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LA FISICA

La parola metafisica, coniata probabilmente da un peripatetico anteriore ad Andronico, deriva dall'ordinamento degli scritti aristotelici, nel quale i li­bri di filosofia capitarono «dopo la fisica»; ma esprime anche il motivo fon­damentale della «filosofia prima» di Aristotele, la quale muove alla considerazione della sostanza immobile, partendo dalle apparenze sensibili ed è dominata dalla preoccupazione di «salvare i fenomeni». Quello studio del mon­do naturale che per Platone appartiene alla sfera dell'opinione e non esce dal limite dei «ragionamenti probabili», per Aristotele è invece una scienza nel pieno e rigoroso significato del termine. Per Aristotele non c'è nella natura nulla di così insignificante, di così trascurabile che non valga la pena di essere studiato e non sia fonte di soddisfazione e di gioia per il ricercatore.

«Le sostanze inferiori — egli dice (Sulle parti degli anim.. I, 5, 645 a, 1 sgg.) — essendo più e meglio accessibili alla conoscenza, vengono ad avere il sopravvento nel campo scientifico; e poiché sono più vicine a noi e più conformi alla nostra natura, la scienza di esse finisce per essere equivalente alla filosofia che studia le sostanze divine... Infatti anche nel caso di quelle meno favorite dal punto di vista dell'apparenza sensibile, la natura che le ha prodotte da gioie indicibili a coloro che, considerandole scientificamente, sanno comprenderne le cause e sono per loro natura filosofi... Si deve inoltre tener presente che chi discute di una qualsiasi parte, o elemento della realtà, non considera il suo aspetto materiale, ne ha interesse per questo, bensì mira alla forma nella sua totalità. Quel che importa è la casa, non i mattoni, la calce e le travi: cosi nello studio della natura, quel che interessa è la sostanza totale di un essere determinato e non le sue parti che, separate dalle sostanze che entrano a costituirle, neppure esistono».

Queste parole, che si può dire costituiscano il programma scientifico di Aristotele, trovano la loro giustificazione nella teoria della sostanza, che è il centro della sua metafisica. Que­sta teoria ha infatti dimostrato che ogni essere ha, nella sostanza che lo costituisce, il principio o la causa della sua necessità. Ogni essere ha dunque, in quanto tale, il suo proprio valore e, pur che si consideri in esso ciò che ap­punto lo fa essere, cioè la forma totale o sostanza, è degno di considerazione e di studio e può esser oggetto di scienza. Perciò Aristotele avverte nel passo riportato di guardare alla forma e non alla materia, alla totalità, in cui si at­tua la sostanza, e non alle parti.

Conformemente al programma che le sue ultime e più mature ricerche metafisiche avevano speculativamente giustificato, l'attività scientifica di Aristotele si volse sempre di più alle ricerche particolari. Egli rivolse soprattutto la sua attenzione al mondo animale, come risulta dai numerosi scritti di storia naturale che ci rimangono; ma si può dire che nessun campo dell'indagine empirica gli era estraneo, perché egli preparava nello stesso tempo la silloge delle 158 costituzioni politiche e si dava ad altre ricerche erudite, come la compilazione del catalogo dei vincitori dei giochi pitici.

Ma di tutte le vaste indagini naturalistiche di Aristotele, che come tali esulano dal campo della filosofìa, non è possibile qui far cenno. Sappiamo già che la fisica è per lui una scienza teoretica, accanto alla matematica e alla filosofìa prima. Il suo oggetto è l’essere in movimento, costituito dalle due so­stanze che sono dotate di movimento, quella generabile e corruttibile che forma i corpi sublunari e quella ingenerabile ed incorruttibile che forma i corpi celesti.

Il movimento è, secondo Aristotele, il passaggio dalla potenza all'atto ed ha quindi sempre un fine (telos), che è la forma o specie che esso tende a realizzare. Poiché l'atto come sostanza precede sempre la potenza, ogni movi­mento presuppone già in atto la forma che è il suo termine finale. Aristotele ammette quattro tipi fondamentali di movimento:

1)      il movimento sostanziale, cioè la generazione e la corruzione;

2)      il movimento qualitativo, cioè il mutamento o l'alterazione;

3)      il movimento quantitativo, cioè l'aumento e la diminuzione;

4)      il movimento locale, cioè il movimento propriamente detto.

Quest'ultimo tuttavia è, secondo Aristotele, il movimento fondamentale a cui tutti gli altri si riducono; difatti l'aumento e la diminuzione sono dovuti all'afflusso o all'allontanamento d'una certa materia; il mutamento, la gene­razione e la corruzione suppongono il riunirsi in un dato luogo, o il separarsi, di determinati elementi. Sicché soltanto il movimento locale, cioè il cambia­mento di luogo, è il movimento fondamentale che consente di distinguere e di classificare le varie sostanze fisiche.

Ora il movimento locale è, secondo Aristotele, di tré specie:

1)      movimento circolare intorno al centro del mondo;

2)      movimento dal centro del mondo verso l'alto;

3)      movimento dall'alto verso il centro del mondo.

Questi due ultimi movimenti sono reciprocamente opposti e possono appartenere alle stes­se sostanze, le quali saranno cosi soggette al mutamento, alla generazione e alla corruzione. Difatti, gli elementi costitutivi di queste sostanze potendosi muovere sia dall'alto verso il basso sia dal basso verso l'alto, provocheranno con questi spostamenti la nascita, il mutamento e la morte delle sostanze composte.

Il movimento circolare, invece, non ha contrari; sicché le sostanze che si muovono con questa specie di movimento sono di necessità immutabili, inge­nerabili e incorruttibili. Aristotele ritiene che l’etere, l'elemento che compo­ne i corpi celesti, è l'unico che si muova di movimento circolare. Questa opi­nione che i corpi celesti siano formati da un elemento diverso da quelli che compongono l'universo e che perciò non sia soggetto alla vicenda di nascita, morte e mutamenti delle altre cose, è durata a lungo nella cultura occidentale e fu abbandonata solo nel secolo XV per opera di Niccolo da Cusa.

I movimenti dall'alto in basso e dal basso in alto sono propri invece dei quattro elementi che compongono le cose terrestri o sublunari: acqua, aria, terra e fuoco. Per spiegare il movimento di questi elementi, Aristotele stabi­lisce la teoria dei luoghi naturali. Ognuno di questi elementi ha nell'universo un suo luogo naturale. Se la parte di un elemento viene allontanata dal suo luogo naturale (il che non può avvenire che con un moto violento, cioè con­trario alla situazione naturale dell'elemento) essa tende a ritornarvi con un moto naturale.

Ora i luoghi naturali dei quattro elementi sono determinati dal loro rispet­tivo peso. Al centro del mondo c'è l'elemento più pesante, la terra; intorno al­la terra ci sono le sfere degli altri elementi nell'ordine del loro peso decrescen­te: acqua, aria e fuoco. Il fuoco costituisce la sfera estrema dell'universo su­blunare; al di sopra di esso c'è la prima sfera eterea o celeste, quella della lu­na. Aristotele era portato a questa teoria da esperienze assai semplici: la pie­tra immersa nell'acqua affonda, cioè tende a situarsi al di sotto dell'acqua;

una bolla d'aria rotta nell'acqua sale alla superficie dell'acqua sicché l'aria tende a disporsi al di sopra dell'acqua; il fuoco fiammeggia sempre verso l'al­to, cioè tende a congiungersi alla sua sfera che è al di sopra dell'aria.

L'universo fisico, che comprende i cieli formati dall'etere e il mondo sub­lunare formato dai quattro elementi, è, secondo Aristotele, perfetto, finito, unico ed etemo. La perfezione del mondo è dimostrata da Aristotele con argo­menti aprioristici, privi di qualsiasi riferimento all'esperienza. Egli invoca la teoria pitagorica sulla perfezione del numero 3 ed afferma che il mondo, possedendo tutte e tré le dimensioni possibili (altezza, larghezza e profondità), è perfetto perché non manca di nulla. Ma se il mondo è perfetto, esso è anche finito. «Infinito» significa infatti, secondo Aristotele, incompiuto: è infinito ciò che manca di qualche cosa, quindi ciò a cui può essere aggiunto sempre qualcosa di nuovo. Il mondo invece non manca di nulla: esso è dunque finito.

D'altronde, nessuna cosa reale può essere infinita, secondo Aristotele. Ogni cosa esiste infatti in uno spazio, e ogni spazio ha un centro, un basso, un alto e un limite estremo. Ma nell'infinito non può esistere ne un centro ne un alto ne un basso ne un limite. Quindi nessuna realtà fisica è realmente infinita. La sfera delle stelle fisse segna i limiti dell'universo, limiti al di là dei quali non c'è spazio. Nessun volume determinato può essere maggiore del volume di questa sfera, nessuna linea può protrarsi al di là del suo dia­metro.

Da ciò deriva che non possono esistere altri mondi al di là del nostro e non può esistere il vuoto. Non possono esistere altri mondi, giacché tutta la materia disponibile deve già essersi disposta ab aeterno in questo nostro universo che ha per centro la terra e per limite estremo la sfera delle stelle. Poi­ché ogni elemento tende naturalmente al suo luogo naturale, ogni parte di terra tende a raggiungere la terra che è al centro e ogni elemento tende a riunirsi alla propria sfera. In tal modo il nostro universo ha dovuto raccogliere tutta la materia possibile e fuori di esso non c'è materia: esso è unico.

Ma fuori di esso non c'è neppur vuoto. Gli atomisti avevano sostenuto che, senza il vuoto, non è possibile il movimento; giacché pensavano che se gli atomi (che sono simili a sassolini piccolissimi) fossero pressati insieme senza intervalli vuoti tra l'uno e l'altro, nessun atomo si potrebbe muovere. Aristotele invece ritiene che il movimento nel vuoto non sarebbe possibile. Difatti nel vuoto non ci sarebbe ne’ un centro, ne’ un alto, ne’ un basso; per conseguenza non ci sarebbe motivo per un corpo di muoversi in una direzio­ne piuttosto che in un'altra e tutti i corpi rimarrebbero fermi.

In queste argomentazioni, Aristotele, come si vede, si avvale continua­mente della teoria dei luoghi naturali, fondata sulla classificazione dei movi­menti. E va tanto oltre da portare come argomento contro il vuoto quello che noi oggi diremmo il principio di inerzia. Nel vuoto, egli dice, un corpo o resterebbe in riposo o continuerebbe nel suo movimento, finché non gli si opponesse una forza maggiore. Questo, secondo Aristotele, è un argomento contro il vuoto; ma in realtà quest'argomento dimostra soltanto che Aristo­tele ritiene assurdo quello che è il primo principio della meccanica moderna, il principio d'inerzia. Vedremo che questo principio troverà riconoscimento nella scolastica del secolo XIV e sarà poi esattamente formulato da Leonardo.

Infine come totalità perfetta e finita il mondo è eterno. Aristotele definisce il tempo come «il numero del movimento secondo il prima ed il dopo» (Fis., IV, 11, 219 b, I): intendendo con ciò che esso è l'ordine misurabile del movimento. Egli distingue inoltre la durata infinita del tempo, nel quale vive tutto ciò che muta, dall'eternità che è l'esistenza intemporale dell'immutabile. Ma al mondo nella sua totalità attribuisce proprio l'eternità in questo senso. Egli ritiene che il mondo non si generò ne può distruggersi e abbrac­cia e comprende nella sua immutabilità totale tutta l'infinità del tempo, e quindi tutti i mutamenti che avvengono nel tempo. Conseguentemente Aristotele non ci ha dato una cosmogonia, come aveva fatto Platone nel Timeo; e non poteva darcela, dal momento che, secondo lui, il mondo non nasce.

A questa eternità del mondo è congiunta l'eternità di tutti gli aspetti fondamentali e di tutte le forme sostanziali del mondo. Sono perciò eterne le specie animali, ed anche la specie umana la quale, secondo Aristotele, può subire alterne vicende nella sua storia sulla terra, ma è imperitura com'è ingenerata.

La perfezione del mondo, che è il presupposto di tutta la fisica aristotelica, implica la struttura finalistica del mondo stesso: implica, cioè, che nel mondo ogni cosa abbia un fine. La considerazione del fine è essenziale a tutta la fisica aristotelica.

Si è visto che per Aristotele il movimento di un corpo non si spiega se non ammettendo che esso tende naturalmente a raggiungere il suo luogo na­turale: la terra tende al centro e gli altri elementi tendono ognuno alla pro­pria sfera. Il luogo naturale di un elemento è determinato dall'ordine perfet­to delle parti dell'universo. Raggiungere questo luogo, quindi mantenere e garantire la perfezione del tutto, è il fine di ogni movimento fisico. Già nella legge fondamentale che spiega i movimenti della natura è presente la consi­derazione del fine. Ma il fine è ancora più evidente nel mondo biologico, cioè negli organismi animali: si spiega quindi la preferenza di Aristotele per le ricerche biologiche, alle quali fu dedicata gran parte della sua attività. «La divinità e la natura — dice Aristotele (De caelo. I, 4, 271 a) — non fanno nulla di inutile». Il caso (autómaton), propriamente parlando, non esiste. Di­ciamo che si verificano per caso gli effetti accidentali di certi eventi che rientrano nell'ordine delle cose. Una pietra che cade e ferisce qualcuno, lo ferisce per caso perché non è caduta per lo scopo di ferirlo; la caduta di essa rientra tuttavia nell'ordine delle cose. La fortuna (tyche) è una specie di caso che si verifica nell'ordine delle azioni umane: come, ad esempio, chi si reca al mercato per tutt'altro motivo e li incontra un debitore che gli restituisce la somma dovuta. L'azione di quest'uomo fortunato era fatta per un fine ma non per quel fine: perciò si parla di fortuna (Fis., II, 5).

 

L'ANIMA

 Una parte della fisica è quella che studia l'anima. L'anima è oggetto della fisica in quanto è forma incorporata nella materia; le forme di questo genere sono appunto studiate dalla fisica, mentre la matematica studia le forme astratte o separate dalla materia. L'anima è una sostanza che informa e vivifica un determinato corpo. Essa è definita come «l'atto (entelechia) primo di un corpo che ha la vita in potenza». L'anima sta al corpo come l'atto della visione sta all'organo visivo: è la realizzazione finale della capacità che è pro­pria di un corpo organico. Come ogni strumento ha una sua funzione, che è l'atto o attività dello strumento (come, per es., funzione della scure è di tagliare), cosi il corpo in quanto strumento ha come sua funzione quella di vivere e di pensare; e l'atto di questa funzione è l'anima.

Aristotele distingue tre funzioni fondamentali dell'anima:

a)            la funzione vegetativa che è la potenza nutritiva e riproduttiva ed è propria di tutti gli es­seri viventi a cominciare dalle piante;

b)            la funzione sensitiva che comprende la sensibilità e il movimento ed è propria degli animali e dell'uomo;

c)            la fun­zione intellettiva che è propria dell'uomo.

Le funzioni più elevate possono far le veci delle funzioni inferiori, ma non viceversa; così nell'uomo l'anima in­tellettiva compie anche le funzioni che negli animali sono compiute dall'anima sensitiva e nelle piante da quella vegetativa.

Oltre i cinque sensi specifici, ognuno dei quali fornisce particolari sensa­zioni (colori, suoni, sapori, ecc.), c'è un senso comune cui Aristotele attribui­sce una duplice funzione:

1)            quella di costituire la coscienza della sensazione, cioè «il sentir di sentire» che non può appartenere ad alcun senso particolare;

2)            quella di percepire le determinazioni sensibili comuni a più sensi come il movimento, la quiete, la figura, la grandezza, il numero e l'unità.

La sensa­zione in atto coincide con l'oggetto sensibile: per esempio, l'udire il suono e il suono stesso coincidono. In tal senso si può dire che se non ci fossero i sensi, non ci sarebbero gli oggetti sensibili (se non ci fosse la vista, non ci sa­rebbero i colori). Non ci sarebbero in atto: ci sarebbero bensì in potenza, perché essi coincidono con la sensibilità solo nell'atto di questa.

Dal senso si distingue l’immaginazione; la quale si distingue pure dalla scienza, che è sempre vera, e dall'opinione che è accompagnata dalla fede nella realtà dell'oggetto, perché tale fede manca nell'immaginazione. L'immaginazione è prodotta dalla sensazione in atto e le immagini che essa forni­sce sono simili alle sensazioni; possono quindi negli animali o anche negli uo­mini, quando hanno la mente offuscata dal sentimento, dalle malattie o dal sonno, determinare l'azione.

Analogo a quello della sensibilità è il funzionamento dell'intelletto. L'anima intellettiva riceve le immagini come i sensi ricevono le sensazioni; il suo compito è di giudicarle vere o false, buone o cattive; e a seconda che le giudica, le approva o le disapprova, le desidera o le sfugge. L'intelletto è, quindi, la capacità di giudicare le immagini fornite dai sensi.

«Nessuno potrebbe imparare ed intendere nulla se non apprendesse nulla coi sensi; e tutto quanto si pensa, si pensa necessariamente con immagini» (De an.. III, 7, 432 a).

Tuttavia il pensiero non ha nulla a che fare con l'immaginazione: è il giudizio portato sugli oggetti dell'immaginazione e che li dichiara veri o falsi, buoni o cattivi.

Come l'atto del sentire è identico con l'oggetto sensibile, cosi l'atto dell'intendere è identico con l'oggetto intelligibile. Ciò significa che quando l'intelletto intende, il suo atto s'identifica con la verità stessa, con l'oggetto inteso; più precisamente s'identifica con l'essenza sostanziale dell'oggetto stesso (De an., Ili, 6, 430 b, 27). Perciò Aristotele dice: «la scienza in atto è identica con il suo oggetto» (Ib., 431 a, 1), o, più in generale, che «l'anima è, in un certo modo, tutti gli enti»; gli enti infatti sono o sensibili o intellegibili e mentre la scienza s'identifica con gli enti intellegibili, la sensazione s'identifica con i sensibili (Ih., 43 Ib, 20).

Quest'identità tuttavia non c'è più quando si consideri non già la conoscenza in atto, ma quella in potenza. Aristotele insiste sulla distinzione tra intelletto potenziale e intelletto attuale. Quest'ultimo contiene in atto tutte le verità, tutti gli oggetti possibili d'intellezione. Esso agisce sull'intelletto potenziale come la luce che fa passare all'atto i colori che nell'oscurità sono in potenza: fa cioè passare all'atto le verità che nell'intelletto potenziale sono solo in potenza. Perciò è detto da Aristotele intelletto attivo ed è conside­rato «separato, impassibile, non commisto» (De an.. Ili, 5). Esso solo non muore e dura eterno, mentre l’intelletto passivo o potenziale si corrompe e senza di quello non può pensare nulla.

Se l'intelletto attivo sia dell'uomo, di Dio o di entrambi, in qual rapporto stia con la sensibilità, quale sia il significato di quella «separazione» che Aristotele gli attribuisce, sono problemi che Aristotele non si è proposti e che dovevano essere a lungo dibattuti nella scolastica araba e cristiana e nel Rinascimento.