolo.

Bisogna che il luogo sia adatto al tipo di esercizio e che l'esercizio sia adatto all'età del soggetto. Non infatti le stesse cose devono essere apprese da tutti, ma alcune dai puledri e dagli individui più delicati, altre dagli adolescenti e dai puledri più robusti[79]. Dicono poi che conviene indurre all'esercitazione i puledrini fin dalla più tenera età adescandoli con qualche allettamento. Affinché ciò avvenga nel migliore dei modi consigliano quanto segue. Deve essere mostrata loro la madre, da un luogo che non sia molto lontano dal puledro, quasi come una meta da raggiungere, in un prato fresco e verdeggiante, e deve essere allontanata un poco con passo moderato, quasi come se sfuggisse al figlio che l'insegue. E ancora, in un festoso giuoco, devono essere indotti - se necessario con una leggera sferza - a slanciarsi in gara con i coetanei alla conquista di gradevoli fonti. Dopo di ciò, attraverso gli anni, devono esser gradatamente temprati con l'esercizio affinché sopportino fatiche sempre maggiori, ma non fino alla stanchezza, non fino all'esaurimento completo. Ma quando emerga un cavallo di indole ambiziosa ed altera, questo bisogna saperlo infiammare, per così dire, in tutte le vene di passione agonistica per il piacere di conseguire la gloria[80]; purché sia sempre conservata in tutte le fasi dell'addestramento questa norma: che con piccoli progressi il cavallo sia reso di giorno in giorno più esperto mediante l'esercizio.

Bisogna anche scegliere quei luoghi e quei tempi che siano non pericolosi per gli allievi mentre si esercitano e che, terminata l'esercitazione, non arrechino danno al cavallo stanco e sudato. Sono di certo nocivi per i cavalli accaldati a causa dell'esercizio il vento, l'ombra della fredda notte e soprattutto i raggi della luna[81]. Perciò dev'esser condotto all'allenamento non lontano dalla casa e dalla scuderia. Compiuto l'addestramento, il cavallo stanco non rimanga esposto né alla fredda notte, né al pernicioso vento di tramontana, affinché non corra rischi e non si aggiunga alla fatica una nuova causa di disagio[82].

A queste cose bisogna aggiungere che - come dicono - è opportuno castrare quei cavalli i quali si vuole soprattutto che eccellano per lungo tempo nella corsa, affinché - divenuti per questo meno eccitabili - non si esauriscano a causa della sfibrante attività. Ai cavalli poi che tu voglia che siano più impetuosi e più combattivi nel fiaccare la resistenza di quelli che l'inseguono[83] e di quelli che ad essi si oppongono[84], deve essere concesso nel corso dell'anno l'amore durante e non oltre una sola stagione: l'autunno, quando sono particolarmente saturi di sostanza seminale. Per gli uni e per gli altri però bisogna tener conto dell'età, delle forze, ed infine della loro attitudine - nell'insieme - a far ciò che tu ti proponi.

A tal proposito bisogna stare attenti anche, come dicono, a non condurli nell'arena o nella pista per l'esercitazione se prima non si siano liberati dell'increscioso peso dell'alvo e a non nutrirli o abbeverarli quando ritornano dall'esercitazione se prima non abbiano urinato.

Dicono anche che quando sono grassi e troppo pieni, specialmente se non sono abituati, un'intempestiva esercitazione risulta nociva. Per tal motivo, affinché all'inizio della primavera, grazie alle novelle erbe germoglianti, nei cavalli si generi un sangue più puro, prescrivono che, dopo averli nutriti di farragine per dieci giorni, si debba aprire presso il ventre la vena basilica sovraccarica di sangue eccessivamente acquoso. Così anche d'estate - affinché il sangue bollente per il caldo non si accumuli in brutti ascessi -, e parimente durante l'autunno - affinché, essendosi rimpinzato troppo per il piacere e la gustosità del pascolo e dei semi recenti, il cavallo non corra rischi per il turgore dei vasi sanguigni - bisogna aprire sempre quella medesima vena. In generale prescrivono di non salassare quelli affaticati o macilenti. Anche ai castrati, dicono, non bisogna togliere sangue imprudentemente[85]. Inoltre gli esperti dicono che i cavalli per molte ore dopo il salasso non debbono essere né nutriti né abbeverati. Prescrivono parimenti che non debbono esser tenuti in luoghi o freddi, o ventilati, o umidi. Fin qui dell'esercitazione.

Avvertono che bisogna provvedere con cura ancora maggiore affinché la sporcizia non li danneggi. Dunque, prescrivono di accoglierli, quando ritornano dall'arena o dall'ippodromo, nel modo seguente: per prima cosa bisogna coprirli, poi condurli per l'angiporto a lentissimi passi fino a che il sangue non sbollisca; dopo di ciò il cavallo va lasciato libero di sdraiarsi sullo strame e di voltolarvisi un poco, se vuole; quindi bisogna anche togliere con brusca e striglia tutto il sudiciume dal dorso, dal ventre e dai fianchi. V'è chi dice, attenendosi alla tradizione, che dopo una sudata vada unto con olio. Dopo di ciò bisogna massaggiare tutto il capo e, prima ancora, gli stinchi con un batuffolo di stoppa. Bisogna che la frizione non sia né rapida, né pesante, né insistente e molesta dove la pelle è più delicata, e neppure fiacca e inefficace per la sua lentezza, ma tale che sia sufficiente a scuotere e ad eliminare il sudiciume dalla pelle. A questo infatti giova veramente la frizione: perché, mentre richiama l'umidità dai muscoli alla superficie della cute, nel medesimo tempo - avendo anche rimosso il sudiciume che per la sua aridità avrebbe dannosamente assorbito l'umore fluido traspirante - serve a tirar fuori e ad arrestare il sudore.

Compiute queste operazioni, i piedi vanno lavati con molta acqua, e questa sia quanto meno possibile sabbiosa, altrimenti arrecherebbe danno alle unghie. Da ultimo, in una scuderia ben pulita, liberata completamente dal fimo e da ogni afrore, debbono esser legati presso la mangiatoia.

Prescrivono anzi di tenere i cavalli separati per mezzo di lunghi pali interposti fra l'uno e l'altro ad evitare contese e baruffe. Le prime ore del mattino vanno impiegate nelle medesime cure. Deve esser rimosso il sudiciume, le unghie debbono essere liberate dal letame accumulatosi durante la notte; se il luogo risulti inquinato, bisogna rimuoverne la causa. Finalmente deve esser condotto al suo lavoro di apprendimento e di esercitazione. Al ritorno poi deve essere accolto nella scuderia con le cure di cui abbiamo parlato.

Oltre a ciò, che va fatto durante il giorno, [di notte] specialmente d'estate il cavallo deve esser tenuto soltanto sul duro suolo non ricoperto di paglia.

Quando poi i cavalli hanno fame e sete - non certo quando siano accaldati, ma quando si siano rinfrancati - deve esser data loro per prima cosa a profusione e fino a sazietà acqua non fredda, non attinta di fresco, ma quasi intiepidita dal sole; non troppo sporca o putrida e tuttavia densa. Affinché poi ingeriscano moltissima acqua, bisogna stimolarli a bere somministrando loro del sale. Dicono che ciò contribuisca moltissimo ad accrescere la grossezza delle membra. Affermano infatti che non altrove che nel mare, per l'abbondanza dell'acqua salata, crescono animali dal corpo smisurato[86].

Subito dopo bisogna porgere a ciascun cavallo non più di tre libbre di orzo purissimo[87] in una buca molto profonda perché, affaticandosi per soddisfare la sua avidità, rafforzi le tibie anteriori e tutto il petto. Al contrario prescrivono che le stoppie e lo strame compresso e pulito - avendone scossa la polvere - devono esser porti in modo che pendano dall'alto affinché, a furia di tendere il collo, il cavallo diventi più sottile alla sommità di esso e risulti più agile nei movimenti della testa. Parimente a sera, dopo che abbia abbondantemente bevuto, devono essergli somministrate tre libbre di orzo e moltissima paglia. Ma bisogna badar bene che non diventi troppo pieno e satollo. Ammoniscono che nel somministrare i pasti si faccia in modo che i cavalli prendano il cibo - dal basso o dall'alto che sia - agevolmente e senza un'eccessiva flessione o distensione delle membra.

Per il resto, una è l'opinione nella quale tutti concordano, che – cioè - giovi molto se di giorno in giorno sempre meno vengano blanditi, affinché si abituino a sopportare bene il freddo, le veglie, la fame, il caldo, i venti e la polvere.

A questo proposito dicono anche che bisogna ferrarlo[88] piuttosto tardi affinché, se per caso accada qualcosa per cui il cavallo debba procedere con l'unghia nuda, questa, incallita grazie al precedente esercizio, si consumi di meno. Conviene anzi ricordare quanto adatta sia ciascuna parte delle nostre membra a quegli usi ai quali è destinata[89]; per cui sarebbe turpe certamente che i cavalli, per nostra imperizia o negligenza e per nostra pigrizia, subissero qualche danno.

Ché se qualcuno chiedesse quale debba esser considerata la prima cosa in tutto quanto concerne l'allevamento dei cavalli: la prima cosa – risponderei - è che vengano bene esercitati. I nostri antenati, infatti, sostennero che al cavallo non deve esser dato alcun riposo. Quale la seconda? Che sia ben governato: perfino le statue fatte di avorio e di bronzo imputridiscono col sudiciume[90]. Quale la terza? Che lo si nutra.

I nostri maggiori stabilirono che i cavalli dovessero essere come gli schiavi[91], ai quali bisogna dare le cose necessarie e bisogna comandare ciò che onestamente possono fare. Affermano che tutto ciò si può ottenere bene mediante una sola cosa: e ciò è la diligenza del padre di famiglia[92]. Vi è in Senofonte un antico proverbio: «L'occhio del padrone ingrassa il cavallo.». Questo basti aver raccomandato ripetutamente: di temere sempre che, come dicono, a causa di un rigido governo e di dure punizioni, i cavalli contraggano, per spirito di ribellione, qualche difetto. Nessuna cosa infatti suole renderli ostinati, recalcitranti e pigri più che il comando spietato di un padrone intemperante.

Mi ero proposto di scrivere anche qualcosa circa la terapeutica dei cavalli malati, ma, avendo constatato che tanti autori, ed anche ottimi: Absirto, Chirone, Pelagonio, Catone, Columella, Vegezio; poi anche scrittori recentissimi, competenti ed utili da consultare su tale argomento: Palladio, il Calabrese, Alberto, Ruffo[93], Crescenzio, Abate ed altri del genere ne avevano scritto dottamente ed elegantemente[94], giunsi alla conclusione che non fosse compito mio di spendere fatica su tale argomento, poiché mi rendo conto di non poterne scrivere in modo diverso da come ne scrissero gli antichi conservando la mia dignità, e di non poterne scrivere così come ne scrissero gli antichi evitando l'accusa di plagio[95]. Tuttavia è conveniente esporre a questo punto alcuni avvertimenti adatti ed utilissimi alla cura dei cavalli non dati neppure dagli antichi. Essi sono i seguenti[96].


Poche cose pertinenti alle

malattie dei cavalli

 

 

Ci accorgiamo invero che il cavallo non sta bene da alcuni segni. Ciò sarà allorché si comporti contrariamente al modo che gli era consueto quando usava rettamente delle proprie membra. Come per esempio: se dorma di più, se sia meno vivace, se mangi più voracemente, se beva più avidamente, se respinga con fastidio il cibo o l'acqua, se urini di più o di meno, se sia affetto da diarrea o da stitichezza, se si abbandoni con il capo riclinato e dimesso, se mandi cattivo odore, se sia diventato più gracile o più lento, se ansimi, se emetta dal ventre rumori e cattivi odori; anche se abbia le orecchie fredde, se sudi molto pur stando in riposo, se diventi più macilento o più gonfio. Da questi segni, dunque, comprenderemo che l'animale[97] non sta bene.

Vàluta innanzi tutto, più e più volte, secondo le caratteristiche di ciascuna malattia, i segni che siano apparsi; questi poni quanto più diligentemente possibile in relazione con le cause, e con ogni cura ricerca a lungo piuttosto donde la cosa derivi che il danno che ne consegue[98]. Cerca con ogni attenzione di individuare e di eliminare le cause della malattia. Sràdicane la virulenza sia dalle parti più nobili che da quelle più vili del corpo: bada che non lasci traccia ciò che è passato e che non degeneri ciò che si è localizzato; asporta quelle parti che son degenerate affinché non corrompano quelle sane. Fa' in modo che quelle parti del corpo che si siano indurite più del normale si ammorbidiscano, che si sfiammino quelle che erano infiammate, che si riscaldino quelle che erano piuttosto fredde; che quelle che erano afflosciate si rassodino, che rientrino nei limiti quelle che si erano eccessivamente ingrossate e che, al contrario, riacquistino la loro misura quelle che erano divenute insufficienti[99].

Tuttavia, non affrettarti a dare medicine, ma, intanto - affinché il cavallo si rafforzi contro la malattia -, somministra tutte quelle cose[100] che servano ad aiutare la natura. Non sollecitare la natura stessa a compiere precipitosamente la sua opera se, caso mai, avrà iniziato un efficace processo di purificazione[101].

Se per caso poi la natura sembrerà alquanto lenta, non espellere l'umor malefico di colpo con una forte medicina quasi usando violenza, ma blandamente sollecita la natura al suo compiuto di rinnovare la salute.

In tutte queste cose bada a non apportare di continuo variazioni durante la cura inconsultamente per la smania di sperimentare[102]. Adotta, per curare, ogni mezzo che sembri più ragionevole; tuttavia preferisci piuttosto quelli che siano stati legittimati dall'esperienza[103]. Nel curare, attieniti ai tempi, ai modi, e proprio a quelle cose che sei solito usare, finché non abbiano avuto efficacia. Proseguirai con la cura fino a quando non ti accorga con certezza che ogni causa del male sia stata estirpata dalle radici. Questo infatti sarebbe male, avere un cavallo continuamente malato. Devi invece persistere nella cura finché non ti accorga che l'animale si avvalga delle proprie forze quasi del tutto reintegrate[104].


INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI

 

1.        Legatura in miscellanea di tre "cinquecentine", una delle quali è l'editio princeps del «De equo animante». Biblioteca Universitaria, Basilea.

2.        Antiporta dell'edizione Stella del «De equo animante». Biblioteca Universitaria, Basilea.

3.        Frontespizio interno dell'edizione Stella del «De equo animante». Biblioteca Universitaria, Basilea.

4.        Pianta della città di Ferrara eseguita da Luigi Passega e Luigi Ughi, dalla «Guida del forestiere ecc.» di Antonio Frizzi, Pomatelli, Ferrara 1735.

5.        ...«l'occhio albertiano». Emblema di Leon Battista Alberti. Miniatura dal Codice Estense Lat. 52 (VI, A 12). Biblioteca Estense, Modena.

6.        Ferrara. «Arco del cavallo». Veduta d'assieme.

7.        Ferrara. Monumento equestre a Niccolò III d'Este.

8.        Angolo del palazzo di corte degli Estensi (o palazzo Comunale) con i monumenti a Niccolò III e a Borso d'Este a Ferrara.

9.        Basamento della statua equestre a Niccolò III d'Este. Dettaglio dell'inserimento di un suo lato nella parete della facciata del palazzo Comunale di Ferrara.

10.     Basamento della statua di Niccolò III d'Este, con raffronto delle colonne e dei capitelli. «Arco del cavallo», Ferrara.

11.     Basamento della statua di Niccolò III d'Este, con raffronto delle colonne e dei capitelli (part.). «Arco del cavallo», Ferrara.

12.     Veduta panoramica del corso che conduce dall'«Arco del cavallo» al castello Estense di Ferrara.

13.     Veduta d'insieme della "loggia" del palazzo Comunale, con i due monumenti a Borso e a Niccolò III d'Este a Ferrara.

14.     Statua equestre di Niccolò III d'Este a Ferrara.

15.     Basamento (part. con bicicletta) della statua equestre a Niccolò III d'Este a Ferrara.

16.     Epistola di M. M. Stella premessa al trattato nell'editio princeps; prima pagina. Biblioteca Universitaria, Basilea.

17.     Epistola di M. M. Stella premessa al trattato nell'editio princeps; seconda pagina. Biblioteca Universitaria, Basilea.

18.     Inizio del «De equo animante» nel codice Ottoboniano. Biblioteca Vaticana, Città del Vaticano.

19.     Inizio del «De equo animante» nel codice Canoniciano. Bodleian Library, Oxford.

20.     Prima pagina della dedica a Leonello d'Este nell'edizione Stella. Biblioteca Universitaria, Basilea.

21.     Una pagina dell'edizione Stella del «De equo animante», con alcune correzioni del Chiosatore di Basilea. Biblioteca Universitaria, Basilea.

22.     Conclusione del «De equo animante»  nel codice Ottoboniano. Biblioteca Vaticana, Città del Vaticano.

23.     Conclusione del «De equo animante»  nel codice Canoniciano. Bodleian Library, Oxford.

 

In copertina: Stemma di Casa d'Este del tempo nel quale fu scritto il trattato. Miniatura del Codice Estense Ital. (VII, A. 26). Biblioteca Estense. Modena.


 

REFERENZE FOTOGRAFICHE

 

 

Numeri da 1 a 4 e 16, 17, 19, 20: Antonio Videtta, Napoli.

Tavola in copertina e num. 5: Biblioteca Estense, Modena.

Numeri da 6 a 15: Ce.S.M.E.T. Editrice srl, Napoli.*

Numeri 18 e 23: Bodleian Library, Oxford.

Numeri 21 e 22: Biblioteca Vaticana, Città del Vaticano

 

 

 

 

 

 



[1] Il Mancini a questo punto annota in latino: «Il principe di Ferrara al quale l'Alberti dedicò il libretto è Leonello figlio di Niccolò d'Este, il quale resse il ducato dal 26 febbraio 1441 all'ottobre 1450. Nessuno potrebbe pensare che le lodi tributategli fossero di convenienza: esse concordano infatti con i giudizi espressi dagli annalisti quando - già defunto Leonello - ne parlavano sinceramente».

[2] Il Mancini fa seguire al titolo la seguente annotazione tecnica in carattere piccolo: «Dal codice Romano della Biblioteca Vaticana n. 70 Ottoboniano, f°. 122, collazionato con l'opuscolo edito a Basilea nell'anno 1556.» Ad essa appoggia la seguente nota: «Nonostante che Michele Martino Stella, editore dell'opuscolo relativo al cavallo, nella lettera dedicatoria abbia affermato di ritenere doveroso impedire che l'opera d'uomo insigne, sebbene esigua di mole, perisse per la muffa o malamente corrosa dalle tignuole e dalle tarme, la cosa tuttavia non è andata secondo i suoi propositi: il libretto infatti è rarissimo. Io stesso, rovistando le più ricche biblioteche d'Italia, l'ho trovato soltanto a Montecassino. Il monaco benedettino Ambrogio Amelli, poi, cortesemente me ne porse una copia manoscritta. Quanto a quella contenuta nel codice Ottoboniano, la eseguì rapidamente Giovanni Odone Covato il 7 marzo 1468 come egli annotò in calce all'opuscolo.».

Come egli interpretasse il brano sintatticamente più tortuoso, anomalo e difficile della lettera dedicatoria premessa dallo Stella alla sua edizione del trattato, il Mancini ce lo dichiara implicitamente nella sua Vita di Leon Battista Alberti, ed. cit., a pag. 180, dove cita se stesso e lo Stella in italiano e donde ho attinto le parole su citate in neretto.

Quanto alla traduzione (ma sarebbe meglio dire all'interpretazione) del titolo, cfr. quanto discusso nel paragrafo «IL TITOLO E I CONTENUTI».

[3] Questa locuzione, che esprime uno dei concetti più tipici del pensiero albertiano, ricalca puntualmente il titolo del suo trattato «Della tranquillità dell'animo» scritto pressappoco nei medesimi anni (1442) in lingua volgare. E forse in questa affermazione («Ho compreso allora…») si può anche cogliere - inconscia, magari - un'allusione alle vicende dello Stato nel quale egli normalmente svolgeva la sua opera: quello della Chiesa, che proprio allora, sotto il papato di Eugenio IV (Gabriele Condulmer), stava vivendo uno dei periodi più problematici e travagliati della sua storia.

[4] Non si riferisce, evidentemente, ad altro luogo di questo trattato, ma addirittura ad altra opera; lo fa tuttavia col tono discorsivo di chi sa bene che l'interlocutore è in grado di capire al volo cosa si voglia intendere. Allo stesso Leonello d'Este aveva infatti dedicato nel 1442 il dialogo italiano «Teogenio» o «Della repubblica, della vita civile e rustica e della fortuna» secondo il titolo non originario apposto nelle antiche edizioni a stampa, che ne riassume la tematica palesemente attinente agli ideali che qui va vagheggiando l'Alberti. Egli aveva dedicato, come s'è detto, quel dialogo scritto già da qualche anno (intorno alla metà del terzo decennio del secolo) «A Leonello illustrissimo principe estense»; è dunque plausibile, per la coincidenza degli argomenti e della persona alla quale son dedicate le due trattazioni - nonché per vicinanza di date -, identificare in quell'«altrove» proprio il «Teogenio», come se l'Alberti intendesse dire: «Ma su questi argomenti ti ho già espresso recentemente il mio pensiero in un altro mio scritto.»

[5] Si pongono qui vari ordini di questioni che eccedono lo spazio di una nota. Se ne è però già discusso nel paragrafo «IL MONUMENTO FERRARESE - ecc.».

[6] Cfr. in proposito le precisazioni fatte nel suddetto paragrafo (pagg. 55-57 ["Niccolò III d'Este… da Giacomo Zilocchi"] e 71-73 ["Essendo la votazione… vita del cavallo"]).

[7] Questo plurale può apparire assai strano; pure, tutte le antiche stesure concordano su di esso.

Ciò costituisce quindi un problema interpretativo più complesso di quanto non l'abbiano evidentemente giudicato autori quali Adolfo Venturi e Corrado Ricci, i quali tradussero semplicemente la parola al singolare come se la cosa fosse indifferente (lo si riscontra nelle brevi citazioni operate rispettivamente nella Storia dell'arte italiana, vol. VIII, parte I, L'Architettura del Quattrocento, Hoepli, Milano 1923, pag. 161; e in Leon Battista Alberti architetto, Celanza, Torino 1917, pag. 29). La concordanza dei manoscritti e delle edizioni sulla lezione qui data però esclude la possibilità di ignorare la cosa sic et simpliciter. E dunque se il testo albertiano reca «statuas», ciò non sarà stato per caso e bisogna necessariamente chiedersi cosa volesse intendere l'autore.

In effetti sappiamo che le statue estensi erette nella piazza di Ferrara erano e sono due: quella equestre dedicata a Niccolò III e quella raffigurante il di lui figlio, Borso, assiso.

Una ipotesi possibile è che in un primo momento (al tempo in cui l'Alberti dedicava il trattato a Leonello) fosse stato progettato di dedicare entrambe le statue a Niccolò III, magari raffigurando nella seconda qualcosa di simbolico (ma a tale riguardo nulla risulta dai documenti, anzi il Borsetti - FERRANTIS BORSETTI, Historia almi Ferrariae Gymnasii in duas partes divisa, pars prima, Pomatelli, Ferrariae 1735, pag. 40 - scrive precisamente: «Aenea Equestris Statua»), e che tale progetto sia stato in seguito modificato dallo stesso Borso dopo la sua ascesa al trono di famiglia (I ottobre 1450), o magari in occasione della investitura ducale ottenuta dall'imperatore Federico III d'Absburgo nell'anno 1452.

[8] Come abbiamo visto nella corrispondente nota del testo latino, il MORELLI (op. cit., vol. cit., pagg. 255-256) scrive a proposito del codice Canoniciano (traduco): «Veramente già diciannove anni fa, prendendo visione dei codici manoscritti di proprietà del veneziano Matteo Luigi Canonici, un tempo nella Compagnia di Gesù, il quale aveva raccolto nella sua patria una ricchissima collezione di siffatti documenti, mi imbattei in un esemplare particolarmente prezioso, nonostante la scarsa accuratezza con la quale era stato eseguito, redatto a Bologna nel 1487, il quale conteneva varie opere di Leon Battista Alberti. Lo esaminai accuratamente e annotai, come solevo fare, le cose più notevoli. E davvero bene feci perché l'anno scorso anche questo codice, col più e col meglio di quella collezione, andò ad arricchire la biblioteca dell'Università di Oxford.» Più avanti (pag. 271) parla più in dettaglio dell'opuscolo dedicato al cavallo, dimostrandone un'esatta conoscenza e riportandone il passo che comprende l'inciso «per tuo ordine», ma senza in alcun modo attirare l'attenzione del lettore su queste parole. Tale constatazione smentisce l'osservazione esplicita fatta dal Mancini a tale riguardo, che ho già riportato nella nota num. 5 di pag. 84 [nota 19 testo latino].

Deve dunque esserci, la controversa precisazione, o no? Io ritengo di sì, ed ho adottato la lezione del manoscritto di Oxford, riportata dal Morelli, rifiutata dal Mancini, per due ordini di motivi (dei quali ho già discusso nell'introduzione, a pag. 68, note num. 1 e 2 [101 e 102]): uno di carattere logico, l'altro di carattere cronologico, ma entrambi connessi alle vicende del concorso per il monumento al marchese Niccolò III d'Este, a quelle del concilio presieduto dal papa Eugenio IV, a quelle personali dell'Alberti e della sua amicizia con Leonello d'Este, come abbiamo visto a suo luogo.

[9] Il Mancini - nella sua edizione in latino - annota a questo punto: «Nel mese di novembre del 1444, essendo stata decretata pubblicamente in Ferrara una statua equestre a Niccolò d'Este, vi era una grande contesa fra i reggitori della città circa l'opera da scegliere fra quelle proposte dagli scultori. Leonello, successore di Niccolò nella signoria, domandò a Battista Alberti quale gli paresse da preporre fra le altre. Battista, trattenendosi presso Leonello, scrisse del cavallo elegantissimamente. Egli superava tutti quanti nella perizia e nell'affettuosità con le quali l'animale va governato, addestrato e guidato.»

[10] La circostanza che l'autore ha indicata come motivante la sua decisione di occuparsi dell'argomento (ossia la sua attenta considerazione delle sculture presentate al concorso), a differenza del titolo dell'opera, potrebbe veramente indurre il lettore a pensare che l'Alberti intenda trattare, nelle pagine che seguono, almeno in ugual misura sia l'aspetto estetico che quello biologico del cavallo - e forse, anzi, del primo in quanto naturale estrinsecazione del secondo -.

In realtà, come abbiamo già visto in vari luoghi dell'introduzione, cfr. la n. num. 1 a pag. 26 [nota 38], i fatti non corrispondono a questa sia pur legittima aspettativa.

[11] Corrispondenza delle opposizioni fra uso pubblico ed uso privato, e fra guerra e pace, come se gli agi della pace fossero squisitamente privati e i doveri pubblici del cittadino, prevalentemente legati alla violenza della guerra (cfr. la nota num. 3 a pag. 117 nella prima parte del testo italiano [nota 50]). In tal caso sarebbe implicita una orgogliosa affermazione di principio circa la libertà e la privatezza dell'individuo, salvo in casi di forza maggiore (per esempio i suoi doveri nei confronti della patria in pericolo).

[12] Si tratta di pura retorica (nel senso tecnico di tale parola) o di un autentico sentimento di nostalgia per l'antico?

Non sappiamo con quanta vera partecipazione egli si cali in questa finzione umanistica, ma è certo comunque che almeno essa ha documentabili radici nella storia della mitologia: «L'immaginazione dell'uomo ha popolato di cavalli il pantheon dei suoi dei e dei suoi demoni… Uomini e cavalli si fondevano in esseri soprannaturali, come i centauri… Gli dei e i geni scelsero i cavalli come troni da dove regnarono sul mondo e sui mortali… La quadriga di Elio, lo scintillante dio del sole della mitologia greca, è tirata da quattro destrieri che simboleggiano l'orbita solare…» (da H. H. ISENBART e E. M. BÜHRER, Il regno del cavallo, Mondadori, Milano 1970, pag. 72).

A proposito di una possibile origine del mito dei centauri A. AZZAROLI (Il cavallo nella storia antica, L. L. Edizioni Equestri, Milano 1975, pag. 56) richiama le notizie tramandate da Erodoto riguardanti la cavalleria leggera dei razziatori sciti (i quali trascorrevano il loro tempo quasi permanentemente in groppa ai loro destrieri) e l'impressione che questi dovettero suscitare sui primi Greci che ebbero contatti con essi: di una quasi mostruosa immedesimazione dell'uomo con l'animale.

[13] Pare di cogliere un ricordo classico di trionfatori a cavallo che sovrastano il nemico vinto osservati in qualche figurazione di rilievi onorari o di gruppi alessandrini, ma - pensando ai luoghi nei quali l'Alberti è vissuto - non mi pare di poter cogliere alcun riferimento puntuale. Questa mistura di epopea eroica antica e di favolosità tardogotica può anche richiamare alla mente la «Battaglia di San Romano» di Paolo Uccello, specie nella tavola degli «Uffizi», ma al tempo di questo trattato essa, con tutta probabilità, non era stata ancora dipinta, almeno a prestar fede alle opinioni della maggior parte di quegli storici dell'arte che si sono cimentati nella datazione delle tre tavole medicee.

Forse si tratta di differenti portati di una comune temperie storica. Nella quale, del resto, si accamperà il genio di Donatello, quale punto di riferimento di un gusto che si esplicherà per tutto il secolo ed oltre in disparate tonalità di una suggestione di classicità romana che si compiaceva particolarmente di queste compatte commettiture di un "tessuto" di corpi vibranti e contrapposti nella zuffa di uomini e di cavalli, come nel bel bronzetto di Bertoldo di Giovanni al «Bargello» di Firenze. Ma anche rispetto a tutto questo i vagheggiamenti antiquari dell'Alberti qui si collocano cronologicamente prima: sulla linea di partenza.

[14] È un precetto dell'addestramento arabo: «L'arabo insegna al suo cavallo… a non sopportare altro peso che quello del padrone.» (da L. GIANOLI, Il cavallo e l'uomo, Longanesi, Milano 1967, pag. 61a); «Rifiutando ogni altro cavaliere, non è facile preda dei ladri.» (da N. LUGLI, Il romanzo del cavallo, Vallecchi, Firenze 1966, pagg. 46-47).

[15] Ritornano qui le osservazioni già fatte nella nota num. 1 di pag. 89 [nota13]; ma qui mi pare che l'Alberti stia davvero lavorando di fantasia. Come che sia, non ho potuto trovare in proposito alcuna testimonianza scritta o figurata.

[16] Questo fatto è veramente narrato da PLUTARCO, nel capitolo 61 della vita di Alessandro Magno (ed. usata: a cura di F. BRINDESI, Rizzoli, Milano 1953, pag. 77). La città in questione si chiamò Alessandria Bucefala e fu fondata dall'imperatore sulla riva destra del fiume Idaspe (oggi Ibelum, nel Panjab) presso l'odierna Dilawar. Il cavallo era morto, forse di ferite, nell'anno 326 a. C. Del resto in tempi anche più antichi era in uso in varie regioni dell'Eurasia la "sepoltura rituale" che consisteva nell'inumazione del cavallo, o di due, talvolta insieme al carro (in epoche e in ambienti in cui il guerriero combatteva ancora dalla biga e non in groppa) in sepolcri poco discosti dalle tombe dei padroni, o talvolta (nel caso contrario, ossia quando già i guerrieri avevano imparato a montare sul cavallo), nei medesimi tumuli, col cavaliere stesso e con le armi di questo. Ce ne parla, con riferimento a Sciti, Etruschi e Celti A. AZZAROLI nell'op. cit., alle pagg. 65-66, 82, 84 e 93.

Da ricordare sono anche «la vittoria di Cimone, nel 536, alla LXI Olimpiade. Questo nobile ateniese» (che, si badi, è il nonno - detto Coalemo - del famoso figlio di Milziade: si tratta dell'illustre famiglia dei Filaidi) «possedeva quattro prodigiose cavalle, ed era legato ad esse da tale affetto che quando morirono le onorò di sepoltura di fronte al proprio mausoleo e le fece effigiare in bronzo.» (da L. GIANOLI ed U. BERTI, Quel motore che si chiama cavallo, UNIRE, Milano 1962, pag. 35); e l'episodio di Claudia Erice, moglie dell'auriga Aulo Dionisio, la quale sulla tomba del marito volle incidere i nomi dei suoi cavalli più famosi (GIANOLI, op. cit., pag. 34b).

[17] Torna un altro motivo espresso nella dedica del «Teogenio», oltre quelli che ho già ricordati nella nota num. 2 di pag. 83 [nota 4].

In un altro luogo di essa, infatti, l'Alberti aveva scritto: «Poi che io te lo [intendasi il «Teogenio»] mostrai e intesi quanto ei non dispiaceva, parsemi debito mandartelo…».

[18] Già nell'introduzione, alle pagg. 68-73 [cfr. Il titolo e i contenuti: "Rimane ora… vita del cavallo"]ho cercato con ogni possibile approfondimento di individuare quali siano potuti essere «questi giorni» abbastanza sballottati in tutta la storiografia precedente. Anche il tono di questo passo sembra bene accordarsi con le ipotesi ivi formulate.

[19] Ho già fatto cenno, nell'introduzione (passim) al particolare modo di atteggiarsi dell'Alberti nei confronti degli autori antichi del ramo, che è di spregiudicatezza nei riguardi di quelli più vicini al suo tempo e veramente da lui conosciuti, e di ossequio (con la continua preoccupazione di chiamarli a mallevadori e testimoni delle sue affermazioni) verso quelli antichi che spesso - invece -, come dimostrò documentatamente lo Zoubov nel menzionato saggio, conosce solo per la mediazione dei non esaurientemente citati autori medioevali.

[20] Viste le osservazioni contenute nella nota precedente e l'abituale "disinvoltura" dell'Alberti in queste cose, nonché l'assenza, nel testo, di qualsiasi riferimento puntuale, c'è da chiedersi che senso abbia questa affermazione.

[21] In che senso «degno»? Degno di chi e di che cosa? Degno del principe? Questa sarebbe l'interpretazione immediatamente suggerita dal periodo successivo, che conclude il proemio. E tuttavia lascia alquanto perplessi: in che modo e in che cosa una simile materia, intesa in un senso tanto empirico e tecnico (operativo, diremmo oggi) poteva esser degna di un principe per suo conto anche umanista e poeta (cfr. G. PRAMPOLINI, Storia Universale della Letteratura, 7 volumi, vol. III, UTET, Torino 1949, pag. 612)?

Degno dell'Alberti stesso? Si cade quasi nel medesimo discorso. Degno degli specialisti? Ma egli stesso esclude - subito dopo - tale destinazione; e, d'altra parte, sembrerebbe davvero eccessivo un siffatto impegno di "scrematura" quando fosse assunto ad utilità di persone impossibilitate ad usufruirne, come è facile immaginare, perché incapaci di leggere il latino (se non di leggere in assoluto - cfr. a tal proposito quanto ho riportato da Vegezio, a pag. 32 [cfr. Il titolo e i contenuti: "di aver usato uno stile pedestre…"] -) e ad uso delle quali, comunque, esisteva già un vasto e fondato bagaglio tecnico al quale non si vede cosa avrebbe potuto aggiungere o togliere l'Alberti in un frettoloso e "accademico" excursus.

Rimane ancora la possibilità di intendere genericamente "degno di applicarvi l'ingegno", "interessante". Ma, francamente, rimane l'impressione di una mera clausola retorica, di un discorso alquanto campato in aria. Salvo a mettere nel conto quella "sublime inutilità" che in qualche caso improntò le applicazioni dei protagonisti di questa singolarissima temperie storica, assetati solamente di dar libero sfogo a qualsivoglia disincantata e curiosa divagazione della mente su tutte le cose del mondo e dell'uomo nella sua vita terrena, in questa felice, miracolosa quanto breve parentesi di autonomia delle coscienze. Proprio come per quei complicati e gratuiti "scherzi" di prospettiva che avvincevano fino a togliergli il sonno (e i guadagni) Paolo Uccello e che - secondo l'arguto racconto del Vasari - gli venivano rimproverati da Donatello nella pratica dell'arte, e in casa sua… dalla moglie. Sennonché in questa fattispecie, che non è, per esempio, l'intelligente divertimento della "camera ottica" sul quale con tanto entusiasmo si sofferma il MANCINI sulla scorta dell'anonimo biografo magliabechiano (cfr. Vita ecc., ed. cit., pagg. 100-102; ed anche J. SCHLOSSER MAGNINO, La letteratura artistica, I ed. italiana: 1935; ed. usata: «La nuova Italia», Firenze 1964, pagg. 114 e 118-119), non si intravedono innovazioni alle quali votarsi con avventuroso slancio: fonti e norme sono quelle di sempre, ed ancora per un buon secolo non si avrà alcun apporto di rilievo. E dunque una simile divagazione non può che richiamare cognizioni scontate.

[22] Nell'introduzione, alle pagg. 45-55 [cfr. Le fonti], ho cercato di fornire alcuni chiarimenti di "pronto soccorso "riguardo agli autori qui citati dall'Alberti; e ciò solo per agevolare il lettore e facilitare la godibilità del testo, ma senza alcuna pretesa che esse risultassero esaustive dei molteplici interrogativi e spunti di ricerca che nascono da queste citazioni. La materia infatti non è di mia competenza ed - oltre tutto - non rientra nei miei precipui interessi. È evidente che quanti siano meglio attrezzati nell'ambito specifico - e meno, invece, in tutto quanto ha reso possibile la riesumazione di questo testo - potranno giovarsi di questa mia fatica per contribuire dal loro punto di vista alla soluzione della, a volte, tutt'altro che limpida problematica che esso adduce.

[23] Ritorna l'impressione, in rapporto all'effettiva consistenza dello scritto albertiano, di una certa compiaciuta amplificazione: quante cose ha potuto vedere l'Alberti nel fugace periodo della sua seconda permanenza ferrarese? E tutte erano disponibili sul posto?

[24] Intendasi in contrapposizione a «un principe», ossia: «tolto te, vorrei che tutti gli altri…».

Ma potrebbe avere - specie tenendo conto della posizione di queste parole ad apertura di periodo - un altro senso (cfr. la nota num. 1 a pag. 97 [nota 26]).

[25] Intende dire che la materia non è stata trattata in modo tale da costituire un prontuario utile alle persone del mestiere (come quelli che furono compilati in luoghi ed in epoche diversi, dall'inizio dell'età bizantina fino al secolo XIII)? O semplicemente intende escludere che il trattatello potrà comunque esser conosciuto da maniscalchi e stallieri per il fatto stesso che è scritto in latino? C'è da chiedersi infatti come mai proprio per un testo simile, proprio l'Alberti - che in quegli stessi anni si batteva per l'elevazione di rango della lingua volgare, come si rivela anche dalla lettera a Leonello dedicatoria del «Teogenio», nella quale scriveva: «…E fummi caro sì 'l far cosa fusse a te grata, sì ed anche avere te, uomo eruditissimo, non inculpatore di quello che molti m'ascrivono a biasimo, e dicono che io offesi la maestà letteraria non scrivendo materia sì eloquente in lingua piuttosto latina. A questi fia altrove da rispondere…» (cfr. G. MANCINI, Vita ecc., ed. cit., pag. 171) - abbia scelto di esprimersi in latino. Forse per evitare a priori ogni possibile equivoco circa la sua destinazione? O forse per il suo intimo gusto per le contrapposizioni dialettiche (come dire: materia aulica/lingua volgare; materia empirica/lingua curiale)?

[26] Tutto il corrispondente periodo latino, in apparenza abbastanza piano, è in realtà di problematica interpretazione; e la traduzione di «parcum» con «sintetico», sebbene alquanto libera ed anzi quasi contraddittoria rispetto alla lettera (che dovrebbe essere invece limitato, modesto - o, magari, avaro -), è l'unica con la quale sia possibile dare un senso logico a tutta la frase (cfr. in proposito quanto già discusso nell'introduzione, alle pagg. 30-34 [cfr. Il titolo e i contenuti: "In realtà… la mia traduzione"]).

[27] Tutta questa espressione (la quale letteralmente suonerebbe «in tutte le mie veglie») appare in verità spropositata a fronte dell'effettiva mole del trattato. Anche questo passo, quindi, come altri luoghi che saranno a suo tempo indicati, sembra avvalorare la mia ipotesi che l'opera ci sia pervenuta incompleta. Può darsi anche - d'altra parte - che l'Alberti abbia stilato questa lettera dedicatoria prima e non dopo l'effettiva stesura del trattato, e che sul momento pensasse di svolgere un programma di più articolato sviluppo e di dar luogo perciò ad un'opera di maggiore respiro.

[28] Oltre alla descrizione qui di seguito esposta, l'autore tornerà sull'argomento con altre notazioni alle pagg. 105-119 [cfr. Prima parte: "Affermano che nei cavalli…"].

Tutte insieme esse rivelano che egli non si discosta dalle concezioni tradizionali già canonizzate (dopo Senofonte e Simone d'Atene) dagli Arabi.

[29] Cfr. Virgilio nella nota al corrispondente passo del testo latino.

[30] Come nella nota num. 20 a pag. 100 [nota 131 testo latino].

[31] Nel linguaggio moderno internodio è termine precipuamente botanico, non zoologico; ed indica la porzione di un ramo che è fra due nodi. Nella latinità, invece, la parola era usata soprattutto nell'àmbito dell'anatomia umana e animale, indicando «lo spazio fra due giunture» (cfr. F. CALONGHI, Dizionario Latino-Italiano, 1950; usata III ed., Rosemberg e Sellier, Torino 1967, ad vocem). Nella fattispecie potremmo quindi pensare al tratto del braccio del cavallo che sta fra il ginocchio e lo zoccolo, ossia a quello che nell'attuale gergo ippologico viene chiamato stinco. Ma ho voluto - per ovvi motivi - lasciare intatta la terminologia usata dall'Alberti.

[32] Cfr. Virgilio nella nota al corrispondente luogo del testo latino.

Questa delle unghie risonanti è proprio una delle raccomandazioni contenute nell'unico capitolo pervenutoci (con in più qualche frammento degli altri) del trattato di Simone d'Atene, contemporaneo e concittadino di Senofonte, canonista della perfezione formale dei cavalli, il quale pare fosse anche uno scultore (cfr. N. LUGLI, op. cit., pag. 51; e V. CHIODI, Storia della Veterinaria, «Farmitalia», Milano 1957, pag. 73).

[33] Si noti, anche in rapporto a quanto più volte sottolineato nell'àmbito delle note al proemio, la sommarietà ed approssimazione di questi accenni, specialmente ove si consideri la vastità della letteratura riguardante i mantelli dei cavalli e la complessità dei suoi canoni.

Di ciò che possa intendersi con la locuzione «candidum gyris inscriptum», che nel gergo specialistico - più correttamente di «bianco pezzato» o di decorato di cerchi - dovrebbe forse dirsi grigio con specchiettature o pomellato, si può avere, credo, un esempio calzantissimo nel cavallo montato dal santo nel dipinto con «San Giorgio e il drago», in «San Zeno maggiore» a Verona (cfr. L. GIANOLI, op. cit., tav. n. 77).

[34] Lo scarso rigore logico di questa descrizione della femmina in rapporto a quella del maschio è uno dei tanti elementi che indicano il superficiale impegno specialistico posto dall'Alberti nel trattato.

[35] Per quanto possa sembrare favolosa, questa notizia è esatta. Scrive infatti il GIANOLI (op. cit., pag. 385a): «Il cavallo siriaco di razza pura è particolarmente longevo, vive anche fino a quarant'anni; gli stalloni di venticinque ed anche trent'anni sono ancora prolifici.».

[36] «Columellares» debbono essere i denti che oggi si chiamano scaglioni (cfr. N. CHECCHIA, Il cavallo, Vallardi, Milano 1947, pag. 54) - cioè gli equivalenti dei canini, prerogativa peraltro dei soli cavalli maschi - come si ricava dall'età indicata (quattro anni). Il nome - che "a primo impatto" potrebbe ben sembrare derivato da quello di Columella, il quale si interessò in particolare dei problemi della bocca (cfr. V. CHIODI, op. cit., pag. 104) - va, invece, ricondotto fino a columna (= columnelli, columelli, columellaris) con riferimento alla forma alta e cilindrica (qual è quella di una colonna, appunto) dei canini, come apprendiamo dal Du Cange, in Glossarium et infimae latinitatis, ed. anastatica, Graz 1954 e dal FORCELLINI, Lexicon totius latinitatis ed. J. PERIN curante, Patavii MDCCCCLXV, (in entrambi) ad voces.

Utile ed interessante per tutte le questioni tecniche è anche il vecchio prontuario dell'Esercito, destinato al personale delle armi a cavallo (ed. usata: STATO MAGGIORE REGIO ESERCITO, Nozioni d'Ippologia, Ed. «Le Forze Armate», Roma 1941), nel quale cfr. in proposito la pag. 62.

[37] Non so cosa voglia esattamente dire l'Alberti. Questa che egli chiama «una midolla completamente nera» potrebbe essere quella che nel gergo comune degli ippologi viene chiamata germe di fava. Il conto dell'età però in tal caso non tornerebbe. Il germe di fava, infatti, scompare gradatamente a mano a mano che le superfici di contatto degli incisivi, a causa della consunzione, si agguagliano, dando luogo a quella che viene definita tavola dentale, sulla cui faccia superiore si forma, sempre gradatamente, «una superficie gialla detta stella dentaria» (cfr. L. GIANOLI, op. cit., pag. 401a). Tale trasformazione - nell'àmbito dei periodi nei quali viene suddivisa la trasformazione dei denti equini ai fini della valutazione dell'età del cavallo - avviene nel IV periodo, che va dai 6 ai 9 anni. L'età di dodici anni, indicata dall'Alberti, invece, verrebbe a cadere entro il V periodo, quando il germe di fava è ormai del tutto scomparso (cfr. anche N. CHECCHIA, op. cit., pagg. 58-64).

[38] Qui davvero sembra che l'autore esageri! Cfr. la nota num. 3 di pag. 103 [nota33].

[39] La gravidanza delle cavalle dura mediamente 11, 12 mesi. Ciascuna cavalla destinata alla riproduzione non subisce che una sola monta per ogni turno riproduttivo. Di conseguenza lo stallone che disponesse di una sola femmina non potrebbe godere che di un solo accoppiamento per ogni periodo di un anno almeno. Dato però che il maschio - al contrario della femmina - non ha un periodo preciso di calore, ed è invece sempre disponibile all'accoppiamento per un arco di tempo che l'Alberti dice di cinque anni, ma che pare sia anche più lungo, evidentemente un solo coito all'anno non potrebbe soddisfarlo. Ne consegue che ogni maschio riproduttore deve disporre di più femmine.

[40] Naturalmente questo termine non va inteso nel senso di quelle qualità metafisiche o psicologiche le quali sono proprie dell'umanità, ma bensì nel mero senso di ardore, entusiasmo, estro, come diremmo oggi. In ogni caso, sembra di cogliere tuttavia nell'Alberti una specie di poetica umanizzazione del cavallo.

[41] Il tono qui muta subitaneamente, affermando un concetto utilitaristico nettamente in contrasto con l'umanizzazione quasi lirica del cavallo avvertita nella nota precedente.

[42] Naturalmente l'osservazione acquista un senso solo supponendo che la stanchezza intervenga prima del compimento "dell'operazione". Inoltre v'è da osservare una possibile intenzionale correlazione fra il «volente», nel caso di disaccordo fra i due soggetti della monta, e il «nolente» nel caso di stanchezza prematura.

[43] Qui sembrerebbe contraddire il concetto dell'accoppiamento unico espresso più su, ma probabilmente bisogna riferire questa affermazione ai soli maschi, risultandone così confermato quanto osservato nella nota num. 2 di pag. 109 [nota 39]: ossia che i maschi per l'appunto fossero impegnati più volte, con femmine diverse, ma non tutti i giorni.

[44] L'immagine è pleonastica, e pertinente più ad una fantasia poetica dell'Alberti che alla realtà. Non sappiamo infatti se ai suoi tempi si usasse indurre i soggetti ad un libero approccio, sia pure con la garbata assistenza di… un moderatore.

Come che sia, oggi certo non è così; perché tutta l'operazione si svolge in maniera predisposta e con la femmina impossibilitata ad avventurose fughe o tergiversamenti in liberi spazi, anche se - malgrado questi accorgimenti - eventuali violente manifestazioni di rifiuto da parte di essa determinano comunque l'impossibilità della monta, come del resto lo stesso Alberti afferma subito di séguito.

[45] Questo accorgimento è veramente raccomandato da Senofonte, nel caso particolare dell'accoppiamento delle giumente con gli asini: egli mitizza e dà un'interpretazione poetica (il taglio della coda e della criniera, togliendo alle femmine la fierezza delle proprie forme, le renderebbe più disponibili a tale "declassamento") di quello che invece è un espediente di natura pratica, e riguarda soprattutto le code, le quali - nel caso di accoppiamento con un asino - costituirebbero un impedimento data la diversa statura dei due animali (cfr. L. GIANOLI, op. cit., pag. 28b).

[46] In gergo, fino al compimento dei sei mesi di vita, si chiamerebbe vannino; in inglese: foal, da pullus, appunto (cfr. L. GIANOLI, op. cit., pag. 401a).

[47] Come s'è già precisato nella nota num. 2 di pag. 109 [nota 39], il maschio è continuamente propenso all'amore, e potrebbe infastidire le madri nel periodo dell'allattamento. In conseguenza di ciò, dopo la nascita del puledrino è questo e non il maschio a condurre vita in comune con la giumenta, per sei mesi (cfr. L. GIANOLI e U. BERTI, op. cit., pag. 52).

[48] È un argomento, questo della cura degli zoccoli, sul quale insiste particolarmente Senofonte con una serie di precetti che ci sono riportati da Vegezio. I piedi dei cavallini vanno protetti dall'umidità e dalla sporcizia, così come da traumatizzanti asperità del terreno, con l'apposizione, nelle scuderie e sui percorsi abituali, di assi di legno. Eventuali ferite vanno attentamente cauterizzate, previa l'asportazione delle parti guaste.

[49] Per una descrizione, condotta con affettuosità ed ammirata partecipazione, di questo periodo felice del puledro libero accanto alla madre, cfr. L. GIANOLI e U. BERTI, op. cit., pagg. 52-56.

[50] Qui, sicuramente per suggestione di richiami concettuali, si ha l’impressione di una concorrenza di elementi di cultura (l'individualismo umanistico dell'Alberti; un possibile aristotelismo di partenza, con riferimento alla teoria degli istinti e dei luoghi naturali) certo tutti "più difficili" di quello che è semplicemente un fatto di consuetudine fondato sulla logica dell'esperienza nei centri di addestramento dei purosangue.

Scrivono infatti L. GIANOLI e U. BERTI (op. cit., pagg. 56-57): «Avvenuta la doma, si inizierà… il periodo dell'addestramento, con i primi passi di trotto o di galoppo e le prime lezioni di andatura. Scartati i prodotti fisicamente mal riusciti e difettosi, i puledri validi manifestano, da questi assaggi, le loro attitudini…».

Cfr. Virgilio nella nota al corrispondente luogo del testo latino.

[51] Non sappiamo che aspetto avesse il cavallo effigiato dal Baroncelli a Ferrara, essendo - come già precisato nell'introduzione a pag. 57 [cfr. Il monumento ferrarese: "Al tempo dei moti giacobini…"] - andati perduti nel 1796 i bronzi originali delle due statue ritraenti Niccolò III a cavallo e Borso d'Este assiso. Ma certo è che questo cavallo "horrendus" fa pensare più alla fierissima bestia montata da Niccolò da Tolentino nel monumento dipinto da Andrea del Castagno circa una quarantina di anni più tardi, che alle maestose cavalcature da parata concepite nelle opere, cronologicamente più vicine, di Paolo Uccello, di Donatello e del Verrocchio.

[52] Inutile attardarsi sulla funzione tipica e indispensabile attribuita dall'uomo al cavallo in ogni epoca antecedente al moderno tracollo della cavalleria come arma combattente. Se durante il Medioevo esso è l'emblema stesso di tutto un costume sociale fondato sulla investitura nobiliare, fino a divenire l'immagine materializzata di un'ideologia ("cavalleresca", appunto), nel Rinascimento, per itinerari ideologici diversi, e connessi al recupero della classicità, la sua importanza si mantiene "a livello", proprio in questo senso di glorificazione del vir e di esaltazione delle sue virtù (fino a culminare nel romantico «lanciare il cuore al di là dell'ostacolo»).

[53] Lo scarico della violenza è istintivo nell'uomo come nell'animale (ed anzi rende l'uomo simile all'animale) e può verificarsi in qualsiasi momento; il controllo di tale istinto è affidato alle virtù cardinali, prerogative proprie dell'umanità, ma questa cerca di trasporne gli esiti concreti - di condizionamento dell'istinto - anche ai suoi complementi inseparabili (il cavallo… e il cane, dovremmo a tal proposito aggiungere) quasi umanizzandoli (e ciò avvicina l'animale all'uomo).

[54] Cfr. Virgilio nella nota al corrispondente passo del testo latino.

[55] Sebbene tale termine sia desueto nella nomenclatura odierna, in effetti due cuscini di cuoio imbottiti e trapuntati fanno parte integrante della sella (cfr. STATO MAGGIORE REGIO ESERCITO, op. cit., pag. 56, ove si parla di «cuscinetti che, all'occorrenza, vanno rifatti per rinnovare l'imbottitura che ha sempre tendenza ad indurirsi»). Essi isolano dal corpo del cavallo l'armatura rigida - di legno e di acciaio - della sella.

Ma nell'antichità i cuscinetti, con la gualdrappa e il sottopancia, costituivano da soli la sella. Leggiamo infatti in L. GIANOLI e U. BERTI, op. cit., pag. 16: «…la sella era rappresentata da una gualdrappa di cuoio, sormontata da un cuscinetto imbottito, e assicurata all'animale da un sottopancia.». Questo tipo di bardatura, ove adottassimo in pieno il gergo ippologico, credo dovrebbe chiamarsi efippio. Questa parola, infatti, viene definita da F. PALAZZI nel suo classico Nuovissimo Dizionario della Lingua italiana, Ceschina, Milano 1942, ad vocem, «sella primitiva formata da un pezzo di stoffa piegata a più doppi a mo' di cuscinetto». Da esso penso derivi pure lo strumento che anche oggi si usa nelle operazioni di domatura, costituito da una coperta completata da un tirante, la quale viene disposta sul dorso del cavallo, e mediante quel finimento viene per gradi aggiustata in modo da risultare sempre più aderente al corpo, affinché l'animale si abitui insensibilmente a stare bardato.

[56] Questa fase, che con la domatura chiude il periodo della condizione brada ed avvia quello dell'addestramento, viene chiamata in gergo della vestizione.

[57] Sull'utilità dell'orzo come parte integrante dell'alimentazione del cavallo, l'Alberti ritorna più volte nel trattato. La norma dietetica deriva dal regime arabo: «Uova, latte di pecora e di cammella, datteri, farina d'orzo hanno formato per secoli la base dell'alimentazione di un soggetto nato in zone dove non cresce avena»: L. GIANOLI, op. cit., pag. 61a. Il LUGLI (op. cit., pag. 47) addirittura scrive spiritosamente: «Se non avesse visto la giumenta, l'arabo crederebbe che è stato l'orzo a fare il cavallo.».

[58] Cfr. Virgilio nella nota al corrispondente passo del testo latino.

Scrive il Gianoli citando Senofonte: «Raccomanda di accarezzarlo sovente, di parlargli, di affidarlo ad un palafreniere calmo e prudente che lo abitui a passeggiare tra la folla, a prendere contatto e confidenza con tutte le cose della nostra vita, rumori, luci. Qualora il cavallo ne avesse paura, "bisogna dimostrargli che non c'è nulla di terribile in quell'oggetto, in quel rumore"» (op. cit., 28a).

[59] «Dapprima il morso fu semplicemente una corda…», dicono L. GIANOLI e U. BERTI a pag. 5. Dal LUGLI, op. cit., pag. 45, apprendiamo che «Il primo morso è di lana grezza: il puledro ne gusta il sapore e si abitua a tenerlo in bocca».

[60] Cfr. la nota num. 1 [58].

[61] La variante «hiantibus» (di cui alla nota num. 1 del testo latino [342], a pag. 128) sarebbe in sé convincente ove si considerasse la forma dei morsi antichi, che era tale da impedire al cavallo di stare con la bocca chiusa.

Tuttavia, in questo luogo particolare - pur tenendo conto della complessiva oscurità del passo - la variante «tumescentibus» appare più coerente con l'espressione «naribus quasi sursum fractis» che segue; tanto più che il senso del passo non muta: «Tale morso doveva essere un vero strumento di tortura», esso «costringeva il cavallo… a tenere la bocca semiaperta, come del resto appare dalle raffigurazioni plastiche.» (L. GIANOLI, op. cit., pag. 49b). Della maggiore o minore "severità" dei morsi in rapporto alla loro struttura e considerati fin dai tempi più antichi della adozione di essi, ci parla anche A. AZZAROLI nella sua op. cit., alle pagg. 103-106.

[62] Cfr. la nota num. 2, a pag. 123 [nota55].

[63] Oltre a quanto già precisato nella nota num. 2, a pag. 123 [nota 55], va aggiunto che la parte esterna dei cuscinetti - che oggigiorno è di cuoio - era nei tempi antichi di stoffa e perciò soggetta ad aggrinzirsi. Ciò - come suol dirsi - fiaccava il cavallo, ossia lo rendeva piagato. Di qui la necessità di stendere bene la stoffa di ciascun cuscinetto prima di applicarlo alla groppa dell'animale.

[64] Secondo l'uso arabo, il primo a salire in groppa al puledro era un ragazzetto (cfr. N. LUGLI, op. cit., pag. 45), e ciò suona ad ulteriore conferma (oltre quanto già osservato sul piano testuale nella nota num. 13 [354] del testo latino, a pag. 128) della interpretazione data di tutto il brano, in relazione alla quale risultano anche meglio comprensibili tutti i participi che vi si susseguono.

[65] Qui la trattazione prosegue come se non vi fosse alcuna soluzione di continuità rispetto alla fine del paragrafo precedente. Cfr. a tal proposito quanto detto nei Criteri tecnici dell'edizione.

[66] Si noti come qui l'autore sembra quasi attribuire ad una ipotetica "volontà" del cavallo la possibilità di collaborare per la realizzazione delle finalità indicate. Peraltro, l'affermazione, che può apparire strana di primo acchito (specie ove si accenna alla «dignità» e alla «gloria della patria» come ad una "preoccupazione" che verrebbe fatto di ritenere "personale" del cavallo) si spiega più facilmente considerando la strumentalizzazione di importanza quasi essenziale - specie ai fini bellici - di cui questo animale era oggetto ancora ai tempi dell'Alberti e della quale del resto egli ha già fatto cenno in più punti di questo trattato, per cui l'autore sembra qui volere immedesimare cavallo e cavaliere in un unico blocco, come è tipico anche di molte note figurazioni, da Simone Martini - per esempio - alle arche di Verona, espressioni di quel costume cavalleresco che era ancora vivo o almeno da alcuni artisti (si pensi a Paolo Uccello o, ancora più tardi, e proprio nell'ambiente estense, al Boiardo) nostalgicamente vagheggiato al suo tempo.

[67] Tutti questi canoni di addestramento riportano immancabilmente ai precetti di istruzione arabi che, tutti insieme, costituiscono quel tipico ammaestramento che va sotto il nome di «fantasia araba» (cfr. N. LUGLI, op. cit., pag. 45 e L. GIANOLI, op. cit., pag. 61a).

[68] Questa affermazione con tutta probabilità perviene all'Alberti, per tradizione indiretta, dal più importante degli Ippiatrici: Absirto di Clazomene, del quale ho già ricordato a pag. 46 [cfr. Le fonti] la specifica competenza relativa agli usi ippologici dei Sarmati e dei Goti (cfr. anche V. CHIODI, op. cit., pagg. 120-122).

[69] Corrispettivi delle briglie e degli speroni secondo la albertiana gradualità sùbito di séguito precisata.

[70] Sembrerebbe di poter cogliere qui quasi una anticipazione del metodo educativo delle conseguenze naturali di rousseauiana memoria; se non fosse per l'intervento di quel piccolo inganno di provocare con le redini i dolorosi movimenti del freno, quasi come per instaurare una sorta di automatismo che l'Alberti - umanizzando come al solito il cavallo - interpreta quasi come una "disamina" sui propri errori da parte dell'animale e che noi invece sappiamo essere un riflesso condizionato. Resta comunque che l'autore appare evidentemente alieno da metodi costrittivi. Questo sistema indiretto di educazione, dunque, ben si armonizza con quella moderazione onde è caratterizzato il pensiero dell'Alberti in tutte le sue manifestazioni.

[71] Non si comprende bene a quali denti voglia riferirsi l'Alberti; sia perché «cascaliones» non è temine del latino classico, sia perché l'aggettivo «primi» non ha un preciso termine di riferimento (primi rispetto a che cosa?), e non ne è chiaro il senso (di luogo o di tempo?). Tuttavia, in base alla natura stessa del suggerimento, sembra logico supporre che l'autore volesse riferirsi a quei denti che sono chiamati antimolari.

[72] Anche questo suggerimento può esser fatto risalire in qualche modo a Senofonte, laddove suggerisce di convincere garbatamente il cavallo a guardare da vicino le cose che gli siano riuscite spaventose per la loro forma o per altre cause (luci, rumori), onde si rassicuri da se stesso circa la loro innocuità. Cfr. la nota num. 1 a pag. 127 [nota 58].

[73] Cfr. le notizie circa l'addestramento secondo Senofonte reperibili in LUGLI (op. cit., pag. 45) e in GIANOLI (op. cit., pagg. 28 e 61a). Anche Virgilio esprime reiteratamente questo concetto: cfr. la nota al corrispondente passo del testo latino.

[74] Anche qui il già notato senso della moderazione e del convincimento, e una certa fede nella esperienza, che comporta da parte dell'istruttore la predominanza della paziente applicazione di un metodo sull'immediatezza degli impulsi. E il metodo consiste soprattutto nel seguire quanto è possibile la naturale evoluzione del soggetto.

[75] Questa descrizione sintomatologica ci avverte di come al riguardo siamo ancora nell'«autunno del Medioevo». Mi pare superfluo porre in rilievo singoli dettagli quali la questione del sudore e le strane idee sull'assimilazione sanguigna. Conviene piuttosto notare come qui sia quasi impossibile intuire nell'Alberti l'uomo dei tempi nuovi; ed è l'unico punto ove debbo dissentire dalle osservazioni del Petrini, il quale accenna al problematico rapporto dell'Alberti col Medioevo negandone addirittura, in opposizione a P. H. MICHEL - Un idéal humain au XVe siècle: La pensée de L. B. Alberti (1404-1472), «Les Belles Lettres», Paris 1930, pag. 609 -, l'esistenza. Invero le osservazioni del Petrini non sono ingiuste relativamente ai materiali che egli esamina. Anche queste mie, però, mi paiono inoppugnabili sulla base del testo qui in discussione. Probabilmente entrambe le critiche sono corrette in relazione alle rispettive "letture"; e la spiegazione della discrepanza sarebbe allora, ancora una volta, in quelle tipiche «oscillazioni» albertiane (cfr., qui le pagg. 38-40 ["Ci si può chiedere… ippiatri"]) che il Petrini stesso stigmatizza (pag. 674); senza contare il fatto al quale ho qui più volte accennato (e che anche lo Schmitt non ha mancato di porre in rilievo, nel suo incisivo intervento premesso a questo lavoro, alle pagg. VII-VIII [cfr. Foreword]) che la conoscenza del testo del «De equo animante» nella sua interezza appare tuttora ristretta a pochissimi studiosi. Perché di certo nella fattispecie appare evidente l'assenza in lui di qualsiasi curiosità di verifica di ciò che va affermando sulla scorta della più comune precettistica popolare e medioevale, con tutta probabilità senza aver presenti nemmeno i documenti della migliore classicità, ove la sintomatologia di molte malattie era già descritta in termini tutt'altro che immaginari e prescindendo da qualsiasi indulgenza a spiegazioni di tipo magico o superstizioso.

[76] In tale esposizione ha però dimenticato di trattare di due delle cause precedentemente enunciate: la sazietà e l'eccesso di cure. Ma ritornerà su tali argomenti più avanti. Del resto, in più punti del trattato è possibile riscontrare lacune o inesattezze di tal genere nella simmetria di termini di riferimento connessi per correlazione o contrapposizione.

[77] Anche a proposito dei «tronchi orridi» da mostrare al cavallo allievo (cfr. il testo latino a pag. 136 ["Sunt qui iubeant…"], e la nota num. 1 riferentesi al correlativo testo italiano a pag. 139 [nota 72]), l'Alberti ha usato la perifrasi "forme di cose" per "cose". Questo modo di riferirsi alla forma anziché alla cosa stessa può avere qualche significato interessante in senso filosofico, sia come residuo di terminologia scolastica, sia in quanto sintomo di un'attitudine figurativa a vedere tutte le cose sotto la specie della loro "configurabilità", o, come diremmo oggi, quali elementi linguistici della percezione visiva più che quali concrete e tangibili "presenze". Il suo costante riferimento alla natura avviene, come si ricava dal trattato «Della pittura», per il tramite fisso di due media: la mente, che ne scopre le ragioni; l'occhio, che ne coglie le forme in termini di geometria e di "lumi" (…ancora l'"occhio albertiano" - cfr. l'introduzione a pag. 38 ["Quello poi che nelle sue opere…"] -).

Sono certo due ipotesi e due portati di cultura (scolasticismo e struttura geometrica della visione) molto differenti. Si ricordi però - l'ho già accennato - il gusto albertiano delle contrapposizioni, la sua mirabile attitudine ad assimilare e far convivere in una armonia tutta sua personale fattori contrastanti.

[78] Anche nella genericità un po' fumosa di questo termine si avverte un residuo di cultura medioevale. Cfr. l'introduzione a pag. 39 ["… questa diffidenza nei riguardi…"].

[79] Come in altri luoghi del trattatello qui l'Alberti sembra fare un paragone improprio assimilando fra loro termini di natura diversa (quelli cioè che si riferiscono all'età con quelli che si riferiscono alla robustezza dei soggetti da addestrare). Le alternative di interpretazione erano: o di considerare i quattro termini come due endiadi («i puledri che sono deboli» e «gli adolescenti che sono forti») oppure - come ho preferito - di contrapporre i puledri agli adolescenti ed i soggetti deboli a quelli forti.

[80] Qui è veramente sincero e si mostra quasi poeticamente ispirato nell'ammirazione per questo generoso animale divenuto prodotto dell'immaginazione più che oggetto di una razionale trattazione. Nel diffuso grigiore di tutta la pagina questa improvvisa illuminazione della fantasia è come l'entrata vibrante in crescendo del violino solista entro il contesto del tessuto orchestrale di un concerto. Ed è significativo che proprio in un passo così caratterizzato egli ricorra all'attributo «animans»: cfr. l'introduzione a pag. 28 ["Per la resa italiana del titolo…"].

[81] «I raggi della luna»… È chiaro che se c'era un campo nel quale più facilmente - e direi fatalmente - l'Alberti non poteva che mostrare il fianco, questo doveva essere per forza di cose quello scientifico, e della scienza medica in particolare. Del resto, come è noto, la magia, naturale e soprannaturale, secondo la comune distinzione, era coltivata al tempo del trattato e, dopo, ancora per molto.

[82] Si avverte la mancanza di uno sviluppo rigoroso del pensiero e di una stringata progressione degli argomenti. Sostanzialmente l'autore ripete cose già dette.

[83] Pare un chiaro riferimento alla tecnica militare di origine orientale tardo-antica della finta fuga. Essa viene attribuita ai Dalmati, ai Parti, agli Unni, ai Sarmati, agli Avari, ecc. Il GIANOLI (op. cit., pagg. 40, 54a, 62a, 78b) torna varie volte su questo argomento, raccontando anche qualche avvincente episodio di battaglie nelle quali - grazie a questa tattica - agili torme di cavalieri armati alla leggera, dandosi alla fuga e costringendo così reparti regolari pesantemente bardati e corazzati - schierati in acie - ad inseguimenti fiaccanti, quando avvertivano la stanchezza dell'avversario, con subitanei dietro front piombavano addosso al nemico, avendone ragione. Ma questa tattica pare avesse in realtà origini di gran lunga più antiche: Erodoto narra degli inani sforzi dell'esercito persiano di Dario I durante l'inutile campagna tentata contro gli inafferrabili Sciti nel 514 a.C. (cfr. A. AZZAROLI, op. cit., pagg. 56-57).

[84] Uno dei tipici movimenti della già citata (cfr. la nota num. 3 di pag. 133 [nota 67]) fantasia araba è appunto quello di «gettarsi in avanti con gli anteriori sollevati contro» il «nemico e morderlo» (cfr. N. LUGLI, op. cit., pag. 45).

[85] Tale precetto è già indicato da Absirto, come si rileva da una lettera indirizzata da questi al mulomedico Lao Demetrio, riportata nel libro degli «Ippiatrica». Questo, è una raccolta di vari ippiatri greci soprattutto del IV secolo d. C. (dei quali i più noti sono: Eumelo, - che altri chiamano Eumene -, Absirto, Pelagonio, Chirone e Ierocle), compilata - in due libri e centoventinove capitoli - probabilmente nel X secolo, sotto Costantino Porfirogenito, imperatore d'Oriente più dedito - come è noto - ai fatti della cultura (anche come organizzatore di enciclopedie) che alle cure dello Stato. A proposito del salasso Absirto scrive nella citata lettera: «…ciascun cavallo che castrato sia non ha bisogno di salasso perché interviene che diventino più deboli alle fatiche e che dove punti saranno si apostemiscano…» (riportato da V. CHIODI, op. cit., pag. 122). Le questioni concernenti il salasso sono state trattate anche da Vegezio nel capitolo XXI del libro I del trattato che va sotto il suo nome.

[86] Questo discorso, oltre ad essere assurdo nella sostanza, è anche incoerente nell'esposizione: ben noto è il sofisma "barocco" secondo il quale la carne salata disseta (cfr. B. CROCE, Storia dell'età barocca in Italia, 1944; ed. usata: Laterza, Bari 1957, pagg. 21-24); ma qui non siamo nemmeno al livello di un falso sillogismo, appunto - ma ben congegnato come quello famoso -, poiché mancano sufficienti nessi fra le varie proposizioni: prescindendo infatti dalle considerazioni che non solo nel mare esistono creature immani e che non tutte le creature del mare sono immani, va notato che mentre nella prima parte del discorso l'autore sembra attribuire al bere la virtù di ingigantire le membra e al sale soltanto la funzione di stimolare la sete, nella seconda la causa specifica di tale gigantismo sembra esser riconosciuta – invece - proprio nel sale in se stesso: come potrebbe, infatti, l'acqua salata dissetare ad un tempo e provocare la sete?

Si può peraltro forse supporre che l'Alberti abbia volutamente finto di non accorgersi dell'assurdità di credenze di tal fatta, per il gusto di indulgere ad una certa favolosità, come il grande compositore di musica indulge a volte, ma da par suo, alle più ingenue frasi o a scontate cadenze di ritmi popolari, per attribuire un più fascinoso potere evocativo ad un tessuto sinfonico; visto anche che, come si ricorderà, qui l'Alberti si rivolgeva ad un «principe eruditissimo», al quale sembra quasi ammiccare con aria compiaciuta ed un certo gusto del paradossale e dell'ironia, dalla quale non era affatto alieno (cfr. in proposito le osservazioni di R. CONTARINO nel suo saggio introduttivo agli Apologhi ed elogi, ed. cit., pagg. 26 e segg.).

[87] Cfr. la nota num. 1 a pag. 125 [nota 57].

[88] Per quanto secondo il LUGLI (op. cit., pag. 28) già gli Sciti praticavano «una rudimentale ferratura» a protezione degli zoccoli, secondo il CHIODI (op. cit., pagg. 180-184) i Greci e i Romani ignoravano la ferratura del cavallo, e nessun ippiatra dell'antichità e del Medioevo - fino al Ruffo - accenna alla ferratura e alle malattie che da essa possono derivare.

Ma, secondo l'Azzaroli (op. cit., pag. 98) l'introduzione nell'uso dell'ipposandalo «di ferro e cuoio, primo tentativo di porre rimedio ai danni che le strade sassose e fangose arrecavano alle unghie dei cavalli», era stata una delle poche innovazioni (insieme allo sviluppo della selezione delle razze in relazione ad i vari usi ai quali gli animali erano destinati) introdotte dai Romani i quali, per il resto, a quanto pare, non furono un popolo di grandi cultori delle tecniche equestri, alle quali non diedero per proprio conto grandi contributi, anche se, come al solito, assimilarono e valorizzarono le cognizioni dei popoli ad essi soggetti, utilizzandone anche le truppe a cavallo.

Accenni più o meno vaghi a "calzature" per cavalli si trovano in: Omero («cavalli dal piede di rame»); Virgilio («sonipes» [«sopines», ma per accertabile accidente tipografico, nel Chiodi il quale peraltro non ne precisa il "luogo"]); Orazio («sonans ungula»); Catullo («ferream soleam»); Svetonio («soleis mularum argenteis» e «ad calceandas mulas»); Plinio («dedicatioribus iumentis suis soleas ex auro inducere»); di tali espressioni il CHIODI, che le riporta nell'op. cit. a pag. 182, non indica la collocazione precisa. Io ho potuto riscontrare gli esempi di VIRGILIO e di SVETONIO rispettivamente nell'Eneide, IV 135 («…stat sonipes ac frena ferox spumantia mandit.») e nelle Vite de' dodici Cesari (Nero Claudius, XXX e T. Flavius Vespasianus, XXIII). Resta ancora da notare che fra le espressioni citate, quelle di Virgilio e di Orazio potrebbero essere immagini poetiche riferite semplicemente alle unghie stesse dei cavalli, in qualche caso addirittura con valore metonimico. Senofonte e Aristotele parlano di ippopodi attribuendo alla parola il significato di "calzature di cuoio"; Columella dice che questi erano formati con vimini di ginestra; Absirto, Vegezio ed altri scrivono delle lesioni che tali calzature potevano causare. Quanto alle ferrature con chiodi, solo dopo il Mille dovette diffondersene l'uso. Del resto, prima che in Giordano Ruffo non se ne trova menzione.

[89] È evidente qui il riferimento alla dottrina di origine aristotelica secondo la quale i vari elementi della natura concorrono alla perfetta attuazione di un armonico insieme (stavo per dire programma, prendendo la parola in prestito dalla teoria genetica e cromosomica) tendendo ciascuno per un suo proprio "istinto" - nel senso del movimento locale - a collocarsi entro il suo luogo naturale, e - nel senso del movimento qualitativo - a realizzarsi secondo quell'ordine interno delle parti che - per virtù della entelechia - si compie come perfezione di ogni singolo organismo.

Questo concetto finalistico della perfezione naturale, che fu accolto ed elaborato dagli scolastici tanto da diventare comune a tutta la cultura del basso Medioevo fino – anche - a costituire un motivo di ispirazione poetica (di Dante, per esempio, in vari luoghi del Paradiso), lo si ritrova pure presso alcuni scrittori dell'Umanesimo.

Anche a proposito di questo passo, quindi (come già, nella più ampia prospettiva del pensiero albertiano nelle sue svariate manifestazioni, è stato notato dagli storici), non è facile determinare con assoluta precisione quale sia la posizione filosofica dell'Alberti, il quale sembra oscillare (e in questo trattatello lo si è più volte avvertito: cfr. anche l'insieme delle osservazioni fatte nella nota num. 2, pag. 145 [nota 77]) fra tesi mutuate dalla tradizione più spiccatamente aristotelica e canonica medioevale, e tesi già partecipi dei moderni dibattiti che animavano il pensiero del suo tempo.

Nella fattispecie, comunque, dalla esaltazione dell'armonia costitutiva e dell'autonoma funzionalità delle cose naturali, scaturisce la condanna, sia di ogni intervento inopportuno («imperizia»), sia di ogni forma di disubbidienza ai ritmi propri dei processi naturali («negligenza», «pigrizia»). Sarebbe cioè turpe sviare con interventi arbitrari od errati il corso spontaneo di tali processi.

[90] Suggestiva osservazione nella quale l'Alberti sembra quasi preconizzare la rovina dei nostri monumenti in conseguenza dell'incuria e dell'inquinamento.

[91] Indubbiamente questo paragone a prima lettura ripugna alla nostra sensibilità; poiché, se l'autore paragona il cavallo all'uomo schiavo, è facile dedurre che nell'espressione sia implicito anche il paragone inverso. Ne deriverebbe comunque che il cavallo e lo schiavo insieme sarebbero l'anello di congiunzione fra la bestia e l'uomo. E potremmo dire con Peter Singer che ciò sia possibile perché entrambi (come tutti gli irresponsabili, e quindi - per esempio - anche i neonati) non hanno, agli occhi dei "raziocinanti", senso di giustizia, poteri propri e autonomia di giudizio. Tuttavia per il mite Alberti essi vanno trattati (come si dirà in epoche posteriori) umanitaristicamente, con quella moderazione e quella pietas che debbono sempre ispirare il buon padre di famiglia.

Ma forse, a ben riflettere, la nostra prima impressione va corretta dalla considerazione - anche sulla scorta di altri frequenti luoghi del libro - che si possa trattare di un'accentuata umanizzazione del cavallo. L'autore in sostanza vorrebbe dire che giustamente gli antichi affermavano che il cavallo dovesse esser considerato quasi come un uomo - anche se, appunto, come un uomo non libero perché soggetto al governo altrui - al quale invero, se è lecito chiedere quei servigi che non si addicono all'uomo libero, non è lecito imporre comandi che eccedano dai limiti del giusto. Concorrono del resto in questo senso gli elementi del suo pensiero espressi nei trattati in qualche modo attinenti a tale problematica: il «Teogenio», il trattato «Della famiglia», quello «Della tranquillità dell'animo» e soprattutto - per questo luogo - il «De iciarchia».

Ma per tornare sul terreno più concreto dell'ippologia, anche nei moderni criteri d'allevamento è affermato il principio che l'uomo, nel servirsi del cavallo, debba assecondarne gli istinti; perché il cavallo trae in gran parte la sua perizia e il suo ardimento dalla sicurezza del cavaliere, ma tuttavia conserva inalterato il senso del proprio orgoglio e della propria indipendenza, e quindi alla sua fiducia deve corrispondere la giustezza del comando, senza la quale si determinerebbe in esso un atteggiamento riottoso (cfr. H. H. ISENBART, op. cit., pagg. 8-9).

[92] Il discorso continua sullo stesso binario. Il cavallo è ancora umanizzato, quasi come facente parte della famiglia, e all'allevatore sono richieste le stesse qualità del pater familias. L'autore si mostra coerente nell'affermare sempre i medesimi principi fondamentali. Questi erano stati da lui diffusamente esposti nel trattato «Della famiglia» - ove, per esempio, si sofferma circa l'opportunità di esercitare piacevolmente il corpo e di proteggerlo, e condanna «la libidine del tiranneggiare» che snatura la disciplina - e sarebbero stati ripresi anche molto più tardi nel «De iciarchia», ove si pone l'accento sul fatto che l'educatore deve saper moderare i propri impulsi.

Tutto sommato, il principio essenziale - valido anche oggi - è che il rapporto uomo-cavallo debba esser fondato sulla reciproca "tolleranza".

[93] Nell'introduzione ho trattato (cfr. pagg. 45-55 [Le fonti]) di tutti i nomi che compaiono qui e che l'autore aveva già citato (all'infuori di uno) nel proemio. Il nome taciuto nella prima occasione è quello che in questo luogo il Covato, lo Stella e il Mancini riportano con una sola effe (cioè Rufo), e che il manoscritto di Oxford, invece, presenta con due effe (cioè Ruffo), derivandone perciò, in questo caso specifico, una questione che rimane aperta, e sulla quale non si può fare altro che formulare delle ipotesi, come s'è visto più diffusamente a suo luogo (cfr. pagg. 53-55 ["Cominciamo col precisare…"]).

[94] Già nel proemio l'Alberti ha scritto di aver «riportato» nel suo «libretto tutto quanto vi fosse di elegante e di degno» negli autori consultati. Ora pone nuovamente l'accento sull'eleganza come su uno dei fattori determinanti - insieme alla dottrina - del fatto che gli autori citati gli sembrino esaurienti rispetto agli argomenti del suo studio. Un interesse di questo tipo nei confronti di cognizioni scientifiche potrebbe assumere per la nostra sensibilità quasi una coloritura di esteriore accademismo a discapito della severità ed autenticità del rigore scientifico.

Si consideri peraltro che ciò è conforme al comune sentire dell'età umanistica, secondo il quale la dottrina doveva andare sempre congiunta all'eleganza formale che della dottrina stessa era anzi ritenuta naturale espressione.

E del resto è ben noto come in questo primo insorgere dello spirito italiano, e presso l'Alberti stesso (il quale ne costituì anzi una delle sorgenti), e per molto tempo ancora, anche l'arte come la scienza (anzi come primo fondamento di questa) fu ritenuta uno strumento conoscitivo al servizio dell'uomo. Tanto che nell'avanzare del secolo, e proprio in quel filone ideale e teoretico che da lui si sviluppa - ma del quale per obiettivi fattori di cronologia non può esser direttamente partecipe - attraverso il Filarete, Bernardo Rossellino, Piero della Francesca, e giù di lì per i complessi itinerari del neoplatonismo figurativo (anche con le suggestioni allegoriche di matrice letteraria e filosofica così splendidamente "informate" - per esempio - in qualche capolavoro del Botticelli) quell'iniziale riferimento alla natura, per via di esigenze sempre più capziose e sottili, finiva per travalicare la natura stessa nella sua immediata percettibilità, fino a intravedere nella perfezione dello stile la rivelazione di certi aspetti riposti della realtà naturale resi sensibili dall'artista, appunto, mediante un'operazione di tipo "divino".

D'altra parte questo tipo di cultura è fondato su concezioni unitarie ed universali ben lontane dalle discriminazioni categoriali onde è articolata la cultura di oggi.

[95] L'Alberti quindi intende affermare che nulla di valido e di nuovo può aggiungere a quanto era stato già scritto dagli antichi e di non poterne ripetere i concetti senza scadere in un inutile plagio.

V'è dunque un incondizionato ossequio nei riguardi della scienza antica; ma indubbiamente quest'osservanza, in tal caso, era giustificata anche dall'onesto convincimento del fatto che nulla di nuovo era stato aggiunto alle nozioni di essa.

[96] Sarà facile notare (a conferma di quanto esposto nella nota precedente) come nella successiva parte ciò che è chiaro è scontato, e ciò che non è scontato è oscuro; avverandosi perfettamente e paradossalmente proprio ciò che l'autore stesso aveva affermato di temere.

In effetti la trattazione si poteva ritenere, come avvertito dall'Alberti stesso, conclusa con questa parte, alla fine del periodo precedente. Stranamente invece il discorso ricomincia (e già il titolo contraddice in maniera palese la dichiarazione di inopportunità appena fatta), ma poi, come vedremo, non acquista uno sviluppo logico e sembra quasi concludersi di colpo. Cfr. la nota num. 8 dell'ultima parte del testo latino, alla pag. 180 [nota 682].

[97] A conclusione del trattato ritorna l'attributo animante - che, dopo il titolo, non era quasi più apparso (cfr. pag. 28 ["Per la resa italiana del titolo…"]) -, come per una conclusiva conferma di quelle implicazioni che ho già diffusamente messe in luce, a giustificazione del titolo italiano, nell'introduzione, alle pagg. 28-45 [cfr. Il titolo e i contenuti].

[98] Qui l'autore, con quella prolissità che gli abbiamo più volte riscontrata, ripete in tre consecutive proposizioni, in sostanza, il medesimo concetto: non bisogna fermarsi alle manifestazioni morbose in sé considerate, né ai danni che da esse possano derivare, ma porle in relazione con la sintomatologia nota delle varie malattie, onde poter non solo mitigarne gli effetti, ma rimuoverne le cause.

Saggio suggerimento che, se da una parte costituisce una riprova della razionalità e della tendenza ad una serena considerazione degli eventi che sono proprie dell'Alberti, d'altro canto non è del tutto originale perché lo si ritrova - come tanti altri da lui fatti propri - nella precettistica degli ippiatri greci e italiani; nella fattispecie, di Ierocle (che è, come s'è detto a suo luogo, uno degli autori raccolti negli «Ippiatrica») e di Giordano Ruffo.

[99] Si noti la innegabile quanto compiaciuta oziosità di una simile elencazione nel medesimo tempo tanto ovvia che era davvero inutile specificarla così pedissequamente, e tanto velleitaria che risulterebbe un "troppo pretendere" anche per un clinico dei nostri giorni.

[100] In più punti del trattatello si avverte una più o meno dichiarata avversione nei riguardi delle medicine. Queste, evidentemente, nella loro artificialità gli debbono apparire come una alterazione dei fatti naturali dei quali egli in tante manifestazioni del suo pensiero consiglia una fatalistica accettazione.

Rimane da notare l'apparente contraddizione fra l'esortazione a non dar medicine e quella a somministrare «tutte quelle cose che servano ad aiutare la natura». Ma forse egli per «quelle cose» intende semplicemente cibi e bevande preparati con particolari accorgimenti dietetici.

[101] Qui veramente l'Alberti si dimostra uomo collocato nel momento di frizione tra due atteggiamenti mentali e nel passo convergono svariati spunti di pensiero ambiguamente connessi e non decantati in una precisa definizione, della quale, peraltro, egli - che forse rifuggiva per natura da ogni sistematica costruzione (e non solo in senso metaforico) - neppure avrà avvertito il bisogno.

Questo suo composito insieme di diffidenza, di "buonsenso", di amore per il "quieto vivere" e di entusiasmi studiosi, può essere problematicamente inteso, tanto come un atteggiamento antichizzante (se lo si interpreta quale una specie di timor panico nei confronti di quegli "strani individui" di cui si è detto a pag. 39 ["… i suoi cultori amarono…"]), tanto come un atteggiamento mentale progredito (che esige più razionali impostazioni della ricerca e della sperimentazione).

E così anche la fiducia che egli mostra di nutrire nella dinamica autonoma dei processi schiettamente naturali, lo pone in un contesto ove altrettanto problematicamente possono essere avvertiti addentellati sia con particolari correnti di pensiero medioevale (con quelle stesse venature orientalizzanti di una mistica della natura che anche oggigiorno, dopo tanto scientifismo, rappresentano per molti l'ultima spiaggia aperta alle nevrosi e alle disperazioni del nostro tempo) ancora operanti - econdo i quali «la natura è dotata di una vita che non è dissimile da quella umana» (A. PAZZINI, op. cit., vol. I, pag. 603) -, sia anche con le più serene (per il momento) ed empiriche convinzioni dell'insorgente naturalismo rinascimentale, il quale di lì a qualche decennio sarebbe arrivato a farsi perfino la convinzione che anche la natura "fa i suoi sbagli".

[102] Più che pensare qui ad una vera e propria presa di posizione conformista e ad un reazionario rigetto di ogni novità, sembra di cogliere una sfumatura di ironia, quasi uno scettico sorriso per l'affaccendarsi degli sperimentatori a oltranza, i quali anche allora, come in ogni temperie storica di profondi mutamenti e di "insorgenti mode", non dovevano mancare; e "naturalmente" dovevano anche essere delle due solite specie di sempre: la specie di quelli che si sforzano di apparire "nuovi" tanto più radicalmente quanto meno lo sono in concreto (che poi è sempre la specie più comune, e la peggiore); e quelli che sinceramente infervorati di curiosità per il nuovo, vi si dedicano con una tal quale ingenuità (e talvolta finanche goffaggine) che ne rivela, non solo la sostanziale onestà e buona fede, ma anche più legami e nostalgie per le antiche tradizioni di quanti essi stessi non riconoscano (fenomeno comune e riscontrabile anche nei modi espressivi tipici di alcuni validi ma problematici e "difficili" artisti figurativi del primo Umanesimo). Di tali ansie più o meno sincere, ma che in ogni caso determinano atteggiamenti non equilibrati sul piano della vita pratica, un uomo come l'Alberti, geloso della propria quiete interiore, attento ai vantaggi concreti dell'operare, e per di più animato da un certo aristocratico distacco, non poteva non avvertire il fastidio e non esprimerlo appunto quasi con un sorriso di compatimento, molto simile invero a quello messo dal caustico Vasari sulle labbra di Donatello, nei riguardi di Paolo Uccello, nel noto episodio della «Vita» di quest'ultimo, che ho già ricordato.

[103] L'Alberti, dopo aver consigliato di non affrettarsi a dare medicine, di non forzare la natura, di non lasciarsi prendere dalla smania di sperimentazione, conclude coerentemente il discorso affermando, finalmente in termini espliciti, di rifarsi con fiducia ai mezzi legittimati dall'esperienza.

Ora, per quanto questo possa apparire un consiglio ovvio dettato dal buonsenso in relazione soprattutto alla preoccupazione pura e semplice di salvaguardare il cavallo, esso, proprio perché ispirato dalle elementari esigenze della praticità "quotidiana", ci rivela immediatamente quale sia in concreto l'atteggiamento più autentico dell'uomo e, come tale, si presta a qualche conclusiva considerazione relativa a tutto questo contesto (e riallacciabile a quelle espresse nelle precedenti note) più di quanto a prima vista non comporterebbe l'esilità del singolo argomento (cfr. le pagg. 38-42 [cfr. Il titolo e i contenuti]).

[104] Cfr. quanto ho messo in rilievo nella corrispondente nota, num. 8, a pag. 180 [nota 682 testo latino] il sospetto cioè che il trattato ci sia pervenuto incompleto. In tal caso potrebbero essere le eventuali lacune o i mancati sviluppi dell'esposizione a compromettere l'esatta interpretazione del pensiero dell'autore.

Sta di fatto che gli estensori delle tre trascrizioni più antiche appaiono concordi nel sigillare a questo punto esplicitamente il termine dell'esposizione: quello del codice ora in Oxford, e così l'editore Stella, con un semplice «FINE»; quello del codice vaticano apponendo in calce alla stesura la nota che si può tradurre così: «Batt. Alberti ha svolto la sua breve trattazione riguardante la vita del cavallo. La quale Giovanni Odone Covato ha trascritto rapidamente il 7 marzo del 1468».

* ...che ringrazia per la cortese disponibilità il personale della ditta «Ioris Ferraris Illumotecnica» di Quartesana (Ferrara).