Per gli stoici c'erano soltanto due
categorie di uomini, i saggi e gli stolti,
e consideravano i cosiddetti «progredienti»
non come una categoria intermedia, ma come uno stadio di passaggio destituito
di per sé di valore morale. In questo senso la precettistica che prescrive
il comportamento da tenere per potere diventare
saggio non faceva parte dell'etica teorica. Zenone sosteneva che tutti
possono raggiungere la virtù, anche se di fatto riteneva la
saggezza un ideale difficilmente raggiungibile. Egli non concepiva il
progresso dalla malvagità alla virtù come un passaggio graduale: come
chi affoga, affoga tanto se si trova a pochi centimetri al
di sotto della superficie del mare quanto a molte miglia, così
colui che sta per raggiungere la virtù è sempre ancora malvagio, finché
non l'abbia raggiunta. Infatti la virtù non si acquisisce gradualmente, ma si possiede
all'improvviso e bruscamente. Sulla precettistica si era aperto
un dibattito all'interno della Stoa subito
dopo la morte di Zenone, tra Cleante e Crisippo, sostenitori dell'utilità
dei precetti per l'acquisizione della virtù,
e Aristone che la negava. Zenone riteneva
comunque che il saggio, in quanto depositario
di tutte le virtù, possedesse quei requisiti che ne fanno un paradigma,
un esempio da additare a tutti gli uomini. Proprio per l'acquisizione
della virtù egli attribuiva alla descrizione del comportamento del saggio
un valore fondamentale. Infatti solo il saggio
è in possesso della verità che si identifica con lo stato del suo egemonico,
egli solo possiede la scienza e a sua volta l'esistenza della scienza
si fonda sul fatto che il saggio esiste. La scienza di cui soltanto
il saggio stoico è in possesso è una comprensione stabile e sicura che
non può essere scossa a causa di nessun tipo di argomentazione,
perché proviene da una disposizione retta dell'egemonico, mentre le
comprensioni degli uomini comuni non possedendo questa caratteristica,
non sono altro che opinioni. Solo il saggio non formula
opinioni ed è quindi infallibile. Questo non significa però che egli
sia onnisciente, perché la conoscenza di cui è in possesso
è la conoscenza del bene e del male. Zenone aveva identificato
il fine nel vivere coerentemente, vale a dire nel vivere in armonia
con il proprio logos. Nell'armonia consiste la virtù e anche la felicità,
nel disaccordo consiste il vizio. Egli riteneva che soltanto colui che possiede la conoscenza di ciò che è bene e di ciò
che è male sia in grado di realizzare questa interna coerenza. Nel sottolineare
l'accordo del logos con se stesso Zenone riprendeva la tesi socratica
che ognuno agisce in base a ciò che ritiene
bene, e chi conosce il bene non può entrare in contraddizione con se
stesso. Zenone poneva a garanzia della coerenza interna la scienza e
la saldezza del logos. Questa interpretazione non è in contrasto con
il fatto che le fonti attribuiscono a Zenone anche un'altra formulazione
del fine come «vivere coerentemente alla natura». Sull'aggiunta 'alla
natura' si è discusso: c'è chi vi ha visto
un chiarimento, nel senso che Zenone avrebbe identificato il logos e
la natura umana; chi vi ha scorto il segno di un passaggio di Zenone
da posizioni ciniche, per le quali la coerenza del saggio è sufficiente
a determinare il comportamento corretto, a posizioni più mature, nelle
quali il riferimento alla natura dovrebbe mitigare il rigorismo cinico. Comunque la tradizione ci informa che il concetto di natura non ha un significato univoco per tutti i rappresentanti della scuola e, anche nella filosofia dello stesso Zenone, non vi sono dubbi che esso abbia subito un'evoluzione. Cleante sviluppò il concetto di 'natura comune', mentre Crisippo operò una sintesi nella posizione dei suoi predecessori sostenendo che si deve vivere conformemente sia alla natura comune che a quella umana, dal momento che le nostre nature sono parti della natura del tutto. Il fine dell'uomo è dunque quello di vivere secondo l'esperienza delle cose che accadono in natura: ciò significa vivere cercando di comprendere la razionalità dell'universo e la collocazione dell'uomo in essa. Nella formulazione di Crisippo la natura diventa la fonte assoluta dei valori morali, perché la natura umana si è pienamente adeguata alla natura universale.
Sugli indifferenti-preferibili
si aprì una disputa all'interno della scuola tra Aristone
e Crisippo. Aristone, fedele alle posizioni
socratico-ciniche, da cui anche Zenone era partito, radicalizzava la sua posizione di rifiuto dei beni naturali,
interpretando la formula originaria di Zenone nel senso di vivere indifferentemente
verso tutto ciò che non sia virtù o vizio.
Così Aristone si rifiuta di considerare preferibili
le cose intermedie tra la virtù e il vizio, ma le chiama assolutamente
indifferenti. Infatti non sempre la salute
o la malattia, che sembra abbiano un valore dal punto di vista
dell'inclinazione naturale, sono l'una da preferire, l'altra da rifiutare,
perché ci sono casi in cui bisogna preferire la malattia alla salute,
la povertà alla ricchezza. Il loro valore è quindi strettamente legato
alle circostanze ed è determinato esclusivamente dal giudizio del saggio,
che di volta in volta accetta o rifiuta l'una
cosa o l'altra. Ad Aristone
Crisippo replicava che se si scelgono le cose rifiutabili anziché quelle
preferibili, dal momento che tanto le une quanto le altre possono essere
accolte, si rischia di distruggere la vita stessa e, con essa
la possibilità di realizzare la moralità. Tuttavia anche per Crisippo
la salute non è sempre preferibile, perché, pur essendo una
cosa secondo natura, non possiede un valore intrinseco. Infatti
l'indifferente può essere inteso in due sensi: come ciò che non essendo
né bene né male non può essere oggetto di scelta o di rifiuto,
perché soltanto la virtù è degna di essere scelta e il male di essere
fuggito; oppure come ciò che non è in grado di muovere l'impulso né
la repulsione, come l'avere in testa un numero pari o dispari di
capelli. Ora le cose secondo natura rientrano
nel primo significato di indifferente, ma non rientrano nel secondo
(che è quello di Aristone, il quale così condanna
l'uomo all'inattività) poiché sono in grado di muovere l'inclinazione,
e quindi sono degne di essere accolte. Le cose secondo
natura sono indifferenti, se considerate in rapporto al conseguimento
del fine e della felicità, a cui non contribuiscono in alcun modo. Esse
non giovano né danneggiano e quindi il loro valore dipende dall'uso
che se ne fa. Soltanto il bene, in senso proprio,
è ciò che giova, essendo «utilità o non diverso
dall'utilità», in quanto nessuna cosa, all'infuori del bene morale,
ha un valore assoluto. Le cose secondo natura
forniscono la materia della virtù, perché l'azione virtuosa ha bisogno
di un contenuto a cui applicarsi, ma esse non influiscono minimamente
nel qualificare l'azione morale. Con la dottrina dell
"appropriazione naturale' (oikeìosis) Crisippo cercò di dare
un fondamento filosofico al rapporto che collega le cose preferibili
alla virtù. Appena nasce, l'essere vivente
viene a contatto con il mondo esterno e prova alcune sensazioni: percepisce
il suo essere come proprio e indirizza i suoi sforzi per conservarlo.
E poiché la prima cosa che l'essere vivente percepisce e verso la quale
si indirizza il primo istinto è la propria
costituzione, nella conservazione di essa consiste anche la prima cosa
appropriata. L'essere vivente fugge le cose nocive e ricerca quelle
salutari. A mano a mano però che il logos si sviluppa, l'uomo passa
dalla ricerca delle prime cose secondo natura, a cui lo spinge il primo
istinto per la conservazione del proprio essere, alla virtù e alla sapienza,
a cui lo sospinge la ragione che sopraggiunge in lui come un artefice
che forgia l'istinto. Con molta probabilità Zenone non aveva
formulato ancora la dottrina dell'appropriazione naturale, anche se
ne aveva preparato il terreno. Infatti
per istituire la relazione logica tra il fine dell'uomo come essere
razionale e la natura stessa bisogna presupporre l'affermazione di Crisippo
che le nostre nature sono parti della natura dell'universo. Ciò comporta
che ci sia una continuità tra l'inclinazione e il logos, che ciò che
è secondo natura per l'uomo si accordi successivamente
con il logos. Infatti per Crisippo colui che vuole vivere secondo natura
deve comprendere la ragione di ogni accadimento e adeguarsi a essa,
se non vuole entrare in contrasto con l'ordinamento dell'universo e,
di conseguenza, anche con se stesso. Nella concezione di Crisippo dunque
la natura diventa il concetto centrale che unifica la fisica e l'etica,
in quanto principio che regola ogni accadimento
e che fonda nel contempo i valori morali. Mentre il concetto di natura
elaborato da Zenone non escludeva la possibilità dell'interpretazione
di Aristone, che
giungeva a rifiutare la fisica, il concetto di natura di Crisippo la
elimina definitivamente. La natura si esplica
in vari stadi, che vanno dalla natura presente nelle piante e negli
animali fino alla natura universale, nel senso che la natura di ciascuna
cosa è la struttura e il modello di comportamento che la natura universale
le assegna. Da questo punto di vista conforme alla natura non è soltanto
la virtù, ma lo sono anche le cose preferibili. Questo significa che
la conformità alla natura attraversa vari stadi prima di diventare un
completo accordo con la natura universale, in cui consiste la virtù.
Sul problema dell'unità e della molteplicità
della virtù si aprì, dopo la morte di Zenone, una polemica tra i suoi
successori. Cleante aveva cercato di evitare le critiche rivolte alla
posizione di Zenone definendo le quattro virtù principali come manifestazioni
diverse della tensione vitale dell'anima e sostituendo la saggezza con
la padronanza di sé. Egli accentuava l'importanza della forza morale,
che era rimasta in ombra nella formulazione di Zenone e che era presente
nella concezione socratico-cinica. Aristone
invece sostenne con forza che come la potenza dell'anima con cui ragioniamo è una soltanto, così la virtù dell'anima non può
essere che una, la scienza dei beni e dei mali. Dal postulato fondamentale
della dottrina secondo cui al di fuori della virtù e del vizio nient'altro
ha valore, derivava infatti l'unicità della virtù. Le virtù
particolari non sono modificazioni interne dell'egemonico, ma sono processi
esterni. La virtù è una, ma è chiamata con molteplici nomi a
seconda della disposizione relativa alle cose. E
come se qualcuno di noi volesse chiamare la vista quando percepisce
le cose bianche 'biancovista', e quando percepisce
le cose nere 'nerovista'. Per questo quando
la virtù controlla il desiderio, definisce la giusta misura dei piaceri
e stabilisce se sono opportuni, si chiama 'moderazione'; se viene meno
l'occasione di porre un limite ai piaceri, la moderazione cessa di esistere
ed esiste soltanto la virtù. Contro la dottrina di Aristone, che minacciava di fare
prevalere una interpretazione della dottrina zenoniana
rigidamente monistica, reagisce Crisippo.
Pur sostenendo l'unicità della virtù, Crisippo ritiene che
le diverse virtù sono qualitativamente differenti le une dalle altre.
La loro unità è data dal fatto che esse si implicano
le une con le altre. Per questo colui che ne
possiede una, possiede anche tutte le altre. La metafora che le descrive
è l'arco: come le pietre dell'arco non si possono separare, perché sono
causa le une per le altre del rimanere in piedi, così le virtù
sono proprietà dell'egemonico che si compenetrano reciprocamente. La
virtù, infatti, non è altro che l'egemonico nel suo stato di salute
e quindi «ragione coerente, salda e immutabile»
[1]
. Contro Aristone Crisippo rivendica che le virtù sono vere e proprie
modificazioni dell'egemonico, in quanto sono
qualità, e pertanto non cessano di esistere se viene meno la circostanza
a cui esse sono correlate. Per questa ragione ogni virtù ha una sfera
d'azione separata e si deve apprendere separatamente. Zenone aveva definito l'azione appropriata
(kathekon) quell'azione
che, dopo essere stata compiuta, può essere
giustificata razionalmente perché è conforme alla natura. Egli aveva
inoltre precisato che l'azione appropriata «è un atto coerente alle
disposizioni naturali», sottolineando la connessione
che c'è tra la natura dell'agente e il tipo dell'azione che viene compiuta.
In quanto è un'azione normativa che si accorda con la natura di colui
che la compie, essa si estende anche agli animali e alle piante:
nell'uomo è un'azione che si accorda con la ragione. È chiaro dunque
che la definizione di azione appropriata, facendo riferimento alla natura come
norma morale di comportamento, include anche l'azione appropriata perfetta
del saggio (tèleion kathekon). Di per sé le azioni appropriate non
sono né buone né cattive, perché il loro valore dipende dalla disposizione
morale dell'agente. Tanto il saggio quanto l'uomo medio compiono
azioni appropriate, quando queste siano conformi alla natura e non siano
in contrasto con la legge universale. Ma anche se da un punto di vista
esteriore il saggio e lo stolto compiono le stesse azioni, come per
esempio camminare, esse sono profondamente diverse, per due ragioni,
l'una formale e l'altra di contenuto, che fanno del camminare del saggio
un camminare 'saggiamente', e di quello dello stolto semplicemente un
'camminare'. La ragione formale risiede nel logos che soltanto
nel saggio è retto. Poiché nel saggio la disposizione interiore è sempre retta,
l'azione che ne scaturisce non può che essere retta (katòrthoma),
a prescindere dal suo contenuto, così come l'azione dell'uomo medio,
provenendo da una disposizione non perfetta, è un'azione appropriata
media (meson kathekon). La seconda ragione
consiste nel contenuto: mentre l'uomo medio sceglie le cose preferibili
e rifiuta quelle contrarie, facendone il principio dell'azione, il saggio
non le fa oggetto di scelta, perché esse costituiscono semplicemente
la materia della sua azione. Infatti il saggio
sceglie soltanto e sempre la virtù. Per Crisippo la conformità alla natura
costituisce dunque il criterio dell'azione, sia per il saggio che per
lo stolto, purché sia salvo il principio che solo la virtù è bene e
degna di essere scelta e solo il vizio è male. Per agire moralmente
si devono accogliere le cose preferibili e rigettare quelle contrarie
essenzialmente per due motivi: 1) perché la natura ci dà propensioni
verso la virtù e il bene morale, per cui, seguendola, non entriamo in contrasto con la natura
universale e la sua ragione; 2) perché laddove l'uomo non può determinare
con certezza ciò che esige la natura universale, la conformità alla
natura è una guida che ci impedisce di discostarci dal volere della
ragione universale. Infatti soltanto il saggio, che possiede un logos perfetto,
può non seguire la natura in quei casi eccezionali in cui la conformità
alla natura entra in contrasto con l'accordo con la ragione universale,
compiendo quelle che gli stoici chiamano «azioni appropriate secondo
le circostanze», come per esempio cibarsi di carne umana. Gli stoici
svilupparono tutta una casistica di azioni
appropriate, o doveri (come saranno denominati più tardi dai romani)
che devono essere compiuti perché gli uomini imparino la via che conduce
alla virtù. Tuttavia anche l'uomo medio che compia
tutte le azioni appropriate senza trascurarne nessuna non è ancora un
uomo virtuoso e saggio. Egli lo diventerà soltanto quando le
sue azioni abbiano acquistato quella stabilità
e saldezza che proviene dall'acquisizione improvvisa e totale della
virtù, dall'essere finalmente diventato saggio.
Crisippo modificò la teoria di Zenone
accentuando l'aspetto intellettualistico dell'emozione. L'emozione non
è la conseguenza di un giudizio sbagliato, ma si identifica
proprio con il giudizio. Il giudizio emozionale si distingue da quello
conoscitivo sbagliato perché, suscitando un istinto violento e smodato,
oltrepassa la misura imposta dalla ragione. Esso è detto «irrazionale»
non perché è caratterizzato dall'assenza della ragione, ma in
quanto consapevolmente non obbedisce alla ragione: è la stessa
ragione che si volge contro se stessa. Infatti
il comportamento delle persone in preda alle emozioni è caratterizzato
da due giudizi, il giudizio sul bene o sul male di quella determinata
cosa (per esempio cedere all'ira) e il giudizio che stima conveniente
abbandonarvisi. Il giudizio emozionale si
identifica con il secondo giudizio. La teoria dell'emozione-giudizio
di Crisippo è perfettamente coerente con i presupposti della sua dottrina
dell'anima, a cui egli riconosce solo un'unica facoltà, quella razionale.
Se tutti i processi psichici sono alterazione di un egemonico razionale,
l'emozione non può che essere un 'modo di essere' della ragione.
Nello stesso tempo poiché lo stato fisico non è diverso dalla disposizione
morale, in quanto soltanto una sufficiente
tensione dello pneuma dell'anima determina un egemonico sano, e quindi
virtuoso, l'emozione può anche essere identificata dal punto di vista
fisico con un allentamento della tensione dell'anima e quindi con le
dilatazioni o le contrazioni dello pneuma. Su questa base già Zenone
aveva ammesso quattro passioni principali (piacere, dolore, timore e
desiderio) a cui sono subordinate tutte le altre. Crisippo riteneva che la cosa più
importante fosse prevenire l'emozione, perché era convinto che l'imprevisto
contribuisce a scatenare l'emozione, ma una volta che essa si fosse
determinata, egli riteneva che fosse necessario estirparla. Ed elencava
una serie di precetti per curare coloro che sono
in preda all'emozione, senza respingere l'idea che, per raggiungere
questo scopo, fosse lecito curare ciascuno servendosi anche di dottrine
non stoiche. Attribuendo all'uomo la ragione, la
natura gli ha fornito la possibilità di un comportamento buono o
cattivo e ne ha fatto un agente autonomo. Crisippo sostiene che tutto
il male viene agli uomini dall'esterno. Ciò equivale a dire che le cause
della distorsione della ragione appartengono alla catena causale esterna
del fato, ma che la loro azione causale si può esplicare
soltanto mediante la collaborazione della causa interna, ovvero dell'assenso
dell'uomo. Per tentare di dare una spiegazione significativa
al fatto che l'uomo, pur essendo inserito nella concatenazione causale
del fato, è responsabile delle sue azioni, gli stoici hanno riposto
il bene in un bene senza qualificazioni determinate, identificandolo
con la disposizione coerente dell'anima dell'agente e hanno privato
di valore morale le cose secondo natura. Per questa ragione essi insistono,
a differenza di Aristotele, nel sottolineare
che il risultato esterno di un'azione non conta, e che soltanto l'intenzione
qualifica un'azione. L'esempio dell'assoluta coerenza e autonomia del
logos è il saggio totalmente privo di passioni (apathès) e quindi libero dal condizionamento di fattori esterni.
Nel sistema filosofico stoico, costruito intorno a
un concetto di natura come principio unico che spiega il reale e che
nello stesso tempo è fonte dei valori morali, l'essere e il dover essere
coincidono e il saggio stoico ne costituisce la perfetta realizzazione. |