LA FILOLOGIA ALLA RICERCA DEL VERO ARISTOTELE

 

L'aspra polemica condotta dal Petrarca e dai primi umanisti contro la scienza delle università potrebbe farci presupporre un'inconciliabilità, un disaccordo insanabile tra humanae litterae e filosofia aristotelica. In realtà, l'Umanesimo era fenomeno socialmente rilevante soprattutto per l'interesse suscitato nella classe dei magistrati, il più importante gruppo laico che faceva capo alle facoltà di diritto. La formazione culturale di costoro prevedeva certamente un approccio alla filosofia delle scuole, soprattutto per gli aspetti politici e sociali, e non meravigliano quindi le discussioni filologiche sul testo aristotelico intraprese dal Valla o da Poliziano.

D'altro canto, se la filologia è centrale nel mondo umanistico, non lo è di meno la ricerca dell'eleganza formale. Il grande filologo Ermolao Barbaro (1453-1493), nemico dei «filosofastri plebei e legnosi che separano la filosofia dall'eloquenza», faceva consistere il suo tentativo di «riconciliare la filosofia della natura con gli studia humanitatis" nella «traduzione di tutti i libri di Aristotele ornati del maggior splendore, proprietà e raffinatezza». Nuove, e generalmente più accurate traduzioni sostituiranno quelle medievali, anche per opera di intellettuali bizantini. Questo «abbellimento» di Aristotele aveva un significato profondo: proporre a chi non sapeva il greco un testo che avesse valore per sé, non come base per la dottrina teologica o per l'addottoramento presso la Facoltà delle Arti. Era il segno, insomma, che v'era un pubblico cui interessava Aristotele più che la discussione aristotelica, la fonte della scienza e non i suoi derivati, più o meno adulterini.

A questo pubblico, e anzi a uno più vasto ancora, si rivolgeranno i volgarizzamenti del Corpus aristotelico, dagli spurii Problemata nella versione, chiamata Il Perché, del medico e astrologo Girolamo Manfredi (1430-1493), alla Politica. Accurate e minuziose, a sostituire le frettolose enciclopedie medievali o i poemi didascalici, saranno, più tardi, opere di divulgazione scientifica - talvolta vere e proprie parafrasi di un testo aristotelico - come la Sfera del mondo ( 1540) e la Filosofia naturale (1550-54) del letterato Alessandro Piccolomini (1508-1578). A livello accademico diverrà sempre maggiore la consapevolezza filologica (la conoscenza del greco finirà per essere quasi una moda nella Germania del secondo Cinquecento); e i suoi frutti più cospicui, dal punto di vista filosofico, saranno la conoscenza e l'utilizzazione di commentatori greci prima sconosciuti.

 

 

AVERROISMO, ALESSANDRISMO E SCUOLA PADOVANA, ARISTOTELISMO ECLETTICO

 

Se il mondo aristotelico era disposto ad accogliere i nuovi strumenti culturali, non ne accoglieva però gli aspetti potenzialmente innovatori; e le raffinate tecniche filologiche quasi mai smuoveranno la problematica filosofica dai binari obbligati in cui la tradizione l'aveva compressa.

I temi dell'averroismo e le sue sfumature verranno sviluppati per lo più a Bologna, soprattutto con Alessandro Achillini (1463-1512) e Ludovico Boccadiferro (1482-1545), mentre il celebre Agostino Nifo (1473-1546) accentuerà di essi i non pochi aspetti che potevano accordarsi col platonismo: si pensi al suo insistere sull'idea di una realtà intellettuale e intelligibile insieme, separata dagli individui pensanti. Di qui egli passava disinvoltamente a un'interpretazione apologetica, in senso filotomistico, della tradizione aristotelica. Il significato dell'attività del Nifo si chiarisce se si pensa che egli, avuta fra le mani una copia manoscritta del Principe, si affretterà a plagiarla in un'opera sulle tecniche del governo monarchico (De regnandi peritia, 1523), tentandone una sistemazione secondo i canoni d'una discussione accademica, introducendo nuovi riferimenti eruditi alla storia classica, aggiungendo una sezione riguardante i doveri del vero principe, quello legittimo (nella fattispecie Carlo V, al quale l'opera era dedicata).

Certo, non tutto l'aristotelismo rinascimentale si riduce all'esercizio di vani, ma spesso ben rimunerati, virtuosismi eruditi. Grande clamore suscitò infatti un'operetta di Pietro Pomponazzi (1462-1525) sull'immortalità dell'anima (De immortalitate animae, 1516). Da poco professore a Bologna, egli si era mosso, fin dagli esordi padovani, nel più tradizionale ambito accademico, e anche questo suo lavoro intendeva essere l'esposizione del pensiero di Aristotele sull'argomento, fatto salvo, naturalmente, il primato dell'insegnamento cristiano; quest'ultima affermazione fu però ritenuta poco sincera.

La dimostrazione pomponazziana è effettivamente imperniata sulla definizione aristotelica dell'anima: atto del corpo fisico organico (actus corporis physici organici). Con quest'espressione, per Pomponazzi, ci si riferisce al dispiegarsi, nella materia, di un'intima forza coesiva e motrice insieme, energia che certo non coincide con la materia in quanto tale (quella del cadavere), ma che non esiste senza di essa: come potrebbe, del resto, una realtà formale (actus) non essere forma di qualcosa? Naturalmente gli avversari accettavano questo, limitatamente però all'aspetto vegetativo e percettivo dell'animazione; l'uomo è però caratterizzato dall'attività intellettiva, e questa, per la sua congiunzione funzionale con le eterne verità, non può che essere separata dal corpo. Pomponazzi ribatteva che la teoria aristotelica del conoscere nega questo. Il conoscere «o è immaginazione o non è senza immaginazione»: e ciò è connesso indissolubilmente con una funzione corporea (quella di forgiare immagini; nel gergo scolastico usato dal filosofo, il conoscere dipende dal corpo come dal suo oggetto, non soggetto). Pertanto l'anima è solo in certo modo immortale («profuma di immortalità») ed è in realtà mortale, ente intermedio fra le eterne Intelligenze motrici delle sfere celesti e le anime percettive delle bestie, mere funzioni corporee legate all'accidente spazio-temporalmente determinato.

Dall'idea mortalistica Pomponazzi traeva, con apparente compiacimento, tutte le conseguenze sul piano etico. E proprio la provvisorietà della nostra esistenza a esaltare l'umanità, il significato terreno di concetti come felicità, fortezza, ecc., chè felicità eterna, ossia assoluta, sarebbe il corrispondente etico di conoscenza incondizionata, non mediata cioè dal dato sensoriale; una forma d'esistenza chimerica, insomma, se riferita all'uomo. Di qui la pericolosità dell'opera: si riteneva che vi fosse un pubblico predisposto ad accogliere l'idea di una «religione» filosofica, e quindi di una morale laica, con tutte le conseguenze sociali che questa poteva comportare.

Anche in altre due opere Pomponazzi mostra di muoversi con notevole spregiudicatezza: nel trattato Sui prodigi magici (De incantationibus, scritto nel 1520 e stampato nel 1556), fa uso di un concetto di religione che prescinde, nella più pura tradizione aristotelica, da ogni idea di persona divina. Nel De fato, libero arbitrio et praedestinatione (contemporaneo al precedente e uscito postumo anch'esso, nel 1567), la tematica teologica viene affrontata dopo che si è dichiarata filosoficamente accettabile solo l'ipotesi fatalistica - quella degli stoici, cui però, secondo Pomponazzi, Aristotele può ben adattarsi.

Un allievo di Pomponazzi, il medico veronese Giovan Battista da Monte (1488-1551), cercava invece di venir incontro a una sfiducia ormai abbastanza diffusa nei confronti dell'impianto scientifico aristotelico. Le lezioni, famose in tutta Europa, che tenne a Padova dal 1539, erano dense di temi e spunti filosofici: in particolare gli premeva mostrare che alle qualità tradizionali, come il caldo e il freddo, si possono sostituire con maggiori possibilità esplicative il raro e il denso, secondo i suggerimenti dei filosofi presocratici.

Preoccupazioni scientifiche, più che un vero e proprio programma sistematico nella ricerca, manifestò Jacopo Zabarella (1533-1589), che insegnò venticinque anni a Padova ed è una delle ultime espressioni vitali dell'arisiotelismo cinquecentesco. Impegnatosi a fondo, anche lui, sulla questione della realtà psichica, pervenne, sulle orme del Pomponazzi, a una rielaborazione della tematica alessandrista, che egli portò alle estreme conseguenze: l'intelletto attivo non è un'entità separata e intelligente, ma «la ragione di intelligibilità degli altri oggetti, ossia atto e perfezione per cui le altre cose sono rese intelligibili, forma per cui l'oggetto diviene oggetto in atto». Si rivaluta cosi la funzione di quella che vien posta come agente primo del conoscere, la rappresentazione sensoriale, alla quale è intrinseca, per cosi dire, l'intelligibilità, «quella perfezione che ne fa un oggetto perfetto capace di muovere l'intelletto passivo».

Zabarella espresse queste idee in commenti voluminosi e irti di difficoltà; la tesi mortalistica che ne era corollario non incontrò risonanza nemmeno fra coloro che dell'aristotelismo interpretato in senso ortodosso, tomistico, facevano una professione. Risonanza che ebbero invece le sue opere logiche, raccolte, a partire dal 1578, in varie edizioni e sillogi. In esse propugnava la tesi che la logica fosse non una scienza, e nemmeno una tecnica (ars) fine a se stessa, ma uno strumento, non disgiunto dal concreto operare della ricerca scientifica. E più celebrate, forse, furono le sue opere di filosofia naturale raccolte nel trattato La realtà naturale (De rebus naturalibus, 1590), dove si mettevano crudamente in risalto i punti deboli del sistema elaborato dalla tradizione aristotelica. Più d'uno fra i novatores (filosofi antiaristotelici) del primo Seicento vi si riferirà con compiacimento.

Poca, o nessuna, originalità si riscontra negli altri professori che affollarono, per tutto il secolo, le università italiane e straniere, come Parigi, sempre importantissima, o, più tardi, Coimbra in Portogallo, nella quale si elaborò un fortunato commento sistematico di gran parte del Corpus aristotelico, di ispirazione controriformistica (è l'Aristotele dei Coimbricenses, che fu edito a partire dal 1592).

È invece figura di rilievo Andrea Cesalpino (1519-1603), enciclopedico autore il cui aristotelismo, che rivela l'influsso, sempre persistente, di Averroè, accoglie elementi platonizzanti, evidenti nella Ricerca aristotelica sui demoni (Daemonum investigatio peripatetica, 1580). Nelle Quaestiones peripateticae (1591), egli elabora la tesi che la materia sia qualcosa di esistente per sé, nozione non certo nuova, ma non priva di significato se si pensa alle ricerche cui Cesalpino si dedicò coi risultati più cospicui. I sedici libri del De plantis (1595), infatti, sono opera importante, e va sottolineato che egli fu tra i primi studiosi a occupare una cattedra dedicata all'insegnamento di quelli che si chiamavano i «semplici», corrispondente a quelle che noi chiameremmo scienze botaniche. Il primo libro costituisce una vera e propria botanica filosofica, in cui il ricorso alla causa finale si rivela non più importante delle articolazioni della causa materiale; i libri rimanenti sono considerati il primo tentativo di una sistematica in campo botanico. Cesalpino si dedicò molto alla scienza e alla pratica medica, entrando nel vivo del dibattito aperto dalle osservazioni del trattato La struttura del corpo (De corporis fabrica, 1543) dell'anatomista belga Andrea Vesalio (1514-1564), e pervenendo a una chiara idea della piccola circolazione del sangue (dal cuore ai polmoni), certo non di quella grande, come si sostenne da più parti: l'idea di due tipi di sangue che scorrono nei loro rispettivi sistemi rimane per lui un dogma.

 

 

INDAGINI ARISTOTELICHE SUL LINGUAGGIO

 

Fuori dal campo strettamente filosofico l'aristotelismo mostrò una certa vitalità. Nelle trattazioni politiche, peraltro, le formulazioni della Politica e dell'Etica Nicomachea venivano superate da progetti di carattere utopico o dall'urgere di problemi istituzionali a esse irriconducibili, sicché i riferimenti, magari copiosi, all'opera aristotelica rimanevano un episodio erudito.

Quanto agli aristotelici «di professione» val la pena di menzionare soltanto il già ricordato Alessandro Piccolomini, che nella Instituzione morale (1560) tentava di derivare da Aristotele gli ideali tipici della società aristocratica del tempo. Di maggior momento le ricerche estetiche, retoriche e linguistiche, e ciò non tanto per l'originalità dei singoli autori, quanto per la popolarità goduta dall'impostazione aristotelizzante di tematiche riguardanti soprattutto le arti e le tecniche del discorso.

Si deve però ricordare il contributo alla «questione della lingua» di Sperone Speroni (1500-1588), professore di logica a Padova ma noto anche per i suoi tentativi letterari (la sua Canace è un tipico esempio di tragedia aristotelica, strutturata cioè secondo i canoni della Poetica). Allievo di Pomponazzi, egli mette in bocca al suo maestro, nel dialogo Delle lingue (I ediz. 1542), una tesi estremistica: le lingue non sono che il convenzionale involucro dell'insieme eterno dei concetti e dei processi logici che sempre e ovunque si svolgono con ugual ritmo: «La filosofia, se non si sdegna d'albergare ne gli intelletti lombardi, non si dee anche sdegnare d'essere tratta dalla lor lingua... natura in ogni età, in ogni provincia et in ogni abito esser sempre mai una cosa medesima, et per essere intenta alla produzione delle creature razionali, non si scorda delle irrazionali, ma con uguale artificio genera noi e i bruti animali, così da ricchi parimenti e da poveri uomini, da nobili e vili persone con ogni lingua, greca, latina, ebrea e lombarda, degna d'essere conosciuta e lo data». E perciò lo studio delle lingue può essere non di giovamento, ma di danno: «Io porto ferma opinione, che lo studio della lingua greca e latina sia cagione dell'ignoranza: che se 'l tempo che intorno ad esse perdiamo, si spendesse da noi imparando filosofia, per avventura l'età moderna genererebbe quei Platoni e quegli Aristoteli che produceva l'antica». Posizione, questa del Pomponazzi, solo apparentemente avanzata nel senso dell'esigenza di allargare il sapere agli strati sociali finora esclusi. Quei ritmi razionali, infatti, sono sempre attingibili a pochi, e incolmabile è l'abisso che divide i plebei dai contemplami.

Al maestro lo Speroni obiettava che il linguaggio ha dimensioni irriconducibili al purismo gnoseologico pomponazziano, principalissima essendo invece la funzione persuasiva (di cui tratta la retorica), che è poi la forma concreta del comunicare umano. Nel Dialogo della rettorica, contemporaneo al precedente, egli spingeva le sue considerazioni nella direzione di uno scetticismo, o meglio probabilismo, utilizzando proprio quel concetto di età dell'uomo con cui si apre il De immortalitate pomponazziano: solo alle Intelligenze separate spetta la conoscenza della realtà ultima, quella formale, delle cose, ai bruti invece l'impressione dei fenomeni sensibili. Il medio fra questi due estremi è l'uomo, la cui conoscenza è legata al dato sensoriale, ed è pertanto incompleta, fallace. D'altro canto, la parola distingue l'uomo dai bruti, e ciò ha un profondo significato, incarnandosi proprio in essa la precarietà del sapere, segnando essa il trionfo dell'«opinione» sulla «verità assoluta».

La retorica è cosi la forma di conoscenza umana per eccellenza: è nel «vivere civile», umano per eccellenza anch'esso, che essa trova la sua celebrazione, come cemento e, anzi, possibilità stessa di quel discorso morale e civile di cui la «repubblica» si nutre. Eco del primo Umanesimo, nostalgia di una struttura sociale ormai irrecuperabile: certamente nello Speroni c'è anche questo, ma gli accenti filosofici del Dialogo della rettorica saranno poi quelli dell'aristotelismo posttridentino. Se il sapere è solo congettura, la parola del Signore è la verità, e gli interpreti di essa sono i suoi depositari: stanno qui le premesse teoriche della condanna di Galilei.

 

 

POLEMICHE ANTIARISTOTELICHE

 

Dominatore incontrastato in gran parte delle università europee, e certamente in quelle più note, l'aristotelismo trovò resistenza in ambienti culturali di struttura meno tradizionale. Erano le corti dei principi, dove, per vero dire, trovavano accoglienza un po' tutti; e le accademie, popolate di professionisti (burocrati, uomini di legge, medici, architetti) come di esponenti della nobiltà terriera e anche, specie nel Veneto, di ecclesiastici che alla religione poco pensavano.

Nelle accademie, a carattere letterario, dove però si dibattevano, spesso dilettantescamente, temi filosofici, predominavano atteggiamenti platonizzanti; e nelle organizzazioni a carattere scientifico l'antiarisiotelismo assumeva spesso i toni del magismo, del quale diremo. Ma l'aspetto nuovo dell'antiaristotelismo del Cinquecento - chè l'opposizione delle correnti platoniche è scontata, ancorché superficiale, e gli indirizzi scetticheggianti non sono teoreticamente nuovi - sta nei tentativi di denunciare non tanto le conclusioni fisiche o metafisiche (perché denunciare una follia manifesta come l'idea dell'eternità del mondo?), quanto il metodo stesso di Aristotele, i suoi strumenti; insomma, la logica dell' Organon.

Alla celebrazione della retorica di certo Umanesimo si riallaccia cosi Mario Nizolio (1488-1564) nel suo I veri principi e parametri del filosofare (De veris principiis et vera ratione philosophandi, 1533), steso, a dire dell'autore, contro tutta la tradizione degli pseudophilosophi, ma rivolto, evidentemente, contro Aristotele e la Scolastica. La consapevolezza filosofica di questo filosofo, commentatore e chiosatore di Cicerone, va però oltre le polemiche quattrocentesche. La forma di sapere degli Analitici posteriori di Aristotele, che si articola in rigide dimostrazioni e ha per oggetto enti che si pretendono eterni e si rivelano in realtà nomi, suoni e non cose, viene rifiutata in nome di un'aderenza al concreto, al sapere del senso comune, a quelle nozioni e discipline che son connesse con la pratica, che ci orientano nell'agire, sia moralmente che tecnicamente.

La vecchia logica è, in realtà, lo strumento di chi è convinto dell'esistenza reale degli universali, le cui relazioni intende riprodurre, in qualche modo, sul piano verbale; la nuova logica è invece lo strumento di chi, convinto della precarietà del conoscere umano, vuol sostituire a quel sapere assoluto, divino, indagini particolari, volta a volta diverse quanto a oggetto e metodo. Diversi, quindi, i metodi della «fisica» da quelli della «politica», e questi da quelli della «retorica», le tré parti in cui si articola quella che Nizolio chiama Enciclopedia. Ci troviamo di fronte a una critica che muove sia da convinzioni sul valore degli studi storico-linguistici, sia da una posizione filosofica che risente del terminismo occamista.

La critica del Nizolio metteva bene in luce le motivazioni filosofiche di quelle che erano insoddisfazioni ed esigenze assai diffuse. Già nel 1519 lo spagnolo Juan Luis Vives (1492-1540) aveva denunciato, nell'opera Contro i pseudodialettici (In pseudodialecticos), la degenerazione della logica, ridotta a esercizio di forme espressive fittizie, forzature inutili e pericolose dell'uso corretto del discorso naturale. Il Vives, a dir vero, ne addossava la responsabilità non ad Aristotele, che anzi si era riferito al linguaggio piano, semplice, del senso comune, ma ai suoi interpreti, o pseudointerpreti, medievali: risultano così corrotte, ai suoi occhi, tutte le discipline, umane e divine. Anche ad Aristotele, peraltro, il Vives rimprovererà, nel trattato Le cause della corruzione delle discipline (De causis corruptarum artium, 1531) la surrettizia introduzione di nozioni metafisiche nella logica - quella delle Categorie soprattutto - e la confusione che fatalmente ne segue. La dialettica del Vives, pedagogista di formazione erasmiana, si risolveva cosi in un modello di tecnica argomentativa, una rivendicazione di semplicità e chiarezza che si configuravano come efficacia pragmatica (psicagogica) in ambito retorico e come ritorno alla schiettezza del messaggio della Patristica in ambito teologico.

Esigenze pedagogiche, accolte e soddisfatte in un contesto sociale ben definito, caratterizzano pure la complessa figura del francese Pietro Ramo (Pierre de la Ramée, 1515-1572). Di famiglia aristocratica, da tempo però decaduta, Ramo segui, tra mille difficoltà economiche, un corso di studi tradizionale, rimanendone profondamente insoddisfatto. Maturò in lui, anche in seguito a contatti, fuori dall'università, con esponenti dell'Umanesimo francese, la convinzione che si dovesse orientare l'insegnamento verso tecniche culturali utili, che la formazione dello studente non potesse ridursi all'apprendimento di quei vaniloqui, di profondità solo apparente, cui erano ormai ridotte la logica dei maestri universitari, e, con essa, le scienze fisiche e le discipline civili come la giurisprudenza. Veniva cosi accolta l'esigenza dei nuovi ceti burocratici, di giuristi e funzionari, che richiedevano una formazione rispondente a criteri di chiarezza ed efficacia espositiva, specie in presenza d'una legislazione in rapida evoluzione, in continuo allargamento; e che insieme a ciò volevano un'eleganza formale che si otteneva dalla consuetudine coi classici.

Il giovane maestro delle Arti trovò cosi nei Collèges parigini, ove fu occupato dal 1537, crescente ed entusiastico uditorio. La stretta connessione di filosofia ed eloquenza che caratterizzava l'impostazione dei suoi corsi trovò la sua formulazione dottrinale in due opere di tono violentemente antiaristotelico, le Osservazioni aristoteliche (Aristotelicae animadversiones) e le Istituzioni dialettiche (Dialecticae institutiones),entrambe del 1543.

La polemica investe qui tutta la tradizione logica che deriva da Aristotele, nell'opera del quale già si indicano i germi del formalismo e degli inutili cavilli medievali. Il maggior torto di Aristotele sta nell'aver ritenuto che si diano due (in realtà, molteplici) logiche: arbitrariamente scindendo le operazioni mentali, volle distinguere una logica della dimostrazione scientifica, valida in realtà, al più, per la geometria, da altre forme di pensiero riguardanti il «probabile», il «persuasivo» e simili. Mancò così di scorgere l'unità dei procedimenti argomentativi, il nesso che lega ad esempio il ragionamento dell'oratore e quello del botanico. Quest'unità era stata ben vista invece da Platone, ai cui dialoghi dialettici (Sofista, Politico, Parmenide) bisogna rifarsi per fondare una logica aderente alla realtà psicologica dell'uomo, e quindi utilizzabile, feconda di risultati. Vero è che in queste opere giovanili Ramo non limita la sua simpatia per il platonismo a questi soli aspetti: non manca l'insinuazione che l'ordinamento dei discorsi umani sia la via per giungere alla contemplazione dell'Unità, scaturigine dei molteplici elementi che costituiscono la trama ideale della realtà.

Le posizioni espresse in queste opere scatenarono la reazione degli ambienti accademici conservatori, ma le proiezioni di cui Ramo godeva a corte gli consentirono di continuare nella sua carriera, culminata con la nomina prestigiosa di «regius professor eloquentiae et philosophiae» (si noti l'accostamento, nuovissimo) presso il College Royal nel 1551. Egli poteva così approfondire le sue posizioni, affinando la sua indagine sui processi dimostrativi di certe scienze, come matematica e medicina, e abbandonando le seduzioni della metafisica neoplatonica. Anche le punte polemiche contro Aristotele si smusseranno, pur rimanendo centrale la convinzione che «Aristotele ha voluto costruire due logiche, una valida per la scienza, l'altra per le conclusioni opinabili, col che (con tutto il rispetto dovuto a un sì grande maestro) ha commesso il più grande degli errori». Così egli puntualizzava la sua posizione nella Dialectique (1555), che i francesi considerano il primo testo filosofico scritto nella loro lingua. La scelta linguistica era il segno evidente della necessità di rispondere agli interessi di un uditorio sempre più vasto.

Gli ultimi anni sono dedicati da Ramo, dopo il passaggio al calvinismo - ne è documento letterario il postumo De religione christiana (1576) - alla continua rielaborazione di una logica che mai deve considerarsi uno schema chiuso e definito una volta per tutte. Egli veniva cosi esplorando le possibilità di un'applicazione dei suoi metodi alla fisica e alla matematica (nel 1566 pubblicava la Geometria, le Scholae mathematicae, le Scholaephysicae) senza superare però i limiti del programma originario, centrato sul rinnovamento delle tecniche didattiche. E che la sua opera debba venir valutata sul piano pedagogico è dimostrato dal tipo di fortuna che essa ebbe dopo la sua morte, avvenuta nella notte di San Bartolomeo (1572).

Ramismo significò soprattutto un metodo espositivo, un modo di disporre conoscenze già date. Le opere di fisica dei ramisti contengono così, per lo più, le nozioni tradizionali, disposte secondo i caratterisiici schemi dicotomici derivati dall'assunzione di certe tecniche platoniche: estenuanti divisioni e suddivisioni che recano l'impronta inconfondibile del sapere libresco, consegnato a metodi di stampa nuovi. È l'epoca dei diagrammi, delle tavole sinottiche, ma anche dei primi lessici filosofici, che si stendono con queste tecniche e sono le espressioni più tipiche dell'eclettismo accademico (ricordiamo il Lexicon di Goclenius del 1613). È un'esigenza sistematica che, diffusa dal ramismo, si ritrova anche in pensatori assai cauti verso la nuova logica e proclivi, se mai, a cercare un accordo di essa con le più moderate posizioni di Filippo Melantone, partigiano della Riforma luterana, al cui insegnamento filosofico, sostanzialmente aristotelico, si ispirava gran parte delle università protestanti tedesche.

Da atteggiamenti del genere esce un «filippo-ramista» - cosi venivano chiamati, dal nome di Melantone, gli esponenti di tale concordiamo - come Libavius (Andreas Libau, 1560-1616) che, dovendosi applicare, egli ufficialmente aristotelico, ai problemi posti dalle ricerche chimiche, compie un utile lavoro di catalogazione, di sistemazione dei dati empirici e delle nozioni scientifiche che si ritenevano patrimonio acquisito (fondamentale è la sua Alchimia del 1597). Era un esempio di come esigenze didattiche, maturate in ambiente accademico anche tradizionale, potessero dar vita a operazioni culturali il cui esito ultimo era di stimolare gli intelletti e gli interessi verso ricerche antitetiche allo spirito dell'aristotelismo, come quelle di laboratorio.

Non istanze pedagogiche, ma metafisiche, muovevano invece il platonico Francesco Patrizi da Cherso (1529-1595), che riteneva però di poter prendere le mosse da una critica ad Aristotele che prescindesse da particolari convincimenti e mettesse in luce le contraddizioni interne della filosofia aristotelica e le sue debolezze. Come altri pensatori di formazione platonica, egli vuol mostrare la concordanza di Aristotele con molta della tradizione a lui precedente, soprattutto pitagorica ed ermetica; ma il fine è la svalutazione dell'originalità di quei concetti aristotelici che nessuno metteva in discussione. Di più, nell'ultima parte delle Discussiones peripateticae (1581, in quattro tomi, di cui il primo uscito dieci anni prima), egli mostra la fragilità di molti dei cardini del pensiero aristotelico, notando puntigliosamente le tante sostanziali modificazioni cui eran dovuti ricorrere, uno per uno, gli esegeti di Aristotele.

Alle astrazioni della filosofia aristotelica, che hanno un fondamento meramente linguistico, Patrizi riteneva di poter contrapporre un'analisi della realtà basata su altri metodi. Ma la sua opera più nota, il Nuovo sistema filosofico dell'universo (Nova de universis philosophia, 1591) si risolve in una rimeditazione della filosofia di Proclo se pur attenta a precisare i principi del mondo materiale, tra i quali Patrizi pone lo spazio e la luce. Egli tentava di dare a questo suo sistema un significato apologetico: il platonismo, ben più che l'aristotelismo, era per lui vicino al cristianesimo, e doveva quindi costituire la base dell'insegnamento superiore. In un primo tempo gli riuscì di ottenere una cattedra di filosofia platonica alla Sapienza, università romana e pertanto sotto rigido controllo della Chiesa. Non tardarono però a manifestarsi diffidenze e ostilità da parte ecclesiastica, e gli ultimi anni della vita di Patrizi, anche se gli riuscì di mantenere la cattedra, furono attraversati da difficoltà, censure e ostacoli.

 

 

IL PLATONE CRISTIANO

 

Patrizi rappresenta il punto d'incontro fra quello che possiamo chiamare il platonismo cosmologico del tardo Cinquecento, cui si accennerà in seguito, e quello che fiorì soprattutto a partire dalla fine del Quattrocento, per un cinquantennio circa. Non era, tuttavia, un fenomeno esploso senza alcuna preparazione, e la figura e l'attività di Nicolò Cusano sono emblematiche al riguardo.

Nato a Cues (onde il nome Cusanus) in Germania nel 1401, Nicolaus Krebs studiò a Heidelberg e Padova, dove maturò i suoi interessi scientifici. La sua carriera ecclesiastica, culminata nel cardinalato, lo vide fra i protagonisti delle dispute sui rapporti fra papa e Concilio, dei quali dette in un primo tempo (De concordantia catholica, 1433) un'interpretazione moderatamente conciliaristica, per passare poi a sostenere  decisamente il primato papale. Il contatto e l'amicizia coi maggiori umanisti del tempo, se non lo indussero a una ricerca dell'eleganza formale (il suo latino è aspro come pochi), lo portarono tuttavia a interessarsi vivamente alla raccolta di manoscritti, anche greci, e a incoraggiare la diffusione della cultura: amico di Gutenberg, favori l'introduzione delle tecniche tipografiche in Italia. Le opere filosofiche, di cui una prima raccolta usci nel 1488 e un'altra, più completa, nel 1514, furono composte dal 1440 al 1464, anno della morte, insieme con opere teologiche e matematiche.

Benché il pensiero del Cusano presenti tratti originali, l'ispirazione che lo anima è certamente alimentata dalla mistica cristiana e dal neoplatonismo da cui molti aspetti di essa derivano. La sua opera può esser considerata un commento al capitolo XXXV degli Elementi di teologia di Proclo: «Ogni causato rimane nella sua causa, procede da essa e ritorna a essa». Si tratta dunque di chiarire il senso in cui si può dire che il mondo è, o rimane, in Dio. Il tradizionale gergo della metafisica e un notevole ricorso a immagini e analogie soccorrono il Cusano nell'affrontare un problema che, in termini concettuali, non può trovare soluzione: fra l'assoluta unità e semplicità e l'assoluta dispersione non può esservi commensurabilità. La molteplicità, apprendiamo, che è «esplicata» nel mondo (caratterizzata cioè da un'indeterminata divisione nello spazio e nel tempo), è «complicata» in Dio (le cose esistono sì in Dio, ma senza i loro limiti che tale divisione contrassegnano). Similmente nell'unità matematica sono contenuti tutti i numeri (non si può parlare del tre senza che le unità che lo compongono perdano la loro determinatezza: solo per la superiore realtà dell'Unità il tre può esistere).

Come spiegare che le cose, pur senza perdere la loro realtà, non presentino più limiti, cioè escano dalla condizione che caratterizza la realtà individuale? Esse nel mondo sono caratterizzate «dal più e dal meno», ossia da determinazioni quantitative e qualitative; ora nell'assoluto, che è Dio, il più e il meno diventano assoluti, o infiniti, e come tali non possono essere più criterio di distinzione, come nel mondo creato. Cosi, argomenta Cusano, la velocità assoluta coincide con la quiete - si pensi a un punto che si muova con velocità infinita su una circonferenza – e tutti i colori si fondono nella luce del raggio che li unisce. E’ il tema della coincidenza degli opposti (coincidentia oppositorum) o, meglio, dei distinti, una delle forme espressive tipiche della filosofia cusaniana.

Naturalmente il Cusano non pretendeva di «spiegare» nulla. Dio, la creazione, la realtà più alta delle cose, rimangono misteri. Compito della filosofia è chiarire la nostra impotenza di fronte a essi, speculare su come tutto ci sfugga proprio perché condizionato dalla radice divina, dall'assoluto che per definizione ci è inattingibile, e al quale pur dobbiamo accostarci, con metodi intuitivi, a partire proprio dal mondo sfuggente che ci circonda. In questo sforzo di «comprendere incomprensibilmente» (intelligere incomprehensibiliter) la realtà, sta la forma di sapere più alta, la «dotta ignoranza», alla quale il Cusano dedicherà il suo primo e più noto lavoro filosofico (De docta ignorantia, 1440), la cui filiazione dalle precedenti forme di teologia negativa è palese.

Tali posizioni non impediscono al Cusano di valutare positivamente la ricerca scientifica. Se è vero che la realtà ultima delle cose (la «quiddità», cui è dedicato il dialogo L'apice della teoria del 1464) ci sfugge, in quanto esse sono in Dio, ne è però possibile una conoscenza secondo il loro modo di darsi, secondo cioè «il più e il meno». Il sapere è cosi congetturale, e caratterizzato da una gradualità di precisione (cosi particolarmente nel De coniecturis, l44l circa). La matematica, costruita dalla mente umana, è la congettura più attendibile, e il Cusano si avventura a suggerire sperimentazioni basate su dati aritmetici: sono i temi del saggio Gli esperimenti con la bilancia (De staticis experimentis, 1450, che è la quarta parte del dialogo De idiota, o L'uomo semplice).

Corollario di questi spunti platonici era la scarsa importanza da lui attribuita alla diversità dei riti, di più premendogli l'unità di tutti gli uomini in una sola fede, articolata secondo i criteri di razionalità della sua filosofia (i dettami, insomma, della teologia negativa). E certamente questo tema concordistico, svolto soprattutto nello scritto La pace della fede (De pace fidei, 1453) è quello che più lo collega agli svolgimenti successivi del platonismo.

Un impulso non trascurabile alla diffusione della tradizione platonica fu dato anche dall'attività in Italia di alcuni intellettuali bizantini. Fra questi spicca Giorgio Gemisto (1555-1452), che mutò il suo nome in Pletone. La portata politica della filosofia era per lui decisiva, e a più riprese egli tentò di indurre gli ultimi imperatori orientali ad accogliere profonde riforme istituzionali. L'ispirazione egli la traeva dalle opere platoniche, e perciò appunto la sua opera maggiore, che fu fatta bruciare dal patriarca di Costantinopoli Gennadio come anticristiana, si intitolava Le leggi (ce ne rimangono frammenti). Certamente del cristianesimo egli accoglieva solo quanto poteva accordarsi con quella che per lui era una tradizione che univa i saggi dell'Oriente alle speculazioni misticheggianti di Giamblico e Proclo, ed è questo un motivo che ritornerà nel platonismo rinascimentale. Ma egli era anche convinto della prossima eclissi delle tre maggiori religioni (cristianesimo, ebraismo e islamismo), annunciata dal corso degli astri, e cercava di indicare un culto religioso (in realtà, filosofico) che unisse l'umanità. Si avvenivano, in queste sue proposte, motivi patriottici; senonché una rivalutazione così spinta dell'antica cultura greca non poteva trovare in Italia sostenitori convinti.

Diversa, ma altrettanto significativa nello sviluppo delle idee platonizzanti, fu la posizione di Giovanni Bessarione (1403-1472), elevato alla dignità cardinalizia nell'anno (1439) in cui si realizzava l'effimera unione della Chiesa orientale con quella romana. Contro le esuberanze paganeggianti del platonico Gemisto, che vedeva in Aristotele l'alleato teorico dell'islamismo, e contro l'aristotelismo di Giorgio da Trebisonda (il Trapezunzio, 1395-1484, uno dei più attivi traduttori di Aristotele), pronto a rovesciare la stessa accusa su Platone, egli sostenne la necessità di individuare i punti di accordo fra i due maggiori sistemi filosofici, pur non nascondendo la sua tendenza a privilegiare la tradizione platonica.

Negli ultimi tre decenni del Quattrocento maturò il platonismo rinascimentale d'ispirazione «fiorentina». Quest'ultima espressione non è fuori luogo: fu soprattutto grazie all'attività svolta in ambiente mediceo da Marsilio Ficino (1433-1499) che il platonismo rinnovò la sua fortuna.

La formazione di questo pensatore toscano fu, in filosofia, quella tradizionale, non senza interessi per il mondo umanistico che lo condussero, in un primo tempo, ad accogliere spunti e temi lucreziani. Ben presto egli venne accostandosi al platonismo, cui dedicherà, a partire dal 1463, un'indefessa opera di traduzioni e divulgazioni, anche con l'incoraggiamento di Cosimo de' Medici. Ne sono tappe fondamentali le versioni di tutto Platone (stampate nel 1484), delle Enneadi di Piotino (1492), il monumentale commento a queste ultime e alcuni commenti a Platone (1496); sono queste le opere sulle quali si formerà il platonismo del Cinquecento. Ma il significato di quest'enorme attività filologica non è disgiunto dagli intendimenti del Ficino, che certo non erano quelli del divulgatore e traduttore.

Uomo di Chiesa, egli mirava a una conciliazione di cristianesimo e classicità che sostituisse il tentativo tomista, per il quale pure aveva grande ammirazione. Il neoplatonismo che egli professa è un sistema derivato da Plotino e Proclo: nessuna delle astrazioni con le quali pretendiamo di cogliere il reale è autosufficiente, e la mobilità, la molteplicità, che caratterizzano la materia, la vita, la stessa dimensione intelligibile, rimandano a una Fonte immobile, a un'Unità che sola è garanzia di ordine razionale e di sussistenza.

Corollario di queste idee, contenute soprattutto nella Teologia platonica (opera del 1482 dedicata al problema dell'immortalità dell'anima), era che ogni espressione del pensiero umano, derivando da un'unica verità fentale, non possa non rifletterne alcuni aspetti parziali, e sia perciò falsa solo ove non se ne colga la limitazione. La verità cristiana non è in opposizione agli insegnamenti antichi, ma ne scopre anzi l'autentico significato. Una catena unisce i maestri dell'Oriente, come Zoroastro ed Ermete (Ficino, traducendo il Corpus hermeticum, darà impulso a quella che diverrà poi una vera e propria moda), a Orfeo, Pitagora, Platone, adombramenti tutti della rivelazione di Cristo.

La filosofia sarà cosi docta religio, contemplazione del rispecchiarsi del messaggio evangelico nei prodotti della ragione umana. È evidente che la figura storica di Cristo assume, in questa prospettiva, una rilevanza modesta, soprattutto per quel che concerne il significato della crocifissione. Il problema della salvazione si imposta, per Ficino, su altre basi. La metafisica della dimensione psichica, intesa come il fondamentale anello di congiunzione tra la realtà oltremondana e quella materiale, porta all'idea della religione come sforzo, che all'interno di tale dimensione si attua, per attingere alla realtà superiore, lottando per non farsi trascinare in quella inferiore. E la realtà dell'anima la garanzia della nostra possibilità di ritorno a Dio, ma è un ritorno concepito, a ben guardare, all'infuori d'ogni idea di soccorso divino, della grazia insomma.

L'uomo religioso è il sapiente della tradizione ermetica, e non mancano certo importanti posizioni ficiniane che confermano questa sua ispirazione. La magia astrologica che tanta parte ha nel suo pensiero, come emerge dal lavoro ficiniano più noto sull'argomento, il De triplici vita del 1489, è il tentativo di indicare il momento operativo di quella che si può definire una liturgia individualistica. L'uomo può congiungersi con la realtà oltremondana entrando in contatto con una forza cosmica che è il tramite fra quella e la materia: si tratta dello spirito del mondo, l'entità corporea più rarefatta, più «spirituale», della quale è costituito il mondo celeste, ma che ovunque penetra, vicario dell'anima cosmica. Spiando nei movimenti del firmamento, l'uomo coglie l'attimo adatto a quelle tecniche propiziatorie che corroborano quel veicolo «spirituoso» che è in lui, involucro di un'anima che può cosi liberarsi dai ceppi della materia.

Religione orfica del ritorno all'unità indistinta, questo unirsi all'anima del mondo come momento fondamentale del rapporto con la divinità era l'aspetto teoricamente più importante di quella concezione dell'amor platonico che tanta parte avrà nella cultura del Cinquecento, fino alla poesia di Shakespeare, nutrendo di sé un'aristocrazia che vi scorgeva, non a torto, una trasfigurazione, un'espressione poetica, dei propri convincimenti sulla gerarchia degli esseri umani. A livello filosofico, però, le cose non erano cosi amene, e il rapporto ambiguo fra l'anima cosmica e quella dell'uomo, che si doveva considerare individuale, andava ad aggiungersi ai molti problemi che Ficino doveva risolvere nel proporre la sua conciliazione di platonismo e cristianesimo. Cosi, egli tentennava nei suoi rapporti col mondo astrologico, di cui apprezzava, data la sua cultura di medico (di un medico era figlio, e a sperimentazioni farmaceutiche molto si dedicava), il lato filosofico-scientifico, certo il più innocuo; ma nell'affrontare, mantenendo schemi neoplatonici, il problema della relazione astri-anima, era incerto.

I pensatori, soprattutto francesi (il medico e poligrafo Symphorien Champier, 1472-1539, e l'umanista e teologo Jacques Le Fèvre d'Étaples, 1450-1536), che pur si accostarono entusiasticamente all'opera ficiniana, non mancarono di scorgere i punti pericolosi di essa, e tentarono di proporne versioni edulcorate, con ampi riferimenti alla tradizione filoplatonica della Patristica. Ma nella docta religio del Ficino, quale che fosse il suo impegno teoretico sui dogmi teologici, difficilmente può trovare luogo l'idea di Chiesa, e anche la sua raffinata metafisica finisce col porsi sulla linea di una concezione «politica» dell'organizzazione culturale, considerata elemento pedagogico per il comportamento delle masse e, in ultima analisi, strumento per dominarle.

Legato all'ambiente fiorentino fu pure Giovanni Pico, conte della Mirandola e della Concordia (1463-1494), che vi si accostò dopo aver studiato in varie università, e principalmente a Padova. Le opere ne rispecchiano la complessa formazione culturale. Alla tesi concordistica egli voleva dedicare, nel 1486, una pubblica difesa di novecento conclusiones, tesi in parte personali in parte esegetiche, in cui prendeva corpo l'idea che ogni sistema filosofico (non si nominano però ne’ epicurei ne’ stoici) rappresenti la verità da un certo punto di vista; le contraddizioni sono per lo più apparenti, legate a modi espressivi più che a effettivi contenuti. In questa visione universalistica, che abbracciava filosofia, religioni antiche e teologia cristiana, Pico comprendeva non soltanto, con Ficino, gli antichi saggi, non solo i pensatori dell'islam, ma tutta la tradizione magica e, soprattutto, la Cabala ebraica. Egli può considerarsi il vero iniziatore di quell'interesse per la sapienza degli ebrei che diverrà in seguito una vera e propria moda. Di quel sistema teosofico accoglieva aspetti disparati, e la consuetudine con alcuni maestri ebrei non fu mai sufficiente a renderlo padrone di una tradizione decisamente complessa. La discussione delle tesi fu proibita dalle autorità ecclesiastiche, che ne condannarono anche alcune, ma fu pubblicato ugualmente il discorso che doveva esserne la premessa, 1' Oratio de dignitate hominis (la seconda parte fu inserita nell'Apologia del 1487, e l'intera opera apparve, con le Conclusiones, nel 1496).

Il tema della dignità umana, caro alle dispute letterarie del Quattrocento, viene da Pico svolto con accenti originali: l'uomo non è come gli altri esseri, angeli compresi, posto una volta per tutte a un grado determinato della gerarchia del reale. La sua dignità sta proprio nel poter scegliere la propria collocazione, il proprio destino. La libertà concessa da Dio appare cosi la negazione di ogni determinazione ontologica, ed è il presupposto, o la precisazione creazionistica della religiosità individualistica di tipo ficiniano.

Pico verrà in seguito allontanandosi alquanto dal neoplatonismo, e nel De ente et uno (1491), che doveva essere la prima parte di una grande opera sulla concordanza fra Platone e Aristotele, prende nettamente le distanze dal Ficino, interpretando le opere dell'ultimo Platone (in particolare il Parmenide) come esercitazioni dialettiche senza pretese di speculazioni metafisiche sull'Uno. Nell'ultima opera antiastrologica, di cui si dirà in seguito, il rifiuto della sapienza ermetica e persiana è netto, e altrettanto deciso l'avvicinamento ad Aristotele.

Di derivazione fiorentina è la struttura metafisica sottesa a uno dei classici della magia rinascimentale, il De occulta philosophia del medico e teologo Enrico Cornelio Agrippa di Nettesheim (1486-1535), la quale opera, scritta già nel 1510, fu stampata solo nel 1532. Vi si distingue, infatti, una realtà sovraceleste, una celeste e una infraceleste, affermandone tuttavia l'unità. Il problema «magico» è quello di cogliere quei movimenti dello stadio inferiore che favoriscono l'ascesa verso il mondo sovrasensibile.

Quest'ispirazione religiosa del suo pensiero - egli visse intensamente i primi anni della Riforma, cui non aderì mai ufficialmente, e fu in contatto con molti dei suoi maggiori esponenti - lo portò a precisare i limiti entro i quali si dovevano intendere la cosmologia occultistica e le operazioni magiche. Il De incertitudine et vanitate scientiarum (1528) è una denuncia, ispirata a modelli più letterari che filosofici, dell'insufficienza dell'uomo e di ogni suo operare: solo Dio è fonte di valore, solo indirizzandosi a lui e fondandosi sulla sua parola le opere hanno un senso. La vernice polemica dell'opera può trarre in inganno, giacché il fondamento della conoscenza non è per Agrippa il problema di fondo. Si trattava per lui di attribuire a ogni iniziativa (e più che mai al gesto magico) il valore di un rito: «Non vi è scienza che da se stessa meriti una qualche lode, se non quella che deriva dalla purezza del possessore» (e purezza si intende qui in senso squisitamente religioso). Una radicale svalutazione, quindi della possibilità di attribuire un valore autonomo alla storia umana: non a caso numerosi fra i celebratori cinquecenteschi del progresso di scienze e arti e del valore intrinseco a ogni attività attaccarono duramente Agrippa.

L'aspetto religioso caratterizza dunque il primo platonismo rinascimentale, sia nelle sue forme più elevate sia negli epidermici trattati sul bello, sull'amore, sulla donna, opere queste tipiche di ambiente, come le corti o le accademie. Ma altri aspetti del platonismo vennero godendo, più tardi, di una certa fortuna: molti ricercatori guardavano con interesse alla cosmologia pitagorizzante del Timeo di Platone, e anche al particolare atomismo che vi era proposto. Ma è vicenda che riguarda soprattutto personaggi come Keplero, Galilei, gli antiaristotelici del primo Seicento.

Al rapporto filosofia-religione, con accenti che possono far pensare al neoplatonismo, tornerà invece Edward Herbert di Cherbury (1583-1648), ma con motivazioni ben diverse. I conflitti politici prendevano, nell'Inghilterra degli Stuart, la forma di divergenze religiose (non si dimentichi che Carlo I, prima di venir decapitato, cedette su tutti i punti che noi chiameremmo politici, come il controllo delle forze armate, ma non su quelli «religiosi», come la struttura episcopale e l'educazione religiosa dei suoi figli): alla bibliolatria dei gruppi puritani, avversi alle pratiche liturgiche dell'anglicanesimo, si opponeva il ritualismo tradizionalistico della Chiesa d'Inghilterra, che in teologia non accettava la rigida dottrina calvinista della predestinazione.

Diplomatico al servizio degli Stuart - nel 1629 venne creato barone di Cherbury - Herbert venne elaborando il tema della religione naturale a partire da elementi eclettici. Il suo De veritate (1624; il titolo completo distingue significativamente la verità dalla rivelazione oltreché dal verosimile, possibile e falso) sviluppa una gnoseologia derivata dalla vecchia intuizione di una rete di corrispondenze fra macrocosmo e microcosmo, individuando quattro classi fondamentali tra il numero indefinito di facoltà che scandiscono quest'armonia: l'istinto naturale, i sensi interni (libertà dell'arbitrio, coscienza e simili), i sensi esterni, il pensiero discorsivo (facoltà di usare categorie, cioè più o meno la logica). L'uso corretto di tali facoltà consente all'uomo di pervenire alle «nozioni comuni» (l'espressione è di derivazione stoica). Primarie fra queste sono quelle religiose, che si possono compendiare nell'esistenza di un Ente supremo, che va adorato e che punisce o premia per il nostro comportamento. La rivelazione biblica è da intendere come conferma di quel che ci detta la ragione naturale, mentre la forma in cui tale rivelazione si esprime contiene molti elementi estranei alla ragione, modi espressivi storicamente determinati e quindi irrilevanti.

Gli atteggiamenti bibliocentrici della contestazione puritana sono dunque irrazionali; rimaneva però il problema delle pratiche liturgiche anglicane, gli aspetti esteriori del culto che non potevano aver giustificazione a partire dalle tesi di Herbert. Ma la risposta implicita in esse, ovvia negli ambienti anglicani e legalisti, era che proprio perché il loro significato religioso era nullo le pratiche esteriori andavano rispettate, omaggio non a Dio, che in altro modo va adorato, ma al Re e alla struttura del potere, espressioni visibili dell'Ordine. L'apparato gnoseologico era qui al servizio di una filosofia della religione, e di questa erano trasparenti i contenuti e le finalità politiche.