Lezione n°23 lunedì 03\05\99

 

 

Stavamo discorrendo della relazione di fede e sapere in Lutero. Allora, da quello che abbiamo già visto, risulta già sufficientemente evidente come, per quanto riguarda le verità concernenti la salvezza, queste siano note all'uomo esclusivamente in forza della rivelazione positiva, mentre la sola ragione umana è del tutto inetta a sapere alcunchè su questo punto.

È bensì vero, ed ha rilevanza, il fatto che Lutero riconosca alla ragione umana, e quindi alla filosofia, una sua positiva funzione nel campo della conoscenza e dell'indagine di questo mondo, ma è altresì vero che nella misura in cui la ragione umana, pur indagando con profitto e con relativo successo questo mondo, finisce per ignorarne in ultima istanza la vera causa e il vero fine. La conoscenza che essa, pur validamente, ottiene di questo mondo resta una conoscenza relativa, limitata. Qui ritroviamo la concezione occamistica del sapere teologico come dell'unico vero sapere, sebbene a questo sapere non si riconosca lo statuto di scienza, nel senso filosofico e quindi nel senso aristotelico del termine. Nell'atto stesso in cui i teologi occamisti ribadiscono con forza che alla teologia, in quanto muovente da principi non immediatamente evidenti ma anzi paradossali alla ragione, nell'atto stesso in cui riconoscono che la teologia, in quanto tale, non può essere propriamente detta scienza, in quello stesso atto essi peraltro rivendicano alla teologia, sia pur soltanto relativamente, a suo modo, con certezza a differenza dell'opinione, di essere quella che soltanto conosce le verità ultime e decisive. Questa superiorità del sapere rivelato, del sapere discendente dalla rivelazione, sul sapere puramente razionale, è ribadita con forza anche da Lutero. E' vera intellezione, vero 'intellectus', non nel senso che sia vera scienza, perché questa non è scienza, ma è vera sapienza, in quanto attinge, a suo modo, con la certezza che le è propria, la verità ultima delle cose. Dunque vero intelletto è soltanto l'intellezione della fede, l''intellectus fidei' proveniente esclusivamente da Dio. Pertanto, dice Lutero, l'intelletto, l'intellezione viene esclusivamente dal solo Dio. Quest'intellezione non è né dei filosofi, né è naturale, ma è teologica e gratuita; attraverso di essa, per mezzo della fede, noi contempliamo cose che non appaiono, cose non apparenti.

Dunque , per Lutero, v'è tra ragione e fede una rottura totale ed irreversibile. La ragione, da una parte, non solo non presentisce, non anticipa, non introduce, nulla della fede, non funge da anticipazione, introduzione, 'preambulum fidei', non prelude (qui c'è una soluzione di continuità, un'interruzione assoluta); d'altra parte la rivelazione non prolunga e compie ciò che per conto suo la ragione sa, come avveniva per esempio in Tommaso dove la teologia rivelata compiva, prolungava e potenziava la teologia naturale. Qui la rivelazione interviene con un sapere affatto nuovo e diverso che si sostituisce a quello della ragione. Questa rottura radicale e irreversibile (perché la rivelazione non viene in soccorso della ragione, non la potenzia e non la integra, ma le si sostituisce) è sempre di nuovo ribadita da Lutero in termini rigorosamente paolini, e cioè, rifacendosi a San Paolo e alla dottrina paolina della stoltezza della croce, della 'stultitia crucis'. La rivelazione è siffatta, è paradossale direbbe Kierkegaard (un paradosso per la ragione), che appare come stoltezza agli occhi della ragione e dell'uomo naturale. A nessuno la predicazione della croce è apparsa, dice Lutero, tanto stolta quanto ai filosofi, essendo del tutto contraria al loro intendimento.

Potremmo dire che c'è una sorta di scontro frontale tra la parola e la ragione, dove la parola travolge la ragione riducendola al silenzio, annientandola e sostituendolesi, esclusivamente per quanto concerne il coram Deo, cioè per quanto concerne la relazione dell'uomo con Dio. Spodestata del suo presunto sapere, la ragione è costretta ad ammutolirsi e, possiamo usare l'espressione ricorrente in questa tradizione di Cristianesimo antirazionalistico (nella quale rientra Lutero, tradizione che comincia con Tertulliano e Lattanzio), la croce crocifigge la ragione.

Già l'occamismo, di contro all'eccessivo ottimismo tomistico circa la pacifica relazione tra ragione e fede, aveva accentuato la natura sovrarazionale. Mentre nell'occamismo ci troviamo in presenza di una soltanto relativa impotenza della ragione di contro alla rivelazione (tant'è vero che i teologi occamistici ritengono di poter pur sempre elaborare, ricorrendo alla ragione, quella che essi definiscono una 'logica fidei', che è una logica che trascende quella aristotelica, ma che in qualche misura rientra pur sempre nelle possibilità della ragione), qui, invece, non c'è soltanto una relativa incapacità, ma una radicale incapacità della ragione. Quindi siamo messi in presenza di una sua assoluta e irrimediabile ignoranza.

Ecco allora che, dice Lutero: "Nulla di filosofico continua a valere in ambito teologico. Guai se qualcuno continua ad usare in teologia i termini della logica e della filosofia. Se qualcuno introduce in teologia i termini della logica e della filosofia, ne deriva necessariamente un orrendo caos di errori". Questo perché i due ambiti, quello della filosofia e della teologia, sono nettamente distinti. La filosofia dice Lutero versatur circa visibilia, concerne le cose visibili, vale a dire, le cose conoscibili mediante la ragione umana, vale a dire, questo mondo, questa natura; la teologia, invece, concerne invisibilia, le cose invisibili, vale a dire, le cose soltanto credibili, ovvero quelle che vengono apprese dalla fede.

Ma poiché il linguaggio di cui il credente, ma anche il teologo luterano, si avvale è pur sempre il linguaggio umano, avviene che egli usi gli stessi vocaboli che usano i filosofi. Ma, dice Lutero, io uso sì questi linguaggi, ma dopo averli rigorosamente ribattezzati, e cioè, solo apparentemente i termini sono gli stessi, ma il significato che nel mio contesto assumono è tutt'altro. E questo vale non soltanto per i termini logico-filosofici, ma anche per i termini del linguaggio comune che, ove diventano linguaggio della fede, e quindi della rivelazione, acquistano un significato particolarissimo. Del resto la rivelazione divina, la parola sacra, usa il linguaggio umano, lo stesso linguaggio che usano i filosofi. Ma la chiara Scrittura che fornisce la propria autointerpretazione e che impone all'uditore credente la sua autointerpretazione, fornisce, altresì, a chi la ascolta credendola, quale è l'autentico significato che, nel suo contesto, queste parole, che in altri contesti hanno altri significati, assumono.

Dice Lutero: "Tutti i vocaboli diventano nuovi, tutti i vocaboli che dalla filosofia vengono trasferiti nella teologia. Così, ad esempio le parole uomo, volontà, ragione, opere". Siamo già in grado di capire quale è il nuovo significato che questi termini acquisiscono nella prospettiva della rivelazione così come Lutero la intende. Ad esempio, se 'ragione' in filosofia significa luce, intelligenza, capacita conoscitiva, in teologia essa significa esattamente il contrario: tenebra, ignoranza. E se 'volontà' in filosofia significa potere, capacità di fare, in teologia essa significa, invece, assoluta debolezza. Così 'uomo', tutto l'uomo, sappiamo che significa due cose diverse, a seconda che lo si veda come 'carne' o che se ne parli come dello 'spirito', dell'uomo vecchio o dell'uomo nuovo. Così le 'opere', mentre nella filosofia sono qualcosa di massimamente positivo, in teologia sono invece qualcosa che non conta nulla. "I vecchi vocaboli -dice appunto Lutero- vengono ribattezzati assumendo un nuovo significato". E ancora: "Se tuttavia volete continuare a usare questi termini è bene che prima li purghiate a dovere". Faremo meglio, dice Lutero, se abbandoneremo la vecchia dialettica e filosofia; in realtà, sia che si ribattezzi il vecchio linguaggio, sia che si elabori un linguaggio affatto nuovo, la lingua che viene parlata in teologia è una lingua del tutto nuova, peculiare e originale.

"Faremo meglio -dice Lutero- se, abbandonata la dialettica e la filosofia nella sua sfera, nella sfera che è loro propria, impariamo a parlare un nuovo linguaggio nel regno della fede che è al di là di ogni sfera e d'ogni ambito". Questa che si profila come necessaria anche sotto un profilo propriamente linguistico è la radicale migrazione cui il credente è chiamato dal mondo del coram hominibus, dal mondo delle relazioni con gli altri uomini , alla relazione con Dio, al coram Deo, dalla ragione alla fede. Ed è questa una migrazione particolarissima nella quale è vietato conservare e portarsi appresso alcunchè. Se si portano appresso alcuni vocaboli, questi sono solo apparentemente quelli vecchi, perché in realtà sono quelli nuovi. Prima di migrare si viene spogliati; è una migrazione che si fa nudi, nella nudità e nella povertà assoluta di chi non possiede nulla perché non è di per sé nulla. Ricordiamoci sempre che queste formulazioni sono improprie, in quanto non siamo noi che migriamo, che ci spogliamo, che ci denudiamo, ma è la parola che rapendoci a sé ci fa migrare, ci spoglia e ci denuda. La prospettiva del coram Deo è quella in cui l'unico soggetto attore è sempre Dio, è sempre la parola. "Dobbiamo, dunque, -dice Lutero- trasferirci ad un'altra dialettica e ad un'altra filosofia, che si chiama la parola di Dio e la fede. Qui dobbiamo sostare considerando le dispute filosofiche concludenti il contrario, come vana chiacchiera".

Questa è una trasferta che non siamo noi a compiere, ma è il trasferimento che ci viene imposto, se siamo credenti, e che è dalla attività alla passività. Questo radicale mutamento di situazione dall'attività, di cui la nostra volontà e la nostra ragione sono pur sempre capaci nel mondo (la ragione è in grado di conoscere il mondo, la volontà libera di decidere come agire), siamo trasferiti all'impotenza e alla passività e della ragione che non conosce nulla, e della volontà che non può nulla. In particolare, l'intellezione della fede, il conoscere della fede, avviene non tramite l'esercizio delle nostre facoltà cognitive, le quali accolgono, interpretano e sviluppano il nuovo contenuto della rivelazione; quella che è anzitutto illuminata è ogni nostra attività cognitiva. Quindi è una illuminazione quella di cui siamo fatti oggetto e di cui non siamo noi i soggetti.

Ricordiamo una citazione in cui Lutero dice: "L'intelletto, nel caso della Scrittura, trae il suo nome piuttosto dall'oggetto che non dalla facoltà". Il contrario di quello che avviene in filosofia. L'intellezione è qui prodotta da ciò che apparentemente comprende, dall'oggetto, cioè dalla parola. È la parola che è insieme conoscente e conosciuta, che diventa essa stessa autointerpretandosi la nostra intellezione. Il credente non conosce attivamente la verità rivelatagli, bensì è fatto intelligente di codesta verità da parte della verità stessa, è fatto intelligente della parola da parte della parola stessa. Le sue facoltà sono messe a tacere e il conoscere di cui è dotato è un affatto nuovo conoscere, che gli viene così donato. Non è un potenziamento della sua normale intelligenza, ma una nuova intelligenza, un'altra intelligenza.

Si potrebbe anche dire che la fede riceve la propria conoscenza ascoltando, 'auditus fidei', e non già se la procura argomentando e interpretando. Ciò mostra come l'alterità di filosofia e teologia non concerne soltanto il che cosa l'una e l'altra conoscono, l'oggetto della loro conoscenza, ma anche il come esse conoscono, il soggetto di questa conoscenza. Non più l'uomo, ma Dio stesso è la parola, il soggetto del conoscere. Quindi, allorchè dalla filosofia si passa all'intellectus fidei, è una vera e proprio 'metabasiz eiz allo genoz' (metabasis eis allo ghenos) che si produce, il passaggio ad una dimensione radicalmente diversa, che comporta una radicale trasformazione di colui che passa. Non si cambia soltanto ambito, disciplina, ma a esserne trasformato è ancor più colui che passa, o meglio vien fatto passare.

Lutero si trova a dover affrontare una questione non di poco conto. Ritiene che l'uomo non sia in grado di conoscere Dio a partire dal mondo. Se leggiamo San Paolo Romani 1-20 troviamo un celeberrimo passo su cui i teologi cristiani hanno fondato la teologia naturale: "Infatti dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute e così pure la sua eterna potenza e divinità". Ovvero Dio può essere conosciuto a partire dalla sua creazione, dalle sue opere. È questa quella dottrina che è stata sintetizzata nella formula secondo cui la natura è un libro e nel libro della natura leggiamo il suo creatore, Dio. È Agostino che sintetizza la dottrina patristica relativa al liber naturae e la trasmette al Medio Evo. Dice: "Il mondo, la natura è un libro. Sia per te un libro la pagina sacra, la Scrittura, la pagina divina, acciocchè tu l'ascolti". È significativo che Agostino dica 'acciocchè tu l'ascolti' e 'non tu la leggi', essendo l'analfabetismo molto diffuso fino a poco tempo fa; ecco perché si parla sempre di verbum vocale, di parola predicata, perché la stragrande maggioranza di coloro a cui la parola era rivolta non era in grado di leggerla ma soltanto di ascoltarla. E continua: "Sia per te un libro l'orbe terraqueo affinchè tu lo veda. In quei codici, nella Scrittura, leggono soltanto coloro che hanno formazione letteraria, nel mondo intero può leggere anche l'idiota". Qui l'idiota è inteso nel senso cusaniano del termine, l'illetterato, il non dotto. L'idiota in senso cristiano, vale a dire il non dotto, il non filosofo, il non sapiente mondano, è colui che è dotto dalla parola di Dio, il credente, e quindi il vero sapiente, folle agli occhi del mondo. L'idiota è colui che vive nella logica della 'stultitia crucis'.

Agostino tematizza che i libri siano due: il libro della Scrittura, liber Scripturae e il libro della natura, il liber naturae. Il secondo è stato scritto dal dito di Dio, così dirà pure Ugo di San Vittore, per manifestare visibilmente il Dio invisibile. È, dice Bonaventura, uno specchio riflettente le sembianze di Dio. Le creature sono vestigia, simulacri, forme, impronte di Dio; e questo in base a un principio platonico che recita: "Omne agens agit sibi simile", (ogni produttore origina qualcosa che gli somiglia, che gli è simile). L'effetto intrattiene sempre una relazione di somiglianza con la sua causa. Ecco perché le creature sono impronte, orme di Dio, e guardando ad esse in trasparenza si intravede il loro creatore. Ecco perché il libro della natura è un libro istruttivo, sempre se si riesce a leggerlo.

All'inizio del secolo scorso, quando ormai la rivoluzione industriale stava prendendo piede anche sul continente, per l'ultima volta nell'ambito del romanticismo tedesco alcuni, come Novalis, di fronte alla riduzione delle cose di questo mondo alla loro cosalità mondana, alla loro natura meramente strumentale, hanno invocato la capacità del poeta di guardare alle cose non soltanto come a degli oggetti d'uso, ma di riuscire a guardare ad esse come le guardavano costoro, come orme di qualcosa che le trascende. Già Platone vede nelle cose delle immagini: ogni ente empirico è immagine della sua idea. I neoplatonici diranno che è l'Uno che è causa delle idee stesse.

Dal momento che i medioevali hanno il gusto delle strofette mnemoniche, adesso ve ne cito una di Alano di Lilla che riguarda il liber naturae, la quale recita:

"Omnis mundi creatura

quasi liber et pictura

nobis est et speculm;

nostrae vitae nostrae mortis

nostri status nostrae sortis

fidele signaculum"

'Ogni creatura del mondo è per noi una sorta di libro e di pittura o di specchio; una segnalazione fedele della nostra vita, della nostra morte, della nostra condizione e della nostra sorte'. Ora, i due libri, liber naturae et liber Scripturae, interagiscono a vicenda, nel senso che l'uno corrobora e spiega quello che dice l'altro. È la concezione tomistica vigente tra teologia naturale e teologia positiva o rivelata, la prima introduce alla seconda, la seconda integra e completa la prima. Quindi si illuminano a vicenda e quindi è bene che il teologo sia insieme naturale e rivelato. La cosiddetta fisico-teologia sei-settecentesca (tra le prove dell'esistenza di Dio che Kant confuta, vi è anche quella cosiddetta fisico-teologica) altro non è se non una scuola teologica, fiorita in Inghilterra e nel Nord dell'Europa, e che leggeva la natura, così come la scienza moderna in divenire presentava, come un libro dal quale si evince il suo creatore. Vi è tutta una produzione teologica ('Teologia degli insetti', 'Teologia delle api', ecc.) in cui questo o quel fenomeno naturale viene mostrato come alludente ad una superiore intelligenza di cui è l'effetto.

Herbert di Cherbury è il fondatore del deismo inglese, il quale nel 1663 pubblica un testo che si intitola 'De religione Gentilium' (della religione dei pagani). In questo testo egli produce l'appiattimento della rivelazione positiva del liber Scripturae sulla rivelazione naturale, sul liber naturae. La conoscenza di Dio necessaria alla salvezza, dice, è già tutta sufficientemente fornita dal libro della natura. Una concia analisi del libro della natura ci fornisce tutto quello che è necessario sapere circa Dio, l'uomo e la salvezza di quest'ultimo.

Ecco perché, dice, anche i pagani buoni ed intelligentoni sono salvi, intelligentoni se hanno capito il libro della natura e ne hanno evinto ciò che è necessario sapere.

Quali sono le conoscenze sufficienti alla salvezza che il libro della natura ci fornisce? Tutti e cinque gli articoli che costituiscono la religione naturale che sono: 1) esistenza di Dio; 2) culto di Dio; 3) pratica della virtù; 4) fuga dal peccato; 5) premio o pena della vita futura.

A questi cinque articoli si riduce la religione naturale. Essa altro non è se non l'essenza di ogni religione. Le altre religioni differiscono solamente per la decorazione, per i riti, le tradizioni, le interpretazioni teologiche accumulatesi nei secoli. Andando al sodo, dice Herbert di Cherbury, troviamo una religione naturale o puramente razionale, e questa religione si articola in questi cinque punti, a cui si riduce. Ma poi ci sono altri simili articoli a cui ogni religione, degna di questo nome, si riduce. I culti idolatrici, eccetera. E quindi la religione naturale o razionale del deismo altro non è se non l'unica, vera religione costituente il nucleo, il nocciolo di ogni religione positiva. E questo è l'esito che nella cultura moderna ha la dottrina dei due libri. Il liber naturae finisce per risucchiare, o risolvere riducendolo a sé, il liber Scripturae. La rivelazione positiva è ridotta a ciò che la sola ragione richiede di doverla ridurre, e quindi è ridotta a rivelazione naturale.

 

 

Questa dottrina del duplice libro è negata da Lutero. Vediamo come egli la neghi. Dice Lutero: "Quegli non è detto essere un degno teologo che contempla perfezioni invisibili di Dio attraverso ciò che è stato creato. Quella sapienza che contempla le cose invisibili di Dio a partire dalle sue opere è una sapienza che acceca, gonfia e rende ottusi". Lutero non dice che non si può conoscere Dio, ma lo si conosce male, perché è una sapienza, un conoscere che suscita presunzione e che lo induce a pensarsi di fronte a Dio altro da quello che egli realmente è, e perciò stesso a pensare Dio altro da quello che Dio realmente è. È dunque una sapienza che pietrifica e acceca l'uomo. Ed ecco che Lutero cita San Paolo: "Gli uomini hanno abusato della conoscenza di Dio a partire dalle opere". Dobbiamo chiederci in che cosa consiste questo abuso. Dice Lutero: "L'uomo si serve di questa conoscenza per affermare se stesso di contro a Dio". E' questo cioè un sapere il cui esito ultimo, lungi dall'essere l'adorazione del Dio conosciuto attraverso al natura, è in realtà la peccaminosa riaffermazione egoità, l'incurditas di chi così conosce.

La potenza e la sapienza creatrice di Dio viene conosciuta per poterne inferire la propria potenza e sapienza. La potenza e sapienza dell'uomo sono ciò che veramente l'uomo cerca, ciò che veramente egli vuol sapere. Come avviene che l'uomo inferisca dalla conoscenza e sapienza di Dio, la propria potenza e sapienza? Avviene in base al principio che ogni causa produce qualcosa che gli è simile, in base al principio della somiglianza dell'effetto alla sua causa. Se siamo effetto di Dio, siamo un po' come Dio. Questo è il senso del discorso di Lutero, ed è questo il risultato a cui perviene la ragione quando conosce, si fa per dire, Dio a partire dal libro della natura.

Ciò che costoro, i sapienti di questo mondo, amano e ricercano, è certo la sapienza, la gloria e la potenza, ma la propria, la quale essi ottengono indirettamente affermando quella divina, giacchè nella sapienza, potenza e gloria divina essi scorgono la causa analogica del proprio essere. Proprio laddove, apparentemente, dice Lutero, il sapiente che legge Dio nel libro del mondo, laddove proclama la maestà di Dio, in realtà egli si rende colpevole del delitto di lesa maestà, giacchè si presume qualcosa di contro a Dio. Si attribuisce qualcosa, la stessa potenza, sapienza e gloria divina; instaura una relazione di analogia tra l'effetto e la causa ed è nell'orizzonte di codesta analogia che egli intende commerciare con Dio da una condizione di forza, di quasi equiparazione. Intende rivendicare per sé qualità divine.

Qui Lutero ha di mira non soltanto la tradizione scolastica, ma soprattutto l'Umanesimo. Pensate a quel testo capitale dell'umanesimo italiano, del neoplatonismo fiorentino che è l'orazione "De hominis dignitate" di Giovanni Pico della Mirandola in cui si discorre in questi termini: "La grandezza dell'uomo sta nella sua somiglianza divina e quindi nel fatto che egli, non del tutto indebitamente, può predicare di sé le stesse perfezioni divine". Dice ancora Lutero: "L'uomo che cerca Dio attraverso le opere della creazione in realtà attribuisce a se stesso le opere e la sapienza, e non a Dio, e così abusa dei doni di Dio e li macchia. Egli scambia la potenza creatrice trapelante nelle opere con una potenza insita nelle creature stesse". Questo è particolarmente chiaro nel binomio classicamente umanistico-rinascimentale del Deus artifex, e perciò homo artifex. La creatività divina si prolunga in qualche modo nella creatività umana. L'uomo artefice del suo destino, artefice di opere mirabili che sono il prolungamento dell'opera creatrice divina. Sempre nella trattatistica umanistico-rinascimentale troviamo argomentazioni di questo tipo: se Dio il settimo giorno della creazione si è riposato, è perché ha passato il testimone all'uomo, alla cui creatività è demandato di proseguire in quell'opera creatrice e di coltivare ciò che Dio ha creato. Lutero descrive queste cose qualche decennio dopo l'umanesimo fiorentino, in pieno Rinascimento, e conosce perfettamente gli umanisti ai quali sono dirette queste osservazioni.

La Scrittura dice che l'uomo è stato creato da Dio a sua immagine e somiglianza, ma la Scrittura dice altresì che il peccato radicale ha cancellato questa immagine e somiglianza, e che l'uomo non può più predicare di sé nulla, il che è competenza di Dio. Anzi, la croce è come lo specchio che Dio mette in faccia all'uomo perché egli vi veda la propria peccaminosa umanità e non una sua presunta divinità, divinità di cui, secondo Lutero, vaneggiano gli umanisti. In questa interpretazione Lutero mostra come egli rompa radicalmente con ogni conoscenza extra Christu, extra verbum, relativamente alla salvezza. La morte di Cristo sulla croce annunciata dalla Scrittura è il chiaro giudizio negativo sulla radicale incapacità dell'uomo. Quindi, dal punto di vista di Lutero, tra il Dio causa e il peccatore effetto non sussiste la relazione analogica che ne predicano gli scolastici, la cosiddetta 'analogia entis', l'analogia dell'essere. Sicchè dell'effetto si può analogicamente predicare ciò che si predica della causa. Questa 'analogia entis' è rigettata nel modo più radicale da Lutero.

 

Possiamo, visto come la relazione tra ragione e fede viene drasticamente interrotta da Lutero, interrogarci circa l'opinione che Lutero ha della TEOLOGIA NEGATIVA, che nega la possibilità di una conoscenza positiva di Dio. Nega una conoscenza che vada oltre ciò che Dio di se stesso rivela nella Scrittura.

Vediamo un passo di Tommaso d'Aquino, dove egli espone la relazione tra causa ed effetti nei termini di una relazione analogica: "La causa è la perfezione dei suoi effetti. Ciò che gli effetti sono imperfettamente, limitatamente, ciascuno essendo soltanto ciò che è, essendo soltanto a suo modo, il proprio esser qualcosa, essendo entro i propri limiti, entro la determinatezza del suo esser questo o quello, la causa invece lo è perfettissimamente, e proprio perciò essa è la causa di tutti quegli effetti. Essendo Dio la prima causa effettiva delle cose, è necessario che le perfezioni di tutte le cose preesistano in Dio secondo un modo più eminente. Vale a dire, Dio è eminenter, in maniera più eminente, perfettissimamente, ciò che le cose sono imperfettamente. Le perfezione delle cose, il loro positivo esser ciò che sono, sono ancora più perfette in Dio".

Dio, in quanto causa di tutte le cose, è in sé, in uno l'essere perfettissimo di tutte le cose. E' cioè la perfezione d'ogni possibile esser qualcosa, ovvero è tutti i possibili esser qualcosa nella loro massima perfezione. Questo è quello che i filosofi chiamano l'Essere, come infinita pienezza d'essere. Ma questo è l'Uno. I Neoplatonici dicono che non è l'uno della serie dei numeri, ma è la fonte di tutti i numeri, che include in sé tutti i possibili numeri e da cui procedono tutti i numeri. È l'Uno che è in uno tutti i numeri. L'essere che è in uno la perfezione di tutti i possibili esseri.

L'uno, l'essere perfettissimo è anche il nome supremo di Dio. Dice Plotino: "L'uno è un nome polulogon, plurisignificato, plurilingue. Anzitutto è un nomen omni nominabile, nome onninominabile. È un nome che include in sé l'intera polinimia divina, tutti i possibili nomi, una pluralità di nomi. Polinimia vuol dire un nome includente in sé tutti i nomi di tutte le cose possibili. Infatti, essendo in uno e, come uno, la perfezione di tutti i possibili esser questo o quello, dell'Uno si possono predicare tutti i nomi; i nomi di tutti i possibili questo o quello. Se l'uno è 'eminenter', o come dicono anche i filosofi 'causaliter', a mo' di causa, di tutte le cose di cui è il principio, se ne possono predicare i nomi di tutte le cose. Allora possiamo legittimamente dire che Dio, l'Uno è tutte le cose possibili.

Questa è la via affermativa, la teologia positiva, catafatica o dichiarativa, che positivamente dice che cosa è Dio e dice che Dio è tutte le cose, beninteso, come loro principio in quanto ne è il principio perfettissimo includente tutte le cose nella loro assoluta perfezione. Siamo qui nell'ambito della teologia razionale, naturale o filosofica, quindi teologia positiva non significa teologia rivelata. Qui sono i filosofi che si fanno teologi naturali e che muovendo dall'effetto riconoscono la causa, proprio come l'Essere perfettissimo, e di cui quindi si può positivamente dire tutti i nomi di tutte le cose di cui esso è la causa.

Senonchè questa è una via che ben presto denuncia i propri limiti. Infatti l'infinita pienezza d'essere divina sfugge ad ogni tentativo di una sua definizione da parte dell'intelletto umano. Ciascuna per sé e tutte insieme le de-finizioni, fornite dall'intelletto dell'uomo, la finiscono o finitizzano in quanto la limitano di volta in volta al che cosa o ai che cosa limitati e distinti che ne dicono. L'Uno, Dio, la causa prima sarà sempre limitata a ciò che ne diciamo, al che cosa se ne dice o alla serie di che cosa se ne dice.

L'intelletto umano riconosce qui la propria natura definitoria e perciò finita e finitizzante che la caratterizza. E con ciò stesso riconosce di non poter correttamente pensare l'infinita pienezza d'essere se non come assoluta indistinzione e indeterminatezza. La maniera più corretta che noi abbiamo, stante la natura definiente e finitizzante del nostro intelletto, di pensare l'infinita pienezza d'essere è quella di pensarla come indistinzione assoluta, e quindi come assoluta indeterminatezza, perché nell'atto stesso in cui ci mettiamo a definirla e quindi tentiamo di determinarla, introduciamo in essa distinzione e finitezza, la riduciamo ai distinguo, alle definizioni che ne facciamo.

Pensare l'infinita pienezza solo come assoluta indistinzione e indeterminatezza, significa pensarla come impenetrabile alla limitata determinatezza d'ogni definizione. L'Uno in quanto tale, a ben vedere, non si lascia vedere, in quanto ogni volta che mi sforzo di vederlo riesco solo a vederne qualcosa, a vedere il che cosa ne dico; ma questo, per tanti che cosa siano, sono sempre e soltanto i che cosa che io di volta in volta dico. Questo che cosa che dico non riesce a render conto della infinita pienezza che l'Uno è. Ecco allora che l'uno si palesa nella sua assoluta indeterminatezza impenetrabile all'intelletto umano.