IL TEMA DELL’ANALITICA

Secondo l'ordine tradizionale, si occupa di logica il primo gruppo di opere di Aristòtele, il quale però usa il nome di «analitica». Queste opere furono raccolte da Andronico di Rodi sotto il titolo di Órganon, cioè «strumento». Così facendo egli suggeriva che l'analitica fosse una tecnica al servizio della filosofia, piuttosto che una sua parte. Che cosa ritenesse Aristòtele stesso in proposito va desunto, più che da affermazioni esplicite, dall'origine di tali indagini, che probabilmente datano dai primi anni di presenza nell'Accademia di Platone. Qui l'ambiente molto aperto e libero favorì senza dubbio l'elaborazione di sue posizioni originali, che diedero occasione alla pubblicazione delle prime opere. Tra essi va classificato anche il Protrèttico, opera (perduta) di esortazione alla filosofia scritta in polemica con Isòcrate, che nella contemporanea Antìdosi (353) si faceva sostenitore di una formazione culturale fondamentalmente letteraria. Aristòtele vuole invece legare la retorica alla dialettica (l'arte platonica della discussione argomentata), e sul tema comincia anche a tenere corsi all'interno dell'Accademia. È verosimile che l'attività didattica sia accompagnata dalla stesura di trattati ad uso interno, che possono coincidere in buona parte con le opere giunteci.

L'analitica di Aristòtele nasce dunque dal desiderio di rendere più rigorosa la dialettica platonica fino a trasformarla in un metodo descrivibile e chiaramente differenziato dai procedimenti retorici (che vengono sì studiati da Aristòtele, ma come rientranti nel campo della tecnica). L'impostazione che permette questo progresso viene manifestata con esemplare chiarezza già nei Topici, quello che probabilmente è il suo primo scritto sull'argomento:

Il fine che questo trattato si propone è di trovare un metodo con cui poter costruire, per ogni problema proposto, dei sillogismi. ... Sillogismo è propriamente un discorso (lógos) in cui, posti alcuni elementi, risulta per necessità, a causa degli elementi stabiliti, qualcosa di differente da essi. Si ha così anzitutto dimostrazione, quando il sillogismo è costituito e deriva da elementi veri e primi. ... Dialettico è poi il sillogismo che conclude da elementi plausibili (éndoxa). ... Eristico è infine il sillogismo costituito da elementi che sembrano plausibili, pur non essendolo, e anche quello che all'apparenza deriva da elementi plausibili o presentatisi come tali (Topici I, 100 a18-b25).

Insomma, scopo ultimo della logica è individuare le leggi del ragionamento (syllogismói). Una legge logica è quella che mi assicura che una certa connessione di proposizioni è sempre corretta, in virtù della sua semplice forma, a prescindere dalla verità delle proposizioni che la compongono (per questo oggi si usa parlare di «logica formale»). Per esempio, il ragionamento «se l'uomo è un anfibio, allora può vivere nell'acqua» è corretto, anche se la conclusione in sé è falsa, essendo falsa la premessa. Viceversa, il ragionamento che dalla stessa premessa concludesse che «l'uomo non può vivere nell'acqua», sarebbe scorretto, benché la conclusione sia vera. Il sillogismo corretto non assicura quindi che ci siano conclusioni vere, ma assicura che, quando siano poste premesse vere, anche la conclusione sia vera.

Tale nuova impostazione puramente formale, sganciata dai contenuti di qualsivoglia scienza, spalanca in effetti ad Aristòtele un campo di problemi molto grande, studiati con completezza e raffinatezza incomparabilmente superiori a quelle usate da Platone. Questo è il motivo per cui l'effettiva esecuzione del compito va molto oltre le originarie intenzioni, mentre viene in parte perso di vista l'intento di chiarire il procedimento effettivo delle scienze. Ciò è tanto vero che Aristòtele stesso dovrà annotare che non si può imporre in ogni campo del sapere (per esempio nell'etica) quella esattezza dimostrativa messa in opera nella teoria del sillogismo.

I TERMINI E LE PROPOSIZIONI

Anzitutto Aristòtele si rende conto che la teoria del sillogismo non può essere costruita se non cominciando ad analizzarne le componenti. Bisogna allora dire che il sillogismo è composto di «proposizioni», e che queste sono costituite da «termini». È questa una distinzione che avrà una grande fortuna nella storia della logica e che si può dire mantenuta in buona parte fino ad oggi.

Riguardo ai termini, Aristòtele conduce analisi dettagliate sulla struttura del linguaggio e sulle parti del discorso, fermando la sua attenzione in particolare sul nome (ónoma) e sul verbo (rhéma), inaugurando in questo modo l'analisi logica del linguaggio. Il carattere principale che egli riconosce ai termini è il loro carattere significativo ovvero simbolico: «I suoni della voce sono simboli delle affezioni che hanno luogo nell'anima, e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce» (Sull'interpretazione 1, 16 a2). Tuttavia tale rapporto è solo convenzionale: non c'è nessun rapporto necessario tra il suono «híppos» e il concetto del cavallo, tant'è vero che altre lingue adoperano suoni differenti. Importante è però notare che, malgrado il rapporto solo convenzionale, il linguaggio esprime tuttavia realmente il pensiero dell'uomo, e in quanto tale può essere il punto di partenza di un'analisi della forma e della struttura del ragionamento.

Entra più decisamente nel campo della logica l'analisi della proposizione. Essa viene anzitutto definita così:

La proposizione (prótasis) è un discorso che afferma o che nega qualcosa rispetto a qualcosa. ... Chiamo d'altra parte termine (hóros) l'elemento cui si riduce la proposizione, ossia ciò che è predicato e ciò di cui è predicato [cioè il soggetto], con l'aggiunta di essere o di non essere [cioè della copula] (Analitici primi I.1, 24 a16-b16).

Come nei termini ciò che conta è il loro significato, così nelle proposizioni è la loro verità o falsità. Anzitutto per Aristòtele è evidente che il vero e il falso non si trovano nelle cose, ma soltanto nel pensiero dell'uomo: non è questa mela vera o falsa, ma solo ciò che io penso di essa. Inoltre:

Come nell'anima talvolta sussiste una nozione che prescinde dal vero e dal falso, e talvolta sussiste invece qualcosa cui spetta necessariamente o di essere vero o di essere falso, così avviene pure per quanto si trova nel suono della voce. In effetti, il falso e il vero consistono nella congiunzione e nella separazione. In sé, i nomi e verbi assomigliano dunque alle nozioni, quando queste non siano congiunte a nulla né separate da nulla. ... Dichiarativi sono, però, non tutti i discorsi, ma quelli in cui sussiste un'enunciazione vera oppure falsa. Tale enunciazione non sussiste certo in tutti: la preghiera, ad esempio, è un discorso, ma non risulta né vera né falsa (Sull'interpretazione 1, 16 a9 -- 17 a7).

Ma che cosa significa che una proposizione è vera?

Se è vero dire che una cosa è bianca (oppure che non è bianca), essa sarà necessariamente bianca (oppure non sarà bianca), e d'altra parte, se una cosa è bianca (oppure non è bianca), era vero affermare oppure negare la cosa (Sull'interpretazione 9, 18 a40-b1).

Malgrado l'apparente banalità, questa descrizione della verità come corrispondenza tra la proposizione e la realtà eserciterà -- condivisa o contestata -- una influenza decisiva sulla storia della filosofia.

LE PREDICAZIONI

Un'attenzione particolare è dedicata da Aristòtele al verbo «essere» che realizza la connessione grazie alla quale la proposizione può essere vera o falsa. Come si è visto, per Aristòtele ogni proposizione può infatti assumere fondamentalmente solo le due forme «A è B» oppure «A non è B». Ciò è in effetti abbastanza giusto almeno per la lingua greca, in cui anche i predicati verbali possono essere sempre riespressi sotto forma di copula e participio («Infatti non c'è nessuna differenza tra "l'uomo è vivente" e "l'uomo vive", né tra "l'uomo è camminante" o "tagliante" e "l'uomo cammina" o "taglia", e ugualmente anche per gli altri casi», Metafisica V.7, 1017 a27-30). Questa era la scoperta che già aveva fatto Parmènide.

Ciò che però Aristòtele continuamente contesta a Parmenide è la pretesa che «ente» abbia un unico significato. Bisogna invece dire che «l'ente si dice in molti significati diversi» (to ón pollachós légetai, Metafisica IV.2, 1003 a33 e altrove). Quando si considera, come stiamo appunto facendo, il verbo «essere» usato nelle proposizioni, bisogna dire che esso non ha un significato autonomo e unico, ma assume tutti i possibili significati dei termini che connette. Tali significati vengono classificati in alcuni gruppi principali (otto o dieci secondo i testi), chiamati «generi delle predicazioni» o in breve «predicazioni» (kategoríai). Ecco il testo più schematico al riguardo:

Delle cose dette secondo nessun collegamento [= termini] ciascuna significa o ousía o di una quantità o di una qualità o in relazione a qualcosa o in un luogo o in un tempo o giacere o avere o fare o subire. Ed è ousía (per fare un caso) ad esempio «uomo», «cavallo»; di una quantità per esempio «di due cùbiti», «di tre cùbiti»; di una qualità per esempio «bianco», «grammatico»; in relazione a qualcosa per esempio «doppio», «maggiore»; in un luogo ad esempio «nel liceo», «in piazza»; in un tempo ad esempio «ieri», «un anno fa»; giacere per esempio «è disteso», «siede»; avere per esempio «è calzato», «è armato»; fare per esempio «tagliare», «bruciare»; subire per esempio «venir tagliato», «venir bruciato» (Categorie I.4, 1 b25 -- 2 a4).

La distinzione più netta riguarda la prima categoria: in greco ousía, in italiano tradizionalmente sostanza, ma più chiaramente potrebbe forse essere resa con esistenza. Essa indica infatti il soggetto primo, ciò che «esistendo» permette l'attribuzione di altri predicati: una considerazione questa che svolgerà un ruolo centrale nella Metafisica. All'interno dell'analitica, la teoria delle predicazioni adempie invece ad una funzione solo preliminare: mostrare come la riduzione di tutte le proposizioni alla forma soggetto-predicato nominale non pregiudica le possibilità espressive ed è perciò perfettamente accettabile.

INTEGRAZIONE

Se le categorie abbiano un valore anche ontologico, se indichino cioè non solo i generi dei predicati ma anche i generi della realtà stessa, è un problema che è stato molto dibattuto. In linea generale si può notare che l'analisi linguistica è per Aristòtele un punto di partenza costante, ma in numerose occasioni egli mette in guardia da una meccanica trasposizione dal piano del linguaggio a quello della realtà. Ecco uno dei passi più significativi:

Dato che non è possibile discutere presentando gli oggetti come tali, e che ci serviamo invece dei nomi come di simboli che sostituiscono gli oggetti, noi riteniamo allora che i risultati osservabili a proposito dei nomi si verifichino anche nel campo degli oggetti, come avviene a coloro che fanno calcoli usando dei ciottoli. Eppure le cose non stanno allo stesso modo nei due casi: in effetti, il numero dei nomi è limitato, mentre gli oggetti sono numericamente infiniti (Confutazioni sofistiche 1, 1652 a5-10).

LA QUALIFICAZIONE

La classificazione delle proposizioni più importante per l'analitica riguarda invece quella che modernamente è chiamata «quantificazione dei predicati»:

La proposizione è dunque un discorso che afferma o nega qualcosa rispetto a qualcosa. Tale discorso, poi, è universale o particolare. ... Con discorso universale intendo quello che esprime l'appartenenza ad ogni cosa o a nessuna cosa; con discorso particolare, intendo quello che esprime l'appartenenza a qualche cosa o la non appartenenza a qualche cosa (Analitici primi I.24, a16-20).

«Qualche» va inteso nel senso del moderno quantificatore esistenziale, cioè «almeno uno», assumendo che la classe individuata dal termine non sia vuota. Si osservi che Aristotele non cita qui le proposizioni singolari, in cui cioè il soggetto indica un solo oggetto, né le considera mai esplicitamente nella trattazione dell'analitica. Tale esclusione non conduce però a nessuna grave deficienza teorica, giacché, come è facile mostrare, nella teoria del sillogismo esse risulterebbero formalmente equivalenti a proposizioni universali. In conclusione, si hanno solo i seguenti quattro modelli di proposizioni (rappresentate dai logici medioevali con le lettere indicate a sinistra, che sono le prime vocali di affirmo e nego):

A. ogni X è Y

I. qualche X è Y

E. nessun X è Y

O. non ogni X è Y (ovvero qualche X non è Y)

INTEGRAZIONE

Tra i quattro modelli di proposizioni Aristotele individua dei rapporti che nel Medioevo vennero rappresentati nel «quadrato logico»:

Ai quattro vertici si trovano (da sinistra a destra e dall'alto in basso) le lettere A, E, I, O; lungo il lato superiore: contrarie; lungo il lato inferiore: subcontrarie; lungo i lati destro e sinistro: subalterna; lungo le diagonali: contraddittorie

Le proposizioni contrarie non possono essere contemporaneamente vere; quelle subcontrarie non possono essere contemporaneamente false; delle contraddittorie la verità dell'una equivale alla falsità dell'altra; le subalterne (I, O) sono sempre vere quando la subalternante (A, E) è vera.

FIGURE E MODELLI DEL SILLOGISMO

Dopo averne esaminato gli elementi costitutivi, si può infine considerare il sillogismo in sé. Quale ne sarà la forma generale? Bisogna anzitutto dire che il sillogismo deve avere due premesse e una conclusione: da una sola premessa non si potrebbero trarre infatti conclusioni corrette. In generale, dunque, esso assumerà la forma: «se p e q, allora r», dove le tre lettere p, q, r stanno per tre diverse proposizioni. Che cosa si può dire dei termini delle proposizioni? Condizione necessaria perché sia possibile trarre una conclusione corretta è che le due premesse abbiano in comune un termine (detto «medio»), che serva per così dire da «ponte» per poter connettere gli altri due (detti «estremi»). In sostanza, sono possibili quattro «figure» del sillogismo, differenti solo per l'ordine dei termini (quello medio è indicato con B, gli estremi con A e C):

1. se ... B è C e ... A è B, allora ... A è C

2. se ... C è B e ... A è B, allora ... A è C

3. se ... B è C e ... B è A, allora ... A è C

4. se ... C è B e ... B è A, allora ... A è C

Ora, secondo ciascuna di queste quattro figure possono essere costruiti sillogismi connettendo i termini secondo uno dei quattro tipi di proposizione prima considerati: affermativa universale, affermativa particolare, negativa universale, negativa particolare. Un elementare calcolo combinatorio mostra che in questo modo è possibile costruire 256 differenti sillogismi (4 figure × 4 prime premesse × 4 seconde premesse × 4 conclusioni). Ma quali di questi sillogismi sono validi? quali cioè rappresentano ragionamenti corretti? Questo è il problema fondamentale dell'analitica. Per riassumere la risposta di Aristòtele, useremo la simbologia elaborata nel Medioevo soprattutto da Pietro Ispano (1219 ca.-1277) e ancor oggi celebre. In essa ogni sillogismo è indicato da una parola mnemonica, in cui le tre vocali indicano nell'ordine la quantità delle premesse e della conclusione. Ecco dunque l'elenco completo dei sillogismi (o «modi») validi:

1ª figura: barbara, darii, celarent, ferio, [barbari], [celaront]

2ª figura: cesare, camestres, baroco, festino, [cesaro], [camestrop]

3ª figura: darapti, datisi, disamis, felapton, ferison, [bocardo]

4ª figura: [bamalip], [camenes], [fesapo], [fresison], [dimaris], [camelop]

Tra parentesi quadre sono indicati i sillogismi che Aristòtele analizza con minore dettaglio degli altri. I sillogismi validi sono comunque, dei 256 possibili, solo ventiquattro. Un esempio per ciascuna delle quattro figure:

1. barbara: se ogni B è C e ogni A è B, allora ogni A è C

2. camestres: se ogni C è B e nessun A è B, allora nessun A è C

3. felapton: se nessun B è C e ogni B è A, allora non ogni A è C

4. fresison: se nessuno C è B e qualche B è A, allora non ogni A è C

A questo punto, ovviamente, è possibile sostituire alle lettere qualsiasi nome universale: il ragionamento sarà sempre corretto, e, se le premesse saranno vere, si otterrà una conclusione vera (ovvero un «sillogismo dimostrativo»). Ecco il celeberrimo esempio di un sillogismo barbara: «se ogni uomo è mortale e ogni ateniese è uomo, allora ogni ateniese è mortale» (spesso quest'esempio viene citato usando come termine «Socrate» anziché «ateniese»: si tratta di un anacronismo di quasi due millenni, giacché i termini singolari saranno introdotti nella sillogistica da Guglielmo di Occam [1280-1349]). È opportuno notare che, a parte l'enunciazione un po' differente da quella qui usata, anche Aristòtele discute i sillogismi in una forma estremamente concisa ed esatta, che diventerà tipica per tutti gli scritti di logica della storia. Ecco per esempio come enuncia il sillogismo barbara: «Se A si predica di ogni B, e se B si predica di ogni C, è necessario che A venga predicato di ogni C» (Analitici primi I.4, 25 b38-39). Ciò che va soprattutto notato è l'uso delle variabili per indicare i termini. È superfluo dire che si tratta di una delle scoperte più feconde di tutti i tempi, che ha reso possibile lo sviluppo tanto della logica quanto della matematica: solo tramite esse si possono infatti formulare in maniera semplice leggi universali, proprio quelle di cui Aristòtele andava alla ricerca nella sua analitica.

INTEGRAZIONE
In una parte successiva della sua opera Aristòtele compie un'importante estensione della sillogistica, cui accenniamo soltanto. Si tratta della «sillogistica modale», in cui, oltre alle semplici affermazioni considerate finora («assertorie») vengono considerate anche quelle che contengono le espressioni «dev'essere» e «può essere». Ai sillogismi prima considerati, in cui entrambe le premesse sono assertorie, se ne aggiungono quindi altre otto classi, secondo le varie combinazioni dei tre tipi di proposizioni. Dei possibili sillogismi risultanti Aristòtele ne studia esplicitamente non meno di 137, in pagine che sono tra le più complesse della sua opera e che saranno molto spesso incomprese o fraintese.

LA DIMOSTRAZIONE DEL SILLOGISMO

Aristòtele non si limita ad individuare quali siano le forme corrette di sillogismo: egli si preoccupa anche di darne una dimostrazione. Riguardo ad essa, egli è cosciente che essa deve necessariamente fermarsi a premesse indimostrabili, che possano essere accettate per la loro evidenza:

È ignoranza non sapere di quali cose si debba ricercare una dimostrazione e di quali, invece, non si debba cercare. Infatti, in generale, è impossibile che ci sia dimostrazione di tutto: in tal caso si procederebbe all'infinito, e in questo modo, di conseguenza, non ci sarebbe affatto dimostrazione (Metafisica IV.4, 1006 a6-9).

Nel caso dei sillogismi, gli sembra che quelli della prima figura possano svolgere tale compito. Essi costituiscono quindi, nella terminologia odierna, gli «assiomi» del sistema sillogistico. Agli assiomi bisogna tuttavia aggiungere delle regole di derivazione. Aristòtele individua come sufficienti le seguenti leggi di sostituzione:

s. nessun A è B = nessun B è A

s. qualche A è B = qualche B è A

p. ogni A è B = qualche B è A

m. se p e q allora r = se q e p allora r

c. se p e q allora r = se non-r e q allora non-p

In tutti e cinque i casi, l'espressione a sinistra deve essere sostituita con quella a destra. Le prime tre leggi sono regole di «conversione» delle premesse, la quarta (non esplicitamente enunciata da Aristòtele) stabilisce la possibilità d'invertire le premesse del sillogismo, l'ultima rappresenta la riduzione all'assurdo. Le lettere indicate a fianco sono anche qui i simboli medioevali, che si ritrovano nei nomi dei sillogismi della seconda, terza e quarta figura: quando s o p seguono una vocale, significa dunque che la proposizione corrispondente va convertita, quando compare una m le premesse vanno invertite, quando compare all'interno una c che bisogna effettuare la riduzione all'assurdo, eventualmente invertendo prima le premesse. (Tutte le altre consonanti sono semplicemente riempitive.) In questo modo si giungerà alla forma della prima figura che inizia con la stessa consonante. Per esempio, per dimostrare disamis bisogna: convertire la prima premessa (diSamis); convertire la conclusione (disamiS); invertire le premesse (disaMis); così si ottiene un sillogismo darii (Disamis).

INTEGRAZIONE
Basteranno i successivi sviluppi della logica megarico-stoica per mettere in luce come nell'analitica di Aristòtele sia contenuto solo un piccolo sottoinsieme di leggi logiche (in termini moderni, l'intera sillogistica è solo una porzione del calcolo dei predicati monadici del primo ordine). Ciò nonostante, i meriti di Aristòtele sono quasi incalcolabili: con lui non soltanto viene fondata -- partendo quasi dal nulla -- la logica formale, della quale vengono riconosciuti e delimitati chiaramente i compiti, ma viene anche costruito in maniera pressoché impeccabile un sistema in sé completo, che costituirà per secoli la base di innumerevoli speculazioni (talvolta acute, talaltra di nessun valore). Questo risultato è tanto più degno di ammirazione quanto più si veda il naufragio che la logica dovrà subire lungo diversi secoli, soprattutto a partire dal Rinascimento: affinché in epoca moderna gli scritti di Aristòtele possano essere di nuovo correttamente interpretati e discussi, bisognerà aspettare l'opera del polacco Jan Lukasiewicz (1878-1956).

IL PROCEDIMENTO SCIENTIFICO

Negli Analitici secondi Aristòtele considera il problema dell'applicazione dei procedimenti logici alla ricerca scientifica (epistéme). Qui non interessa più solo la validità formale del sillogismo, ma anche la verità delle conclusioni che esso raggiunge. Ciò spiega la grande attenzione che viene dedicata al problema dei princìpi della dimostrazione. Come già si è visto su un altro piano, anche nelle scienze è impossibile un regresso all'infinito, e vanno quindi individuati dei fondamenti indimostrabili:

È necessario che la scienza dimostrativa si costituisca sulla base di premesse vere, prime, immediate, più note della conclusione, anteriori ad essa, e che siano cause di essa: a questo modo, infatti, pure i princìpi risulteranno propri dell'oggetto provato. In realtà, un sillogismo potrà sussistere anche senza tali premesse, ma una dimostrazione non potrebbe sussistere, poiché allora non produrrebbe scienza (Analitici secondi I.2, 71 b20-25).

Le premesse prime di cui si serve la scienza hanno un legame molto stretto con la teoria metafisica della definizione. Detto in breve, i princìpi devono esprimere ciò che in ciascun ambito della realtà è più generale: ma questi sono proprio i caratteri che a diverso livello vengono espressi nella definizione di ciascuna cosa. Ciò è coerente con la ripetuta affermazione (di palese origine platonica) che la scienza si occupa solo dell'universale e necessario e non del singolare e accidentale:

Dell'accadimento non c'è scienza. Ogni scienza, infatti, riguarda ciò che è sempre o [almeno] per lo più: come sarebbe possibile, altrimenti, imparare o insegnare ad altri? Infatti ciò che è oggetto di scienza deve potersi determinare come esistente sempre o per lo più: come, per esempio, che l'acqua e miele ai febbricitanti per lo più giova. Altrimenti nemmeno sarà possibile enumerare i casi in cui ciò non avviene: per esempio nel novilunio, perché anche questo accade o sempre o per lo più, mentre l'accadimento non fa così (Metafisica VI.2, 1027 a19-26).

INTEGRAZIONE
Lo spirito di quest'affermazione è giunto in una buona misura fino alla scienza moderna, che si preoccupa appunto di formulare leggi universalmente valide. In Aristòtele però questo punto di vista è sostenuto in una forma esclusiva: come conseguenza per esempio la storia, trattando di episodi singolari, non può essere una scienza, e viene in ciò paradossalmente superata dalla poesia che tende a considerare situazioni ideali e dunque potenzialmente universali.

La pratica della scienza quindi non coincide con la semplice deduzione da premesse già date, ma piuttosto consiste in gran parte in due operazioni differenti: la connessione dei princìpi per giungere ad una spiegazione soddisfacente dei fenomeni e la scoperta dei princìpi stessi. Riguardo alla prima, nella terminologia dell'analitica ciò significa scoprire del termine «medio», cioè quello che giustifica la connessione dei due estremi che è già data nell'esperienza:

La prontezza deduttiva è una certa abilità di cogliere istantaneamente il medio. Tale abilità si presenta, ad esempio, nel caso in cui, vedendo che la parte illuminata della luna sta sempre rivolta verso il sole, qualcuno coglie d'un tratto il perché della cosa, ossia comprende che ciò si verifica poiché la luna riceve la sua luce dal sole; o nel caso in cui, quando si vede una persona che parla con un ricco, si comprende che ciò avviene poiché questa persona si fa prestare del denaro; o anche, nel caso in cui si coglie il perché due persone siano amiche, comprendendo che ciò deriva dalla loro inimicizia per un medesimo individuo. In tutto questi casi, infatti, nel vedere gli estremi qualcuno cogli tutti i medi, cioè le cause (Analitici secondi I.34, 89 b10-16).

In termini più espliciti, il primo esempio porta al seguente sillogismo: «Se la luna è un corpo che riceve la luce dal sole e tutti i corpi che ricevono la luce dal sole hanno la parte illuminata verso il sole, allora la luna ha la parte illuminata verso il sole» (si noti che in questo sillogismo un termine, «la luna», è singolare, contrariamente a quanto viene teorizzato nell'analitica da Aristòtele stesso). Da questa formulazione è chiaro che in assenza del termine medio non verrebbe detto il perché di un dato fenomeno, ciò che invece costituisce un elemento essenziale della scienza. La correttezza del termine medio è mostrata dunque da nient'altro che la maggiore o minore capacità di spiegare i fenomeni in maniera semplice e completa.

Riguardo alla scoperta dei princìpi stessi, Aristòtele assegna un ruolo fondamentale all'esperienza. Questa è la celebre discussione in proposito che termina gli Analitici secondi:

Ci si può domandare se ... le facoltà dei princìpi si sviluppino senza sussistere in noi sin dall'inizio, oppure se esse siano innate, senza che ce ne avvediamo. In verità, se le possedessimo sin dall'inizio, si andrebbe incontro a conseguenze assurde, poiché si dovrebbe concludere che, pur possedendo conoscenze superiori alla dimostrazione, noi non ci accorgiamo di ciò. D'altra parte, se noi acquistiamo queste facoltà, senza averle possedute in precedenza, come potremmo render noto un qualcosa e come potremmo imparare, quando non si parta da una conoscenza preesistente? Tutto ciò è infatti impossibile, come dicevamo già a proposito della dimostrazione. È dunque evidente che non è possibile possedere tali facoltà sin dall'inizio, e che non è neppur possibile che esse si sviluppino in coloro che sono del tutto ignoranti e non posseggono alcuna facoltà. Di conseguenza, è necessario che noi siamo in possesso di una qualche capacità, non però di una capacità tale da essere più pregevole delle suddette facoltà, quanto ad acutezza.

Pare d'altronde che questa capacità appartenga effettivamente a tutti gli animali. In effetti, tutti gli animali hanno un'innata capacità discriminante, che viene chiamata sensazione. ... Dalla sensazione si sviluppa dunque ciò che chiamiamo ricordo, e dal ricordo spesso rinnovato di un medesimo oggetto si sviluppa poi l'esperienza. ... In seguito, sulla base dell'esperienza, ossia dell'intero oggetto universale che si è acquietato nell'anima, dell'unità al di là della molteplicità, il quale è contenuto come uno e identico in tutti gli oggetti molteplici, si presenta il principio della tecnica e della scienza. ... Le suddette facoltà non ci sono dunque immanenti nella loro determinatezza, né provengono in noi da altre facoltà più produttive di conoscenza, ma vengono suscitate piuttosto dalla sensazione. ...

È dunque evidentemente necessario che noi giungiamo a conoscere gli elementi primi con l'induzione. In effetti, già la sensazione produce a questo modo l'universale. Ora, tra i possessi che riguardano il pensiero e con i quali cogliamo la verità, alcuni risultano sempre veraci, altri invece possono accogliere l'errore; tra questi ultimi sono, ad esempio, l'opinione e il ragionamento, mentre i possessi sempre veri sono la scienza e l'intelligenza, e non sussiste alcun altro genere di conoscenza superiore alla scienza, all'infuori dell'intelligenza. Ciò posto, e dato che i princìpi risultano più evidenti delle dimostrazioni, e che, d'altro canto, ogni scienza si presenta congiunta alla ragione discorsiva, in tal caso i princìpi non saranno oggetto di scienza; e poiché non può sussistere nulla di più verace della scienza, se non l'intelligenza, sarà invece l'intelligenza ad avere come oggetto i princìpi (Analitici secondi II.19, 99 b22 -- 100 b12).

I due termini «induzione» (epagogé) e «intelligenza» (nóus) non vanno quindi contrapposti: il primo indica il procedimento tramite cui grazie all'esperienza viene individuato il carattere essenziale di qualcosa, che costituisce principio della scienza; il secondo la capacità individuale di compiere effettivamente tale procedimento, che quando è corretto (cosa peraltro sulla quale è facile ingannarsi) assicura una conoscenza più fondamentale di quella «scientifica», la quale è derivata per dimostrazione.

L'appello all'esperienza mette in luce quell'irriducibile pluralismo che per Aristòtele sussiste nella costruzione della scienza. Sia per quanto riguarda i princìpi, sia per quanto riguarda le dimostrazioni, le diverse scienze si distinguono le une dalle altre:

Risulta evidente che, se viene a mancare qualche senso, necessariamente viene pure a mancare qualche scienza, che sarà impossibile acquisire, dal momento che noi impariamo o per induzione o mediante dimostrazione. Orbene, la dimostrazione parte da proposizioni universali, mentre l'induzione si fonda su proposizioni particolari; non è tuttavia possibile cogliere le proposizioni universali se non attraverso l'induzione, poiché anche le nozioni ottenute per astrazione saranno rese note mediante l'induzione, quando cioè si provi che alcune determinazioni appartengono ad un singolo genere in quanto tale, sebbene non risultino separabili dagli oggetti della sensazione (Analitici secondi I.18, 81 a38-b5).

Non è possibile condurre la dimostrazione passando da un genere all'altro: per esempio, non si può dimostrare una proposizione geometrica mediante l'aritmetica. Tre sono infatti gli elementi costitutivi delle dimostrazioni: in primo luogo ciò che si dimostra, ossia la conclusione (la quale esprime l'appartenenza di una determinazione per sé ad un qualche genere); in secondo luogo gli assiomi (gli assiomi sono le proposizioni da dove prende le mosse la dimostrazione); in terzo luogo, il genere sottoposto, le cui affezioni e determinazioni per sé sono rivelate dalla dimostrazione (Analitici secondi I.7, 75 a38-b2).

INTEGRAZIONE
Qualsiasi valutazione della teoria aristotelica della scienza deve necessariamente prescindere dalle vicende storiche dell'aristotelismo, e in particolare dal fatto che la scienza moderna si è affermata proprio in polemica verso di esso. È infatti evidente che molte delle critiche sollevate lungo la storia nei confronti di Aristòtele riguardano in realtà una cieca ripetizione dei risultati da lui raggiunti e non le esigenze di metodo che egli avanzava. In linea generale va poi osservato che le riflessioni di Aristòtele tutto suggeriscono fuorché la presunzione di raggiungere facilmente una assoluta certezza, priva di possibilità di correzione: «Determinare se la conoscenza sussista o no è difficile. È infatti arduo precisare se la nostra conoscenza parta o no dai princìpi propri di qualsiasi oggetto, il che costituisce appunto il sapere» (Analitici secondi I.9, 76 a26-28).

IL PROCEDIMENTO DIALETTICO

Accanto al procedimento scientifico, Aristotele conserva anche uno spazio per la «dialettica», che continua ad avere in lui il senso platonico di «tecnica della discussione». Per questo -- come abbiamo visto -- il ragionamento dialettico è presentato come quello che «conclude da elementi plausibili (éndoxa)», i quali a loro volta sono definiti come quelli «che paiono a tutti o alla maggior parte o ai sapienti» (Topici I, 100 b21). Non si intende con ciò dire che la dialettica è confinata nel campo della probabilità, ma piuttosto che essa prende le mosse dalle opinioni sostenuti dall'interlocutore (reale o immaginario), per vagliarle e giudicare se esse siano vere o false. Proprio perché non ha bisogno di punti di partenza veri e necessari, la dialettica risulta utile sia per affrontare i problemi che superano l'ambito di una singola scienza, sia per accertare (in concorrenza con il metodo induttivo) i princìpi di una determinata scienza discutendo le opinioni fino a quel momento espresse. Ciò non toglie che lo spazio della dialettica pare in Aristotele restringersi man mano che viene sviluppata la tecnica del sillogismo, e la sua opera dedicata al tema (i Topici) è senza dubbio giovanile.

Come già in Zenone, il metodo dialettico è essenzialmente quello della confutazione (in termini moderni dimostrazione per assurdo): quando da un'opinione si deduce una contraddizione, risulta dimostrata la tesi contraria. Perché tale metodo possa essere applicato, sono necessari due princìpi: i cosiddetti princìpi di non contraddizione e del terzo escluso, che avevano avuto la loro formulazione embrionale già in Parmènide. Essi vengono discussi non nell'Órganon, ma in una sezione presumibilmente giovanile della Metafisica, con la giustificazione che essi riguardano «ciò che è in quanto è», oggetto proprio -- come si vedrà -- della metafisica. Eccone la formulazione:

Lo stesso [attributo] non può contemporaneamente dirsi e non dirsi dello stesso [soggetto] e nello stesso tempo (Metafisica IV.3, 1005 b19-20).

Non è possibile che tra due proposizioni contraddittorie ci sia una via di mezzo, ma è necessario o affermarne o negarne una sola, qualunque essa sia (Metafisica IV.7, 1011 b23-24).

Il primo di essi viene qualificato da Aristotele «il più forte di tutti i princìpi» e il punto di partenza per qualsiasi dimostrazione (cioè più esattamente: confutazione). Proprio per questo, ne è impossibile -- come sappiamo -- una dimostrazione vera e propria. È possibile però una sorta di dimostrazione indiretta, realizzata confutando l'avversario che lo neghi:

Il punto di partenza consiste nell'esigere che l'avversario ... dica qualcosa che abbia un significato per sé e per gli altri; e questo è pur necessario, se egli intende dire qualcosa. Se non facesse questo, costui non potrebbe in alcun modo discorrere, né con sé stesso né con altri; se l'avversario concede questo, allora sarà possibile una dimostrazione. ... Se relativamente ad un medesimo soggetto fossero vere, ad un tempo, tutte le affermazioni contraddittorie, è evidente che tutte quante le cose si ridurrebbero ad una sola. Infatti, saranno la medesima cosa e una nave e una parete e un uomo, se di tutte le cose un determinato predicato si può tanto affermare tanto negare. ... Infatti, se a qualcuno sembra che un uomo non sia una nave, è evidente che non è una nave; tuttavia sarà anche una nave, dal momento che il contraddittorio è vero. Allora tutte le cose saranno confuse insieme (Metafisica IV.4, 1006 a18 -- 1007 b26).

In sostanza: soltanto per il fatto di discutere, usando quindi parole cui attribuisce un significato determinato, l'avversario fa uso del principio di non contraddizione e quindi ne ammette implicitamente la validità. Questa discussione è molto importante soprattutto dal punto di vista della semantica (cioè della teoria del significato).

INTEGRAZIONE
Tuttavia Aristotele può affermare che il principio è necessario e che ad esso si riducono tutte le altre leggi logiche solo perché sta pensando alle dimostrazioni per assurdo; nella sillogistica invece egli ne fa un uso molto limitato, e mostra che è possibile costruire sillogismi validi che tuttavia lo vìolano. Benché Aristotele più tardi notò la cosa e precisò le sue affermazioni («nessuna dimostrazione assume espressamente l'assioma secondo cui non è possibile affermare e al tempo stesso negare qualcosa di un oggetto», Analitici secondi I.11, 77 a10-12), il passo della Metafisica trarrà spesso in inganno: ancora Kant (1724-1804) chiamerà il principio di non contraddizione «il sommo principio di tutti i giudizi analitici» (Ragione pura, A 150 / B 189).

In modo simile stanno le cose con il principio del terzo escluso, che afferma che non c'è una terza possibilità tra il vero e il falso (tertium non datur), e che dunque la negazione della negazione è eguale all'affermazione. Anch'esso non è necessario in senso assoluto: lo stesso Aristòtele si rese conto di ciò, ed esclude dalla sua portata le proposizioni «future contingenti» (per esempio «domani ci sarà una battaglia navale»), che non sono né vere né false:

Dal momento che i discorsi sono veri analogamente a come lo sono gli oggetti, è chiaro che a proposito di tutti gli oggetti, costituiti così da accadere indifferentemente in due modi secondo delle possibilità contrarie, anche la contraddizione si comporterà necessariamente in maniera simile. È appunto ciò che avviene riguardo agli oggetti che non sono sempre, oppure a quelli che non sempre non sono. In tali casi è infatti necessario che una delle due parti della contraddizione sia vera e l'altra falsa, ma non è tuttavia necessario che una determinata parte sia vera oppure falsa; sussiste piuttosto un'indifferenza tra le due possibilità, e quand'anche uno dei due casi risulti più vero, la verità e la falsità non saranno tuttavia già decise sin da principio (Sull'interpretazione 9, 19a33-39).

Applicare il principio del terzo escluso in questi casi equivarrebbe insomma ad ammettere che tutte le cose avvengono per necessità: «In tal modo, non occorrerebbe più che noi prendessimo delle decisioni, né che ci sforzassimo laboriosamente» (Sull'interpretazione 9, 18b30-31).

INTEGRAZIONE
Il fatto che tali due princìpi sono indispensabili solo nell'ambito dialettico non toglie nulla alla loro enorme importanza storica e teorica. Ancora oggi sono utilizzati come criterio per distinguere i possibili generi di logica proposizionale. Così, le logiche che assumono tanto il principio di non contraddizione quanto quello del terzo escluso vengono chiamate «classiche», quelle che assumono solo il primo «intuizionistiche», quelle che non assumono né il primo né il secondo «minimalistiche».