«Le sostanze
inferiori — egli dice (Sulle parti
degli anim.. I, 5, 645 a, 1 sgg.) — essendo più e meglio accessibili
alla conoscenza, vengono ad avere il sopravvento nel campo scientifico;
e poiché sono più vicine a noi e più conformi alla nostra natura, la
scienza di esse finisce per essere equivalente alla filosofia che studia
le sostanze divine... Infatti anche nel caso di quelle meno favorite
dal punto di vista dell'apparenza sensibile, la natura che le ha prodotte
da gioie indicibili a coloro che, considerandole scientificamente, sanno
comprenderne le cause e sono per loro natura filosofi... Si deve inoltre
tener presente che chi discute di una qualsiasi parte, o elemento della
realtà, non considera il suo aspetto materiale, ne ha interesse per
questo, bensì mira alla forma nella sua totalità. Quel che importa è la casa, non i mattoni,
la calce e le travi: cosi nello studio della natura, quel che interessa
è la sostanza totale di un essere determinato e non le sue parti che,
separate dalle sostanze che entrano a costituirle, neppure esistono». Queste parole,
che si può dire costituiscano il programma scientifico di Aristotele,
trovano la loro giustificazione nella teoria della sostanza, che è il
centro della sua metafisica. Questa teoria ha infatti dimostrato che
ogni essere ha, nella sostanza che lo costituisce, il principio o la
causa della sua necessità. Ogni essere ha dunque, in quanto tale, il
suo proprio valore e, pur che si consideri in esso ciò che appunto
lo fa essere, cioè la forma totale o sostanza, è degno di considerazione
e di studio e può esser oggetto di scienza. Perciò Aristotele avverte
nel passo riportato di guardare alla forma e non alla materia, alla
totalità, in cui si attua la sostanza, e non alle parti. Conformemente
al programma che le sue ultime e più mature ricerche metafisiche avevano
speculativamente giustificato, l'attività scientifica di Aristotele
si volse sempre di più alle ricerche particolari. Egli rivolse soprattutto
la sua attenzione al mondo animale, come risulta dai numerosi scritti
di storia naturale che ci rimangono; ma si può dire che nessun campo
dell'indagine empirica gli era estraneo, perché egli preparava nello
stesso tempo la silloge delle 158 costituzioni politiche e si dava ad
altre ricerche erudite, come la compilazione del catalogo dei vincitori
dei giochi pitici. Ma di tutte
le vaste indagini naturalistiche di Aristotele, che come tali esulano
dal campo della filosofìa, non è possibile qui far cenno. Sappiamo già
che la fisica è per lui una scienza teoretica,
accanto alla matematica e alla filosofìa prima. Il suo oggetto è l’essere in movimento, costituito dalle
due sostanze che sono dotate di movimento, quella generabile e corruttibile
che forma i corpi sublunari e quella ingenerabile ed incorruttibile
che forma i corpi celesti. Il movimento
è, secondo Aristotele, il passaggio dalla potenza all'atto ed ha quindi
sempre un fine (telos), che
è la forma o specie che esso tende a realizzare. Poiché l'atto come
sostanza precede sempre la potenza, ogni movimento presuppone già in
atto la forma che è il suo termine finale. Aristotele ammette quattro
tipi fondamentali di movimento: 1) il
movimento sostanziale, cioè
la generazione e la corruzione; 2) il
movimento qualitativo, cioè
il mutamento o l'alterazione; 3) il
movimento quantitativo, cioè
l'aumento e la diminuzione; 4) il
movimento locale, cioè il
movimento propriamente detto. Quest'ultimo tuttavia è, secondo
Aristotele, il movimento fondamentale a cui tutti gli altri si riducono;
difatti l'aumento e la diminuzione sono dovuti all'afflusso o all'allontanamento
d'una certa materia; il mutamento, la generazione e la corruzione suppongono
il riunirsi in un dato luogo, o il separarsi, di determinati elementi.
Sicché soltanto il movimento locale, cioè il cambiamento di luogo,
è il movimento fondamentale che consente di distinguere e di classificare
le varie sostanze fisiche. Ora il movimento
locale è, secondo Aristotele, di tré specie: 1) movimento
circolare intorno al centro
del mondo; 2) movimento
dal centro del mondo verso
l'alto; 3) movimento
dall'alto verso il centro
del mondo. Questi due ultimi movimenti sono
reciprocamente opposti e possono appartenere alle stesse sostanze,
le quali saranno cosi soggette al mutamento, alla generazione e alla
corruzione. Difatti, gli elementi costitutivi di queste sostanze potendosi
muovere sia dall'alto verso il basso sia dal basso verso l'alto, provocheranno
con questi spostamenti la nascita, il mutamento e la morte delle sostanze
composte. Il movimento
circolare, invece, non ha contrari; sicché le sostanze che si muovono
con questa specie di movimento sono di necessità immutabili, ingenerabili
e incorruttibili. Aristotele ritiene che l’etere, l'elemento che compone i corpi
celesti, è l'unico che si muova di movimento circolare. Questa opinione
che i corpi celesti siano formati da un elemento diverso da quelli che
compongono l'universo e che perciò non sia soggetto alla vicenda di
nascita, morte e mutamenti delle altre cose, è durata a lungo nella
cultura occidentale e fu abbandonata solo nel secolo XV per opera di
Niccolo da Cusa. I movimenti
dall'alto in basso e dal basso in alto sono propri invece dei quattro
elementi che compongono le cose terrestri o sublunari: acqua, aria, terra e fuoco. Per
spiegare il movimento di questi elementi, Aristotele stabilisce la
teoria dei luoghi naturali. Ognuno di questi elementi ha nell'universo
un suo luogo naturale. Se la parte di un elemento
viene allontanata dal suo luogo naturale (il che non può avvenire che
con un moto violento, cioè
contrario alla situazione naturale dell'elemento) essa tende a ritornarvi
con un moto naturale. Ora i luoghi
naturali dei quattro elementi sono determinati dal loro rispettivo
peso. Al centro del mondo c'è l'elemento più pesante, la terra; intorno
alla terra ci sono le sfere degli altri elementi nell'ordine del loro
peso decrescente: acqua, aria e fuoco. Il fuoco costituisce la sfera
estrema dell'universo sublunare; al di sopra di esso c'è la prima sfera
eterea o celeste, quella della luna. Aristotele era portato a questa
teoria da esperienze assai semplici: la pietra immersa nell'acqua affonda,
cioè tende a situarsi al di sotto dell'acqua; una bolla
d'aria rotta nell'acqua sale alla superficie dell'acqua sicché l'aria
tende a disporsi al di sopra dell'acqua; il fuoco fiammeggia sempre
verso l'alto, cioè tende a congiungersi alla sua sfera che è al di
sopra dell'aria. L'universo
fisico, che comprende i cieli formati dall'etere e il mondo sublunare
formato dai quattro elementi, è, secondo Aristotele, perfetto, finito, unico ed etemo.
La perfezione del mondo è
dimostrata da Aristotele con argomenti aprioristici, privi di qualsiasi
riferimento all'esperienza. Egli invoca la teoria pitagorica sulla perfezione
del numero 3 ed afferma che il mondo, possedendo tutte e tré le dimensioni
possibili (altezza, larghezza e profondità), è perfetto perché non manca
di nulla. Ma se il mondo è perfetto, esso è anche finito.
«Infinito» significa infatti, secondo Aristotele, incompiuto: è infinito
ciò che manca di qualche cosa, quindi ciò a cui può essere aggiunto
sempre qualcosa di nuovo. Il mondo invece non manca di nulla: esso è
dunque finito. D'altronde,
nessuna cosa reale può essere infinita, secondo Aristotele. Ogni cosa
esiste infatti in uno spazio, e ogni spazio ha un centro, un basso,
un alto e un limite estremo. Ma nell'infinito non può esistere ne un
centro ne un alto ne un basso ne un limite. Quindi nessuna realtà fisica
è realmente infinita. La sfera delle stelle fisse segna i limiti dell'universo,
limiti al di là dei quali non c'è spazio. Nessun volume determinato
può essere maggiore del volume di questa sfera, nessuna linea può protrarsi
al di là del suo diametro. Da ciò deriva
che non possono esistere altri mondi al di là del nostro e non può esistere
il vuoto. Non possono esistere altri mondi, giacché tutta la materia
disponibile deve già essersi disposta ab
aeterno in questo nostro universo che ha per centro la terra e per
limite estremo la sfera delle stelle. Poiché ogni elemento tende naturalmente
al suo luogo naturale, ogni parte di terra tende a raggiungere la terra
che è al centro e ogni elemento tende a riunirsi alla propria sfera.
In tal modo il nostro universo ha dovuto raccogliere tutta la materia
possibile e fuori di esso non c'è materia: esso è unico. Ma fuori
di esso non c'è neppur vuoto.
Gli atomisti avevano sostenuto che, senza il vuoto, non è possibile
il movimento; giacché pensavano che se gli atomi (che sono simili a
sassolini piccolissimi) fossero pressati insieme senza intervalli vuoti
tra l'uno e l'altro, nessun atomo si potrebbe muovere. Aristotele invece
ritiene che il movimento nel vuoto non sarebbe possibile. Difatti nel
vuoto non ci sarebbe ne’ un centro, ne’ un alto, ne’ un basso; per conseguenza
non ci sarebbe motivo per un corpo di muoversi in una direzione piuttosto
che in un'altra e tutti i corpi rimarrebbero fermi. In queste
argomentazioni, Aristotele, come si vede, si avvale continuamente della
teoria dei luoghi naturali, fondata sulla classificazione dei movimenti.
E va tanto oltre da portare come argomento contro il vuoto quello che
noi oggi diremmo il principio di inerzia. Nel vuoto, egli dice, un corpo
o resterebbe in riposo o continuerebbe nel suo movimento, finché non
gli si opponesse una forza maggiore. Questo, secondo Aristotele, è un
argomento contro il vuoto; ma in realtà quest'argomento dimostra soltanto
che Aristotele ritiene assurdo quello che è il primo principio della
meccanica moderna, il principio d'inerzia. Vedremo che questo principio
troverà riconoscimento nella scolastica del secolo XIV e sarà poi esattamente
formulato da Leonardo. Infine come
totalità perfetta e finita il mondo è eterno.
Aristotele definisce il tempo come «il numero del movimento secondo
il prima ed il dopo» (Fis.,
IV, 11, 219 b, I): intendendo con ciò che esso è l'ordine misurabile
del movimento. Egli distingue inoltre la durata infinita del tempo,
nel quale vive tutto ciò che muta, dall'eternità che è l'esistenza intemporale
dell'immutabile. Ma al mondo nella sua totalità attribuisce proprio
l'eternità in questo senso. Egli ritiene che il mondo non si generò
ne può distruggersi e abbraccia e comprende nella sua immutabilità
totale tutta l'infinità del tempo, e quindi tutti i mutamenti che avvengono
nel tempo. Conseguentemente Aristotele non ci ha dato una cosmogonia,
come aveva fatto Platone nel Timeo;
e non poteva darcela, dal momento che, secondo lui, il mondo non
nasce. A questa
eternità del mondo è congiunta l'eternità di tutti gli aspetti fondamentali
e di tutte le forme sostanziali del mondo. Sono perciò eterne le specie
animali, ed anche la specie umana la quale, secondo Aristotele, può
subire alterne vicende nella sua storia sulla terra, ma è imperitura
com'è ingenerata. La perfezione
del mondo, che è il presupposto di tutta la fisica aristotelica, implica
la struttura finalistica del mondo stesso: implica, cioè, che nel mondo
ogni cosa abbia un fine. La
considerazione del fine è essenziale a tutta la fisica aristotelica. Si è visto
che per Aristotele il movimento di un corpo non si spiega se non ammettendo
che esso tende naturalmente a raggiungere il suo luogo naturale: la
terra tende al centro e gli altri elementi tendono ognuno alla propria
sfera. Il luogo naturale di un elemento è determinato dall'ordine perfetto
delle parti dell'universo. Raggiungere questo luogo, quindi mantenere
e garantire la perfezione del tutto, è il fine di ogni movimento fisico. Già nella
legge fondamentale che spiega i movimenti della natura è presente la
considerazione del fine. Ma il fine è ancora più evidente nel mondo
biologico, cioè negli organismi animali: si spiega quindi la preferenza
di Aristotele per le ricerche biologiche, alle quali fu dedicata gran
parte della sua attività. «La divinità e la natura — dice Aristotele
(De caelo. I, 4, 271 a) —
non fanno nulla di inutile». Il caso (autómaton),
propriamente parlando, non esiste. Diciamo che si verificano per caso
gli effetti accidentali di certi eventi che rientrano nell'ordine delle
cose. Una pietra che cade e ferisce qualcuno, lo ferisce per caso perché
non è caduta per lo scopo di ferirlo; la caduta di essa rientra tuttavia
nell'ordine delle cose. La fortuna (tyche)
è una specie di caso che si verifica nell'ordine delle azioni umane:
come, ad esempio, chi si reca al mercato per tutt'altro motivo e li
incontra un debitore che gli restituisce la somma dovuta. L'azione di
quest'uomo fortunato era fatta per un fine ma non per quel fine: perciò
si parla di fortuna (Fis.,
II, 5).
Una
parte della fisica è quella che studia l'anima. L'anima è oggetto della
fisica in quanto è forma incorporata
nella materia; le forme di questo genere sono appunto studiate dalla
fisica, mentre la matematica studia le forme astratte o separate dalla
materia. L'anima è una sostanza che informa e vivifica un determinato
corpo. Essa è definita come «l'atto (entelechia) primo
di un corpo che ha la vita in potenza». L'anima sta al corpo come l'atto
della visione sta all'organo visivo: è la realizzazione finale della
capacità che è propria di un corpo organico. Come ogni strumento ha
una sua funzione, che è l'atto o attività dello strumento (come,
per es., funzione della scure è di tagliare), cosi il corpo in quanto
strumento ha come sua funzione quella di vivere e di pensare; e l'atto
di questa funzione è l'anima. Aristotele
distingue tre funzioni fondamentali dell'anima: a)
la funzione
vegetativa che è la potenza nutritiva e riproduttiva ed è propria
di tutti gli esseri viventi a cominciare dalle piante; b)
la funzione
sensitiva che comprende la sensibilità e il movimento ed è propria
degli animali e dell'uomo; c)
la funzione
intellettiva che è propria dell'uomo. Le funzioni più elevate possono far le veci delle funzioni inferiori, ma non viceversa; così nell'uomo l'anima intellettiva compie anche le funzioni che negli animali sono compiute dall'anima sensitiva e nelle piante da quella vegetativa. Oltre i
cinque sensi specifici, ognuno dei quali fornisce particolari sensazioni
(colori, suoni, sapori, ecc.), c'è un senso
comune cui Aristotele attribuisce una duplice funzione: 1)
quella di costituire la coscienza della sensazione, cioè
«il sentir di sentire» che non può appartenere ad alcun senso particolare;
2)
quella di percepire le determinazioni sensibili comuni a
più sensi come il movimento, la quiete, la figura, la grandezza, il
numero e l'unità. La sensazione in atto coincide con l'oggetto sensibile: per esempio, l'udire il suono e il suono stesso coincidono. In tal senso si può dire che se non ci fossero i sensi, non ci sarebbero gli oggetti sensibili (se non ci fosse la vista, non ci sarebbero i colori). Non ci sarebbero in atto: ci sarebbero bensì in potenza, perché essi coincidono con la sensibilità solo nell'atto di questa. Dal senso
si distingue l’immaginazione;
la quale si distingue pure dalla scienza, che è sempre vera, e dall'opinione
che è accompagnata dalla fede nella realtà dell'oggetto, perché tale
fede manca nell'immaginazione. L'immaginazione è prodotta dalla sensazione
in atto e le immagini che essa fornisce sono simili alle sensazioni;
possono quindi negli animali o anche negli uomini, quando hanno la
mente offuscata dal sentimento, dalle malattie o dal sonno, determinare
l'azione. Analogo
a quello della sensibilità è il funzionamento dell'intelletto. L'anima
intellettiva riceve le immagini come i sensi ricevono le sensazioni;
il suo compito è di giudicarle vere o false, buone o cattive; e a seconda
che le giudica, le approva o le disapprova, le desidera o le sfugge.
L'intelletto è, quindi, la capacità di giudicare le immagini fornite
dai sensi. «Nessuno
potrebbe imparare ed intendere nulla se non apprendesse nulla coi sensi;
e tutto quanto si pensa, si pensa necessariamente con immagini» (De an.. III, 7, 432 a). Tuttavia
il pensiero non ha nulla a che fare con l'immaginazione: è il giudizio
portato sugli oggetti dell'immaginazione e che li dichiara veri o falsi,
buoni o cattivi. Come l'atto
del sentire è identico con l'oggetto sensibile, cosi l'atto dell'intendere
è identico con l'oggetto intelligibile. Ciò significa che quando l'intelletto
intende, il suo atto s'identifica con la verità stessa, con l'oggetto
inteso; più precisamente s'identifica con l'essenza sostanziale dell'oggetto
stesso (De an., Ili, 6, 430 b, 27). Perciò Aristotele
dice: «la scienza in atto è identica con il suo oggetto» (Ib., 431 a, 1), o, più in generale, che
«l'anima è, in un certo modo, tutti gli enti»; gli enti infatti sono
o sensibili o intellegibili e mentre la scienza s'identifica con gli
enti intellegibili, la sensazione s'identifica con i sensibili (Ih., 43 Ib, 20). Quest'identità
tuttavia non c'è più quando si consideri non già la conoscenza in atto,
ma quella in potenza. Aristotele insiste sulla distinzione tra intelletto
potenziale e intelletto attuale. Quest'ultimo contiene in atto tutte
le verità, tutti gli oggetti possibili d'intellezione. Esso agisce sull'intelletto
potenziale come la luce che fa passare all'atto i colori che nell'oscurità
sono in potenza: fa cioè passare all'atto le verità che nell'intelletto
potenziale sono solo in potenza. Perciò è detto da Aristotele intelletto attivo ed è considerato «separato, impassibile, non commisto»
(De an.. Ili, 5). Esso solo
non muore e dura eterno, mentre l’intelletto
passivo o potenziale si corrompe e senza di quello non può pensare
nulla. Se l'intelletto
attivo sia dell'uomo, di Dio o di entrambi, in qual rapporto stia con
la sensibilità, quale sia il significato di quella «separazione» che
Aristotele gli attribuisce, sono problemi che Aristotele non si è proposti
e che dovevano essere a lungo dibattuti nella scolastica araba e cristiana
e nel Rinascimento. |