Lezione
n°23 lunedì 03\05\99
Stavamo
discorrendo della relazione di fede e sapere in Lutero. Allora, da quello che
abbiamo già visto, risulta già sufficientemente evidente come, per quanto
riguarda le verità concernenti la salvezza, queste siano note all'uomo
esclusivamente in forza della rivelazione positiva, mentre la sola ragione umana
è del tutto inetta a sapere alcunchè su questo punto.
È
bensì vero, ed ha rilevanza, il fatto che Lutero riconosca alla ragione umana,
e quindi alla filosofia, una sua positiva funzione nel campo della conoscenza e
dell'indagine di questo mondo, ma è altresì vero che nella misura in cui la
ragione umana, pur indagando con profitto e con relativo successo questo mondo,
finisce per ignorarne in ultima istanza la vera causa e il vero fine. La
conoscenza che essa, pur validamente, ottiene di questo mondo resta una
conoscenza relativa, limitata. Qui ritroviamo la concezione occamistica del
sapere teologico come dell'unico vero sapere, sebbene a questo sapere non si
riconosca lo statuto di scienza, nel senso filosofico e quindi nel senso
aristotelico del termine. Nell'atto stesso in cui i teologi occamisti
ribadiscono con forza che alla teologia, in quanto muovente da principi non
immediatamente evidenti ma anzi paradossali alla ragione, nell'atto stesso in
cui riconoscono che la teologia, in quanto tale, non può essere propriamente
detta scienza, in quello stesso atto essi peraltro rivendicano alla teologia,
sia pur soltanto relativamente, a suo modo, con certezza a differenza
dell'opinione, di essere quella che soltanto conosce le verità ultime e
decisive. Questa superiorità del sapere rivelato, del sapere discendente dalla
rivelazione, sul sapere puramente razionale, è ribadita con forza anche da
Lutero. E' vera intellezione, vero 'intellectus', non nel senso che sia vera
scienza, perché questa non è scienza, ma è vera sapienza, in quanto attinge,
a suo modo, con la certezza che le è propria, la verità ultima delle cose.
Dunque vero intelletto è soltanto l'intellezione della fede, l''intellectus
fidei' proveniente esclusivamente da Dio. Pertanto, dice Lutero, l'intelletto,
l'intellezione viene esclusivamente dal solo Dio. Quest'intellezione non è né
dei filosofi, né è naturale, ma è teologica e gratuita; attraverso di essa,
per mezzo della fede, noi contempliamo cose che non appaiono, cose non
apparenti.
Dunque
, per Lutero, v'è tra ragione e fede una rottura totale ed irreversibile. La
ragione, da una parte, non solo non presentisce, non anticipa, non introduce,
nulla della fede, non funge da anticipazione, introduzione, 'preambulum fidei',
non prelude (qui c'è una soluzione di continuità, un'interruzione assoluta);
d'altra parte la rivelazione non prolunga e compie ciò che per conto suo la
ragione sa, come avveniva per esempio in Tommaso dove la teologia rivelata
compiva, prolungava e potenziava la teologia naturale. Qui la rivelazione
interviene con un sapere affatto nuovo e diverso che si sostituisce a quello
della ragione. Questa rottura radicale e irreversibile (perché la rivelazione
non viene in soccorso della ragione, non la potenzia e non la integra, ma le si
sostituisce) è sempre di nuovo ribadita da Lutero in termini rigorosamente
paolini, e cioè, rifacendosi a San Paolo e alla dottrina paolina della
stoltezza della croce, della 'stultitia crucis'. La rivelazione è siffatta, è
paradossale direbbe Kierkegaard (un paradosso per la ragione), che appare come
stoltezza agli occhi della ragione e dell'uomo naturale. A nessuno la
predicazione della croce è apparsa, dice Lutero, tanto stolta quanto ai
filosofi, essendo del tutto contraria al loro intendimento.
Potremmo
dire che c'è una sorta di scontro frontale tra la parola e la ragione, dove la
parola travolge la ragione riducendola al silenzio, annientandola e
sostituendolesi, esclusivamente per quanto concerne il coram Deo, cioè per
quanto concerne la relazione dell'uomo con Dio. Spodestata del suo presunto
sapere, la ragione è costretta ad ammutolirsi e, possiamo usare l'espressione
ricorrente in questa tradizione di Cristianesimo antirazionalistico (nella quale
rientra Lutero, tradizione che comincia con Tertulliano e Lattanzio), la croce
crocifigge la ragione.
Già
l'occamismo, di contro all'eccessivo ottimismo tomistico circa la pacifica
relazione tra ragione e fede, aveva accentuato la natura sovrarazionale. Mentre
nell'occamismo ci troviamo in presenza di una soltanto relativa impotenza della
ragione di contro alla rivelazione (tant'è vero che i teologi occamistici
ritengono di poter pur sempre elaborare, ricorrendo alla ragione, quella che
essi definiscono una 'logica fidei', che è una logica che trascende quella
aristotelica, ma che in qualche misura rientra pur sempre nelle possibilità
della ragione), qui, invece, non c'è soltanto una relativa incapacità, ma una
radicale incapacità della ragione. Quindi siamo messi in presenza di una sua
assoluta e irrimediabile ignoranza.
Ecco
allora che, dice Lutero: "Nulla di filosofico continua a valere in ambito
teologico. Guai se qualcuno continua ad usare in teologia i termini della logica
e della filosofia. Se qualcuno introduce in teologia i termini della logica e
della filosofia, ne deriva necessariamente un orrendo caos di errori".
Questo perché i due ambiti, quello della filosofia e della teologia, sono
nettamente distinti. La filosofia dice Lutero versatur circa visibilia, concerne
le cose visibili, vale a dire, le cose conoscibili mediante la ragione umana,
vale a dire, questo mondo, questa natura; la teologia, invece, concerne
invisibilia, le cose invisibili, vale a dire, le cose soltanto credibili, ovvero
quelle che vengono apprese dalla fede.
Ma
poiché il linguaggio di cui il credente, ma anche il teologo luterano, si
avvale è pur sempre il linguaggio umano, avviene che egli usi gli stessi
vocaboli che usano i filosofi. Ma, dice Lutero, io uso sì questi linguaggi, ma
dopo averli rigorosamente ribattezzati, e cioè, solo apparentemente i termini
sono gli stessi, ma il significato che nel mio contesto assumono è tutt'altro.
E questo vale non soltanto per i termini logico-filosofici, ma anche per i
termini del linguaggio comune che, ove diventano linguaggio della fede, e quindi
della rivelazione, acquistano un significato particolarissimo. Del resto la
rivelazione divina, la parola sacra, usa il linguaggio umano, lo stesso
linguaggio che usano i filosofi. Ma la chiara Scrittura che fornisce la propria
autointerpretazione e che impone all'uditore credente la sua autointerpretazione,
fornisce, altresì, a chi la ascolta credendola, quale è l'autentico
significato che, nel suo contesto, queste parole, che in altri contesti hanno
altri significati, assumono.
Dice
Lutero: "Tutti i vocaboli diventano nuovi, tutti i vocaboli che dalla
filosofia vengono trasferiti nella teologia. Così, ad esempio le parole uomo,
volontà, ragione, opere". Siamo già in grado di capire quale è il nuovo
significato che questi termini acquisiscono nella prospettiva della rivelazione
così come Lutero la intende. Ad esempio, se 'ragione' in filosofia significa
luce, intelligenza, capacita conoscitiva, in teologia essa significa esattamente
il contrario: tenebra, ignoranza. E se 'volontà' in filosofia significa potere,
capacità di fare, in teologia essa significa, invece, assoluta debolezza. Così
'uomo', tutto l'uomo, sappiamo che significa due cose diverse, a seconda che lo
si veda come 'carne' o che se ne parli come dello 'spirito', dell'uomo vecchio o
dell'uomo nuovo. Così le 'opere', mentre nella filosofia sono qualcosa di
massimamente positivo, in teologia sono invece qualcosa che non conta nulla.
"I vecchi vocaboli -dice appunto Lutero- vengono ribattezzati assumendo un
nuovo significato". E ancora: "Se tuttavia volete continuare a usare
questi termini è bene che prima li purghiate a dovere". Faremo meglio,
dice Lutero, se abbandoneremo la vecchia dialettica e filosofia; in realtà, sia
che si ribattezzi il vecchio linguaggio, sia che si elabori un linguaggio
affatto nuovo, la lingua che viene parlata in teologia è una lingua del tutto
nuova, peculiare e originale.
"Faremo
meglio -dice Lutero- se, abbandonata la dialettica e la filosofia nella sua
sfera, nella sfera che è loro propria, impariamo a parlare un nuovo linguaggio
nel regno della fede che è al di là di ogni sfera e d'ogni ambito".
Questa che si profila come necessaria anche sotto un profilo propriamente
linguistico è la radicale migrazione cui il credente è chiamato dal mondo del
coram hominibus, dal mondo delle relazioni con gli altri uomini , alla relazione
con Dio, al coram Deo, dalla ragione alla fede. Ed è questa una migrazione
particolarissima nella quale è vietato conservare e portarsi appresso alcunchè.
Se si portano appresso alcuni vocaboli, questi sono solo apparentemente quelli
vecchi, perché in realtà sono quelli nuovi. Prima di migrare si viene
spogliati; è una migrazione che si fa nudi, nella nudità e nella povertà
assoluta di chi non possiede nulla perché non è di per sé nulla. Ricordiamoci
sempre che queste formulazioni sono improprie, in quanto non siamo noi che
migriamo, che ci spogliamo, che ci denudiamo, ma è la parola che rapendoci a sé
ci fa migrare, ci spoglia e ci denuda. La prospettiva del coram Deo è quella in
cui l'unico soggetto attore è sempre Dio, è sempre la parola. "Dobbiamo,
dunque, -dice Lutero- trasferirci ad un'altra dialettica e ad un'altra
filosofia, che si chiama la parola di Dio e la fede. Qui dobbiamo sostare
considerando le dispute filosofiche concludenti il contrario, come vana
chiacchiera".
Questa
è una trasferta che non siamo noi a compiere, ma è il trasferimento che ci
viene imposto, se siamo credenti, e che è dalla attività alla passività.
Questo radicale mutamento di situazione dall'attività, di cui la nostra volontà
e la nostra ragione sono pur sempre capaci nel mondo (la ragione è in grado di
conoscere il mondo, la volontà libera di decidere come agire), siamo trasferiti
all'impotenza e alla passività e della ragione che non conosce nulla, e della
volontà che non può nulla. In particolare, l'intellezione della fede, il
conoscere della fede, avviene non tramite l'esercizio delle nostre facoltà
cognitive, le quali accolgono, interpretano e sviluppano il nuovo contenuto
della rivelazione; quella che è anzitutto illuminata è ogni nostra attività
cognitiva. Quindi è una illuminazione quella di cui siamo fatti oggetto e di
cui non siamo noi i soggetti.
Ricordiamo
una citazione in cui Lutero dice: "L'intelletto, nel caso della Scrittura,
trae il suo nome piuttosto dall'oggetto che non dalla facoltà". Il
contrario di quello che avviene in filosofia. L'intellezione è qui prodotta da
ciò che apparentemente comprende, dall'oggetto, cioè dalla parola. È la
parola che è insieme conoscente e conosciuta, che diventa essa stessa
autointerpretandosi la nostra intellezione. Il credente non conosce attivamente
la verità rivelatagli, bensì è fatto intelligente di codesta verità da parte
della verità stessa, è fatto intelligente della parola da parte della parola
stessa. Le sue facoltà sono messe a tacere e il conoscere di cui è dotato è
un affatto nuovo conoscere, che gli viene così donato. Non è un potenziamento
della sua normale intelligenza, ma una nuova intelligenza, un'altra
intelligenza.
Si
potrebbe anche dire che la fede riceve la propria conoscenza ascoltando,
'auditus fidei', e non già se la procura argomentando e interpretando. Ciò
mostra come l'alterità di filosofia e teologia non concerne soltanto il che
cosa l'una e l'altra conoscono, l'oggetto della loro conoscenza, ma anche il
come esse conoscono, il soggetto di questa conoscenza. Non più l'uomo, ma Dio
stesso è la parola, il soggetto del conoscere. Quindi, allorchè dalla
filosofia si passa all'intellectus fidei, è una vera e proprio 'metabasiz eiz
allo genoz' (metabasis eis allo ghenos) che si produce, il passaggio ad una
dimensione radicalmente diversa, che comporta una radicale trasformazione di
colui che passa. Non si cambia soltanto ambito, disciplina, ma a esserne
trasformato è ancor più colui che passa, o meglio vien fatto passare.
Lutero
si trova a dover affrontare una questione non di poco conto. Ritiene che l'uomo
non sia in grado di conoscere Dio a partire dal mondo. Se leggiamo San Paolo
Romani 1-20 troviamo un celeberrimo passo su cui i teologi cristiani hanno
fondato la teologia naturale: "Infatti dalla creazione del mondo in poi, le
sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle
opere da lui compiute e così pure la sua eterna potenza e divinità".
Ovvero Dio può essere conosciuto a partire dalla sua creazione, dalle sue
opere. È questa quella dottrina che è stata sintetizzata nella formula secondo
cui la natura è un libro e nel libro della natura leggiamo il suo creatore,
Dio. È Agostino che sintetizza la dottrina patristica relativa al liber naturae
e la trasmette al Medio Evo. Dice: "Il mondo, la natura è un libro. Sia
per te un libro la pagina sacra, la Scrittura, la pagina divina, acciocchè tu
l'ascolti". È significativo che Agostino dica 'acciocchè tu l'ascolti' e
'non tu la leggi', essendo l'analfabetismo molto diffuso fino a poco tempo fa;
ecco perché si parla sempre di verbum vocale, di parola predicata, perché la
stragrande maggioranza di coloro a cui la parola era rivolta non era in grado di
leggerla ma soltanto di ascoltarla. E continua: "Sia per te un libro l'orbe
terraqueo affinchè tu lo veda. In quei codici, nella Scrittura, leggono
soltanto coloro che hanno formazione letteraria, nel mondo intero può leggere
anche l'idiota". Qui l'idiota è inteso nel senso cusaniano del termine,
l'illetterato, il non dotto. L'idiota in senso cristiano, vale a dire il non
dotto, il non filosofo, il non sapiente mondano, è colui che è dotto dalla
parola di Dio, il credente, e quindi il vero sapiente, folle agli occhi del
mondo. L'idiota è colui che vive nella logica della 'stultitia crucis'.
Agostino
tematizza che i libri siano due: il libro della Scrittura, liber Scripturae e il
libro della natura, il liber naturae. Il secondo è stato scritto dal dito di
Dio, così dirà pure Ugo di San Vittore, per manifestare visibilmente il Dio
invisibile. È, dice Bonaventura, uno specchio riflettente le sembianze di Dio.
Le creature sono vestigia, simulacri, forme, impronte di Dio; e questo in base a
un principio platonico che recita: "Omne agens agit sibi simile",
(ogni produttore origina qualcosa che gli somiglia, che gli è simile).
L'effetto intrattiene sempre una relazione di somiglianza con la sua causa. Ecco
perché le creature sono impronte, orme di Dio, e guardando ad esse in
trasparenza si intravede il loro creatore. Ecco perché il libro della natura è
un libro istruttivo, sempre se si riesce a leggerlo.
All'inizio
del secolo scorso, quando ormai la rivoluzione industriale stava prendendo piede
anche sul continente, per l'ultima volta nell'ambito del romanticismo tedesco
alcuni, come Novalis, di fronte alla riduzione delle cose di questo mondo alla
loro cosalità mondana, alla loro natura meramente strumentale, hanno invocato
la capacità del poeta di guardare alle cose non soltanto come a degli oggetti
d'uso, ma di riuscire a guardare ad esse come le guardavano costoro, come orme
di qualcosa che le trascende. Già Platone vede nelle cose delle immagini: ogni
ente empirico è immagine della sua idea. I neoplatonici diranno che è l'Uno
che è causa delle idee stesse.
Dal
momento che i medioevali hanno il gusto delle strofette mnemoniche, adesso ve ne
cito una di Alano di Lilla che riguarda il liber naturae, la quale recita:
"Omnis
mundi creatura
quasi
liber et pictura
nobis
est et speculm;
nostrae
vitae nostrae mortis
nostri
status nostrae sortis
fidele
signaculum"
'Ogni
creatura del mondo è per noi una sorta di libro e di pittura o di specchio; una
segnalazione fedele della nostra vita, della nostra morte, della nostra
condizione e della nostra sorte'. Ora, i due libri, liber naturae et liber
Scripturae, interagiscono a vicenda, nel senso che l'uno corrobora e spiega
quello che dice l'altro. È la concezione tomistica vigente tra teologia
naturale e teologia positiva o rivelata, la prima introduce alla seconda, la
seconda integra e completa la prima. Quindi si illuminano a vicenda e quindi è
bene che il teologo sia insieme naturale e rivelato. La cosiddetta
fisico-teologia sei-settecentesca (tra le prove dell'esistenza di Dio che Kant
confuta, vi è anche quella cosiddetta fisico-teologica) altro non è se non una
scuola teologica, fiorita in Inghilterra e nel Nord dell'Europa, e che leggeva
la natura, così come la scienza moderna in divenire presentava, come un libro
dal quale si evince il suo creatore. Vi è tutta una produzione teologica
('Teologia degli insetti', 'Teologia delle api', ecc.) in cui questo o quel
fenomeno naturale viene mostrato come alludente ad una superiore intelligenza di
cui è l'effetto.
Herbert
di Cherbury è il fondatore del deismo inglese, il quale nel 1663 pubblica un
testo che si intitola 'De religione Gentilium' (della religione dei pagani). In
questo testo egli produce l'appiattimento della rivelazione positiva del liber
Scripturae sulla rivelazione naturale, sul liber naturae. La conoscenza di Dio
necessaria alla salvezza, dice, è già tutta sufficientemente fornita dal libro
della natura. Una concia analisi del libro della natura ci fornisce tutto quello
che è necessario sapere circa Dio, l'uomo e la salvezza di quest'ultimo.
Ecco
perché, dice, anche i pagani buoni ed intelligentoni sono salvi, intelligentoni
se hanno capito il libro della natura e ne hanno evinto ciò che è necessario
sapere.
Quali
sono le conoscenze sufficienti alla salvezza che il libro della natura ci
fornisce? Tutti e cinque gli articoli che costituiscono la religione naturale
che sono: 1) esistenza di Dio; 2) culto di Dio; 3) pratica della virtù; 4) fuga
dal peccato; 5) premio o pena della vita futura.
A
questi cinque articoli si riduce la religione naturale. Essa altro non è se non
l'essenza di ogni religione. Le altre religioni differiscono solamente per la
decorazione, per i riti, le tradizioni, le interpretazioni teologiche
accumulatesi nei secoli. Andando al sodo, dice Herbert di Cherbury, troviamo una
religione naturale o puramente razionale, e questa religione si articola in
questi cinque punti, a cui si riduce. Ma poi ci sono altri simili articoli a cui
ogni religione, degna di questo nome, si riduce. I culti idolatrici, eccetera. E
quindi la religione naturale o razionale del deismo altro non è se non l'unica,
vera religione costituente il nucleo, il nocciolo di ogni religione positiva. E
questo è l'esito che nella cultura moderna ha la dottrina dei due libri. Il
liber naturae finisce per risucchiare, o risolvere riducendolo a sé, il liber
Scripturae. La rivelazione positiva è ridotta a ciò che la sola ragione
richiede di doverla ridurre, e quindi è ridotta a rivelazione naturale.
Questa
dottrina del duplice libro è negata da Lutero. Vediamo come egli la neghi. Dice
Lutero: "Quegli non è detto essere un degno teologo che contempla
perfezioni invisibili di Dio attraverso ciò che è stato creato. Quella
sapienza che contempla le cose invisibili di Dio a partire dalle sue opere è
una sapienza che acceca, gonfia e rende ottusi". Lutero non dice che non si
può conoscere Dio, ma lo si conosce male, perché è una sapienza, un conoscere
che suscita presunzione e che lo induce a pensarsi di fronte a Dio altro da
quello che egli realmente è, e perciò stesso a pensare Dio altro da quello che
Dio realmente è. È dunque una sapienza che pietrifica e acceca l'uomo. Ed ecco
che Lutero cita San Paolo: "Gli uomini hanno abusato della conoscenza di
Dio a partire dalle opere". Dobbiamo chiederci in che cosa consiste questo
abuso. Dice Lutero: "L'uomo si serve di questa conoscenza per affermare se
stesso di contro a Dio". E' questo cioè un sapere il cui esito ultimo,
lungi dall'essere l'adorazione del Dio conosciuto attraverso al natura, è in
realtà la peccaminosa riaffermazione egoità, l'incurditas di chi così
conosce.
La
potenza e la sapienza creatrice di Dio viene conosciuta per poterne inferire la
propria potenza e sapienza. La potenza e sapienza dell'uomo sono ciò che
veramente l'uomo cerca, ciò che veramente egli vuol sapere. Come avviene che
l'uomo inferisca dalla conoscenza e sapienza di Dio, la propria potenza e
sapienza? Avviene in base al principio che ogni causa produce qualcosa che gli
è simile, in base al principio della somiglianza dell'effetto alla sua causa.
Se siamo effetto di Dio, siamo un po' come Dio. Questo è il senso del discorso
di Lutero, ed è questo il risultato a cui perviene la ragione quando conosce,
si fa per dire, Dio a partire dal libro della natura.
Ciò
che costoro, i sapienti di questo mondo, amano e ricercano, è certo la
sapienza, la gloria e la potenza, ma la propria, la quale essi ottengono
indirettamente affermando quella divina, giacchè nella sapienza, potenza e
gloria divina essi scorgono la causa analogica del proprio essere. Proprio
laddove, apparentemente, dice Lutero, il sapiente che legge Dio nel libro del
mondo, laddove proclama la maestà di Dio, in realtà egli si rende colpevole
del delitto di lesa maestà, giacchè si presume qualcosa di contro a Dio. Si
attribuisce qualcosa, la stessa potenza, sapienza e gloria divina; instaura una
relazione di analogia tra l'effetto e la causa ed è nell'orizzonte di codesta
analogia che egli intende commerciare con Dio da una condizione di forza, di
quasi equiparazione. Intende rivendicare per sé qualità divine.
Qui
Lutero ha di mira non soltanto la tradizione scolastica, ma soprattutto
l'Umanesimo. Pensate a quel testo capitale dell'umanesimo italiano, del
neoplatonismo fiorentino che è l'orazione "De hominis dignitate" di
Giovanni Pico della Mirandola in cui si discorre in questi termini: "La
grandezza dell'uomo sta nella sua somiglianza divina e quindi nel fatto che
egli, non del tutto indebitamente, può predicare di sé le stesse perfezioni
divine". Dice ancora Lutero: "L'uomo che cerca Dio attraverso le opere
della creazione in realtà attribuisce a se stesso le opere e la sapienza, e non
a Dio, e così abusa dei doni di Dio e li macchia. Egli scambia la potenza
creatrice trapelante nelle opere con una potenza insita nelle creature
stesse". Questo è particolarmente chiaro nel binomio classicamente
umanistico-rinascimentale del Deus artifex, e perciò homo artifex. La creatività
divina si prolunga in qualche modo nella creatività umana. L'uomo artefice del
suo destino, artefice di opere mirabili che sono il prolungamento dell'opera
creatrice divina. Sempre nella trattatistica umanistico-rinascimentale troviamo
argomentazioni di questo tipo: se Dio il settimo giorno della creazione si è
riposato, è perché ha passato il testimone all'uomo, alla cui creatività è
demandato di proseguire in quell'opera creatrice e di coltivare ciò che Dio ha
creato. Lutero descrive queste cose qualche decennio dopo l'umanesimo
fiorentino, in pieno Rinascimento, e conosce perfettamente gli umanisti ai quali
sono dirette queste osservazioni.
La
Scrittura dice che l'uomo è stato creato da Dio a sua immagine e somiglianza,
ma la Scrittura dice altresì che il peccato radicale ha cancellato questa
immagine e somiglianza, e che l'uomo non può più predicare di sé nulla, il
che è competenza di Dio. Anzi, la croce è come lo specchio che Dio mette in
faccia all'uomo perché egli vi veda la propria peccaminosa umanità e non una
sua presunta divinità, divinità di cui, secondo Lutero, vaneggiano gli
umanisti. In questa interpretazione Lutero mostra come egli rompa radicalmente
con ogni conoscenza extra Christu, extra verbum, relativamente alla salvezza. La
morte di Cristo sulla croce annunciata dalla Scrittura è il chiaro giudizio
negativo sulla radicale incapacità dell'uomo. Quindi, dal punto di vista di
Lutero, tra il Dio causa e il peccatore effetto non sussiste la relazione
analogica che ne predicano gli scolastici, la cosiddetta 'analogia entis',
l'analogia dell'essere. Sicchè dell'effetto si può analogicamente predicare ciò
che si predica della causa. Questa 'analogia entis' è rigettata nel modo più
radicale da Lutero.
Possiamo,
visto come la relazione tra ragione e fede viene drasticamente interrotta da
Lutero, interrogarci circa l'opinione che Lutero ha della TEOLOGIA NEGATIVA, che
nega la possibilità di una conoscenza positiva di Dio. Nega una conoscenza che
vada oltre ciò che Dio di se stesso rivela nella Scrittura.
Vediamo
un passo di Tommaso d'Aquino, dove egli espone la relazione tra causa ed effetti
nei termini di una relazione analogica: "La causa è la perfezione dei suoi
effetti. Ciò che gli effetti sono imperfettamente, limitatamente, ciascuno
essendo soltanto ciò che è, essendo soltanto a suo modo, il proprio esser
qualcosa, essendo entro i propri limiti, entro la determinatezza del suo esser
questo o quello, la causa invece lo è perfettissimamente, e proprio perciò
essa è la causa di tutti quegli effetti. Essendo Dio la prima causa effettiva
delle cose, è necessario che le perfezioni di tutte le cose preesistano in Dio
secondo un modo più eminente. Vale a dire, Dio è eminenter, in maniera più
eminente, perfettissimamente, ciò che le cose sono imperfettamente. Le
perfezione delle cose, il loro positivo esser ciò che sono, sono ancora più
perfette in Dio".
Dio,
in quanto causa di tutte le cose, è in sé, in uno l'essere perfettissimo di
tutte le cose. E' cioè la perfezione d'ogni possibile esser qualcosa, ovvero è
tutti i possibili esser qualcosa nella loro massima perfezione. Questo è quello
che i filosofi chiamano l'Essere, come infinita pienezza d'essere. Ma questo è
l'Uno. I Neoplatonici dicono che non è l'uno della serie dei numeri, ma è la
fonte di tutti i numeri, che include in sé tutti i possibili numeri e da cui
procedono tutti i numeri. È l'Uno che è in uno tutti i numeri. L'essere che è
in uno la perfezione di tutti i possibili esseri.
L'uno,
l'essere perfettissimo è anche il nome supremo di Dio. Dice Plotino:
"L'uno è un nome polulogon, plurisignificato, plurilingue. Anzitutto è un
nomen omni nominabile, nome onninominabile. È un nome che include in sé
l'intera polinimia divina, tutti i possibili nomi, una pluralità di nomi.
Polinimia vuol dire un nome includente in sé tutti i nomi di tutte le cose
possibili. Infatti, essendo in uno e, come uno, la perfezione di tutti i
possibili esser questo o quello, dell'Uno si possono predicare tutti i nomi; i
nomi di tutti i possibili questo o quello. Se l'uno è 'eminenter', o come
dicono anche i filosofi 'causaliter', a mo' di causa, di tutte le cose di cui è
il principio, se ne possono predicare i nomi di tutte le cose. Allora possiamo
legittimamente dire che Dio, l'Uno è tutte le cose possibili.
Questa
è la via affermativa, la teologia positiva, catafatica o dichiarativa, che
positivamente dice che cosa è Dio e dice che Dio è tutte le cose, beninteso,
come loro principio in quanto ne è il principio perfettissimo includente tutte
le cose nella loro assoluta perfezione. Siamo qui nell'ambito della teologia
razionale, naturale o filosofica, quindi teologia positiva non significa
teologia rivelata. Qui sono i filosofi che si fanno teologi naturali e che
muovendo dall'effetto riconoscono la causa, proprio come l'Essere perfettissimo,
e di cui quindi si può positivamente dire tutti i nomi di tutte le cose di cui
esso è la causa.
Senonchè
questa è una via che ben presto denuncia i propri limiti. Infatti l'infinita
pienezza d'essere divina sfugge ad ogni tentativo di una sua definizione da
parte dell'intelletto umano. Ciascuna per sé e tutte insieme le de-finizioni,
fornite dall'intelletto dell'uomo, la finiscono o finitizzano in quanto la
limitano di volta in volta al che cosa o ai che cosa limitati e distinti che ne
dicono. L'Uno, Dio, la causa prima sarà sempre limitata a ciò che ne diciamo,
al che cosa se ne dice o alla serie di che cosa se ne dice.
L'intelletto
umano riconosce qui la propria natura definitoria e perciò finita e
finitizzante che la caratterizza. E con ciò stesso riconosce di non poter
correttamente pensare l'infinita pienezza d'essere se non come assoluta
indistinzione e indeterminatezza. La maniera più corretta che noi abbiamo,
stante la natura definiente e finitizzante del nostro intelletto, di pensare
l'infinita pienezza d'essere è quella di pensarla come indistinzione assoluta,
e quindi come assoluta indeterminatezza, perché nell'atto stesso in cui ci
mettiamo a definirla e quindi tentiamo di determinarla, introduciamo in essa
distinzione e finitezza, la riduciamo ai distinguo, alle definizioni che ne
facciamo.
Pensare l'infinita pienezza solo come assoluta indistinzione e indeterminatezza, significa pensarla come impenetrabile alla limitata determinatezza d'ogni definizione. L'Uno in quanto tale, a ben vedere, non si lascia vedere, in quanto ogni volta che mi sforzo di vederlo riesco solo a vederne qualcosa, a vedere il che cosa ne dico; ma questo, per tanti che cosa siano, sono sempre e soltanto i che cosa che io di volta in volta dico. Questo che cosa che dico non riesce a render conto della infinita pienezza che l'Uno è. Ecco allora che l'uno si palesa nella sua assoluta indeterminatezza impenetrabile all'intelletto umano.