Secondo
l'ordine tradizionale, si occupa di logica il primo gruppo di opere di
Aristòtele, il quale però usa il nome di «analitica». Queste opere furono
raccolte da Andronico di Rodi sotto il titolo di Órganon,
cioè «strumento». Così facendo egli suggeriva che l'analitica fosse una
tecnica al servizio della filosofia, piuttosto che una sua parte. Che cosa
ritenesse Aristòtele stesso in proposito va desunto, più che da
affermazioni esplicite, dall'origine di tali indagini, che probabilmente
datano dai primi anni di presenza nell'Accademia di Platone. Qui
l'ambiente molto aperto e libero favorì senza dubbio l'elaborazione di sue
posizioni originali, che diedero occasione alla pubblicazione delle prime
opere. Tra essi va classificato anche il Protrèttico, opera
(perduta) di esortazione alla filosofia scritta in polemica con Isòcrate,
che nella contemporanea Antìdosi (353) si faceva sostenitore
di una formazione culturale fondamentalmente letteraria. Aristòtele vuole
invece legare la retorica alla dialettica (l'arte platonica della
discussione argomentata), e sul tema comincia anche a tenere corsi
all'interno dell'Accademia. È verosimile che l'attività didattica sia
accompagnata dalla stesura di trattati ad uso interno, che possono
coincidere in buona parte con le opere
giunteci. L'analitica
di Aristòtele nasce dunque dal desiderio di rendere più rigorosa la
dialettica platonica fino a trasformarla in un metodo descrivibile e
chiaramente differenziato dai procedimenti retorici (che vengono sì
studiati da Aristòtele, ma come rientranti nel campo della tecnica).
L'impostazione che permette questo progresso viene manifestata con
esemplare chiarezza già nei Topici, quello che probabilmente
è il suo primo scritto sull'argomento: Il fine che questo trattato si
propone è di trovare un metodo con cui poter costruire, per ogni problema
proposto, dei sillogismi. ... Sillogismo è propriamente un discorso
(lógos) in cui, posti alcuni elementi, risulta per necessità, a causa
degli elementi stabiliti, qualcosa di differente da essi. Si ha così
anzitutto dimostrazione, quando il sillogismo è costituito e deriva da
elementi veri e primi. ... Dialettico è poi il sillogismo che conclude da
elementi plausibili (éndoxa). ... Eristico è infine il sillogismo
costituito da elementi che sembrano plausibili, pur non essendolo, e anche
quello che all'apparenza deriva da elementi plausibili o presentatisi come
tali (Topici I, 100
a18-b25). Insomma,
scopo ultimo della logica è individuare le leggi del ragionamento
(syllogismói). Una legge logica è quella che mi assicura che una
certa connessione di proposizioni è sempre corretta, in virtù della sua
semplice forma, a prescindere dalla verità delle proposizioni che la
compongono (per questo oggi si usa parlare di «logica formale»). Per
esempio, il ragionamento «se l'uomo è un anfibio, allora può vivere
nell'acqua» è corretto, anche se la conclusione in sé è falsa, essendo
falsa la premessa. Viceversa, il ragionamento che dalla stessa premessa
concludesse che «l'uomo non può vivere nell'acqua», sarebbe scorretto,
benché la conclusione sia vera. Il sillogismo corretto non assicura quindi
che ci siano conclusioni vere, ma assicura che, quando siano poste
premesse vere, anche la conclusione sia vera. Tale
nuova impostazione puramente formale, sganciata dai contenuti di
qualsivoglia scienza, spalanca in effetti ad Aristòtele un campo di
problemi molto grande, studiati con completezza e raffinatezza
incomparabilmente superiori a quelle usate da Platone. Questo è il motivo
per cui l'effettiva esecuzione del compito va molto oltre le originarie
intenzioni, mentre viene in parte perso di vista l'intento di chiarire il
procedimento effettivo delle scienze. Ciò è tanto vero che Aristòtele
stesso dovrà annotare che non si può imporre in ogni campo del sapere (per
esempio nell'etica) quella esattezza dimostrativa messa in opera nella
teoria del sillogismo.
Anzitutto
Aristòtele si rende conto che la teoria del sillogismo non può essere
costruita se non cominciando ad analizzarne le componenti. Bisogna allora
dire che il sillogismo è composto di «proposizioni», e che queste sono
costituite da «termini». È questa una distinzione che avrà una grande
fortuna nella storia della logica e che si può dire mantenuta in buona
parte fino ad oggi. Riguardo
ai termini, Aristòtele conduce analisi dettagliate sulla struttura del
linguaggio e sulle parti del discorso, fermando la sua attenzione in
particolare sul nome (ónoma) e sul verbo (rhéma),
inaugurando in questo modo l'analisi logica del linguaggio. Il carattere
principale che egli riconosce ai termini è il loro carattere significativo
ovvero simbolico: «I suoni della voce sono simboli delle affezioni che
hanno luogo nell'anima, e le lettere scritte sono simboli dei suoni della
voce» (Sull'interpretazione 1, 16 a2). Tuttavia tale rapporto
è solo convenzionale: non c'è nessun rapporto necessario tra il suono
«híppos» e il concetto del cavallo, tant'è vero che altre lingue
adoperano suoni differenti. Importante è però notare che, malgrado il
rapporto solo convenzionale, il linguaggio esprime tuttavia realmente il
pensiero dell'uomo, e in quanto tale può essere il punto di partenza di
un'analisi della forma e della struttura del
ragionamento. Entra
più decisamente nel campo della logica l'analisi della proposizione. Essa
viene anzitutto definita così: La proposizione (prótasis) è un
discorso che afferma o che nega qualcosa rispetto a qualcosa. ... Chiamo
d'altra parte termine (hóros) l'elemento cui si riduce la proposizione,
ossia ciò che è predicato e ciò di cui è predicato [cioè il soggetto], con
l'aggiunta di essere o di non essere [cioè della copula] (Analitici
primi I.1, 24
a16-b16). Come
nei termini ciò che conta è il loro significato, così nelle proposizioni è
la loro verità o falsità. Anzitutto per Aristòtele è evidente che il vero
e il falso non si trovano nelle cose, ma soltanto nel pensiero dell'uomo:
non è questa mela vera o falsa, ma solo ciò che io penso di essa.
Inoltre: Come nell'anima talvolta sussiste
una nozione che prescinde dal vero e dal falso, e talvolta sussiste invece
qualcosa cui spetta necessariamente o di essere vero o di essere falso,
così avviene pure per quanto si trova nel suono della voce. In effetti, il
falso e il vero consistono nella congiunzione e nella separazione. In sé,
i nomi e verbi assomigliano dunque alle nozioni, quando queste non siano
congiunte a nulla né separate da nulla. ... Dichiarativi sono, però, non
tutti i discorsi, ma quelli in cui sussiste un'enunciazione vera oppure
falsa. Tale enunciazione non sussiste certo in tutti: la preghiera, ad
esempio, è un discorso, ma non risulta né vera né falsa
(Sull'interpretazione 1, 16 a9 -- 17
a7). Ma
che cosa significa che una proposizione è
vera? Se è vero dire che una cosa è
bianca (oppure che non è bianca), essa sarà necessariamente bianca (oppure
non sarà bianca), e d'altra parte, se una cosa è bianca (oppure non è
bianca), era vero affermare oppure negare la cosa
(Sull'interpretazione 9, 18
a40-b1). Malgrado
l'apparente banalità, questa descrizione della verità come corrispondenza
tra la proposizione e la realtà eserciterà -- condivisa o contestata --
una influenza decisiva sulla storia della
filosofia.
Un'attenzione
particolare è dedicata da Aristòtele al verbo «essere» che realizza la
connessione grazie alla quale la proposizione può essere vera o falsa.
Come si è visto, per Aristòtele ogni proposizione può infatti assumere
fondamentalmente solo le due forme «A è B» oppure «A non è B». Ciò è in
effetti abbastanza giusto almeno per la lingua greca, in cui anche i
predicati verbali possono essere sempre riespressi sotto forma di copula e
participio («Infatti non c'è nessuna differenza tra "l'uomo è vivente" e
"l'uomo vive", né tra "l'uomo è camminante" o "tagliante" e "l'uomo
cammina" o "taglia", e ugualmente anche per gli altri casi»,
Metafisica V.7, 1017 a27-30). Questa era la scoperta che già
aveva fatto Parmènide. Ciò
che però Aristòtele continuamente contesta a Parmenide è la pretesa che
«ente» abbia un unico significato. Bisogna invece dire che «l'ente si dice
in molti significati diversi» (to ón pollachós légetai,
Metafisica IV.2, 1003 a33 e altrove). Quando si considera,
come stiamo appunto facendo, il verbo «essere» usato nelle proposizioni,
bisogna dire che esso non ha un significato autonomo e unico, ma assume
tutti i possibili significati dei termini che connette. Tali significati
vengono classificati in alcuni gruppi principali (otto o dieci secondo i
testi), chiamati «generi delle predicazioni» o in breve «predicazioni»
(kategoríai). Ecco il testo più schematico al
riguardo: Delle cose dette secondo nessun
collegamento [= termini] ciascuna significa o ousía o di una
quantità o di una qualità o in relazione a qualcosa
o in un luogo o in un tempo o giacere o
avere o fare o subire. Ed è ousía (per fare un
caso) ad esempio «uomo», «cavallo»; di una quantità per esempio «di due
cùbiti», «di tre cùbiti»; di una qualità per esempio «bianco»,
«grammatico»; in relazione a qualcosa per esempio «doppio», «maggiore»; in
un luogo ad esempio «nel liceo», «in piazza»; in un tempo ad esempio
«ieri», «un anno fa»; giacere per esempio «è disteso», «siede»; avere per
esempio «è calzato», «è armato»; fare per esempio «tagliare», «bruciare»;
subire per esempio «venir tagliato», «venir bruciato»
(Categorie I.4, 1 b25 -- 2
a4). La
distinzione più netta riguarda la prima categoria: in greco
ousía, in italiano tradizionalmente sostanza, ma più
chiaramente potrebbe forse essere resa con esistenza. Essa indica
infatti il soggetto primo, ciò che «esistendo» permette l'attribuzione di
altri predicati: una considerazione questa che svolgerà un ruolo centrale
nella Metafisica. All'interno dell'analitica, la teoria delle
predicazioni adempie invece ad una funzione solo preliminare: mostrare
come la riduzione di tutte le proposizioni alla forma soggetto-predicato
nominale non pregiudica le possibilità espressive ed è perciò
perfettamente accettabile.
La
classificazione delle proposizioni più importante per l'analitica riguarda
invece quella che modernamente è chiamata «quantificazione dei
predicati»: La proposizione è dunque un
discorso che afferma o nega qualcosa rispetto a qualcosa. Tale discorso,
poi, è universale o particolare. ... Con discorso universale intendo
quello che esprime l'appartenenza ad ogni cosa o a nessuna cosa; con
discorso particolare, intendo quello che esprime l'appartenenza a qualche
cosa o la non appartenenza a qualche cosa (Analitici primi
I.24,
a16-20). «Qualche»
va inteso nel senso del moderno quantificatore esistenziale, cioè «almeno
uno», assumendo che la classe individuata dal termine non sia vuota. Si
osservi che Aristotele non cita qui le proposizioni singolari, in cui cioè
il soggetto indica un solo oggetto, né le considera mai esplicitamente
nella trattazione dell'analitica. Tale esclusione non conduce però a
nessuna grave deficienza teorica, giacché, come è facile mostrare, nella
teoria del sillogismo esse risulterebbero formalmente equivalenti a
proposizioni universali. In conclusione, si hanno solo i seguenti quattro
modelli di proposizioni (rappresentate dai logici medioevali con le
lettere indicate a sinistra, che sono le prime vocali di affirmo e
nego): A. ogni X è
Y I. qualche X è
Y E. nessun X è
Y O. non ogni X è Y (ovvero qualche X
non è Y)
Dopo
averne esaminato gli elementi costitutivi, si può infine considerare il
sillogismo in sé. Quale ne sarà la forma generale? Bisogna anzitutto dire
che il sillogismo deve avere due premesse e una conclusione: da una sola
premessa non si potrebbero trarre infatti conclusioni corrette. In
generale, dunque, esso assumerà la forma: «se p e q,
allora r», dove le tre lettere p, q,
r stanno per tre diverse proposizioni. Che cosa si può dire dei
termini delle proposizioni? Condizione necessaria perché sia possibile
trarre una conclusione corretta è che le due premesse abbiano in comune un
termine (detto «medio»), che serva per così dire da «ponte» per poter
connettere gli altri due (detti «estremi»). In sostanza, sono possibili
quattro «figure» del sillogismo, differenti solo per l'ordine dei termini
(quello medio è indicato con B, gli estremi con A e
C): 1. se ... B è C e ... A è B, allora
... A è C 2. se ... C è B e ... A è B, allora
... A è
C 3. se ... B è C e ... B è A, allora
... A è
C 4. se ... C è B e ... B è A, allora
... A è
C Ora,
secondo ciascuna di queste quattro figure possono essere costruiti
sillogismi connettendo i termini secondo uno dei quattro tipi di
proposizione prima considerati: affermativa universale, affermativa
particolare, negativa universale, negativa particolare. Un elementare
calcolo combinatorio mostra che in questo modo è possibile costruire 256
differenti sillogismi (4 figure × 4 prime premesse × 4 seconde premesse ×
4 conclusioni). Ma quali di questi sillogismi sono validi? quali cioè
rappresentano ragionamenti corretti? Questo è il problema fondamentale
dell'analitica. Per riassumere la risposta di Aristòtele, useremo la
simbologia elaborata nel Medioevo soprattutto da Pietro Ispano (1219
ca.-1277) e ancor oggi celebre. In essa ogni sillogismo è indicato da una
parola mnemonica, in cui le tre vocali indicano nell'ordine la quantità
delle premesse e della conclusione. Ecco dunque l'elenco completo dei
sillogismi (o «modi») validi: 1ª figura: barbara, darii, celarent,
ferio, [barbari], [celaront] 2ª figura: cesare, camestres, baroco,
festino, [cesaro],
[camestrop] 3ª figura: darapti, datisi, disamis,
felapton, ferison,
[bocardo] 4ª figura: [bamalip], [camenes],
[fesapo], [fresison], [dimaris],
[camelop] Tra
parentesi quadre sono indicati i sillogismi che Aristòtele analizza con
minore dettaglio degli altri. I sillogismi validi sono comunque, dei 256
possibili, solo ventiquattro. Un esempio per ciascuna delle quattro
figure: 1. barbara: se ogni B è C e ogni A
è B, allora ogni A è
C 2. camestres: se ogni C è B e
nessun A è B, allora nessun A è
C 3. felapton: se nessun B è C e ogni
B è A, allora non ogni A è
C 4. fresison: se nessuno C è B e
qualche B è A, allora non ogni A è
C A
questo punto, ovviamente, è possibile sostituire alle lettere qualsiasi
nome universale: il ragionamento sarà sempre corretto, e, se le premesse
saranno vere, si otterrà una conclusione vera (ovvero un «sillogismo
dimostrativo»). Ecco il celeberrimo esempio di un sillogismo barbara: «se
ogni uomo è mortale e ogni ateniese è uomo, allora ogni ateniese è
mortale» (spesso quest'esempio viene citato usando come termine «Socrate»
anziché «ateniese»: si tratta di un anacronismo di quasi due millenni,
giacché i termini singolari saranno introdotti nella sillogistica da
Guglielmo di Occam [1280-1349]). È opportuno notare che, a parte
l'enunciazione un po' differente da quella qui usata, anche Aristòtele
discute i sillogismi in una forma estremamente concisa ed esatta, che
diventerà tipica per tutti gli scritti di logica della storia. Ecco per
esempio come enuncia il sillogismo barbara: «Se A si predica di ogni B, e
se B si predica di ogni C, è necessario che A venga predicato di ogni C»
(Analitici primi I.4, 25 b38-39). Ciò che va soprattutto
notato è l'uso delle variabili per indicare i termini. È superfluo dire
che si tratta di una delle scoperte più feconde di tutti i tempi, che ha
reso possibile lo sviluppo tanto della logica quanto della matematica:
solo tramite esse si possono infatti formulare in maniera semplice leggi
universali, proprio quelle di cui Aristòtele andava alla ricerca nella sua
analitica.
Aristòtele
non si limita ad individuare quali siano le forme corrette di sillogismo:
egli si preoccupa anche di darne una dimostrazione. Riguardo ad essa, egli
è cosciente che essa deve necessariamente fermarsi a premesse
indimostrabili, che possano essere accettate per la loro
evidenza: È ignoranza non sapere di quali
cose si debba ricercare una dimostrazione e di quali, invece, non si debba
cercare. Infatti, in generale, è impossibile che ci sia dimostrazione di
tutto: in tal caso si procederebbe all'infinito, e in questo modo, di
conseguenza, non ci sarebbe affatto dimostrazione (Metafisica
IV.4, 1006
a6-9). Nel
caso dei sillogismi, gli sembra che quelli della prima figura possano
svolgere tale compito. Essi costituiscono quindi, nella terminologia
odierna, gli «assiomi» del sistema sillogistico. Agli assiomi bisogna
tuttavia aggiungere delle regole di derivazione. Aristòtele individua come
sufficienti le seguenti leggi di
sostituzione: s. nessun A è B = nessun B è
A s. qualche A è B = qualche B è
A p. ogni A è B = qualche B è
A m. se p e q
allora r = se q e p allora
r c. se p e q
allora r = se non-r e q allora
non-p In
tutti e cinque i casi, l'espressione a sinistra deve essere sostituita con
quella a destra. Le prime tre leggi sono regole di «conversione» delle
premesse, la quarta (non esplicitamente enunciata da Aristòtele)
stabilisce la possibilità d'invertire le premesse del sillogismo, l'ultima
rappresenta la riduzione all'assurdo. Le lettere indicate a fianco sono
anche qui i simboli medioevali, che si ritrovano nei nomi dei sillogismi
della seconda, terza e quarta figura: quando s o p seguono una vocale,
significa dunque che la proposizione corrispondente va convertita, quando
compare una m le premesse vanno invertite, quando compare all'interno una
c che bisogna effettuare la riduzione all'assurdo, eventualmente
invertendo prima le premesse. (Tutte le altre consonanti sono
semplicemente riempitive.) In questo modo si giungerà alla forma della
prima figura che inizia con la stessa consonante. Per esempio, per
dimostrare disamis bisogna: convertire la prima premessa
(diSamis); convertire la conclusione (disamiS);
invertire le premesse (disaMis); così si ottiene un sillogismo
darii (Disamis).
Negli
Analitici secondi Aristòtele considera il problema
dell'applicazione dei procedimenti logici alla ricerca scientifica
(epistéme). Qui non interessa più solo la validità formale del
sillogismo, ma anche la verità delle conclusioni che esso raggiunge. Ciò
spiega la grande attenzione che viene dedicata al problema dei princìpi
della dimostrazione. Come già si è visto su un altro piano, anche nelle
scienze è impossibile un regresso all'infinito, e vanno quindi individuati
dei fondamenti indimostrabili: È necessario che la scienza
dimostrativa si costituisca sulla base di premesse vere, prime, immediate,
più note della conclusione, anteriori ad essa, e che siano cause di essa:
a questo modo, infatti, pure i princìpi risulteranno propri dell'oggetto
provato. In realtà, un sillogismo potrà sussistere anche senza tali
premesse, ma una dimostrazione non potrebbe sussistere, poiché allora non
produrrebbe scienza (Analitici secondi I.2, 71 b20-25).
Le
premesse prime di cui si serve la scienza hanno un legame molto stretto
con la teoria metafisica della definizione. Detto in breve, i princìpi
devono esprimere ciò che in ciascun ambito della realtà è più generale: ma
questi sono proprio i caratteri che a diverso livello vengono espressi
nella definizione di ciascuna cosa. Ciò è coerente con la ripetuta
affermazione (di palese origine platonica) che la scienza si occupa solo
dell'universale e necessario e non del singolare e
accidentale: Dell'accadimento non c'è scienza.
Ogni scienza, infatti, riguarda ciò che è sempre o [almeno] per lo più:
come sarebbe possibile, altrimenti, imparare o insegnare ad altri? Infatti
ciò che è oggetto di scienza deve potersi determinare come esistente
sempre o per lo più: come, per esempio, che l'acqua e miele ai
febbricitanti per lo più giova. Altrimenti nemmeno sarà possibile
enumerare i casi in cui ciò non avviene: per esempio nel novilunio, perché
anche questo accade o sempre o per lo più, mentre l'accadimento non fa
così (Metafisica VI.2, 1027
a19-26).
La prontezza deduttiva è una certa
abilità di cogliere istantaneamente il medio. Tale abilità si presenta, ad
esempio, nel caso in cui, vedendo che la parte illuminata della luna sta
sempre rivolta verso il sole, qualcuno coglie d'un tratto il perché della
cosa, ossia comprende che ciò si verifica poiché la luna riceve la sua
luce dal sole; o nel caso in cui, quando si vede una persona che parla con
un ricco, si comprende che ciò avviene poiché questa persona si fa
prestare del denaro; o anche, nel caso in cui si coglie il perché due
persone siano amiche, comprendendo che ciò deriva dalla loro inimicizia
per un medesimo individuo. In tutto questi casi, infatti, nel vedere gli
estremi qualcuno cogli tutti i medi, cioè le cause (Analitici
secondi I.34, 89 b10-16).
In
termini più espliciti, il primo esempio porta al seguente sillogismo: «Se
la luna è un corpo che riceve la luce dal sole e tutti i corpi che
ricevono la luce dal sole hanno la parte illuminata verso il sole, allora
la luna ha la parte illuminata verso il sole» (si noti che in questo
sillogismo un termine, «la luna», è singolare, contrariamente a quanto
viene teorizzato nell'analitica da Aristòtele stesso). Da questa
formulazione è chiaro che in assenza del termine medio non verrebbe detto
il perché di un dato fenomeno, ciò che invece costituisce un
elemento essenziale della scienza. La correttezza del termine medio è
mostrata dunque da nient'altro che la maggiore o minore capacità di
spiegare i fenomeni in maniera semplice e
completa. Riguardo
alla scoperta dei princìpi stessi, Aristòtele assegna un ruolo
fondamentale all'esperienza. Questa è la celebre discussione in proposito
che termina gli Analitici
secondi: Ci si può domandare se ... le
facoltà dei princìpi si sviluppino senza sussistere in noi sin
dall'inizio, oppure se esse siano innate, senza che ce ne avvediamo. In
verità, se le possedessimo sin dall'inizio, si andrebbe incontro a
conseguenze assurde, poiché si dovrebbe concludere che, pur possedendo
conoscenze superiori alla dimostrazione, noi non ci accorgiamo di ciò.
D'altra parte, se noi acquistiamo queste facoltà, senza averle possedute
in precedenza, come potremmo render noto un qualcosa e come potremmo
imparare, quando non si parta da una conoscenza preesistente? Tutto ciò è
infatti impossibile, come dicevamo già a proposito della dimostrazione. È
dunque evidente che non è possibile possedere tali facoltà sin
dall'inizio, e che non è neppur possibile che esse si sviluppino in coloro
che sono del tutto ignoranti e non posseggono alcuna facoltà. Di
conseguenza, è necessario che noi siamo in possesso di una qualche
capacità, non però di una capacità tale da essere più pregevole delle
suddette facoltà, quanto ad
acutezza. Pare d'altronde che questa capacità
appartenga effettivamente a tutti gli animali. In effetti, tutti gli
animali hanno un'innata capacità discriminante, che viene chiamata
sensazione. ... Dalla sensazione si sviluppa dunque ciò che chiamiamo
ricordo, e dal ricordo spesso rinnovato di un medesimo oggetto si sviluppa
poi l'esperienza. ... In seguito, sulla base dell'esperienza, ossia
dell'intero oggetto universale che si è acquietato nell'anima, dell'unità
al di là della molteplicità, il quale è contenuto come uno e identico in
tutti gli oggetti molteplici, si presenta il principio della tecnica e
della scienza. ... Le suddette facoltà non ci sono dunque immanenti nella
loro determinatezza, né provengono in noi da altre facoltà più produttive
di conoscenza, ma vengono suscitate piuttosto dalla sensazione.
... È dunque evidentemente necessario
che noi giungiamo a conoscere gli elementi primi con l'induzione. In
effetti, già la sensazione produce a questo modo l'universale. Ora, tra i
possessi che riguardano il pensiero e con i quali cogliamo la verità,
alcuni risultano sempre veraci, altri invece possono accogliere l'errore;
tra questi ultimi sono, ad esempio, l'opinione e il ragionamento, mentre i
possessi sempre veri sono la scienza e l'intelligenza, e non sussiste
alcun altro genere di conoscenza superiore alla scienza, all'infuori
dell'intelligenza. Ciò posto, e dato che i princìpi risultano più evidenti
delle dimostrazioni, e che, d'altro canto, ogni scienza si presenta
congiunta alla ragione discorsiva, in tal caso i princìpi non saranno
oggetto di scienza; e poiché non può sussistere nulla di più verace della
scienza, se non l'intelligenza, sarà invece l'intelligenza ad avere come
oggetto i princìpi (Analitici secondi II.19, 99 b22 -- 100
b12). I
due termini «induzione» (epagogé) e «intelligenza» (nóus)
non vanno quindi contrapposti: il primo indica il procedimento tramite cui
grazie all'esperienza viene individuato il carattere essenziale di
qualcosa, che costituisce principio della scienza; il secondo la capacità
individuale di compiere effettivamente tale procedimento, che quando è
corretto (cosa peraltro sulla quale è facile ingannarsi) assicura una
conoscenza più fondamentale di quella «scientifica», la quale è derivata
per dimostrazione. L'appello
all'esperienza mette in luce quell'irriducibile pluralismo che per
Aristòtele sussiste nella costruzione della scienza. Sia per quanto
riguarda i princìpi, sia per quanto riguarda le dimostrazioni, le diverse
scienze si distinguono le une dalle altre: Risulta evidente che, se viene a
mancare qualche senso, necessariamente viene pure a mancare qualche
scienza, che sarà impossibile acquisire, dal momento che noi impariamo o
per induzione o mediante dimostrazione. Orbene, la dimostrazione parte da
proposizioni universali, mentre l'induzione si fonda su proposizioni
particolari; non è tuttavia possibile cogliere le proposizioni universali
se non attraverso l'induzione, poiché anche le nozioni ottenute per
astrazione saranno rese note mediante l'induzione, quando cioè si provi
che alcune determinazioni appartengono ad un singolo genere in quanto
tale, sebbene non risultino separabili dagli oggetti della sensazione
(Analitici secondi I.18, 81
a38-b5). Non è possibile condurre la
dimostrazione passando da un genere all'altro: per esempio, non si può
dimostrare una proposizione geometrica mediante l'aritmetica. Tre sono
infatti gli elementi costitutivi delle dimostrazioni: in primo luogo ciò
che si dimostra, ossia la conclusione (la quale esprime l'appartenenza di
una determinazione per sé ad un qualche genere); in secondo luogo gli
assiomi (gli assiomi sono le proposizioni da dove prende le mosse la
dimostrazione); in terzo luogo, il genere sottoposto, le cui affezioni e
determinazioni per sé sono rivelate dalla dimostrazione (Analitici
secondi I.7, 75
a38-b2).
Accanto
al procedimento scientifico, Aristotele conserva anche uno spazio per la
«dialettica», che continua ad avere in lui il senso platonico di «tecnica
della discussione». Per questo -- come abbiamo visto -- il ragionamento
dialettico è presentato come quello che «conclude da elementi plausibili
(éndoxa)», i quali a loro volta sono definiti come quelli «che
paiono a tutti o alla maggior parte o ai sapienti» (Topici I,
100 b21). Non si intende con ciò dire che la dialettica è confinata nel
campo della probabilità, ma piuttosto che essa prende le mosse dalle
opinioni sostenuti dall'interlocutore (reale o immaginario), per vagliarle
e giudicare se esse siano vere o false. Proprio perché non ha bisogno di
punti di partenza veri e necessari, la dialettica risulta utile sia per
affrontare i problemi che superano l'ambito di una singola scienza, sia
per accertare (in concorrenza con il metodo induttivo) i princìpi di una
determinata scienza discutendo le opinioni fino a quel momento espresse.
Ciò non toglie che lo spazio della dialettica pare in Aristotele
restringersi man mano che viene sviluppata la tecnica del sillogismo, e la
sua opera dedicata al tema (i Topici) è senza dubbio
giovanile. Come
già in Zenone, il metodo dialettico è essenzialmente quello della
confutazione (in termini moderni dimostrazione per
assurdo): quando da un'opinione si deduce una contraddizione, risulta
dimostrata la tesi contraria. Perché tale metodo possa essere applicato,
sono necessari due princìpi: i cosiddetti princìpi di non
contraddizione e del terzo escluso, che avevano avuto la
loro formulazione embrionale già in Parmènide. Essi vengono discussi non
nell'Órganon, ma in una sezione presumibilmente giovanile
della Metafisica, con la giustificazione che essi riguardano
«ciò che è in quanto è», oggetto proprio -- come si vedrà -- della
metafisica. Eccone la formulazione: Lo stesso [attributo] non può
contemporaneamente dirsi e non dirsi dello stesso [soggetto] e nello
stesso tempo (Metafisica IV.3, 1005
b19-20). Non è possibile che tra due
proposizioni contraddittorie ci sia una via di mezzo, ma è necessario o
affermarne o negarne una sola, qualunque essa sia (Metafisica
IV.7, 1011 b23-24). Il
primo di essi viene qualificato da Aristotele «il più forte di tutti i
princìpi» e il punto di partenza per qualsiasi dimostrazione (cioè più
esattamente: confutazione). Proprio per questo, ne è impossibile -- come
sappiamo -- una dimostrazione vera e propria. È possibile però una sorta
di dimostrazione indiretta, realizzata confutando l'avversario che lo
neghi: Il punto di partenza consiste
nell'esigere che l'avversario ... dica qualcosa che abbia un significato
per sé e per gli altri; e questo è pur necessario, se egli intende dire
qualcosa. Se non facesse questo, costui non potrebbe in alcun modo
discorrere, né con sé stesso né con altri; se l'avversario concede questo,
allora sarà possibile una dimostrazione. ... Se relativamente ad un
medesimo soggetto fossero vere, ad un tempo, tutte le affermazioni
contraddittorie, è evidente che tutte quante le cose si ridurrebbero ad
una sola. Infatti, saranno la medesima cosa e una nave e una parete e un
uomo, se di tutte le cose un determinato predicato si può tanto affermare
tanto negare. ... Infatti, se a qualcuno sembra che un uomo non sia una
nave, è evidente che non è una nave; tuttavia sarà anche una nave, dal
momento che il contraddittorio è vero. Allora tutte le cose saranno
confuse insieme (Metafisica IV.4, 1006 a18 -- 1007
b26). In
sostanza: soltanto per il fatto di discutere, usando quindi parole cui
attribuisce un significato determinato, l'avversario fa uso del principio
di non contraddizione e quindi ne ammette implicitamente la validità.
Questa discussione è molto importante soprattutto dal punto di vista della
semantica (cioè della teoria del
significato).
In
modo simile stanno le cose con il principio del terzo escluso, che afferma
che non c'è una terza possibilità tra il vero e il falso (tertium non
datur), e che dunque la negazione della negazione è eguale
all'affermazione. Anch'esso non è necessario in senso assoluto: lo stesso
Aristòtele si rese conto di ciò, ed esclude dalla sua portata le
proposizioni «future contingenti» (per esempio «domani ci sarà una
battaglia navale»), che non sono né vere né
false: Dal momento che i discorsi sono
veri analogamente a come lo sono gli oggetti, è chiaro che a proposito di
tutti gli oggetti, costituiti così da accadere indifferentemente in due
modi secondo delle possibilità contrarie, anche la contraddizione si
comporterà necessariamente in maniera simile. È appunto ciò che avviene
riguardo agli oggetti che non sono sempre, oppure a quelli che non sempre
non sono. In tali casi è infatti necessario che una delle due parti della
contraddizione sia vera e l'altra falsa, ma non è tuttavia necessario che
una determinata parte sia vera oppure falsa; sussiste piuttosto
un'indifferenza tra le due possibilità, e quand'anche uno dei due casi
risulti più vero, la verità e la falsità non saranno tuttavia già decise
sin da principio (Sull'interpretazione 9,
19a33-39). Applicare
il principio del terzo escluso in questi casi equivarrebbe insomma ad
ammettere che tutte le cose avvengono per necessità: «In tal modo, non
occorrerebbe più che noi prendessimo delle decisioni, né che ci
sforzassimo laboriosamente» (Sull'interpretazione 9,
18b30-31).
|