Lezione
n°30 martedì 18\05\99
GIOVANNI
CALVINO
Vediamo
oggi di dare una rapida occhiata al punto di vista di Calvino, in modo da
completare il quadro complessivo della Riforma Protestante. Mentre nel caso di
Lutero siamo in presenza di quello che si chiama un 'genio' religioso a tutto
tondo, nel quale sono predominanti gli aspetti creativi e innovatori, in
Calvino, sebbene si tratti di una grande personalità, nondimeno prevalgono gli
aspetti di organizzatore e sistematizzatore. Calvino è un grande sistematore e
chiarificatore. Leggere Calvino è avere una visione estremamente chiara,
sistematica e organica del punto di vista della Riforma, ormai sedimentato e
consolidato nei suoi diversi aspetti. Gli scritti di Lutero sono gli scritti di
uno spirito in divenire, in cui prevale il momento innovativo-creativo, il
momento del divenire; con Calvino, invece ci troviamo di fronte ad un sistema
compatto e a tutto tondo. Vi è quindi tutto un aspetto del pensiero di Calvino,
il cuore del punto di vista calvinista, che riprende e ripropone le scoperte
luterane facendole proprie ed esponendole in maniera sistematica.
Per
quanto riguarda il peccato, anche in Calvino, come già in Lutero, troviamo un
dichiarato riferimento ad Agostino, che viene distinto nettamente dagli altri
Padri della Chiesa, i quali ultimi sotto il profilo della dottrina del peccato
hanno, a suo giudizio, gravemente errato. Il peccato non può, come fa la
Scolastica, esser definito semplicemente un difetto di giustizia, ma è
positivamente e radicalmente concupiscenza che coinvolge l'intero uomo
(ritroviamo il concetto luterano di 'totus homo' da cui abbiamo preso le mosse),
un accecamento della sua ragione e un'impotenza della sua volontà. Un tal
peccato radicale, dice Calvino, va inteso come corruzione ereditaria che si
trasmette di generazione in generazione a tutti gli uomini. Dice Calvino:
"Dalla testa ai piedi non si trova in tutto l'uomo una sola scintilla di
bene". Sicchè, essendo così radicalmente corrotta la natura, lo stato di
natura (lo stato in cui l'uomo si ritrova a prescindere dalla Grazia) è uno
stato di corruzione. Naturalmente, qui Calvino segue Lutero, questa corruzione
per quanto radicale e permanente non lede le capacità naturali dell'uomo
relative alla vita civile e mondana (vita politica, campo delle scienze, arte).
Non dobbiamo mai dimenticare che questi signori sono attivi in pieno '500, un
secolo di una straordinaria fioritura artistica, tal che fa gridare agli
umanisti e ai rinascimentali al miracolo dell'uomo. Nel più celebre degli
scritti ermetici, l'"Asclepio", vi è questa famosa frase che dai
Neoplatonici in giù tutti i rinascimentali citano: "Magnum miraculum est
homo" (l'uomo è un grandissimo miracolo); voi sapete, ad esempio quanto
gli umanisti fiorentini abbiano insistito su quella meraviglia assoluta che è
la cupola del Brunelleschi, a testimonianza delle capacità creative dell'uomo.
Dunque, Calvino tiene conto anche di questo aspetto così presente nella cultura
dell'epoca, e non nega quindi le capacità dell'uomo sul piano della vita
mondana, e anche le capacità artistiche.
Resta,
dice Calvino, nonostante il peccato, nell'uomo una mera coscienza di Dio e della
sua esigenza, ed è la coscienza della legge naturale presente nell'uomo, che è
tuttavia del tutto insufficiente ed incapace non solo a guidare e a orientare
l'uomo, ma anche incapace a trasformarsi in un motivo determinante la sua volontà.
Dal
canto suo, la legge di Dio, la parola scritturale in quanto legge, non dà la
forza per adempierla; la sua principale funzione (il così detto uso teologico)
è quello di distruggere la mal riposta fiducia dell'uomo nelle proprie forze,
palesando in tutta la sua portata la radicale impotenza in cui l'uomo si ritrova
di contro a Dio, coram Deo.
Quanto
alla fede, analogamente a quanto abbiamo visto in Lutero, essa viene concepita
come possesso di Cristo e dei suoi meriti, un apprendere che è un afferrare. La
fede è bensì articolata in notitia, assensus e fiducia, ma non si riduce
sicuramente alla mera notitia. Lungi dall'essere un mero tener per vero ciò che
la Scrittura dice, essa è un afferrare il Cristo realmente presente nella
parola. Vedete che ci muoviamo del tutto nelle orme di Lutero. Così intesa, la
fede è l'inizio del rinnovamento dell'uomo; rinnovati sono nel credente sia
l'intelletto che la volontà, che conoscono Cristo e lo vogliono, nel senso che
assentono e sperano in lui.
Quanto
al nesso fede-Scrittura, questo è di nuovo quello che abbiamo visto in Lutero:
la Scrittura è altresì quella che suscita la fede, che assentisce e spera
nella parola. Lo stesso spirito divino autore della Scrittura è quello che la
Scrittura porta al credente e suscita in lui la fede come sua reazione alla
parola scritturale. Vi è quindi la ripresa della concezione della parola
scritturale come una parola attiva e fattiva, che è presenza reale di Dio in
essa, la stessa concezione sacramentale della parola che abbiamo già conosciuto
in Lutero.
La
giustificazione, altresì, non è mai senza santificazione: l'una e l'altra sono
le due facce di una stessa medaglia. L'unione con Cristo, realizzantesi nella
fede, porta una duplice Grazia: la giustificazione come remissione dei peccati
(imputatio justitiae Christi), e la santificazione come rinnovamento interiore
di cui la fede è essa stessa l'inizio. Ma questo rinnovamento interiore, questa
rinascita, questa nuova vita, che è il prendere a vivere di Dio stesso nel
fedele, è una rinascita sempre e di nuovo minata dal permanere del peccato.
Ecco l'eterno problema se sia o meno attingibile una certezza assoluta circa la
propria salvezza.
Qui,
dunque, ritroviamo la stessa oscillazione che ha tormentato Lutero e che
tormenta tutti costoro: da una parte, dubbio e timore sembra che debbano nascere
soltanto laddove il credente è configurato come corresponsabile della propria
salvezza. Ecco che allora questo è costretto ad un costante esame di coscienza
per vedere se ha sufficientemente bene operato, sufficientemente ben cooperato
alla propria salvezza. Laddove invece la salvezza non dipende da lui, è del
tutto gratuita, è extra nos in Cristo, lì sembra che la certezza sia
garantita. Per avere certezza della salvezza significa che questa debba
dipendere unicamente da Dio e non da me; se dipende unicamente da Dio, posso
immaginare di averne certezza. Non è infatti la fede accettazione, coscienza e
consapevolezza della decisione divina che mi riguarda, certezza del mio esser
giustificato? Fin qui tutto sembra andar bene, sembra garantirmi una certezza
che il povero credente chiamato invece a cooperare sembra non poter mai
ottenere.
Ma
non appena ci si interroga sulla natura della fede, ecco che tutti i problemi di
certezza e incertezza ritornano. Infatti, la vera fede porta con sé la certezza
della salvezza, quella salvezza che mi viene dalla giustificazione, che
distinguo dalla santificazione, ma che s'accompagna sempre e infallibilmente,
come già in Lutero, alla santificazione. È quindi una fede vivente, una fede
operosa. Ed ecco allora che torna il problema se la mia fede sia una fede
autentica, una fede vivente ed operosa.
Abbiamo
detto che la fede porta con sé la certezza della salvezza, e, sottolinea
Calvino, porta con sé la certezza della predestinazione. Tutti sanno quale
posto centrale occupi in Calvino la predestinazione. Ma forse non è del tutto
inopportuno raccogliere le nostre idee intorno a questo tema. Il tema della
predestinazione è un tema, per un verso, squisitamente teologico, ma che
d'altro canto, concernendo da vicino la questione della libertà, è un tema che
ha attinenza con la filosofia morale. Anche la questione teologica del tema
della predestinazione ha una serie di conseguenze che finiscono per avere una
rilevanza tale che trascende il mero ambito teologico, e che investe l'ambito
culturale in senso lato.
Se
ricordate quello che abbiamo già avuto modo di dire intorno alla
predestinazione, dobbiamo muovere da un dato di fatto, rappresentato un serie di
chiari ed incontestabili enunciati scritturali di San Paolo in cui la
predestinazione è annunciata: la predestinazione di alcuni ad essere salvati e
di molti ad essere condannati. Sicchè la dottrina della predestinazione è
parte integrante del Cristianesimo. In tutte le confessioni cristiane la
dottrina della predestinazione non può non essere presente. Nondimeno è
opinione largamente diffusa che vi siano grandi differenze all'interno delle
confessioni cristiane circa il problema della predestinazione. Io personalmente
sono giunto alla conclusione che non già di grandi differenze si tratti, quanto
piuttosto di sfumature. Non può trattarsi di grandi differenze precisamente
perché la predestinazione, in senso forte e stretto, è ineliminabile dal
Cristianesimo, essendo ineliminabile dalle Scritture. O si considerano apocrifi
quei passi scritturali, che non sono pochi né poco chiari, in cui la
predestinazione è cantata ai quattro venti, oppure si deve considerare la
predestinazione come momento centrale e ineliminabile del Cristianesimo. Quelle
che in genere si ritiene essere grandi differenze sono piuttosto, a mio
giudizio, delle sfumature.
·
Dunque, da una parte si può, nei confronti della predestinazione, tentare un
massimo di attenuazione, che lo si ottiene affiancando al dogma della
predestinazione l'affermazione della libertà umana, e quindi affermando un
almeno relativa corresponsabilità dell'uomo alla propria salvezza. Questo, come
sappiamo, avviene nell'ambito della dottrina cattolica e nella versione
melantoniana della dottrina della giustificazione. In questi casi è d'uso
parlare di predestinazione semplice: laddove l'uomo è libero di assentire o
meno alla Grazia e alla salvezza offertagli da Dio, tutti sono predestinati alla
salvezza; che non tutti si salvino dipende dal mancato assenso all'offerta di
salvezza. In realtà questo è vero soltanto guardando dal basso, ex parte
hominis, se noi ci collochiamo nel nostro punto di vista. Ci si insegna: siamo
liberi di assentire o meno alla Grazia che ci viene offerta; se ci collochiamo
in questo nostro punto di vista, è evidente che la predestinazione è semplice:
siamo tutti destinatari di un'offerta che sta alla nostra libertà di accettare
o negare. Badate bene, una libertà che è essa stessa frutto di Grazia, perché
gli ascoltatori della parola sono dei peccatori; la libertà di assentire o meno
è il non più essere univocamente determinati dal peccato, è cioè il venir
sospesa la determinazione che sulla nostra volontà e sulla nostra ragione il
peccato produce, sicchè noi possiamo liberamente scegliere se sì o se no. Per
poter liberamente scegliere occorre che l'azione determinante del peccato sulla
nostra intelligenza e sulla nostra volontà venga sospesa. Occorre, cioè, che
noi veniamo situati in una condizione di libera scelta; la condizione di libera
scelta è quella in cui nessun motivo determina la volontà. Nessuna
inclinazione di qualsivoglia ordine deve intervenire sulla volontà
inclinandola, inducendola in una certa direzione.
(Parentesi:
se mai un giorno si dovesse fare un corso sulla libertà, non si potrebbe non
rimarcare come questa condizione di assoluta indeterminatezza della volontà sia
una condizione del tutto paradossale e incomprensibile. Infatti, tutti i
negatori della libertà di scelta, tra i quali ad esempio Schopenhauer, fanno
rilevare l'assurdità di tale condizione. Libera scelta significa scelta
immotivata; ma noi non riusciamo a pensare ad una scelta immotivata, in assenza
di un motivo che determini la nostra libertà a quella scelta. Se riusciamo a
pensarla, la dobbiamo pensare come una scelta cieca, perché se la nostra scelta
fosse l'effetto di una ponderata deliberazione, questo significherebbe che
avendo ponderato abbiamo scelto quello tra i tanti motivi proposti alla nostra
volontà che ci è parso migliore.)
Abbiamo
detto che la variante della dottrina cristiana della predestinazione, che si
caratterizza come una sua massima attenuazione, consiste nell'affiancare alla
dottrina della predestinazione la dottrina del libero arbitrio, e quindi di una
relativa libertà dell'uomo nel procacciarsi la propria salvezza. Si parla, così,
di predestinazione semplice; ma questo è vero soltanto dal punto di vista
dell'uomo. Se ci collochiamo dal punto di vista di Dio, ci troviamo in presenza
del suo eterno decreto di predestinazione, e non fa gran differenza che noi
consideriamo questo eterno decreto praelapsario o postlapsario. Se ci
collochiamo nel punto di vista di Dio, che noi concepiamo l'eterno decreto di
Dio, praelapsario o postlapsario, non fa differenza. Il che significa che questo
tentativo di attenuazione della dottrina della predestinazione non fa che
aggiungere problema a problema, mistero a mistero. Il mistero che la dottrina
della predestinazione già sempre comporta è quello di conciliare giustizia e
bontà di Dio con la predestinazione; qui ci complichiamo ulteriormente la vita
perché dobbiamo conciliare la predestinazione con la libertà dell'uomo. Come
ciò avvenga è appunto un mistero. Introducendo questo mistero ulteriore
nell'ambito della predestinazione si opera una sorta di effetto cosmetico.
Questa è una variante della dottrina della predestinazione che non toglie la
predestinazione ma la attenua. La corrente distinzione tra predestinazione
doppia e predestinazione semplice, sotto questo profilo, è una distinzione che
introduce più equivoci di quanta chiarezza non faccia.
·
Abbiamo, poi, una seconda variante sempre di attenuazione, ma di più relativa
attenuazione. Questa è la variante di Lutero. Lutero afferma recisamente la
predestinazione e non introduce nessuna relativa libertà dell'uomo; tuttavia
nell'opera di Lutero la predestinazione resta sempre in secondo piano, mentre in
primo piamo troviamo sempre e di nuovo la lieta novella, l'annuncio della
salvezza e la relativa certezza della fede che ne è il prodotto. Lutero, ogni
volta che parla della predestinazione sottolinea sempre e di nuovo come si
tratti di un mistero che infallibilmente comporta la conciliazione di
predestinazione, bontà e giustizia di Dio.
·
Infine abbiamo una terza variante, e questa è quella della massima
accentuazione della dottrina della predestinazione; questa è la variante di
Calvino. La parola di Dio, secondo Calvino, si rivolge a molti, e in quanto tale
è 'vocatio', una chiamata; ma occorre distinguere (come del resto aveva già
fatto Melantone) vocatio universalis e vocatio specialis. Mentre la prima è un
invito rivolto a tutti, la seconda, e solo essa, è accompagnata dall'azione
interiore dello spirito, il quale fa seguire all'ascolto della parola il dono
della fede. Sicchè, nel caso di alcuni, simultaneamente all'ascolto si produce
come suo effetto, grazie all'azione dello spirito, la fede. Qui siamo di nuovo
in presenza di una ripresa del dettato luterano, il quale ha insegnato che lo
spirito di Dio, se viene, viene sempre nella e con la parola, ma non sempre la
parola porta con sé lo spirito. Quindi, nel caso della vocatio universalis
abbiamo una parola che è soltanto ascoltata e che produce soltanto quella
notitia che anche gli infedeli che ascoltano la parola hanno. In altri la parola
è pregna di spirito e penetra nell'uomo, non gli resta soltanto nelle orecchie,
e quindi ha l'effetto di suscitare la fede, trasformandolo, rigenerandolo e
sortendo come effetto della giustificazione donatagli quella nuova vita che è
il processo di incipiente santificazione che s'accompagna alla giustificazione.
Ma
torniamo un attimo indietro, a quanto abbiamo detto circa il problema che
comporta la variante della dottrina della predestinazione che accompagna la
predestinazione alla libertà. Abbiamo detto che la libertà è dono essa stessa
della Grazia, in quanto si instaura soltanto nella misura in cui viene sospesa
la determinazione dell'intelletto e della volontà umana da parte del peccato.
Vedete come, se la libertà si accompagna alla predestinazione, significa che la
Grazia (come del resto insegna Tommaso) ha una sfumatura infinita di possibili
interventi: può intervenire sospendendo più o meno la determinazione
esercitata dal peccato. Soltanto laddove la sospende del tutto, almeno
momentaneamente, consentendo la libera scelta, questa può prodursi. Vedete che
è una situazione di estrema problematicità quella nella quale si caccia chi,
volendo attenuare la dottrina, l'accompagna con l'affermazione del libero
arbitrio dell'uomo.
Ora,
in Calvino la predestinazione è annunciata con forza e messa rigorosamente in
primo piano. Questo perché in Calvino è dominante quello che è stato definito
la percezione numinosa della divinità. Questa percezione numinosa della divinità
è caratteristica, in generale, dell'intera Riforma Protestante e l'abbiamo
vista anche in Lutero ('Dio è Dio, l'uomo è uomo'). Il numinoso è una
categoria introdotta da alcuni storici della religione di questo secolo, a
segnalare l'assoluta trascendenza, sovranità, l'essere tutt'altro del divino
rispetto all'umano. La predestinazione è brandita da Calvino precisamente in un
siffatto orizzonte: a segnalare sempre e di nuovo la sovranità assoluta di Dio,
che fa quel che gli pare e piace, proprio perché è Dio.
Siamo
in presenza di una religiosità in cui si sottolinea sempre e di nuovo, con
grande enfasi, la radicale distanza che separa Dio dall'uomo. Del resto è un
grande teologo calvinista di questo secolo, Karl Barth, che ha reintrodotto nel
dibattito teologico di questo secolo questa categoria dell'esser tutt'altro di
Dio. È Barth che dice: "Dio è Dio, l'uomo è uomo"; questo è un
principio schiettamente calvinista, ed è l'orizzonte sullo sfondo del quale si
staglia e si comprende la dottrina della predestinazione e la particolare
accentuazione che Calvino ne fa. Non che in Calvino manchi l'altro grande
momento dell'esperienza religiosa, quello della vicinanza di Dio all'uomo
(l'annuncio del vangelo), ma in lui resta sempre molto forte quest'altro momento
del Dio che è Dio e dell'uomo che è uomo; la sottolineatura non tanto della
somiglianza della creatura con il suo creatore, ma della dissomiglianza che
separa il creatore dalla creatura.
Del
resto questo è un tema che attraversa la metafisica neoplatonica: Platone e i
Neoplatonici insegnano che gli ideati somigliano alle idee, che gli effetti
somigliano alle cause, ma le idee non somigliano affatto agli ideati. Non vale
la reciprocità. Non si può certo parlare di un influsso plato-neoplatonico su
Calvino o sulla Riforma in generale, anche se l'ontologia implicita sembra
andare in questa direzione. Qui l'influsso è vetero-testamentario: è il Geova
del vecchio testamento, il sovrano assoluto e onnipotente che costituisce lo
sfondo della dottrina della predestinazione.
Dicevamo:
l'assoluta sovranità di Dio, nel senso di non togliere nulla a Dio, non
rischiare minimamente di sminuirlo; di contro al Dio infinito sta l'uomo
'finitum non capax infiniti', incapace dell'infinito, incapace nel senso
letterale di non riuscire a contenere, a comprendere l'infinito. Accanto a
questa generalissima dimensione numinosa della religiosità di Calvino, non
dobbiamo dimenticare la tradizione della teologia occamistica, operante già in
Lutero, quella teologia che per almeno due secoli si è avventurata in mille
spericolate elucubrazioni 'de potentia Dei absoluta', sull'onnipotenza di Dio.
È soprattutto in ambito calvinista che fioriranno filoni di mistica
quietistica, ove il nome stesso 'Quietismo' la dice lunga sull'atteggiamento
religioso di fondo di questi filoni, il quale è appunto di tacito consenso alla
sovranità di Dio.
L'uomo,
allora, in una prospettiva di questo genere, non può essere concepito se non
come strumento di Dio, e soprattutto più specificatamente ancora come strumento
dell'onore di Dio, strumento destinato a rendere onore a Dio. Uno strumento
totalmente sottomesso a Dio, la cui santificazione è ad un tempo manifestazione
di codesta totale sottomissione e espressione dell'onore che, così
sottomettendosi passivamente, egli rende al suo Dio. Quindi, la dottrina della
predestinazione suscita quella peculiare tensione etica del Calvinismo e la
suscita anzitutto per questo motivo: l'uomo strumento divino, chiamato a rendere
gloria a Dio e quindi mirante ad una piena santificazione che renda questa
gloria a Dio; l'inabitato da Dio glorifica Dio con la santificazione che lascia
sviluppare in sé; ma l'altro motivo è quello della certezza della propria
salvezza.
Ma
restando ancora nel tema della sovranità di Dio, di quell'invito che Calvino
non si stanca di ribadire, il ricordarsi, cioè, sempre di chi è Dio, e che la
giustizia di Dio è la somma giustizia imperscrutabile; un Dio che in forza
della propria sovranità ha creato e disposto tutto a propria gloria, come una
sorta di autocelebrazione; lo squadenarsi dei mondi e in essi la vicenda umana
avviene 'ad maiorem Dei gloriam', nei termini di una vera e propria
autocelebrazione divina. Alla obbiezione che vien fatto di muovere, che un tal
Dio sia un Dio narcisista, Calvino non esita a rispondere che 'raglio d'asino
non giunge al cielo', che il narcisismo è disdicevole in qualsivoglia narciso
finito, ma Dio può permettersi di essere anche narcisista precisamente perché
è Dio. Il muovere una siffatta obbiezione segnala precisamente l'incapacità di
cogliersi nel punto di vista numinoso, di comprendere che cosa sia il Dio con
cui si ha a che fare; segnala altresì che si concepisce Dio a nostra immagine,
non rendendosi consapevoli dell'infinita distanza che ci separa da lui. Per ciò
Calvino può affermare senza timore di basse contestazioni che Dio ha creato e
disposto tutto a propria gloria.
Naturalmente,
contro l'altra accusa che una tal concezione si attira inevitabilmente addosso,
che Dio alla fin fine risulterebbe essere l'autore del peccato, Calvino risponde
con il rimando alla trascendente impenetrabilità del mistero divino. In realtà
questa obbiezione la si rivolge a Calvino e non agli altri cristiani,
semplicemente perché Calvino enfatizza la predestinazione mettendola in primo
piano, ma è una obbiezione che vale per il Cristianesimo in generale, laddove
il Cristianesimo afferma la doppia predestinazione (l'obbiezione: se c'è la
doppia predestinazione allora il peccato a chi lo dobbiamo far risalire?).
L'altro
motivo che spiega la caratteristica tensione etica presente nel Calvinismo (una
tensione etica che non solo non lede ma ribadisce il 'sola Gratia', perché è
la tensione etica di soggetti che non sono essi i soggetti del loro operare, ma
che riconoscono la presenza in sé di un superiore e divino attore), abbiamo
detto essere la fede e la certezza. In generale, se guardi a te stesso, dice
Calvino, 'certa damnatio', non puoi che constatare, stante la permanenza del
peccato radicale, la tua sicura dannazione; ma se tu sei con Cristo e unito a
Cristo, nella e dalla fede, allora sei certo della tua salvezza. Ecco che la
fede è questa 'certitudo', perché non guarda a te, ma guarda a lui. La fede,
abbiamo visto, per Calvino come per Lutero, è la realtà della reale presenza
salvifica di Cristo: se è questo afferrare, abbracciare Cristo, cosa vi è di
più certo della fede? La fede è possesso di Cristo e della certezza della
propria salvezza. So infatti di essere salvo non grazie a me, ma grazie a
qualcuno che non sono io.
Ma
sappiamo altresì che essendo la fede l'inizio della santificazione; ecco che
subentra immediatamente il problema della vera fede. Come garantirsi di non
avere una certezza presunta, arrogante, temeraria, subdolamente instillata in
noi, ad esempio, dal demonio? Forse che anche i reprobi, i condannati alle pene
eterne non si credano talvolta salvi e non ostentano la certezza della loro
salvezza? Ecco allora che la fede, che doveva essere la definitiva interruzione
e soppressione d'ogni riflessione intorno a se stessi, d'ogni autoanalisi,
d'ogni processo introspettivo relativo alla propria salvezza, ecco che diventa
essa stessa oggetto di analisi in vista di ricavarne la certezza della propria
salvezza (stante la distinzione tra 'vocatio universalis' e 'vocatio specialis',
che se ci collochiamo dal punto di vista del credente, diventa la distinzione
tra 'vocatio externa', la parola che percuote le nostre orecchie, e 'vocatio
interna', la parola che suscita la vera fede). Quindi la vera fede, la fede
viva, è la fede che dà frutti. Ma come arriviamo a distinguerla? Arriviamo a
distinguerla precisamente se constatiamo in noi la presenza di questi frutti.
Ecco quindi l'ossessione calvinista della santità, la tensione etica
caratteristica del Calvinismo.
Se
vogliamo mettere in successione i momenti che conducono a questo, abbiamo:
l'accentuazione della predestinazione; il problema della certezza della
salvezza; la vera fede riconosciuta dai suoi effetti, dalle opere in cui si
prolunga, dalla vita in cui si incarna; la caratteristica tensione etica di un
tal credente. È una tensione etica, però, il cui orizzonte è delimitato dalla
legge: la legge apre all'uomo un campo infinito di attività 'ad maiorem Dei
gloriam', la pia attività del credente che si sviluppa in ogni campo, in cui il
credente funge da strumento al servizio di Dio.
Calvino
insiste più di quanto non abbia fatto Lutero sul così detto uso morale della
legge (vi ricordate che vi è un 'triplex usus legis': teologico politico e
morale). L'uso teologico è l'annuncio all'uomo della sua radicale e permanente
peccaminosità. L'uso morale è quello di mostrare al credente in cui Dio è
presente l'ambito del suo operare, la via da seguire, il da farsi. Ma perché si
sviluppa questa tensione etica? Qui la situazione è complicata, tra quietismo
da una parte e tensione etica dall'altra. Quietismo: sono un passivo strumento
di Dio, è Dio che opera in me; ma questo operare di Dio in me è individuabile,
stante il peccato permanente? No, è occulto, misterioso. Di qui la tensione
etica, visto che la fede è vera soltanto se si sviluppa in buone opere. Il
credente compie le buone opere, confidando che il suo compierle sia guidato da
Dio, che non sia lui a compierle, ma sia Dio in lui; nondimeno le compie, è
indotto a vivere nel rispetto della legge, sforzandosi di adempiere ad essa. È
questa una condizione che non è molto diversa da quella di Lutero, ma che però
è esasperata dalla messa in primo piano della predestinazione: se metto in
primo piano la predestinazione, psicologicamente il problema della certezza
della salvezza diventa di una urgenza assoluta. Di qui la fortissima tensione
etica a cui il credente calvinista è indotto da questa enfatizzazione della
predestinazione e quindi dall'urgenza particolare che in lui assume il problema
della certezza della salvezza.
Da
ultimo possiamo ancora fare un breve accenno alla ecclesiologia di Calvino. Da
una parte, anche qui come in Lutero, è la parola che fonda la Chiesa. La Chiesa
quindi non deve mai trascendere la parola, ma è portavoce della parola divina.
Il magistero non deve mai trascendere la parola nella sua interpretazione della
chiara parola scritturale (dal momento che Calvino condivide pienamente la
dottrina luterana della 'claritas Scripturae'), solo il vangelo e la Scrittura,
dice Calvino, deve regnare nella Chiesa, e quindi è escluso il costituirsi di
un magistero ecclesiale, di una tradizione interpretativa che si collochi come
seconda autorità accanto a quella scritturale. La Chiesa, nondimeno, non solo
è la comunità dei credenti e quindi dei salvi e degli eletti, ma è essa
stessa strumento di salvezza, anzitutto in quanto è portavoce della parola: è
nella Chiesa che la parola viene annunciata; l'annuncio della parola, nella
prospettiva di Calvino come in quella di Lutero, è l'unico strumento di
salvezza. Ma la Chiesa funge da strumento di salvezza non solo in quanto
annuncia la parola, ma anche in quanto questo annuncio è reso possibile da
tutta una attività istituzionale della Chiesa stessa, che la parola stessa
prescrive. Vi è, quindi, in Calvino una rapida ricostruzione di una Chiesa
istituzionale e gerarchizzata (concistori, sinodi, pastori, presbiteri, ecc.),
che per certi versi è molto più accentuata di quanto non avvenga nel
luteranesimo.
Vediamo
adesso di chiarire meglio il così detto uso politico della legge, così da
poter fare qualche riflessione in generale sull'influsso che la Riforma ha avuto
sul pensiero politico. Allora, il così detto uso politico della legge (dove la
legge è non soltanto la legge mosaica ma anche la legge naturale di cui gli
uomini hanno più o meno oscura nozione, entrambe in quanto diventate legge di
uno stato), consiste precisamente nella repressione e punizione dei crimini,
operata dallo stato che emana le sue leggi e ne pretende l'osservanza. Questa
funzione politica della legge fa una sorta di argine a quello sfrenarsi
incontrollato della corrotta e peccaminosa natura umana che, se non venisse così
imbrigliata dall'uso politico della legge, impedirebbe il costituirsi e la
sopravvivenza di ogni consorzio civile, di ogni società. Ove non intervenisse
l'uso politico della legge la situazione sarebbe quella descritta da Hobbes
allorchè descrive lo stato di natura: una guerra di tutti contro tutti che,
laddove si realizzasse, porterebbe alla autodistruzione dell'umanità.
Dunque,
allo stato (il soggetto che usa politicamente la legge) viene riconosciuta una
funzione sostanzialmente, se non esclusivamente, repressiva. Questa funzione
repressiva dello stato è direttamente dedotta dalla Scrittura, dove è indicata
l'intenzione provvidenziale di Dio mirante alla preservazione della specie
umana. Dio vuole che l'umanità duri nel tempo e duri fino al giudizio
universale, perché possa annunciarsi la sua parola. Ma perché la sua parola
possa annunciarsi occorre una condizione di almeno relativa pace esterna e di
relativo ordine interno che consenta l'annuncio e la predicazione della parola.
La realizzazione di questo relativo ordine interno e questa relativa pace
esterna è il compito che deve espletare il potere politico.
Vedete
che in un colpo solo il potere politico si trova sia garantito della sua origine
divina (Dio stesso vuole che ci sia il potere politico, e dati i tempi il potere
politico significa la monarchia), e al tempo stesso caratterizzato come servizio
divino. Dicevamo, la funzione del potere politico è sostanzialmente una
funzione repressiva, una funzione di argine, a cui deve corrispondere
evidentemente la sottomissione del popolo. Una sottomissione del popolo che si
ritiene essere esplicitamente richiesta dal IV comandamento, che recita
"Onora il padre e la madre". Qui il padre e la madre vengono intesi,
da Lutero in particolare, non soltanto come i genitori, ma anche come i
'superiori'. I superiori hanno da espletare una funzione divina che è
precisamente quella di sottomettere gli inferiori, che stiano buoni e consentano
la sopravvivenza.
Questa
concezione politica di base, ridotta ai minimi termini, della Riforma
Protestante, si sviluppa con due varianti alquanto diverse nel Luteranesimo e
nel Calvinismo, due varianti che non sono senza effetto nel mondo moderno.
Nell'ambito
di Lutero e del Luteranesimo, questa concezione dell'uso politico della legge
propizia una progressiva laicizzazione dello stato. Lo stato deve sì garantire
all'autorità religiosa il libero esercizio del suo ministero (di poter
liberamente annunciare la parola); ma dal canto suo si vede riconosciuto dalla
autorità religiosa il diritto alla autonomia da qualsivoglia ingerenza
dell'autorità religiosa stessa. Come abbiamo visto, il potere politico,
infatti, ha un compito che è quello di organizzare la vita civile e mondana, in
vista della conservazione della specie umana. La funzione del potere politico,
il servizio divino che il potere politico deve esercitare, è sì un servizio
divino, ma di natura squisitamente terrena, mondana, civile, che il potere
politico è abilitato a gestirsi in assoluta autonomia e quindi al di qua di
ogni indebita interferenza dell'autorità religiosa, la quale si aspetta dal
potere politico la propria libertà ma gli garantisce la sua.
Come
vedete, per quanto concerne il Luteranesimo, siamo lontanissimi da un
atteggiamento teocratico, che invece ha largamente caratterizzato il pensiero
politico medievale. L'ideale medioevale di una res pubblica cristiana è
sostanzialmente un ideale teocratico, di un potere politico ispirato, orientato
e guidato dal potere religioso. Naturalmente l'ideale della res pubblica
cristiana poteva essere elaborato stante la prospettiva antropologica che
sottendeva, e cioè la prospettiva di una relativa bontà dell'uomo non del
tutto corrotto da peccato, quindi la possibilità di costruire una sorta di,
seppur deficitaria e soltanto relativa, anticipazione del regno di Dio in terra.
Una res pubblica cristiana così concepita ha inevitabilmente un punto di
partenza e un punto di approdo teocratico. Qui invece, autorità-vita religiosa
e autorità-vita civile, sono assai nitidamente distinte e separate l'una
dall'altra. Il potere politico si ritrova emancipato dal potere religioso, come
in linea di diritto non avveniva nel medioevo; se in linea di fatto tale
emancipazione nel medioevo si realizzava, ciò avveniva soltanto a seguito di
una lotta durissima tra il papato e l'impero.
Mentre da una parte la variante luterana del pensiero politico della Riforma promuove l'emancipazione del potere politico, dall'altra tende a favorirne il suo svilupparsi nel senso di un potere assoluto, nel senso dell'assolutismo. Ribadendo l'origine divina del potere politico, liberandolo dall'ingerenza ecclesiastica, affermando la doverosa sottomissione del suddito al potere, evidentemente si ribadisce ulteriormente la natura assoluta del potere del principe. Questo spiega anche, tra gli altri motivi, perchè Lutero nel caso della rivolta dei contadini stesse dalla parte dei principi. A deciderlo in questa presa di partito, sebbene egli fosse ben consapevole dei diritti dei contadini e li avesse chiaramente cantati ai principi, sono sia considerazioni di ordine politico (che abbiamo appena fatto), che di ordine religioso (Tommaso Muntzer e i suoi si pretendevano direttamente illuminati da Dio; l'identificazione muntzeriana del povero direttamente illuminato da Dio con il giusto, andava contro tutti i principi teologici di Lutero).