PITAGORA ED IL PITAGORISMO
La storiografia più sofisticata ha cercato di eliminare del tutto la costruzione neoplatonica e almeno la matematica pitagorica è stata messa da parte come una faccenda sospetta. Tuttavia le restaurazioni di un pitagorismo unitario, al di là dei dubbi di Zeller, sono state numerose e non si è rinunciato a considerare Pitagora come il vero fondatore della teoria dell'anima. L'affermazione del primato dell'anima sul corpo, con la trasformazione della psychè da semplice principio vitale materiale, simile al respiro, in una vera e propria sostanza spirituale, è stata considerata la svolta che segna il principio della filosofìa greca. Questa non incomincerebbe con Talete e i naturalisti ionici, come aveva creduto Aristotele, ma semmai con Pitagora; e sarebbe non la ricerca di una spiegazione dei fenomeni, ma la scoperta della spiritualità. Per Nietzsche la cultura greca non poteva essere ridotta interamente alla razionalità rappresentata dalla filosofia e dal suo spirito apollineo, in irriducibile contrasto con lo spirito dionisiaco, che si realizza nella poesia e nella musica. Però proprio un amico e seguace di Nietzsche, come Erwin Rohde, riportava anche la filosofia greca sotto il segno di Dioniso, facendo del pitagorismo una filosofia dell'anima e di Pitagora la personificazione di Apollo e un tipico rappresentante della religione iniziatica di Dioniso. In questa prospettiva la filosofia pitagorica, staccata dall'interpretazione geometrica, è stata avvicinata sempre più spesso a una forma di pratica religiosa. Il personaggio Pitagora è stato accostato allo sciamano, cioè alla figura dell'uomo che, presso le popolazioni siberiane, sa staccarsi dal corpo, sa vivere una vita dell'anima e stabilire contatti con i morti. Così il lavoro di Aristotele è stato usato in modo diverso dai suoi intendimenti. Egli forse credeva di disinnescare il pitagorismo dell'Accademia. La sua presentazione di Pitagora è stata presa sul serio, ma per mostrare che proprio in quel pitagorismo si poteva trovare la radice della filosofia. Attraverso il pitagorismo i rapporti tra cultura greca e culture esterne potevano esser visti pur sempre come una forma di importazione, ma non tanto di miti e interpretazioni della natura dalla mitologia fluviale egiziana o mesopotamica oppure dall"astronomia' babilonese, quanto di esperienze di tipo religioso scese da Settentrione. Tuttavia il riferimento alle culture nordiche si rivelò ben presto problematico quanto il rinvio all'Egitto e alla Mesopotamia, se non di più: sullo sciamanesimo settentrionale e sulla sua penetrazione in Grecia si avevano soprattutto congetture. La teoria dello sciamanesimo è ora guardata con diffidenza. Ma attraverso queste esperienze storiografiche gran parte delle dottrine filosofiche, matematiche, astronomiche attribuite a Pitagora e al pitagorismo originario è stata messa in dubbio. Da tutto ciò è nata la convinzione che il pitagorismo andasse collocato all'interno della religiosità greca. Lo studio degli autori milesi aveva suggerito la contrapposizione di mito, inteso come spiegazione primitiva, e filosofìa, intesa come spiegazione razionale. Con il pitagorismo il mito stesso sembrava diventare la matrice della filosofìa, anche perché esso era considerato non più come una forma di spiegazione, ma come lo scenario degli atti religiosi, che da senso a cerimonie e regole di comportamento, le quali a loro volta suscitano miti. Cambiava del tutto la concezione della filosofìa, che non doveva dare spiegazioni ma fornire salvezza, non necessariamente in concorrenza con la religione.
Il dominio pitagorico finisce tragicamente. Cilone, respinto dalla comunità perché indegno, guida una rivolta; ma non mancavano le interpretazioni che spiegavano la crisi del pitagorismo con le sue divisioni interne. La contrapposizione tra acusmatici e matematici veniva ricondotta a Ippaso di Crotone o di Metaponto, scolaro di Pitagora stesso. Il suo nome compariva anche tra coloro che avrebbero cercato di ottenere dalla comunità pitagorica l'instaurazione di un regime democratico.
La leggenda pitagorica era simile ad altre leggende: quella di Aristea che nel poema Arimaspeia aveva raccontato dei suoi viaggi presso popoli iperborei, compiuti quando era posseduto da Apollo; quella di Abari, collegato anche lui con Apollo e gli Iperborei, famoso per i suoi spostamenti miracolosi e per la sua capacità di vivere al di là delle limitazioni imposte dal corpo4. E di molti altri personaggi: Epimenide, Ermotimo, Formione, Leonimo, Trofonio, che avevano avuto rapporti con il mondo divino o con quello dei morti, spesso attraverso il soggiorno in grotte. Con un tocco d'ironia, Ermippo attribuiva anche a Pitagora un'esperienza del genere. Pitagora si era fatto costruire una stanza sotterranea, nella quale si era nascosto e si faceva trasmettere informazioni dalla madre. Poi era ricomparso, scheletrito, aveva fatto credere di esser stato nell'Ade e si era mostrato informato di tutto ciò che era accaduto5. La storia ricorda quella che Erodoto aveva raccontato di Zaimossi, e ha lo stesso spirito dissacrante; ma attesta la connessione di Pitagora con i personaggi che avevano rapporti con l'oltretomba e conserva certi motivi tipici di questo tema, come il passaggio attraverso un sotterraneo. Come profeta che svolge una funzione politica rilevante Pitagora ha qualcosa di simile a Epimenide, un altro personaggio del VI secolo sul quale circolavano storie fosche (con allusioni a sacrifici umani) e meravigliose: uso di radici magiche e un sonno di cinquant'anni in una grotta, un vero viaggio fuori del corpo e del mondo dei vivi. Ma ad Atene Epimenide aveva subito una trasfigurazione culturale perché, collegato con la pacificazione soloniana, era diventato colui che aveva reso più civili le usanze religiose degli ateniesi. In questo senso Aristotele diceva di lui che «vaticinava non riguardo al futuro, bensì riguardo alle cose accadute, ma oscure»6. Nella leggenda pitagorica il rapporto tra Pitagora e Crotone finì nel sangue. La congiura di Cilene mise fine al potere pitagorico e disperse i pitagorici, e non tutte le versioni garantivano che Pitagora si fosse salvato. Ma le comunità pitagoriche fissarono un tipo di vita, che venne poi interpretata come una forma di filosofia.
Giamblico8 spiegava gli akùsmata come precetti «impartiti senza che sia mostrato il perché e detta la ragione per cui si deve agire». Si riteneva che risalissero allo stesso Pitagora e nessuno si presumeva capace di aggiungerne di nuovi, perché erano considerati «sentenze divine». Ma già Aristotele ne offriva 'spiegazioni': dalle fave ci si deve astenere perché sono simili agli organi sessuali, somigliano alle porte dell'Ade, non hanno giunture, sono simili all'universo, sono oligarchiche (in quanto con le fave si sorteggiano i magistrati); non si deve raccogliere ciò che cade dalla mensa per abituarsi alla temperanza o perché ciò che cade è destinato ai morti. I precetti attribuiti a Pitagora potevano ricevere più di una spiegazione e forse nel corso del tempo ne ricevettero parecchie, e non sempre della medesima natura. Alcune si riferivano a pratiche cultuali. Tali erano le raccomandazioni di evitare i segni di lutto, rapporti sessuali, carni di animali morti di morte naturale, certi tipi di pesci, le uova, le fave ecc. Si trattava di regole da associare con riti purificatori, come le abluzioni, simili a quelle che seguiva chi era iniziato presso un tempio9. In questo senso i pitagorici si collocavano all'interno della tradizione religiosa, anche se probabilmente occupavano in essa una posizione rigoristica. Gran parte di quei precetti erano sanzioni di tabù, e rappresentano almeno uno degli aspetti del pitagorismo più antico: i pitagorici dovevano costituire comunità che seguivano regole di comportamento restrittive, concernenti soprattutto il culto e il cibo. Queste regole dovevano garantire il conseguimento della purezza, cioè la preservazione da contaminazioni o la purificazione da esse; e i pitagorici ritenevano che ci fossero cose e comportamenti impuri, come le fave, il cibo caduto a terra, il lutto o i rapporti sessuali. L'osservanza dei tabù promuoveva la formazione di un gruppo ristretto, che avrebbe effettivamente potuto proporsi di esercitare il controllo politico della città. Erodoto associava i pitagorici agli orfici10 almeno dal punto di vista delle osservanze rituali. Agli orfici Platone faceva risalire un «tipo di vita» fondato sull'astensione dalle carni e dagli esseri viventi per evitare, nell'alimentazione e nel culto, l'impurità del sangue. Anche se Platone non accosta il tipo di vita orfico a quello pitagorico, le regole della purezza cultuale e alimentare potevano essere comuni11. Eforo diceva che Orfeo, un mitico poeta trace, avesse portato dall'Asia in Europa i culti iniziatici12. A essi Erodoto riferiva un «discorso sacro», e Platone conosceva libri che andavano sotto il nome di Orfeo e del suo discepolo Museo, collegato con Eumolpo e i riti eleusini. Aristotele riteneva che i versi attribuiti a Orfeo fossero in realtà non suoi, ma di Onomacrito, anche se a Orfeo doveva essere attribuito il loro contenuto13. Di questo doveva parlare la Storia della teologia, un'opera oggi perduta, di Eudemo, scolaro di Aristotele, alla quale avrebbe attinto una copiosa letteratura di stampo neoplatonico sviluppatasi dal IV al VI secolo d.C. Ma esistevano anche le Rapsodie, composizioni tarde, in gran parte postellenistiche, attribuite a Orfeo. In queste fonti l'orfismo prende l'aspetto di un corpo di credenze religiose organizzate intorno a una visione sistematica sull'origine delle divinità e del mondo. Tuttavia la data bassa di questi scritti ha fatto pensare che l'orfìsmo, almeno in questa versione, fosse prevalentemente un'invenzione che non poteva risalire oltre il III secolo a.C. Una cosmologia assai vicina a quella che sarà poi attribuita agli orfici si trova però negli Uccelli di Aristofane, del 414 a.C., e in lamine auree rinvenute nelle tombe14. E proprio queste lamine pongono il problema del collegamento dell'orfìsmo con il culto di Dioniso. Da Ipponio proviene una scritta nella quale c'è un elemento dionisiaco e non orfico15. Isocrate e Platone ricordavano la tradizione secondo la quale Orfeo era finito sbranato16: un tratto tipico del mito di Dioniso. Lo stesso Dioniso era stato smembrato dai Titani e a sua volta un suo nemico, Penteo, era stato smembrato dalle devote di Dioniso. Anche Euripide17 usava il termine «baccheggiare» per chi seguiva Orfeo. L'aggressione dei Titani fu un modo, preso dal quadro esiodeo, per collegare Dioniso alle altre divinità. E assai probabile perciò che la letteratura attribuita a Orfeo s'inserisse nel solco della religione dionisiaca. Pur con qualche variante, il quadro mitologico di fondo era ancora quello fornito dalla Teogonia di Esiodo, e questo autorizzava Aristotele a parlare di una «teologia primitiva» nella quale, a parte la posizione di Oceano18, non c'erano sostanziali differenze. L'eventuale contenuto teologico o cosmogonico degli scritti orfici traspare solo occasionalmente nelle testimonianze antiche, mentre il legame di Orfeo con la morte è comunque un tema diffuso e collaudato, dalla pittura alla poesia19. Fin dai tempi di Alceo, Orfeo era considerato autore dell'insensato tentativo di sfuggire alla morte e Platone, anche quando ne dava un'immagine maliziosa, insisteva su questo motivo20. La vittoria sulla morte, che viene attribuita a Orfeo e che si ricollega ai miti della sua discesa nell'Ade e dello smembramento e resurrezione di Dioniso, è quella che nelle lamine viene promessa agli iniziati: presentandosi come iniziati essi potranno bere alla fonte della memoria e così sfuggire alla dimenticanza della morte. L'orfismo, come il culto dionisiaco, rientra nella famiglia dei misteri, considerati per molto tempo come una forma di religione a sé, magari riservata a particolari gruppi sociali, contrapposta alla religione olimpica, che era rivolta agli dèi omerici e curata dalla città. Qualcuno vi ha visto anche una vera e propria religione rivelata, con libri sacri e corpi di credenze, qualcosa di simile al cristianesimo. In realtà i misteri, i più famosi e più noti, come quelli eleusini ad Atene o anche il culto di Dioniso, facevano parte della religione ufficiale della città. L'aspetto più importante era l'iniziazione, cioè una pratica cultuale nel corso della quale certe persone acquistavano un legame particolare con le divinità oggetto del culto. Facevano parte delle pratiche di iniziazione anche particolari cerimonie e comportamenti che dovevano produrre la purificazione. Talvolta si trattava di normali pratiche purificatorie ampiamente presenti in tutti i culti, o comunque anche in quelli diversi dai misteri, talvolta si trattava di pratiche speciali. Platone parlava di «ciarlatani e indovini» che «si presentano alle porte dei ricchi», e promettono di liberarli con sacrifici e incantesimi dalle colpe loro e degli antenati, e addirittura di agire sulla volontà degli dèi. Presentavano una corposa salvezza una vita futura da trascorrere tra tavole imbandite, e magari si offrivano anche di fare il malocchio. L'iniziatore orfico aveva tra i clienti il superstizioso, che si spaventava dei sogni e andava a trovarlo con la moglie (o con la balia) e i figli21. Le iniziazioni, riti accompagnati da preghiere e invocazioni, erano inserite entro credenze e a loro volta le generavano. Le credenze si esprimevano in quelli che per la religiosità pagana sono stati chiamati miti. I miti si depositavano in testi scritti. Il giudizio sul loro contenuto non era molto benevolo nelle fonti più antiche. Isocrate, come Platone, metteva Orfeo accanto ai poeti che avevano attribuito cose sconvenienti agli dèi, e aggiungeva che per questo era stato giustamente fatto a pezzi22. Ma accanto al distacco intellettuale e al sospetto colto, che condivide con Erodoto e Isocrate, Platone ammette che gli adepti alle iniziazioni sentono anche un discorso in cui si dice che nell'Ade si paga la pena per i misfatti commessi. C'erano sacerdoti che si preoccupavano di dar ragione di quel che facevano e poeti come Pindaro, i quali dicevano che l'anima è immortale e risorge nei corpi dopo essere stata nell'Ade. Platone ama rifarsi a questa matrice mitologica, che una volta viene attribuita a un mitologo forse siculo o italico, altre volte a discorsi segreti. Altrove Platone parla delle anime che, secondo coloro che praticano le iniziazioni, ritornano nella vita per subirvi le afflizioni che hanno arrecato agli altri. Nel Cratilo nomina gli orfici, che nel legame dell'anima con il corpo vedono l'espiazione di una pena. Platone assumeva nei confronti dell'orfismo un atteggiamento ambivalente: di disapprovazione e di distacco ironico, ma anche di ricupero. Offrendo una liberazione dalla morte, i misteri davano qualche volta un'interpretazione materialistica e angusta della vita alla quale si doveva risorgere; ma qualche altra volta presentavano la liberazione dalla morte come la realizzazione di una giustizia più ampia di quella garantita dalle istituzioni umane23. Platone, come Pindaro24, riprende il motivo dell'immortalità ed elabora un grande ciclo mitico nel quale la liberazione dalla morte diventa la liberazione dalla casualità delle vicende umane: quel che accade sembra casuale nell'arco di un'esistenza singola, ma può rispondere a una regola di giustizia in un ciclo più ampio. Il pitagorismo poteva elaborare una concezione dell'anima capace di assicurare la vittoria sulla morte che la religiosità orfica e dionisiaca cercava. Aristotele attribuiva agli orfici una dottrina secondo la quale l'anima è una parte dell'universo portata dai venti negli esseri ai quali da vita25. Altri invece ritenevano che essi sostenessero la trasmigrazione delle anime: l'anima non perisce dopo la morte, ma passa nel corpo di altri esseri viventi. Erodoto, come Isocrate, connetteva Pitagora con l'Egitto, paese dal quale quella dottrina sarebbe derivata. Autori greci, dei quali egli diceva di conoscere il nome, pur non volendo rivelarlo, l'avrebbero poi presentata come propria26. Essa fu attribuita a Pitagora da Senofane27, da Aristotele28, da Teofrasto29, da Dicearco30. Qualche allusione si può forse trovare in Ione di Chio31 e in Erodoto32. E difficile credere all'origine egiziana della teoria della metempsicosi, e molti storici vi vedono anzi l'autentico contributo originale del pitagorismo, che su questo tema avrebbe costruito una vera e propria teoria, e non un mito: anziché esporre la vicenda di un dio, i pitagorici avrebbero cioè cercato di illustrare il destino comune di tutti gli uomini. Non abbiamo fonti arcaiche che enuncino la metempsicosi come teoria, e non sappiamo neppure con certezza come si configurasse la credenza nella trasmigrazione delle anime. Tutte le pratiche misteriche promettevano una qualche forma di sopravvivenza: un soggiorno in un mondo a parte, non troppo triste, forse modellato sul gusto dei 'clienti', o un ritorno nel mondo dei vivi e una vita terrena futura migliore di quella che si stava vivendo. Quasi tutti i profeti delle religioni misteriche pretendevano di aver vissuto altre vite, cioè parlavano, più che del futuro, del passato, che forniva loro delle credenziali. Per questo la religione della trasmigrazione si presenta prima di tutto come l'affermazione che l'anima era viva prima del corpo. Ma noi non sappiamo come fosse costruito l'insieme di quelle credenze e che cosa in realtà i profeti promettessero. Non sappiamo se la trasmigrazione coinvolgesse tutti gli esseri viventi, fino alle piante e agli animali, se fosse un destino di tutte le anime o solo di alcune, se tra reincarnazione e reincarnazione ci fosse un soggiorno nell'aldilà o no e se alla fine le anime si liberassero del tutto dal corpo. Non sappiamo neppure quanto del grandioso mito della metempsicosi, creato da Platone, fosse già reperibile nella cultura orfica, eventualmente in un suo filone pitagorico, ne' se il pitagorismo originario avesse un forte interesse teorico e facesse di una teoria dell'anima il presupposto della purezza cultuale. Giamblico riferiva che i detti pitagorici erano divisi in tre tipi, perché potevano rispondere alle domande «che cos'è?», «che cosa è meglio?» e «che cosa si deve fare o non fare?». In realtà neppure i detti del primo tipo erano molto soddisfacenti dal punto di vista filosofico. Erano formule piuttosto semplici: «che cosa sono le Isole dei Beati? Il sole e la luna», «che cos'è l'Oracolo di Delfi? La tetrattide, che è l'armonia delle Sirene», il tuono è una minaccia per spaventare quelli che sono nel Tartaro. Molte di queste formule, apparentemente definitorie, vertevano su temi religiosi, e in particolare erano connesse ai morti33. Può darsi che la tripartizione delle massime pitagoriche risalisse ad Aristotele e che la metempsicosi sembrasse la cornice teorica più appropriata per interpretare il pitagorismo, soprattutto dopo che i platonici ne ebbero fatto una teoria fìlosofìca.
Accanto o in alternativa alla metempsicosi il nucleo teorico del pitagorismo è stato cercato nella matematica e nell'astronomia. La stessa divisione dei pitagorici in acusmatici e matematici poteva indicare il tentativo da parte di alcuni membri della setta di utilizzare la matematica per dare una giustificazione alle massime pitagoriche, che secondo gli acusmatici andavano essenzialmente ascoltate e che dovevano essere ripetute come formule, perché il loro insegnamento risaliva a Pitagora stesso. E almeno in una versione la frattura della scuola pitagorica si era prodotta perché Ippaso aveva rivelato le scoperte segrete di Pitagora: la costruzione del dodecaedro o l'esistenza dell'incommensurabilità e dei numeri irrazionali. Ne' mancava una tradizione secondo la quale la matematica fu divulgata perché la stessa comunità aveva concesso a un pitagorico impoveritesi di far denaro con la geometria. Ma le fonti antiche da Erodoto a Isocrate non sanno nulla di tanta dottrina matematica, e ne tace perfino Platone, il quale una volta sola si dichiara d'accordo con i pitagorici nel ritenere astronomia e musica scienze sorelle34. Solo Aristosseno35 diceva che Pitagora avrebbe apprezzato «sopra ogni altro lo studio dei numeri, e che, traendolo fuori dal servizio dei mercanti, lo facesse progredire». Aristotele attribuiva una dottrina matematica a «quelli che son chiamati pitagorici», una formula non chiarissima.
Aristotele riteneva inoltre che i pitagorici, o alcuni di essi, avessero sistemato i princìpi in dieci coppie di contrari, utilizzati invece in modo disordinato da un autore come Alcmeone di Crotone. Questa dottrina si connetterebbe a quella 'matematica', perché «elementi del numero sono secondo loro il pari e il dispari, e di questi il primo è infinito, il secondo finito, e l'1 risulta da tutti e due questi elementi (giacché esso è pari e, insieme, dispari), il numero deriva dall'uno e tutto l'universo è ... numeri»40. Nella tavola dei contrari che Aristotele attribuiva ai pitagorici c'erano anche il pari e il dispari, il limitato e l'illimitato. Nel suo insieme la tavola era costituita da La
spiegazione aristotelica della derivazione dei numeri dai contrari, attraverso
la connessione del numero pari con l'infinito e del dispari con ciò che
ha limite, era già oscura per gli antichi. I numeri erano rappresentati
con lo gnomone41, cioè la squadra usata per misurare gli angoli
retti. Dato un insieme dispari di punti, è possibile applicare il vertice
di una squadra su un punto e disporre gli altri in numero uguale per ciascun
lato della squadra stessa, ottenendo così, al crescere dei lati, quadrati
simili (cfr. fig. 2). Nel caso che i punti siano in numero pari, se essi
si dispongono in numero uguale su ciascun lato dello gnomone, non c'è
un punto cui applicare il vertice della squadra (cfr. fig. 3b), mentre
se si applica il vertice dello gnomone a un punto si hanno distribuzioni
diseguali dei punti sui lati della squadra, e si ottengono dei rettangoli
(cfr. fig. 3 a). La contrapposizione tra quadrato e rettangolo era presente
nella tavola dei contrari, che collegava il quadrato al limite, al dispari
e all'uno e il rettangolo all'illimitato, al pari e ai molti. Secondo Aristotele i pitagorici avevano incominciato a trattare della causa formale, cioè della causa opposta alla materia, giungendo a considerare l'infinito, l'uno e il numero vere e proprie entità42. E così, «poiché i numeri sono i primi di tutta la natura, ritennero che gli elementi dei numeri fossero gli elementi di tutte le cose»43. L'interpretazione aristotelica è ampiamente dominata dal riferimento al platonismo. Aristotele voleva contrapporre i pitagorici (non necessariamente Pitagora), che avevano posto i numeri dentro le cose, a Platone, che li aveva collocati fuori di esse, ma nello stesso tempo voleva mostrare che i platonici non si erano liberati dalle ingenuità pitagoriche sui numeri, ne' dai princìpi che i pitagorici avevano ricavato dai numeri. Il miraggio della matematica pitagorica probabilmente prese corpo all'interno della discussione sul platonismo. Ma esso fu uno degli ingredienti che servì ad Aristotele per costruire un quadro storiografico, nel quale si delineava un progressivo abbandono del naturalismo. Dopo Socrate, Platone era tornato allo studio della natura attraverso una filosofia non più naturalistica, nella formazione della quale veniva attribuita una parte ai pitagorici, proprio per l'importanza accordata alla matematica. Una tradizione presente ancora in Eudemo faceva derivare la matematica dall'Egitto attraverso Mileto e Talete. Nella mitologia storiografica nata intorno a Platone, Pitagora tendeva a occupare il posto che era stato di Talete, e Proclo, attingendo a fonti neoplatoniche, avrebbe sancito la sostituzione44.
La tradizione che ha fatto di Pitagora il fondatore della matematica e dell'astronomia ha anche ritenuto che a lui risalisse una teoria matematica della musica. Pitagora avrebbe scoperto la relazione tra la frequenza delle vibrazioni sonore e l'altezza dei suoni. Platone aveva riconosciuto esplicitamente di seguire i pitagorici nel ritenere astronomia e musica scienze sorelle. Tuttavia, pur contrapponendoli ai musicisti che studiano la propria disciplina seguendo solo l'orecchio, li rimproverava perché si limitavano, come certi astronomi, a osservare i rapporti numerici, senza domandarsi quali fossero i rapporti numerici che devono intercorrere tra i suoni come tra i corpi celesti50. E così Aristotele poteva dire che i pitagorici «vedevano nei numeri le proprietà e i rapporti delle armonie»51, applicando la contrapposizione, che gli era cara, tra i platonici che pongono il numero fuori delle cose e i pitagorici che lo pongono dentro di esse. Già Aristosseno attribuiva alla concezione pitagorica della musica una funzione purificatrice. I pitagorici non erano interessati tanto alla scoperta dei rapporti numerici che regolano la produzione dei suoni, quanto al collegamento tra la musica e certe combinazioni di numeri che ai loro occhi possedevano un particolare significato. Per esempio la tetrattide, che comprende i numeri 1, 2, 3 e 4, contiene anche i rapporti che caratterizzano l'ottava (2:1), la quinta (3:2) e la quarta (4:3). Inoltre i numeri che esprimono l'ottava, la quinta e la quarta danno come somma 9 (9 = 2 + 3 + 4)52. I numeri cioè rappresentano non la formula matematica ne' la legge fisica del suono musicale, ma la sua formula religiosa. Del resto le 'scoperte' pitagoriche venivano associate a 'esperimenti musicali' che sono in realtà impossibili o falsi, incapaci cioè di rivelare le relazioni numeriche proprie dei fenomeni musicali.
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