IL VIVERE SECONDO NATURA


Gli stoici antichi dividono l'etica nella dottrina dell'impulso, in quella del bene e del male, in quella delle passioni, della virtù, del primo valore, delle azioni, dei doveri e delle esortazioni e dissuasioni. Diogene Laerzio attribuisce questa divisione a più maestri stoici, tra i quali Crisippo, ma esclude Zenone e Cleante, che avrebbero diviso la materia in un modo più semplice.

Per gli stoici c'erano soltanto due categorie di uomini, i saggi e gli stolti, e consideravano i cosiddetti «progredienti» non come una categoria intermedia, ma come uno stadio di passaggio destituito di per sé di valore morale. In questo senso la precettistica che prescrive il comportamento da tenere per potere diventare saggio non faceva parte dell'etica teorica. Zenone sosteneva che tutti possono raggiungere la virtù, anche se di fatto riteneva la saggezza un ideale difficilmente raggiungibile. Egli non concepiva il progresso dalla malvagità alla virtù come un passaggio graduale: come chi affoga, affoga tanto se si trova a pochi centimetri al di sotto della superficie del mare quanto a molte miglia, così colui che sta per raggiungere la virtù è sempre ancora malvagio, finché non l'abbia raggiunta. Infatti la virtù non si acquisisce gradualmente, ma si possiede all'improvviso e bruscamente.

Sulla precettistica si era aperto un dibattito all'interno della Stoa subito dopo la morte di Zenone, tra Cleante e Crisippo, sostenitori dell'utilità dei precetti per l'acquisizione della virtù, e Aristone che la negava. Zenone riteneva comunque che il saggio, in quanto depositario di tutte le virtù, possedesse quei requisiti che ne fanno un paradigma, un esempio da additare a tutti gli uomini. Proprio per l'acquisizione della virtù egli attribuiva alla descrizione del comportamento del saggio un valore fondamentale. Infatti solo il saggio è in possesso della verità che si identifica con lo stato del suo egemonico, egli solo possiede la scienza e a sua volta l'esistenza della scienza si fonda sul fatto che il saggio esiste. La scienza di cui soltanto il saggio stoico è in possesso è una comprensione stabile e sicura che non può essere scossa a causa di nessun tipo di argomentazione, perché proviene da una disposizione retta dell'egemonico, mentre le comprensioni degli uomini comuni non possedendo questa caratteristica, non sono altro che opinioni. Solo il saggio non formula opinioni ed è quindi infallibile. Questo non significa però che egli sia onnisciente, perché la conoscenza di cui è in possesso è la conoscenza del bene e del male.

Zenone aveva identificato il fine nel vivere coerentemente, vale a dire nel vivere in armonia con il proprio logos. Nell'armonia consiste la virtù e anche la felicità, nel disaccordo consiste il vizio. Egli riteneva che soltanto colui che possiede la conoscenza di ciò che è bene e di ciò che è male sia in grado di realizzare questa interna coerenza. Nel sottolineare l'accordo del logos con se stesso Zenone riprendeva la tesi socratica che ognuno agisce in base a ciò che ritiene bene, e chi conosce il bene non può entrare in contraddizione con se stesso. Zenone poneva a garanzia della coerenza interna la scienza e la saldezza del logos. Questa interpretazione non è in contrasto con il fatto che le fonti attribuiscono a Zenone anche un'altra formulazione del fine come «vivere coerentemente alla natura». Sull'aggiunta 'alla natura' si è discusso: c'è chi vi ha visto un chiarimento, nel senso che Zenone avrebbe identificato il logos e la natura umana; chi vi ha scorto il segno di un passaggio di Zenone da posizioni ciniche, per le quali la coerenza del saggio è sufficiente a determinare il comportamento corretto, a posizioni più mature, nelle quali il riferimento alla natura dovrebbe mitigare il rigorismo cinico.

Comunque la tradizione ci informa che il concetto di natura non ha un significato univoco per tutti i rappresentanti della scuola e, anche nella filosofia dello stesso Zenone, non vi sono dubbi che esso abbia subito un'evoluzione. Cleante sviluppò il concetto di 'natura comune', mentre Crisippo operò una sintesi nella posizione dei suoi predecessori sostenendo che si deve vivere conformemente sia alla natura comune che a quella umana, dal momento che le nostre nature sono parti della natura del tutto. Il fine dell'uomo è dunque quello di vivere secondo l'esperienza delle cose che accadono in natura: ciò significa vivere cercando di comprendere la razionalità dell'universo e la collocazione dell'uomo in essa. Nella formulazione di Crisippo la natura diventa la fonte assoluta dei valori morali, perché la natura umana si è pienamente adeguata alla natura universale.

La nozione stoica di comportamenti diversi divenne l'elemento fondamentale dell'etica antica. Sul sarcofago, di cui è riprodotto il rilievo, di un ragazzo morto prematuramente (Ostia, 150 d.C.) il padre si fece ritrarre in atteggiamenti impensabili in epoca classica: cura personalmente il fanciullo tenendolo affettuosamente in braccio; si interessa della sua educazione, sorveglia l'allattamento materno (consigliato dagli Stoici come più 'naturale' del ricorso alle balie).

Le fonti antiche ci informano che Zenone aveva polemizzato con l'accademico Polemone riguardo al concetto di «vita secondo natura». Questa disputa non riguardava la virtù, che tanto per Polemone quanto per Zenone era il maggiore dei beni, ma la valutazione dei 'beni naturali'. Per Zenone l'unico bene era la virtù e l'unico male il vizio, mentre tutte le altre cose non erano né beni né mali. Infatti egli riduceva il bene alla sola virtù mediante l'identificazione del bene (agathòn) con il bene morale (kalòn). Per Polemone esistevano, accanto alla virtù, anche altri beni a cui la natura ci indirizza fin dalla nascita. Zenone condivideva dunque la tesi che il fine consistesse nel vivere secondo natura, ma identificava la vita secondo natura con la vita secondo ragione e con la vita secondo virtù. Polemone connetteva invece strettamente i beni naturali e la virtù che insieme contribuivano a realizzare la vita secondo natura. La disputa con Polemone condusse Zenone a modificare la dottrina delle cose intermedie tra virtù e vizio, e a riconoscere che alcune di esse, per la loro conformità alla natura, potevano essere preferibili ad altre, pur rimanendo incommensurabili rispetto alla virtù. Non è la distanza maggiore o minore dalla virtù che rende una cosa preferibile, perché le cose preferibili non si trovano disposte in una scala gerarchica che conduce fino al bene. Infatti il valore delle cose preferibili e della virtù non è diverso per quantità, bensì per qualità. Queste cose hanno un valore relativo (axia), che non ha nulla a che fare con la virtù, ma che consiste nella 'conformità alla natura', e la natura non è soltanto ragione, ma anche istinto e conservazione della vita. Zenone era infatti partito dalla constatazione che cose come la salute e la ricchezza erano preferite da tutti gli uomini, mentre le cose contrarie, come la malattia e la povertà erano respinte. Se dal punto di vista del logos secondo natura è soltanto la virtù, dal punto di vista dell'inclinazione secondo natura sono tutte quelle cose che servono alla conservazione dell'essere vivente. In questo senso esse sono anche denominate «le prime cose secondo natura», perché sono quelle che servono a mantenerlo in vita. Sembra dunque che l'esigenza da cui era partito Zenone fosse la necessità di preferire le cose secondo natura rispetto a quelle contrarie, se si voleva sopravvivere.

Sugli indifferenti-preferibili si aprì una disputa all'interno della scuola tra Aristone e Crisippo. Aristone, fedele alle posizioni socratico-ciniche, da cui anche Zenone era partito, radicalizzava la sua posizione di rifiuto dei beni naturali, interpretando la formula originaria di Zenone nel senso di vivere indifferentemente verso tutto ciò che non sia virtù o vizio. Così Aristone si rifiuta di considerare preferibili le cose intermedie tra la virtù e il vizio, ma le chiama assolutamente indifferenti. Infatti non sempre la salute o la malattia, che sembra abbiano un valore dal punto di vista dell'inclinazione naturale, sono l'una da preferire, l'altra da rifiutare, perché ci sono casi in cui bisogna preferire la malattia alla salute, la povertà alla ricchezza. Il loro valore è quindi strettamente legato alle circostanze ed è determinato esclusivamente dal giudizio del saggio, che di volta in volta accetta o rifiuta l'una cosa o l'altra.

Ad Aristone Crisippo replicava che se si scelgono le cose rifiutabili anziché quelle preferibili, dal momento che tanto le une quanto le altre possono essere accolte, si rischia di distruggere la vita stessa e, con essa la possibilità di realizzare la moralità. Tuttavia anche per Crisippo la salute non è sempre preferibile, perché, pur essendo una cosa secondo natura, non possiede un valore intrinseco. Infatti l'indifferente può essere inteso in due sensi: come ciò che non essendo né bene né male non può essere oggetto di scelta o di rifiuto, perché soltanto la virtù è degna di essere scelta e il male di essere fuggito; oppure come ciò che non è in grado di muovere l'impulso né la repulsione, come l'avere in testa un numero pari o dispari di capelli. Ora le cose secondo natura rientrano nel primo significato di indifferente, ma non rientrano nel secondo (che è quello di Aristone, il quale così condanna l'uomo all'inattività) poiché sono in grado di muovere l'inclinazione, e quindi sono degne di essere accolte. Le cose secondo natura sono indifferenti, se considerate in rapporto al conseguimento del fine e della felicità, a cui non contribuiscono in alcun modo. Esse non giovano né danneggiano e quindi il loro valore dipende dall'uso che se ne fa. Soltanto il bene, in senso proprio, è ciò che giova, essendo «utilità o non diverso dall'utilità», in quanto nessuna cosa, all'infuori del bene morale, ha un valore assoluto. Le cose secondo natura forniscono la materia della virtù, perché l'azione virtuosa ha bisogno di un contenuto a cui applicarsi, ma esse non influiscono minimamente nel qualificare l'azione morale.

Con la dottrina dell "appropriazione naturale' (oikeìosis) Crisippo cercò di dare un fondamento filosofico al rapporto che collega le cose preferibili alla virtù. Appena nasce, l'essere vivente viene a contatto con il mondo esterno e prova alcune sensazioni: percepisce il suo essere come proprio e indirizza i suoi sforzi per conservarlo. E poiché la prima cosa che l'essere vivente percepisce e verso la quale si indirizza il primo istinto è la propria costituzione, nella conservazione di essa consiste anche la prima cosa appropriata. L'essere vivente fugge le cose nocive e ricerca quelle salutari. A mano a mano però che il logos si sviluppa, l'uomo passa dalla ricerca delle prime cose secondo natura, a cui lo spinge il primo istinto per la conservazione del proprio essere, alla virtù e alla sapienza, a cui lo sospinge la ragione che sopraggiunge in lui come un artefice che forgia l'istinto.

Con molta probabilità Zenone non aveva formulato ancora la dottrina dell'appropriazione naturale, anche se ne aveva preparato il terreno. Infatti per istituire la relazione logica tra il fine dell'uomo come essere razionale e la natura stessa bisogna presupporre l'affermazione di Crisippo che le nostre nature sono parti della natura dell'universo. Ciò comporta che ci sia una continuità tra l'inclinazione e il logos, che ciò che è secondo natura per l'uomo si accordi successivamente con il logos. Infatti per Crisippo colui che vuole vivere secondo natura deve comprendere la ragione di ogni accadimento e adeguarsi a essa, se non vuole entrare in contrasto con l'ordinamento dell'universo e, di conseguenza, anche con se stesso. Nella concezione di Crisippo dunque la natura diventa il concetto centrale che unifica la fisica e l'etica, in quanto principio che regola ogni accadimento e che fonda nel contempo i valori morali. Mentre il concetto di natura elaborato da Zenone non escludeva la possibilità dell'interpretazione di Aristone, che giungeva a rifiutare la fisica, il concetto di natura di Crisippo la elimina definitivamente. La natura si esplica in vari stadi, che vanno dalla natura presente nelle piante e negli animali fino alla natura universale, nel senso che la natura di ciascuna cosa è la struttura e il modello di comportamento che la natura universale le assegna. Da questo punto di vista conforme alla natura non è soltanto la virtù, ma lo sono anche le cose preferibili. Questo significa che la conformità alla natura attraversa vari stadi prima di diventare un completo accordo con la natura universale, in cui consiste la virtù.

 

 

LA VIRTU'


La virtù consiste in una disposizione coerente dell'anima, e deve essere ricercata per se stessa a prescindere dal conseguimento del risultato. La virtù è quindi auto sufficiente per il raggiungimento del fine e della felicità, e la felicità è un corso di vita armonioso. Poiché la virtù consiste nella rettitudine del logos, a essa si giunge attraverso lo sviluppo delineato nella dottrina dell'appropriazione, ma non è la conclusione per tutti di questo processo, perché richiede un impegno e uno sforzo proprio soltanto del saggio. Infatti la virtù consiste nella perfetta armonia del logos umano, giunto alla sua pienezza e perfezione con la razionalità della natura universale. In questo senso la virtù è una totalità e non può che essere una soltanto. Essa si identifica con il sommo bene e, in quanto tale, non ammette gradi. Infatti non si può essere più o meno virtuosi, ma o si è virtuosi o si è malvagi. Fin qui è stato delineato l'aspetto formale della virtù. Se ci si chiede in che cosa consiste il suo contenuto, la risposta è che essa è una forma di conoscenza, è un'arte che ha il proprio fine in se stessa.

Fu merito dello Stoicismo contestare, per la prima volta nella storia del pensiero, l'istituto della schiavitù per affermare l'universale dignità di tutti gli esseri umani, compresi i barbari. Un clamoroso effetto della nuova mentalità è visibile nel monumento eretto a Pergamo nel 230 a.C. per celebrare la vittoria sui Galati. Il Galata suicida non esalta il vincitore ma la forza, il coraggio e persino la grandezza morale dei 'barbari' sconfitti. Pur non idealizzando la rudezza dei Galati, che combattevano nudi, così come appare dalla statua, essa ritrae un orgoglioso guerriero che si dà la morte dopo aver ucciso la moglie per non cadere in mani nemiche.

Già Socrate aveva identificato la virtù unica con la scienza dei beni e dei mali. Zenone si era ricollegato a Socrate perché, pur ammettendo che le virtù sono quattro, saggezza, coraggio, temperanza e giustizia, le riconduceva tutte a differenti modi di essere della virtù unica, che egli identificava nella saggezza (phrònesis). La saggezza era dunque una scienza (epistemè), che ricopriva sia l'ambito della sapienza teorica (sophia) che di quella pratica, poiché è conoscenza di ciò che è bene e male e, immediatamente, anche di ciò che si deve fare e di ciò che non si deve fare.

Sul problema dell'unità e della molteplicità della virtù si aprì, dopo la morte di Zenone, una polemica tra i suoi successori. Cleante aveva cercato di evitare le critiche rivolte alla posizione di Zenone definendo le quattro virtù principali come manifestazioni diverse della tensione vitale dell'anima e sostituendo la saggezza con la padronanza di sé. Egli accentuava l'importanza della forza morale, che era rimasta in ombra nella formulazione di Zenone e che era presente nella concezione socratico-cinica. Aristone invece sostenne con forza che come la potenza dell'anima con cui ragioniamo è una soltanto, così la virtù dell'anima non può essere che una, la scienza dei beni e dei mali. Dal postulato fondamentale della dottrina secondo cui al di fuori della virtù e del vizio nient'altro ha valore, derivava infatti l'unicità della virtù. Le virtù particolari non sono modificazioni interne dell'egemonico, ma sono processi esterni. La virtù è una, ma è chiamata con molteplici nomi a seconda della disposizione relativa alle cose. E come se qualcuno di noi volesse chiamare la vista quando percepisce le cose bianche 'biancovista', e quando percepisce le cose nere 'nerovista'. Per questo quando la virtù controlla il desiderio, definisce la giusta misura dei piaceri e stabilisce se sono opportuni, si chiama 'moderazione'; se viene meno l'occasione di porre un limite ai piaceri, la moderazione cessa di esistere ed esiste soltanto la virtù.

Contro la dottrina di Aristone, che minacciava di fare prevalere una interpretazione della dottrina zenoniana rigidamente monistica, reagisce Crisippo. Pur sostenendo l'unicità della virtù, Crisippo ritiene che le diverse virtù sono qualitativamente differenti le une dalle altre. La loro unità è data dal fatto che esse si implicano le une con le altre. Per questo colui che ne possiede una, possiede anche tutte le altre. La metafora che le descrive è l'arco: come le pietre dell'arco non si possono separare, perché sono causa le une per le altre del rimanere in piedi, così le virtù sono proprietà dell'egemonico che si compenetrano reciprocamente. La virtù, infatti, non è altro che l'egemonico nel suo stato di salute e quindi «ragione coerente, salda e immutabile» [1] . Contro Aristone Crisippo rivendica che le virtù sono vere e proprie modificazioni dell'egemonico, in quanto sono qualità, e pertanto non cessano di esistere se viene meno la circostanza a cui esse sono correlate. Per questa ragione ogni virtù ha una sfera d'azione separata e si deve apprendere separatamente.

Zenone aveva definito l'azione appropriata (kathekon) quell'azione che, dopo essere stata compiuta, può essere giustificata razionalmente perché è conforme alla natura. Egli aveva inoltre precisato che l'azione appropriata «è un atto coerente alle disposizioni naturali», sottolineando la connessione che c'è tra la natura dell'agente e il tipo dell'azione che viene compiuta. In quanto è un'azione normativa che si accorda con la natura di colui che la compie, essa si estende anche agli animali e alle piante: nell'uomo è un'azione che si accorda con la ragione. È chiaro dunque che la definizione di azione appropriata, facendo riferimento alla natura come norma morale di comportamento, include anche l'azione appropriata perfetta del saggio (tèleion kathekon).

Di per sé le azioni appropriate non sono né buone né cattive, perché il loro valore dipende dalla disposizione morale dell'agente. Tanto il saggio quanto l'uomo medio compiono azioni appropriate, quando queste siano conformi alla natura e non siano in contrasto con la legge universale. Ma anche se da un punto di vista esteriore il saggio e lo stolto compiono le stesse azioni, come per esempio camminare, esse sono profondamente diverse, per due ragioni, l'una formale e l'altra di contenuto, che fanno del camminare del saggio un camminare 'saggiamente', e di quello dello stolto semplicemente un 'camminare'. La ragione formale risiede nel logos che soltanto nel saggio è retto. Poiché nel saggio la disposizione interiore è sempre retta, l'azione che ne scaturisce non può che essere retta (katòrthoma), a prescindere dal suo contenuto, così come l'azione dell'uomo medio, provenendo da una disposizione non perfetta, è un'azione appropriata media (meson kathekon). La seconda ragione consiste nel contenuto: mentre l'uomo medio sceglie le cose preferibili e rifiuta quelle contrarie, facendone il principio dell'azione, il saggio non le fa oggetto di scelta, perché esse costituiscono semplicemente la materia della sua azione. Infatti il saggio sceglie soltanto e sempre la virtù.

Per Crisippo la conformità alla natura costituisce dunque il criterio dell'azione, sia per il saggio che per lo stolto, purché sia salvo il principio che solo la virtù è bene e degna di essere scelta e solo il vizio è male. Per agire moralmente si devono accogliere le cose preferibili e rigettare quelle contrarie essenzialmente per due motivi: 1) perché la natura ci dà propensioni verso la virtù e il bene morale, per cui, seguendola, non entriamo in contrasto con la natura universale e la sua ragione; 2) perché laddove l'uomo non può determinare con certezza ciò che esige la natura universale, la conformità alla natura è una guida che ci impedisce di discostarci dal volere della ragione universale. Infatti soltanto il saggio, che possiede un logos perfetto, può non seguire la natura in quei casi eccezionali in cui la conformità alla natura entra in contrasto con l'accordo con la ragione universale, compiendo quelle che gli stoici chiamano «azioni appropriate secondo le circostanze», come per esempio cibarsi di carne umana. Gli stoici svilupparono tutta una casistica di azioni appropriate, o doveri (come saranno denominati più tardi dai romani) che devono essere compiuti perché gli uomini imparino la via che conduce alla virtù. Tuttavia anche l'uomo medio che compia tutte le azioni appropriate senza trascurarne nessuna non è ancora un uomo virtuoso e saggio. Egli lo diventerà soltanto quando le sue azioni abbiano acquistato quella stabilità e saldezza che proviene dall'acquisizione improvvisa e totale della virtù, dall'essere finalmente diventato saggio.

 

 

LE EMOZIONI


Nonostante la natura dell'uomo sia volta soltanto verso il bene morale, la ragione umana si corrompe per un processo che Crisippo chiama «la distorsione della ragione». Essa è dovuta a due cause, alla persuasività delle cose esterne e al diffondersi di una determinata fama dovuta all'influenza di coloro che si frequentano, in particolare agli insegnamenti delle nutrici e dei pedagoghi. In séguito a ciò gli istinti non possono più venire regolati e si determina o intemperanza la quale è la causa di tutte le emozioni. Infatti Zenone definiva l'emozione «istinto eccessivo che oltrepassa la misura posta dalla ragione». Le emozioni quindi sono moti dell' anima contro natura perché non obbedienti a ragione: volontarie perché si fondano su un giudizio della ragione, esse consistono nei movimenti violenti e impetuosi (contrazioni, dilatazioni, esaltazioni ecc.) che si determinano nel logos umano in séguito al cedimento della tensione dello pneuma dell'anima di fronte a una rappresentazione allettante.

Crisippo modificò la teoria di Zenone accentuando l'aspetto intellettualistico dell'emozione. L'emozione non è la conseguenza di un giudizio sbagliato, ma si identifica proprio con il giudizio. Il giudizio emozionale si distingue da quello conoscitivo sbagliato perché, suscitando un istinto violento e smodato, oltrepassa la misura imposta dalla ragione. Esso è detto «irrazionale» non perché è caratterizzato dall'assenza della ragione, ma in quanto consapevolmente non obbedisce alla ragione: è la stessa ragione che si volge contro se stessa. Infatti il comportamento delle persone in preda alle emozioni è caratterizzato da due giudizi, il giudizio sul bene o sul male di quella determinata cosa (per esempio cedere all'ira) e il giudizio che stima conveniente abbandonarvisi. Il giudizio emozionale si identifica con il secondo giudizio. La teoria dell'emozione-giudizio di Crisippo è perfettamente coerente con i presupposti della sua dottrina dell'anima, a cui egli riconosce solo un'unica facoltà, quella razionale. Se tutti i processi psichici sono alterazione di un egemonico razionale, l'emozione non può che essere un 'modo di essere' della ragione. Nello stesso tempo poiché lo stato fisico non è diverso dalla disposizione morale, in quanto soltanto una sufficiente tensione dello pneuma dell'anima determina un egemonico sano, e quindi virtuoso, l'emozione può anche essere identificata dal punto di vista fisico con un allentamento della tensione dell'anima e quindi con le dilatazioni o le contrazioni dello pneuma. Su questa base già Zenone aveva ammesso quattro passioni principali (piacere, dolore, timore e desiderio) a cui sono subordinate tutte le altre.

Crisippo riteneva che la cosa più importante fosse prevenire l'emozione, perché era convinto che l'imprevisto contribuisce a scatenare l'emozione, ma una volta che essa si fosse determinata, egli riteneva che fosse necessario estirparla. Ed elencava una serie di precetti per curare coloro che sono in preda all'emozione, senza respingere l'idea che, per raggiungere questo scopo, fosse lecito curare ciascuno servendosi anche di dottrine non stoiche.

Attribuendo all'uomo la ragione, la natura gli ha fornito la possibilità di un comportamento buono o cattivo e ne ha fatto un agente autonomo. Crisippo sostiene che tutto il male viene agli uomini dall'esterno. Ciò equivale a dire che le cause della distorsione della ragione appartengono alla catena causale esterna del fato, ma che la loro azione causale si può esplicare soltanto mediante la collaborazione della causa interna, ovvero dell'assenso dell'uomo. Per tentare di dare una spiegazione significativa al fatto che l'uomo, pur essendo inserito nella concatenazione causale del fato, è responsabile delle sue azioni, gli stoici hanno riposto il bene in un bene senza qualificazioni determinate, identificandolo con la disposizione coerente dell'anima dell'agente e hanno privato di valore morale le cose secondo natura. Per questa ragione essi insistono, a differenza di Aristotele, nel sottolineare che il risultato esterno di un'azione non conta, e che soltanto l'intenzione qualifica un'azione. L'esempio dell'assoluta coerenza e autonomia del logos è il saggio totalmente privo di passioni (apathès) e quindi libero dal condizionamento di fattori esterni. Nel sistema filosofico stoico, costruito intorno a un concetto di natura come principio unico che spiega il reale e che nello stesso tempo è fonte dei valori morali, l'essere e il dover essere coincidono e il saggio stoico ne costituisce la perfetta realizzazione.



[1] Plutarco, De virtute morali 3, 441C. 27