EMPEDOCLE
Il cosmo è solo una parte del tutto, perché il resto è materia inerte. All'universo Empedocle assegnava una forma ovale molto appiattita, perché stimava che la larghezza della terra fosse maggiore della sua distanza dal cielo, e forse riteneva che la terra fosse piatta. Soprattutto egli riprendeva le immagini cosmologiche tradizionali: il nostro mondo ha radici, e dalla doppia azione di Amore, al centro del vortice, e di Contesa, che dal fondo del vortice continua a tener le cose separate#, nasce un'unità, che non è più quella dello Sfero, ma è quella delle cose viventi. Il conflitto tra le quattro radici divine si compone quando esse, sotto l'azione di altre due divinità, l'Amore e la Contesa, «scorrono l'uno attraverso l'altro e nascono gli uomini e le tribù degli altri animali». E Amore che li tiene insieme a formare «un cosmo», mentre è Contesa che li spinge a dividersi e a imboccare strade divergenti#. Di qui è nata anche la vita, dapprima in modo disordinato, poi con la riproduzione sessuale, proprio come in Esiodo e nelle antiche cosmogonie. In un primo tempo le membra nascevano spontaneamente e in modo disordinato, e talvolta si congiungevano casualmente dando origine a esseri mostruosi. Poi alcuni di questi esseri sono sopravvissuti, e hanno incominciato a riprodursi. E Amore che assicura le forme della vita, nella quale le potenze divine del mondo, soprattutto l'acqua e il fuoco, sono presenti in esatte proporzioni#. Aristotele non nascondeva di non prendere Empedocle alla lettera: è un naturalista, che scrive in versi, pur senza avere nulla in comune con Omero, «balbetta», e bisogna coglierne il «pensiero» al di là delle parole#. Forse l'origine di questi apprezzamenti era nell'accusa di «rilassatezza» formulata da Platone. Ma i platonici ebbero un'indulgente simpatia per Empedocle, un personaggio singolare che alla metà del V secolo aveva percorso le città compiendo miracoli e celebrando riti magici, presentandosi come un taumaturgo, impassibile in abbigliamento regale, con mantello di porpora, alti calzari di bronzo e corona, seguito da un corteo di servi#. E probabile che storie meravigliose sul suo conto circolassero tra i platonici, e forse Eraclide Pontico spiegava i prodigi di Empedocle come applicazioni di particolari tecniche di controllo del respiro, che permettevano di sospendere le funzioni fisiche e di isolare l'anima dal corpo. Certamente una cosa egli sapeva fare: far tornare alla vita corpi che sembravano morti. Apparteneva alla cultura che, come quella di orfici e pitagorici, aveva familiarità con la morte e offriva qualche mezzo per vincerla. Qualcuno poteva sospettarlo di essere un ciarlatano. Platone non aveva nascosto la propria diffidenza per quelle forme religiose e fìlosofiche; e tuttavia aveva trasformato in miti filosofici le storie di metempsicosi. Anche spiegare le prestazioni eccezionali di Empedocle con le tecniche di controllo del respiro era un modo per togliere il carattere favoloso e sorprendente delle imprese empedoclee, pur senza negare l'esistenza di un'anima indipendente dal corpo. Per Aristotele invece Empedocle, al di là dei balbettii, aveva ricondotto la materia a un numero limitato di elementi, anzi addirittura proprio ai quattro elementi, avendo aggiunto all'acqua di Talete, all'aria di Anassimene e Diogene e al fuoco di Ippaso ed Eraclito la terra come quarto#. La teoria dei quattro elementi fece la propria comparsa con il Timeo di Platone, ma senza riferimento ad Empedocle e con una veste matematica, ben lontana dal modo di pensare empedocleo. Probabilmente fu Aristotele a ricavare da quel che Empedocle diceva delle quattro divinità, alle quali sono assegnate le quattro regioni dell'universo, un'interpretazione fisica degli elementi contrapposta all'interpretazione matematica. Empedocle poteva così esser inserito in quello che Aristotele considerava come naturalismo, e anzi completarlo con la scoperta di tutti gli elementi, almeno di quelli del mondo sublunare. Empedocle
sosteneva che gli elementi non si trasformano gli uni negli altri e come
i naturalisti, come Anassimandro e Anassagora, ricavava le cose da una
mescolanza originaria attraverso processi di separazione. Uno schema di
spiegazione di questo genere presuppone per Aristotele che si ammetta
l'esistenza sia dell'unità sia della molteplicità. I modi per delineare
la coesistenza tra questi termini erano molteplici; Empedocle si distingueva
dagli altri, soprattutto da Anassagora, perché riteneva che unità e molteplicità
dominassero in periodi differenti#.
Era stato Platone che aveva collocato Empedocle in questa cornice. Dopo
coloro che avevano assegnato un numero agli enti (tre o due) e dopo Senofane
e gli eleati, che avevano attribuito all'ente una rigorosa unità, Eraclito
e Empedocle avevano detto che l'essere è uno e molti. Ma mentre le «muse
ioniche», come Platone chiamava Eraclito, «più intonate», dicono che l'essere
è insieme uno e molti, quelle siciliane, cioè Empedocle, «più molli,
quest'eterna armonia rilassano e dicono invece che in alterna vicenda
il tutto talora è uno ed amico per opera di Afrodite, talora è molti ed
esso stesso in guerra con sé, per causa di una Contesa»#.
Di qui nacque l'idea che Empedocle immaginasse dei cicli lungo
i quali disporre l'unità e la molteplicità delle cose. E di qui dovette
partire anche Aristotele, che in un dialogo, oggi perduto, anch'esso intitolato
Sofista, probabilmente simile a quello del suo maestro, aveva collocato
Empedocle accanto agli eleati, indicando in lui lo scopritore della retorica
e in Zenone quello della dialettica#.
Da questo quadro Aristotele aveva assunto l'idea che Empedocle assegnasse
l'unità e la molteplicità a periodi differenti. Dopo la rottura dello
Sfero ci sarebbe un ciclo durante il quale Amore cerca di costruire gli
esseri viventi, mentre Contesa li distrugge, facendoli morire, e alla
fine dissolverà l'universo separando completamente gli elementi. A questo
seguirebbe un ciclo nel quale invece Amore ricostituisce l'universo a
partire dalla distruzione prodotta da Contesa. A metà fase i due cicli
si somigliano, l'universo ha esseri simili, anche se in un caso esso si
avvia alla dissoluzione e nell'altro alla ricostituzione dell'unità. Il
mondo in cui viviamo è il punto di mezzo nel cammino verso il dominio
totale di Contesa#,
e a esso dovrebbe seguirne un altro simile al nostro, ma dominato da Amore,
anche se Aristotele stesso ammetteva che di questo universo Empedocle
non aveva parlato#. Era stato Platone che nel Politico aveva immaginato dei cicli, popolati da esseri simili, uno in cui il mondo è guidato da un dio e uno in cui il mondo è abbandonato a se stesso. Aristotele mise insieme la teoria della periodicità, che già Platone attribuiva ad Empedocle, con la teoria degli elementi e assegnò i cicli alle due forze divine (la Contesa e l'Amore) supponendo che operassero sui quattro elementi. L'interpretazione ciclica di Empedocle suggeriva che Amore dovesse di nuovo riportare la vittoria e rigenerare lo Sfero; dopo di che il ciclo sarebbe ricominciato. Questa interpretazione fu cara ai commentatori tardi di Aristotele, in particolare a Simplicio, perché richiamava temi neoplatonici, come il distacco delle cose dalla divinità e il loro ritorno a essa; e ha generato l'immagine corrente di Empedocle. In realtà Aristotele si era servito dell'interpretazione ciclica per criticare la filosofia empedoclea e la raffigurazione delle cause del cosmo come principi contrari. Infatti ciascuno di essi agirebbe in modi contrastanti. Amore unisce tutta la realtà in un modo perfetto, mescolando gli elementi tutti insieme; ma così li divide ciascuno da se stesso. D'altra parte Contesa divide tutto l'universo nei quattro elementi, ma unifica ciascun elemento con se stesso#. Per Empedocle però il nostro universo rappresenta già l'opera di ricostruzione di Amore, dopo che Contesa ha rotto lo Sfero. I testi empedoclei sono certamente oscuri e molto dipende dal senso che si da al termine 'cosmo', quando Empedocle dice che Amore spinge le radici a formare «un cosmo»#. Infatti «cosmo» potrebbe significare l'organismo singolo, in cui i poteri divini in competizione collaborano, oppure l'universo nel suo complesso. Se si suppone che Empedocle si riferisca alle singole cose, allora bisogna intendere che «come una cosa ha appreso a nascere dal molteplice, e di nuovo al dissolversi della sua unità il molteplice si compie, così essi divengono e non durano; ma come in questo scambio nulla resta saldo, così sempre restano immobili durante il ciclo»#.
L'interpretazione
naturalistica che Aristotele introduceva nel quadro platonico poteva avere
un aggancio in quelle che sembravano spiegazioni reperibili nel
poema di Empedocle. Egli diceva che il vino è acqua putrefatta nel legno,
che capelli, foglie, ali, scaglie e punte sono la medesima cosa in esseri
diversi, che la vista è fuoco catturato nei tessuti, come la fiamma racchiusa
in una lampada, e che esce dall'occhio. In generale tutto è percorso da
effluvi che si staccano dalle cose, e le cose simili si cercano e si riconoscono,
sicché anche noi conosciamo la terra con la terra, l'acqua con l'acqua
e così via, fino all'Amore con l'Amore e la Contesa con la Contesa. Al
caldo e al freddo faceva risalire la differenziazione dei sessi, dicendo
che i maschi si sviluppano nella parte calda del ventre materno e le femmine
in quella fredda. Spiegava anche la respirazione come una mutua pressione
di sangue e di aria in apposite aperture, in pori: quando il sangue si
abbassa in essi può entrare l'aria, mentre poi, quando il livello del
sangue torna a crescere, l'aria viene cacciata. Empedocle portava il celebre
esempio della clessidra. In una clessidra, la cui parte inferiore abbia
piccole aperture e che venga immersa in un recipiente pieno di acqua,
l'aria, incapsulata nella parte superiore da una mano che la tura, impedisce
all'acqua di entrare (fìg. 3a); se si solleva la mano entra tanta acqua
quanta aria si lascia uscire (fig. 3b). Se si estrae la clessidra dal
recipiente e si tiene la parte superiore turata con la mano, l'aria non
può entrare e l'acqua contenuta nella parte inferiore non può uscire (fig.
3c); solo lasciando entrare via via l'aria, uscirà una parte corrispondente
di acqua dalla parte inferiore (fìg. 3d)#. Ma Empedocle voleva non tanto spiegare la natura quanto ammaestrare. Egli si rivolge a un discepolo, Pausania, e lo mette in guardia contro la ristrettezza dei poteri insiti nelle membra umane, insidiate da molti mali. Esposti a quel che incontrano, gli uomini credono di conoscere il tutto, che ad essi sfugge. Contro la follia degli uomini, che suggerisce falsità alla loro lingua, Empedocle invoca la Musa, perché regga il suo carro, lo distolga dalle false chiacchiere degli uomini e gli permetta di non dar retta a un senso piuttosto che a un altro, ma di battere ogni via per pensare ciò che è chiaro#. Empedocle si esprime con metafore, stilemi e ripetizioni di formule stereotipe, come un poeta epico; invoca la Musa come Omero, Esiodo e Parmenide, in comune con il quale ha anche la metafora del carro. Anche il rifiuto delle false credenze degli uomini è un tema presente in Empedocle come in Parmenide e nella letteratura lirica e ha origini nell'epica, dove è continuamente ricordata l'inferiorità della razza umana rispetto agli dèi. La debolezza degli uomini è la loro stessa debolezza, fisica, delle loro membra e della loro vita. Quel che gli uomini pensano dipende dalla casualità e precarietà dei loro incontri, perché i loro sensi sono aperti e indifesi nei confronti delle cose. Empedocle sembra richiamarsi al «pensiero»; ma non si tratta di un pensiero che si contrappone ai sensi, che anzi gli uomini non devono «negar fede a nessuna delle altre membra, dove sono vie per conoscere» e devono conoscere «ogni cosa per quanto è chiara»#. Il sangue nutre con il suo calore il cuore, e nel sangue intorno al cuore risiede il pensiero. Perciò il pensiero dipende dalle cose che si incontrano, l'opinione errata è solo una sensazione ristretta e ciò che pensiamo delle cose muta quando muta la nostra natura#. Autori antichi, ma anche storici moderni, attribuiscono ad Empedocle l'identificazione di pensiero e sensazione, mentre per lui il pensiero vero è quello che consente di cogliere l'identità fisica dell'uomo con il tutto. «Sappi» dice Empedocle a Pausania «che tutte le cose hanno intelligenza e una parte di pensiero»#. Le singole cose non sono possesso degli uomini, ai quali rapidamente sfuggono per tornare alla loro origine#. Ma la loro origine risiede nelle radici divine, cioè in forze con le quali è possibile stabilire un rapporto religioso. Solo per questa via è possibile conoscere «quanti sono i rimedi dei mali e la difesa dalla vecchiaia», promette Empedocle a Pausania, e gli insegnerà come far «cessare l'impeto dei venti» e poi di nuovo suscitarli, provocare pioggia e siccità e riportare dall'Ade la forza di un uomo morto#. Nelle Purificazioni Empedocle si presenta ai propri concittadini di Agrigento come «un dio immortale, non più mortale», come un taumaturgo, ornato di bende e di fiori. Lo seguono innumerevoli uomini e donne, che vogliono sapere da lui come si ottiene il guadagno, vogliono vaticini, chiedono guarigioni# . Quello che Empedocle promette non è puro sapere, ma una forza particolare, una capacità che deriva dall'identificazione con le radici divine del mondo. Il frutto più importante di questa rivelazione è la liberazione dalla credenza nella morte: «non vi è nascita di nessuna delle cose mortali, ne fine alcuna di morte funesta, ma solo c'è mescolanza e separazione di cose mescolate; nascita è un nome dato dagli uomini»#. Nascere e morire è solo un mescolarsi di parti, ed è infantile sperare che nasca ciò che non è o pensare che ci sia distruzione completa#. «Da ciò che infatti non è è impossibile che nasca, ed è cosa irrealizzabile e non udita che l'ente si distrugga; sempre infatti sarà ciò che sempre è stato»#. Proprio perché non sanno di essere identici con il tutto, gli uomini credono di morire e credono che le cose muoiano. Ma se colgono la sostanza divina di cui sono fatti, essi sanno che la loro morte è solo dissoluzione nel tutto, opera di quella divinità che è la Contesa, ma anche solo momento di un ciclo che riprenderà per opera di Amore. Gli uomini vagano sbattuti da un elemento all'altro, perché un delitto li ha macchiati. Il sangue è stato la colpa originaria, il sangue del quale hanno macchiato perfino i sacrifici offerti agli dèi, non più fatti di offerte di mirra, incenso e miele. Forse tutto questo apparteneva a un'età nella quale i rapporti tra gli esseri viventi erano pacifici. Poi la violenza del sangue ruppe anche i rapporti familiari, perché la vittima immolata poteva contenere l'anima di un familiare. Quella di Empedocle sembra la solita teoria della metempsicosi#. Ma qui lo sfondo è costituito dalla divisione dell'universo in zone dominate dalle divinità che rappresentano gli elementi. La colpa della quale gli uomini si sono macchiati è opera della Contesa, di quella stessa forza che ha diviso l'unità originaria. Probabilmente anche quella di Empedocle è una reazione all'immagine astronomica dell'universo che sta formandosi. Per lui il mondo è essenzialmente diviso in regioni, e le regioni sono zone di potere di esseri divini, di demoni, che, una volta rotta l'armonia originaria, dominano a turno e in competizione, generando disordine. Solo una zona al centro del turbine provocato da Contesa, che pone fine allo Sfero, ha raggiunto un qualche ordine, e solo partendo dalla vita che qui si è instaurata è possibile cogliere le forze divine che agiscono nel mondo: è possibile comprendere che la morte non è una realtà e che la divisione che la genera è l'effetto e l'espiazione di una colpa. Gli uomini possono riconoscere in se stessi la forza dell'amore: la chiamano Gioia o Afrodite e ritengono che sia «insita nelle membra e per lei pensano cose amiche e compiono opere di pace»#. Ma nessun uomo ha pensato che l'amore si estendesse oltre le membra mortali. Questo è invece l'annuncio che Empedocle intende portare. E lo stesso amore che agisce negli uomini quello che opera nel mondo e che tiene insieme ciò che costituisce gli esseri, mentre un'altra forza cosmica, la Contesa, tende a dividerli. Amore e Contesa sono uguali e coestese. L'interpretazione naturalistica avviata da Aristotele ha spesso impedito di vedere questi motivi nell'opera empedoclea, mentre il quadro costruito da Platone nel Sofista ha indotto a vedere in lui un filosofo 'posteleatico'. Empedocle che pur accoglie alcune delle conoscenze geografiche recenti, come la distinzione delle stelle fisse e dei pianeti o la luce riflessa della luna, riprende l'immagine delle radici dell'universo e gli schemi esiodei, e si tiene ben fedele alla matrice religiosa originaria. Non possediamo alcun indizio concreto di una connessione tra Empedocle e l'eleatismo. E curiosamente, quando si è confrontato Empedocle a Parmenide, si è spesso fatto riferimento a una teoria metafisica, come suggeriva Platone, anziché al loro modo di scrivere e al tipo di testo di cui entrambi si avvalevano. Se c'è una connessione tra Empedocle e Parmenide, essa consiste proprio nell'uso di formule linguistiche simili, anche se si tratta di formule non esclusive dello stile parmenideo. C'è una cosa che ossessiona Empedocle e sembra assente nell'eleatismo: il riferimento alla morte. Effettivamente Parmenide aveva soprattutto negato la nascita e la distruzione dell'essere, più di quanto avesse affermato la sua unità, ma alla morte come tale egli non accenna. Si potrebbe pensare che Empedocle utilizzi uno strumento parmenideo quando dice che solo i nomi umani introducono la nascita e la morte. Ma mentre per Parmenide il linguaggio umano istituisce dei rapporti di contrarietà, che sono sempre ingannevoli, per Empedocle i nomi celano l'affinità divina di tutte le cose; ma le divinità hanno rapporti di opposizione che sono reali. Se la tradizione ha potuto vedere in Parmenide il rigido difensore dell'unità del reale, Empedocle ha voluto additare, sotto le apparenze ingannevoli della realtà, forze divine molteplici. A cominciare da Platone, ma soprattutto con Aristotele, si è costruita l'immagine di una filosofia che con Eraclito, Parmenide ed Empedocle ha figure e dottrine precise. Effettivamente dopo gli autori della scuola milesia si ha l'impressione di aver che fare con figure meno evanescenti, soprattutto si hanno a disposizione testi di consistenza significativa. Ma questi sono diventati testi filosofici attraverso l'interpretazione di Platone e soprattutto di Aristotele, mentre non hanno nulla del trattato o comunque del tipo di scrittura che caratterizzerà il genere filosofico: Eraclito usa sentenze oracolari, Parmenide e Empedocle compongono poemi. E non sappiamo nulla del tipo di scrittura adottato da Zenone o da Melisse: non è escluso che fosse qualcosa di simile al dialogo o al racconto. Ma soprattutto il contenuto di questi testi presenta temi comuni alla cultura letteraria coeva: il senso di impotenza degli uomini, gli inganni dei quali sono schiavi, l'isolamento del dotto rispetto alla massa dei mortali. Semmai attraverso la letteratura fìlosofica entra nel linguaggio letterario la religione della salvezza dalla morte. |