I
ECHECRATE
Di' un po', Fedone, eri presente tu quando, in carcere, Socrate bevve
il veleno o ne hai sentito parlare da altri?
FEDONE
C'ero io proprio, Echecrate.
ECHECRATE
E che disse prima di morire? E come morì? Vorrei proprio saperlo;
perché, noi di Fliunte, non andiamo quasi mai ad Atene e da quella
città non è venuto nessuno che potesse riferirci notizie
sicure su questo fatto. Così sappiamo soltanto che è morto
dopo aver bevuto il veleno. E nessuno ci ha saputo dire di più.
FEDONE
Così non sapete nulla nemmeno del processo?
ECHECRATE
Del processo sì, ne fummo informati; anzi ci meravigliammo del
fatto che la morte fosse seguita a così lunga distanza dalla
sentenza. Com'è che è successo questo, Fedone?
FEDONE
Fu una coincidenza, Echecrate, perché proprio il giorno prima
del giudizio, fu incoronata la poppa della nave che gli Ateniesi mandano
a Delo.
ECHECRATE
Cos'è questa storia della nave?
FEDONE
La nave sulla quale, anticamente, a quanto dicono gli ateniesi, Teseo
andò a Creta con le sette coppie di ragazzi e di fanciulle e
li salvò tutti, scampandone anche lui e rientrando in patria.
Ora, poiché si dice che gli ateniesi avevano fatto un voto ad
Apollo, di mandare ogni anno a Delo una ambasceria sacra, se quei giovani
si fossero salvati, ecco che, da allora, tutti gli anni, adempiono questo
rito. E inoltre c'è una legge che impone che dall'inizio della
cerimonia la città si conservi pura e, quindi, sono assolutamente
vietate le esecuzioni capitali per tutto il tempo che la nave giunga
a Delo e non rientri in patria e, talvolta, può anche accadere
che passi molto tempo se i venti contrari ostacolano la navigazione.
La cerimonia, poi, ha inizio dal momento in cui il sacerdote di Apollo
cinge di corone la poppa della nave. Ecco perché Socrate stette
in carcere per tanto tempo prima che la condanna venisse eseguita.
II
ECHECRATE
Ma che sai dirmi, di preciso, della sua morte, Fedone? Che cosa disse
e che fece? E quali amici si trovò accanto in quell'ora? Oppure
i giudici non lasciarono che ci fosse nessuno vicino a lui ed egli rimase
solo e senza conforto?
FEDONE
Anzi, per la verità, amici ce n'erano e anche parecchi.
ECHECRATE
Andiamo, allora, raccontaci tutto, per filo e per segno, a meno che
tu non abbia altri impegni.
FEDONE
Nessun impegno; e poi voglio raccontarvelo anche perché ricordarmi
di Socrate, o che sia io a parlarne o che ne senta parlare da altri,
è per me, sempre, una cosa dolcissima.
ECHECRATE
Anche per noi, Fedone, che siamo qui ad ascoltarti. Raccontaci, se puoi,
ogni cosa e dicci come effettivamente avvenne.
FEDONE
Ora che ci penso, che strano effetto mi faceva stare accanto a quell'uomo;
ero lì, che moriva un amico, e non provavo alcuna pietà.
Mi pareva felice, Echecrate, sia dal suo modo di fare che da come parlava:
c'era in lui una nobile e intrepida fierezza, tanto da farmi pensare
che egli se ne andava non senza il soccorso di un dio e che, nell'al
di là, sarebbe stato il più felice di tutti. Ecco perché,
forse, non provavo quella pietà che pure sarebbe stata così
naturale in tanta sventura.
E il bello era che non provavo nemmeno un sentimento di diletto (anche
se si discuteva di filosofia); ma era come se dentro di me si agitasse
una strana sensazione, uno stato d'animo misto di gioia e di dolore
insieme: e sì che, di lì a poco, egli sarebbe morto. E
tutti noi che eravamo là, provavamo, presso a poco la stessa
cosa: ora piangevamo, ora ridevamo, specialmente uno, Apollodoro, tu
lo conosci e sai che tipo è.
ECHECRATE
E come non lo conosco?
FEDONE
Era proprio al colmo dell'agitazione ma anch'io e gli altri eravamo
tutti in questo stato.
ECHECRATE
Chi c'era, Fedone?
FEDONE
Di quelli del luogo, oltre ad Apollodoro, c'erano Critobulo con suo
padre, Ermogene, Epigene, Eschine e Antistene; c'erano anche Ctesippo
di Peania, Menesseno e qualche altro. Platone, credo fosse ammalato.
ECHECRATE
E gente di fuori ce n'era?
FEDONE
Sì. Di Tebe c'erano Simmia, Cebete e Fedonda; poi, vi erano Euclide
e Terpione di Megara.
ECHECRATE
E Aristippo e Cleombroto, non c'erano?
FEDONE
No. Si disse che erano a Egina.
ECHECRATE
E chi c'era ancora?
FEDONE
Mi pare che fossero presenti solo questi.
ECHECRATE
E dimmi, quali furono i vostri discorsi?
III
FEDONE
Ora cercherò di raccontarti tutto dal principio.
Sempre, nei giorni che precedettero la morte, io e gli altri eravamo
soliti incontrarci con Socrate. Ci riunivamo al mattino, appena faceva
chiaro, nel tribunale dove venne fatto il processo, che era vicino al
carcere e lì, chiacchierando, aspettavamo che ci venisse aperta
la prigione. A volte si aspettava anche un bel po'; ma quando ci aprivano,
correvamo da Socrate e restavamo con lui anche tutta la giornata. Quella
mattina, poi, giungemmo molto presto perché la sera prima, lasciando
il carcere, sentimmo dire che era tornata la nave da Delo e così
fummo d'accordo di vederci il giorno dopo al solito posto, al più
presto possibile.
Quando giungemmo, il custode, che ci aveva sempre fatti passare, venne
fuori e ci disse di attendere e di non entrare fino a quando non ce
lo avesse detto lui, perché gli Undici proprio in quel momento
stavano togliendo le catene a Socrate e comunicandogli che quello era
il giorno della sua morte.
Dopo un po' tornò e ci disse che potevamo entrare e noi, infatti,
trovammo Socrate libero dai ceppi e Santippe (tu la conosci, no?), che
con il bambino più piccolo in braccio, gli stava vicino. Appena
quella ci vide, cominciò a strillare e a dire le solite cose
che dicono le donne: "Ahimè, Socrate, ecco che è
l'ultima volta che i tuoi amici parlano con te e tu con loro."
E Socrate, rivolgendosi a Critone: "Che qualcuno me la levi di
torno e la riporti a casa." Alcuni servi di Critone, così,
la condussero via, mentre lei continuava a smaniare e a battersi il
petto.
Socrate, intanto, che s'era seduto sul letto, piegando una gamba, cominciò
a grattarsela a lungo: "Che strana cosa, amici, sembra quella che
gli uomini chiamano piacere. E che straordinario rapporto tra questo
e il suo contrario, cioè il dolore. E pensare che essi convivono
nell'uomo e pur si respingono sempre e chi cerca e riesce a cogliere
l'uno, si vede costretto, sempre, a sobbarcarsi anche l'altro come se,
pur essendo due, fossero attaccati entrambi a uno stesso capo."
"Credo," soggiunse, "che se Esopo ci avesse pensato su
ne avrebbe fatto una favola presso a poco così: Dio, volendo
riconciliare questi due, sempre in guerra tra loro e non riuscendovi,
li legò insieme per la testa così che dove va l'uno va
anche l'altro. È quello che è capitato a me: per
la catena, qui, alla gamba, poco fa, io sentivo dolore; ed ecco che
ora sento piacere."
IV
"A proposito, hai fatto bene a ricordarmelo, per Giove," intervenne,
allora, Cebete, "perché molti e, appena l'altro ieri, lo
stesso Eveno, mi hanno chiesto come mai da quando sei in carcere tu
ti sia messo a far poesie sui ritmi di Esopo, e a comporre un inno in
onore di Apollo dato che, prima d'ora, non avevi mai fatto cose del
genere. Se tu, dunque, vuoi che risponda qualcosa ad Eveno, quando me
lo domanderà (perché di sicuro egli me lo chiede), dimmi
che cosa devo riferirgli."
"Digli la verità, Cebete: che io non mi son messo a far
versi per competere con lui (il che non sarebbe stato facile), ma per
spiegarmi cosa volessero dire certi sogni e mettermi così la
coscienza in pace; se, per caso, non fosse proprio questo genere di
musica che essi mi ordinavano di comporre. Spesso, infatti, mi è
capitato, per il passato, che lo stesso sogno, in diversi modi, mi ripetesse
la medesima cosa: Socrate, mi diceva, scrivi e componi
musica; ed io, in un primo tempo, credevo che il sogno mi incoraggiasse
a far quello che già facevo, cioè, come si incitano i
corridori in una corsa, mi esortasse a dedicarmi sempre più alla
filosofia, che consideravo la più alta espressione dell'armonia,
ma dopo il giudizio, poiché la cerimonia in onore del dio aveva
rimandato l'esecuzione della sentenza, pensai se il sogno non avesse
voluto intendere che io avrei dovuto dedicarmi alla composizione di
vera e propria musica e se, dunque, non fosse stato il caso di obbedire
al sogno e, prima di andarmene, mettermi in pace con la coscienza componendo
versi e rispettando il suggerimento.
"Fu così che feci, per prima, una poesia per il dio di cui
si celebrava la festa, poi, pensando che un poeta, per essere veramente
tale, deve scrivere per immagini e non per deduzioni logiche ed io non
essendone capace, decisi di prendere spunto da quelle favole di Esopo
che ricordavo a memoria, così come mi venivano in mente.
V
"Rispondi così ad Eveno, caro Cebete; salutamelo e digli
che, se è saggio, mi segua al più presto possibile. Io
me ne vado, oggi, a quel che sembra: così vogliono gli ateniesi."
E Simmia: "Che bell'invito che fai a Eveno, Socrate! Molte volte
io mi sono intrattenuto con lui e, in verità, da quello che mi
è parso, non penso sia disposto ad accettare il tuo consiglio."
"Ma come, Eveno non è forse un filosofo?"
"Lo è, credo," disse Simmia.
"E allora, vedrai che non chiederà nulla di meglio che seguirmi
e, insieme con lui, ogni altro che si occupa degnamente di queste questioni.
Che però non faccia violenza a se stesso, perché questo,
come dicono, non è lecito."
Mise giù le gambe dal letto e, restando seduto, continuò
a parlarci. E Cebete, a un tratto, gli chiese: "Com'è questo
fatto, Socrate, che, da un lato dici che non è permesso farsi
violenza e, dall'altro, che il filosofo non chiede di meglio che seguire
chi muore?" "Ma come, Cebete, tu e Simmia non avete già
sentito simili discorsi alla scuola di Filolao?"
"Sì, Socrate, ma nulla di preciso, però."
"Ma anch'io parlo per sentito dire; tuttavia nessuno mi impedisce
di riferirvi quello che ho udito, tanto più che mi sembra cosa
assai naturale, per chi sta per andarsene all'altro mondo, indagare
e fantasticare su questo viaggio e come egli se lo immagina. E poi,
cosa potremmo, fare di meglio, in tutto questo tempo, fino al tramonto?"
VI
"Socrate, ma in che senso dicono che non è lecito darsi
la morte? Che sia una cosa da non farsi (come anche tu hai or ora accennato),
io l'ho già sentito dire da Filolao, quando era tra noi e anche
da altri ma, per quale esatto motivo, mai nessuno me l'ha chiarito."
"E, allora, coraggio; forse adesso lo potrai sapere," disse.
"Anzitutto, è probabile che quello che ti sto per dire ti
sembrerà strano anche se, in effetti, è semplice, che
cioè vi sono degli uomini che desidererebbero morire piuttosto
che vivere e, tuttavia, non possono procurarsi questo beneficio con
le loro stesse mani se non vogliono macchiarsi di empietà e,
quindi, devono aspettarlo da mani altrui."
"Se Giove ci capisce è bravo," commentò Cebete,
sorridendo, nel suo dialetto.
"Veramente la cosa, così com'è, può anche
sembrare irragionevole," replicò Socrate; eppure, una sua
logica ce l'ha. A questo proposito c'è una frase nei Misteri
che dice: In una sorta di prigione siamo rinchiusi noi uomini,
e non è lecito liberarsi da soli, né evaderne. Una
frase, per me, tanto profonda quanto oscura. Ma una cosa tuttavia è
chiara, Cebete, che cioè gli dei si prendono cura di noi e, noi
uomini, siamo un po' come un loro possesso. Non ti pare?"
"Ah, senza dubbio," rispose.
"E dimmi un po', allora, non ti arrabbieresti anche tu se uno dei
tuoi schiavi si uccidesse, a tua insaputa, senza che tu avessi consentito
alla sua decisione di morire e non lo puniresti, per questo suo gesto,
se ne avessi ancora la possibilità?"
"Certo," asserì.
"Quindi, da questo punto di vista, non sembra per niente illogico
che uno non debba togliersi la vita prima che un dio non lo abbia messo
nella necessità di farlo, come in questa, per esempio, in cui
oggi mi trovo io."
VII
"Può essere," ammise Cebete. "Ma quello che mi
sembra assurdo è il fatto che proprio i filosofi debbano desiderare
la morte se, come dicevi poco fa, di noi si prendono cura gli dei e,
anzi, noi stessi siamo un loro possesso. Infatti non riesco proprio
a capire come costoro, che sono i più saggi, non debbano dolersi
di liberarsi, con la morte, da questa tutela che gli impedisce di continuare
a servire i migliori padroni che ci siano, cioè gli dei. Infatti,
non è possibile credere che un uomo con la testa sulle spalle
possa pensare di star meglio, una volta libero; soltanto un pazzo potrebbe
avere una simile idea e credere che sia un bene fuggire dal proprio
padrone, senza pensare che è, invece, un grosso errore e che
è un bene, al contrario, restar legati, quanto più è
possibile, al buon padrone: chi ha un po' di senno, desidera restare
sempre con chi è migliore di lui. Il fatto è, Socrate,
che così ragionando, veniamo ad affermare proprio il contrario
di quello che dicevamo prima, che cioè gli uomini di buon senso
si dolgono di morire e gli sciocchi, al contrario, se ne rallegrano."
Socrate s'era tutto rallegrato (almeno così mi pareva) ascoltando
il fervorino di Cebete e, rivolgendosi dalla nostra parte, disse: "Come
al solito Cebete va in cerca di sottigliezze e non si lascia mica tanto
facilmente convincere da quello che gli dicono gli altri."
"Sì, però, stavolta," intervenne Simmia, "mi
pare che nel ragionamento di Cebete ci sia qualcosa di valido. Per qual
motivo, infatti, degli uomini di buon senso dovrebbero fuggire e piantare
in asso padroni migliori di loro? E, poi, mi pare che Cebete ce l'avesse
proprio con te che, a cuor leggero, vuoi abbandonare non soltanto noi,
ma anche degli ottimi padroni, quali, come tu stesso dici, sono gli
dei."
"Avete ragione. Ed io credo che voi vogliate proprio invitarmi
a difendermi da queste argomentazioni, come se fossi in tribunale."
"Proprio così," confermò Simmia.
VIII
"E sia. Cercherò di difendermi, allora, dinanzi a voi, in
maniera più convincente di quanto non abbia fatto davanti ai
giudici. È vero, miei cari Simmia e Cebete, se io non fossi convinto
di andare presso altri dei, saggi e buoni e, inoltre, tra uomini morti,
di gran lunga migliori dei vivi, oh, certo, sarei ben uno sciocco a
non dolermi di morire. Che io mi recherò tra uomini buoni è,
beninteso, una speranza e non lo posso sostenere con sicurezza, ma che
io mi troverò accanto a degli dei che sono ineguagliabilmente
ottimi padroni, oh, questo sì, io lo posso affermare fino in
fondo.
"Ecco perché non mi rattristo, come gli altri, al pensiero
di morire ma, anzi, mi consola la speranza che al di là della
morte, come da tempo si afferma, qualcosa ci sia e assai migliore per
i buoni che per i malvagi."
"E proprio ora che te ne vuoi andare, Socrate, - interruppe Simmia
-, vuoi tenertela tutta per te questa fede e non parteciparla anche
a noi? È questo un bene che deve essere elargito un po' a tutti,
almeno così mi pare, e che, al tempo stesso, potrà essere
la tua difesa se quello che dici riuscirà a convincerci."
"Cercherò, ma prima vediamo cosa vuol dire il buon Critone."
"Eh? Nient'altro che quello che mi sta ripetendo, da un pezzo,
l'uomo che dovrà somministrarti il veleno, che cioè tu
discuta il meno possibile, perché se parli troppo e ti accalori,
il veleno potrà anche non fare il suo effetto e, allora, dovrai
berne anche due o tre volte."
"Digli di non preoccuparsi: faccia pure quello che deve fare e
sia pronto a darmelo anche due e tre volte, se sarà necessario."
"Me l'ero immaginato che avresti risposto così; ma quello
è da molto che insiste."
"E tu lascialo dire. Ma a voi, come se foste miei giudici, voglio
esporre le mie ragioni e dirvi perché io credo che un uomo che
abbia dedicato tutta la sua vita alla filosofia, quand'è sul
punto di morire, non ha alcun timore, ma, anzi, una legittima speranza
di ottenere, nell'al di là, premi grandissimi. Come questo sia
vero, miei cari, cercherò di dimostrarvelo.
IX
"Gli uomini non sospettano affatto che chi si dedica alla filosofia,
nel senso più vero della parola, non miri ad altro che a morire
e presto. E, dunque, sarebbe veramente ben strano che chi per tutta
la vita ha desiderato la morte, quando poi essa giunga, si addolorasse
proprio di ciò che ha, per tanto tempo, desiderato e cercato."
Sorrise Simmia e: "Per Giove, Socrate," disse, "io non
ne avevo voglia e tu mi hai fatto ridere perché penso a tutta
quella gente che, nell'ascoltare queste tue parole, crederà che
tutti i filosofi siano degli aspiranti alla morte; specialmente, poi,
i miei concittadini direbbero che essi se la meritano."
"E avrebbero ragione di dire così, Simmia, salvo poi a capirne
qualcosa; però, credo che non comprenderebbero in che senso i
veri filosofi aspirino alla morte e a quale specie di morte e come di
essa ne siano degni. Ma lasciamo perdere la gente e ragioniamo, dunque,
tra noi. Orbene, a nostro avviso, la morte è qualcosa?"
"Sicuro."
"E che altro è se non separazione dell'anima dal corpo?
E il morire cos'è se non un distinguersi del corpo dall'anima,
un isolarsi in sé, un separarsi dall'anima e, questa, a sua volta,
dal corpo? Che altro è la morte se non questo?"
"Proprio così."
"Guarda, ora, mio caro, se sei d'accordo con me, perché
questo è importante per comprendere meglio quello di cui discutiamo.
Ti pare che un vero filosofo possa curarsi di piaceri come quelli del
mangiare e del bere ?"
"Niente affatto."
"E di quelli d'amore?"
"Nemmeno."
"E degli altri piaceri del corpo, come, per esempio, bei vestiti,
scarpe di marca, altri ornamenti del genere, tu credi che il filosofo
li tenga in gran conto e, comunque, più di quanto la necessità
lo richieda?"
"Credo che il vero filosofo le disprezzi tutte queste cose."
"E allora," proseguì, "non ti pare che tutte le
preoccupazioni di un uomo simile siano rivolte non al corpo, che anzi,
per quanto può, egli trascura, ma all'anima?"
"Sì, certo."
"E, allora, non è chiaro, tanto per cominciare, che, in
tutto questo, il filosofo cerca di liberare, per quanto possibile, l'anima
da ogni influenza del corpo, riuscendovi assai meglio degli altri?"
"Pare."
"Per questo motivo, Simmia, la maggior parte della gente giudica
indegno di vivere colui che non prova diletto per certi piaceri materiali,
anzi come se fosse già col piede nella tomba chi non si cura
di quei piaceri che sono propri del corpo."
"Dici proprio giusto."
X
"E per quanto riguarda l'acquisto della sapienza, pensi che il
corpo possa essere d'impedimento se noi ne chiediamo il concorso? Voglio
dire questo, cioè: la vista o l'udito danno agli uomini la certezza
assoluta oppure, come ci dicono i poeti, noi nulla vediamo e nulla udiamo
con precisione? E se questi sensi non sono né sicuri, né
adeguati, noi non possiamo fare affidamento sugli altri che, in effetti,
sono ancora più approssimativi e difettosi, non credi?"
"Eh, certo."
"Quand'è, dunque, che l'anima coglie la verità? evidente
che, quando essa si accinge a considerare qualche questione e lo fa
con l'aiuto dei sensi, cade in inganno."
"Esatto."
"E allora, non è attraverso l'attività razionale,
più che con ogni altra, che l'anima coglie in pieno la verità
del reale?"
"Sì."
"E, senza dubbio, l'anima esplica questa sua atti-vità quando
nessun turbamento, da parte dei sensi, venga a distoglierla, né
la vista, né l'udito, né il dolore o il piacere; solo
quando resta tutta isolata e raccolta in sé, trascurando il corpo,
staccandosi completamente da esso, senza più alcun contatto,
essa può cogliere la verità."
"È così."
"Non è quindi per questo che l'anima del filosofo disprezza
il corpo e lo fugge e, d'altra parte, desidera isolarsi in se stessa?"
"È chiaro."
"Ma, Simmia, che dobbiamo concludere, allora? Che esiste il giusto
con la G maiuscola, o no?"
"Sicuro che esiste, per Giove."
"E, così, che c'è anche il Bello e la Bontà?"
"Come no."
"Ma le hai viste tu, con i tuoi occhi, queste cose?"
"Io no, mai," ammise.
"E le hai forse conosciute con qualche altro senso? E, bada, che
non mi riferisco solo alle cose che ho nominate ma ad ogni altra, per
esempio, alla Salute, alla Forza, in una parola, cioè, alla vera
realtà di tutte le cose, a quello che ogni cosa è in se
stessa. E allora? La realtà in sé delle cose si conosce
attraverso i sensi oppure pensi che giunga alla perfetta conoscenza
di essa chi, tra noi, si appresti a esaminare e penetrare le cose nella
loro intima realtà, con la pura attività razionale?"
"Così, certamente."
"E a questo risultato, dunque, giungerà unicamente chi,
per cogliere la realtà in sé delle cose, userà,
nel più alto grado, la sola ragione, senza ricorrere all'ausilio
della vista o, che so io, di qualche altro organo di senso; chi, con
la ragione e grazie soltanto ad essa, cercherà di attingere il
vero escludendo, quanto più possibile, l'intervento del corpo,
l'uso degli occhi, degli orecchi, che sono essi a turbargli l'anima
e ad impedirgli di attingere verità e conoscenza. Non è,
dunque, costui, o Simmia, l'uomo che più di ogni altro potrà
cogliere la realtà?"
"È proprio esatto quanto dici, Socrate."
XI
"E allora," soggiunge Socrate, "necessariamente, tutte
queste considerazioni inducono i veri filosofi a un ragionamento presso
a poco di questo genere: Esiste come un sentiero che ci porta
nella direzione giusta, ma fino a che avremo un corpo e la nostra anima
sarà confusa a una simile bruttura, noi non giungeremo mai a
possedere ciò che desideriamo, che è, poi, quello che
noi chiamiamo verità. E non solo il nostro corpo ci procura infiniti
fastidi, per il fatto stesso che, ovviamente, dobbiamo nutrirlo, ma
quando si ammala, sorgono sempre nuovi impedimenti che ci distolgono
dalla nostra ricerca della verità; e, poi, ancora, amori, desideri,
timori, visioni fallaci d'ogni genere, vanità innumerevoli, non
fanno che frastornarci (è la parola giusta) così che,
fino a quando siamo in sua balia, non possiamo concentrarci su nulla.
E così pure le guerre, le discordie, le zuffe, è il corpo
che le fa nascere con le sue passioni. La brama di possesso, ecco la
causa di tutte le guerre e se noi ci affanniamo a procurarci la ricchezza,
è il corpo di cui siamo gli schiavi. Da tutto questo deriva il
fatto che noi non troviamo più il tempo per dedicarci alla filosofia.
E il peggio è che, se pure, riusciamo, per un momento, a liberarcene
e a volgere la nostra mente a qualcosa, subito ne siamo distolti, per
la sua importuna intrusione, che ci confonde, ci distrae, ci frastorna,
al punto di renderci incapaci, ormai, di distinguere la verità.
Dunque, è chiaro che se vogliamo giungere alla pura conoscenza
di qualche cosa, dobbiamo staccarci dal corpo e contemplare con la sola
anima le cose in sé. Soltanto allora, a quel che sembra, noi
avremo ciò che desideriamo e che dichiariamo di amare: la sapienza,
ma dopo che saremo morti e non certo da vivi, come tutto questo discorso
vuol dimostrare.
Se, infatti, non ci è possibile conoscere nulla nella sua
purezza, perché siamo legati al corpo, due sono le cose: o in
nessun modo ci è dato acquistare il sapere o esso ci sarà
concesso solo dopo morti, perché soltanto allora l'anima sarà
libera dal corpo e tutta sola con se stessa, prima no. Ma è chiaro
che durante la nostra vita, noi saremo tanto più vicini alla
conoscenza, nella misura in cui meno avremo a dipendere dal nostro corpo
e ad avere con esso rapporti, se non per assoluta necessità,
nella misura in cui riusciremo, cioè, ad essere, il meno possibile,
contaminati dalla sua natura e quanto più, d'altronde, resteremo
puri dal suo contatto, fino al giorno in cui dio non ci avrà
del tutto da esso disciolti. Oh, allora, liberi e puri dalla fallacia
del corpo, noi saremo uniti, con ogni probabilità, ad esseri
simili a noi e potremo noi stessi contemplare tutto ciò che è
puro. Questa, forse, è la verità: non è lecito,
a chi è impuro, toccare ciò che è puro.
"Questo io penso, Simmia, debbano essere le parole e i pensieri
di tutti coloro che sono i veri amici della sapienza, non credi?"
"Oh, sì, niente di più probabile, Socrate."
XII
"E, allora, amico mio," proseguì Socrate, "se
questa è la verità, quale grande speranza per chi giunga
dove ora io sto per andare perché, più che in qualsiasi
altro luogo, potrà ottenere pienamente quello per cui tanto tribolammo
quaggiù, nella nostra vita trascorsa. E, quindi, questo viaggio
che oggi mi si comanda, non è senza una lusinghiera speranza
che si compie, per me, come per chiunque altro abbia disposto l'anima
sua alla purezza."
"Oh, indubbiamente," fece Simmia.
"E questa purificazione non la si raggiunge, come dice anche l'antica
tradizione, separando, più che sia possibile, l'anima dal corpo,
esercitandola a restarne staccata, tutta in sé raccolta, nella
presente come nella vita futura, libera dal corpo che è il suo
carcere?"
"Certamente."
"E non è questa la morte, questo liberarsi, questo separarsi
dell'anima dal corpo?"
"Verissimo."
"E questa separazione, come abbiamo detto, dell'anima dal corpo,
la desiderano soltanto e soprattutto quelli che si occupano rettamente
di filosofia perché questo è, appunto, l'impegno dei filosofi:
separare e riscattare l'anima dal corpo. Non è così?"
"È, chiaro."
"Non sarebbe, dunque, ridicolo, come dicevo poco fa, che un uomo,
il quale in tutti i suoi anni s'è preparato a vivere in modo
che la sua vita somigliasse, quanto più possibile, alla morte,
quando questa poi giunga se ne rammaricasse?"
"Certo che sarebbe ridicolo."
"E, dunque, Simmia, quelli che si occupano seriamente di filosofia,
si abituano alla morte e l'idea di morire a loro fa meno paura che agli
altri uomini. Giudica tu, allora. Se i veri filosofi, che hanno avuto
sempre in uggia il corpo, che ardentemente e sempre desiderano che la
loro anima sia da esso staccata e tutta raccolta in sé, dovessero,
poi, lasciarsi prendere dalla paura e dal dolore, quando ciò
si avvera, non sarebbe illogico, dico, se non andassero tutti lieti
là dove, una volta giunti, possono sperare di ottenere quello
che, per tutta la vita, hanno desiderato: la sapienza cioè, di
cui erano innamorati e così sciogliersi da ciò che li
impacciava, sentirsi finalmente liberi dal suo potere?
"E, poi, molti scesero nell'Ade spinti dalla speranza di rivedere
mogli, o figli, o amanti, insomma creature dilette e ricongiungersi
a loro nell'al di là, e vuoi, allora, che un uomo, il quale è
stato innamorato della sapienza e che ha sempre nutrito la speranza
di conseguirla in nessun altro luogo se non nell'al di là, vuoi
che costui si spaventi di morire e non si rallegri di andare laggiù?
Oh, proprio no, amico mio, se è un vero filosofo, perché
egli sarà pienamente convinto che soltanto laggiù e in
nessun altro luogo potrà trovare la sapienza pura. Stando così
le cose non sarebbe veramente assurdo, come dicevo un attimo fa, che
un uomo simile avesse paura della morte?"
"Ah, certo," ammise.
XIII
"E non pensi," riprese "sia una prova più che
sufficiente vedere uno che, in punto di morte, si rattrista, per dire
che egli non è amante della sapienza ma del proprio corpo? Anzi,
c'è da credere che costui amerà anche ricchezze e onori
o addirittura le due cose insieme."
"Di sicuro, è proprio come dici tu."
"E dimmi un po', Simmia, ciò che noi chiamiamo coraggio,
non si addice, forse, in modo particolare, ai filosofi?"
"Senza dubbio."
"E la temperanza, quella che comunemente si chiama così,
cioè quell'atteggiamento distaccato e prudente in virtù
del quale si dominano le passioni, non è proprio e soltanto di
quelli che disprezzano il corpo e vivono da filosofi?"
"Certo."
"E se pensi un po' al coraggio e alla temperanza degli altri uomini,
vedrai che sono ben strani."
"E come può essere, Socrate?"
"Lo sai che tutti gli altri uomini considerano la morte tra i mali
peggiori?"
"Lo credo," disse.
"E che quelli, tra costoro, che si ritengono coraggiosi, quando
sono a tu per tu con la morte, l'affrontano per il timore di mali ancora
più grandi?"
"È così."
"E, dunque, tutti paurosi e vigliacchi nel loro coraggio, tranne
i filosofi, anche se è una contraddizione dire che si è
coraggiosi per paura e per viltà."
"Ah, certo."
"E passiamo a quelli che sono i temperanti; non è per una
sorta di intemperanza che sono tali? Potremmo dire che anche questo
è assurdo, ma, in effetti, costoro, in virtù di questa
loro specie di temperanza, si vengono a trovare in una situazione analoga.
Infatti, solo nel timore di privarsi di certi piaceri, che essi desiderano
e di cui sono schiavi, rinunciano ad altri. Ma l'esser dominato dai
piaceri è proprio dell'intemperante ed è quello che succede
a costoro che, solo per godere di alcuni piaceri, ne dominano altri.
Questo era quello che volevo dire poco fa quando accennavo che per intemperanza
costoro sono temperanti."
"E, infatti, è così."
"Ma questo, caro Simmia, non è proprio un cambio all'insegna
della virtù, questo barattare piaceri con piaceri, dolori con
dolori, paura con paura, una cosa che vale di più con una che
vale di meno, come se fossero monete. E, invece, bisognerebbe dar via
tutto per la sola moneta che vale, il sapere, grazie alla quale si possono
davvero vendere e comprare coraggio, saggezza, giustizia, insomma la
virtù vera, non disgiunta dalla sapienza, si accompagnino, poi,
o meno, piaceri, timori e passioni del genere.
"Quando, invece, tutto questo è separato dal sapere e diviene
oggetto di mutuo scambio, oh, allora, non è vera virtù
ma la sua apparenza ingannevole, una virtù d'accatto, che non
ha nulla di sano e di vero. Piuttosto là verità è
che la temperanza, il coraggio, la giustizia nascono quando ci si purifica
di tutte queste passioni e che il sapere è, forse, il mezzo per
questa purificazione.
"Inoltre io non credo che siano stati uomini dappoco quelli che
istituirono i Misteri i quali, sotto il velo dell'enigma, ci hanno pur
detto, fin dai tempi più remoti, che chi giungerà nell'oltretomba,
come un profano, senza esserne iniziato, giacerà immerso nel
fango, mentre chi vi giungerà purificato e consapevole, abiterà
con gli dei. Perché, vedi, come dicono gli interpreti dei Misteri,
molti portano il tirso ma pochi sono i veri iniziati. E
solo questi ultimi, a mio avviso, son quelli che si son dedicati nel
vero senso della parola, alla filosofia. E per essere anch'io dei loro,
nulla ho trascurato nella mia vita ma anzi, per quanto ho potuto, vi
ho messo tutto lo zelo e, se ho agito rettamente, se ho ottenuto qualche
risultato, lo sapremo quando, a dio piacendo, saremo di là, come
io credo. "Questa è la mia difesa, o Simmia e Cebete, e
queste le ragioni per cui, lasciando voi e i miei padroni di quaggiù,
io non sono in pena né in collera, dal momento che sono convinto
di trovare laggiù, non meno che qui, padroni e amici altrettanto
buoni. La gente non presta fede a queste cose, è vero, ma io
sarei felice se in questa mia difesa fossi stato con voi più
persuasivo di quanto non fui con i giudici ateniesi."
XIV
Così concluse Socrate e Cebete, intervenendo: "Benissimo,
Socrate, anch'io son d'accordo con te su molte cose, ma per quel che
riguarda l'anima, a mio avviso, gli uomini restano alquanto scettici,
perché pensano che, una volta separatasi dal corpo, essa non
abbia più esistenza alcuna, che anzi si dissolva e perisca nell'istante
in cui l'uomo muore; temono, insomma, che nel momento in cui si distacca
dal corpo, se ne voli via come soffio di vento o un po' di fumo, così,
dissolta nel nulla.
"Se fosse vero, invece, che essa si rifugiasse in qualche luogo,
tutta raccolta in sé e libera da quei mali che tu, or ora, hai
elencati, oh, allora, che bella e grande speranza nascerebbe dalle tue
parole. Quindi, occorre, senza dubbio, una prova, e non è cosa
facile, per dimostrare che l'anima non solo continui ad avere una sua
esistenza, anche dopo la morte del corpo, ma pure una sua forza vitale,
una sua capacità intellettiva."
"È vero, Cebete. E allora, cosa vogliamo fare? Vuoi che
discutiamo di questo argomento per vedere se la questione è degna
di fede o meno?"
"Sicuro. Sarei proprio contento di sapere quali sono le tue idee
in proposito."
"Ed io penso che non vi sarà nessuno che, ascoltandomi,
abbia ora il coraggio di dire (nemmeno se fosse un poeta comico), che
io sono un ciarlatano e che parlo di cose che non mi riguardano. Se
lo vuoi, dunque, esaminiamo a fondo la questione.
XV
"Cominciamo, dunque, a considerare questo: se nell'Ade vi siano
o meno le anime dei morti. Un'antica tradizione, di cui ci è
rimasto il ricordo, ci dice che laggiù vi sono le anime di coloro
che vissero sulla terra, le quali, di nuovo, torneranno quassù,
rigenerandosi dai morti. Se è così, se dai defunti nascono
i vivi, come non ammettere che le nostre anime vivano nell'al di là?
Non è possibile, infatti, che esse rinascano se non esistessero.
Basterebbe questo a provare la loro esistenza, dimostrare, cioè,
che i vivi non hanno altra origine se non dai morti. Se, invece, non
è così, allora è necessario ricorrere a un altro
ragionamento."
"Certamente," ammise Cebete.
"Non esaminare, però, la questione limitandola soltanto
agli uomini ma, se vuoi che essa ti sia più comprensibile, estendila
anche agli animali e alle piante, insomma a tutto ciò che ha
una nascita e vediamo, così, se ciascun essere nasce in questo
modo, cioè dal suo contrario (laddove, ovviamente, esiste una
tale antitesi), per esempio, il bello dal brutto, che è il suo
contrario, il giusto dall'ingiusto e così via di seguito. In
conclusione, dobbiamo esaminare se ogni cosa che ha un suo contrario,
non nasca necessariamente da esso. Per esempio, quando una cosa diventa
più grande, non è forse divenuta tale da piccola che era
prima?"
"Certo."
"E quando una cosa diviene più piccola, non diventa tale
da più grande che era prima?"
"È così."
"Per lo stesso motivo, quindi, dal più forte non nasce il
più debole e dal più lento il più veloce?"
"Sicuro."
"Ne vuoi di più? Una cosa che diventa peggiore, non è
nata, forse, da una migliore e quella più giusta non deriva,
per caso, dalla più ingiusta?"
"E come può altrimenti?"
"E, quindi, sufficientemente abbiamo provato che tutte le cose
nascono dai loro contrari."
"Va bene."
"Però c'è un fatto che tra due contrari c'è
qualcosa di intermedio, come un duplice processo generativo che va da
un'estremo all'altro e viceversa. Prendiamo una cosa più grande
e una più piccola: tra le due non c'è, rispettivamente,
un processo di crescita e di decrescita per cui noi diciamo che l'una
cresce e l'altra diminuisce?"
"Sì."
"E il decomporsi e il generarsi delle cose, il loro raffreddarsi
e riscaldarsi, il loro continuo mutare, non si svolge, forse, in questo
modo, attraverso un reciproco divenire, un processo di mutua generazione
dell'uno dall'altro, anche se non abbiamo termini esatti per definire
tutto questo?"
"Certamente."
XVI
"E allora? C'è qualcosa di contrario alla vita, come alla
veglia c'è il sonno?"
"Certo."
"Che cosa?"
"La morte," ammise.
"E questi due stati non si generano l'uno dall'altro, poiché
sono reciprocamente contrari ed essendo due, non è anche duplice
il loro processo generativo?"
"Ma certo."
"Ebbene, di una delle due coppie di contrari, che ora ho citato,
te ne parlerò io, chiarendoti il suo duplice processo generativo;
tu, poi, mi dirai dell'altra. Allora io ti dico: da una parte c'è
il sonno, dall'altra la veglia; dal sonno nasce la veglia e dalla veglia
il sonno; di questi due estremi i processi generativi sono l'addormentarsi
e il ridestarsi. È chiaro o no?"
"Chiarissimo."
"Dimmi ora tu," disse, "riguardo alla vita e alla morte.
Non convieni che la vita è il contrario della morte?"
"Io sì."
"E che l'una si genera dall'altra?"
"Sì."
"Che cosa nasce dunque dalla vita?"
"La morte."
"E dalla morte?" incalzò Socrate.
"Ah, bisogna convenire," ammise, "che nasce la vita."
"Cioè che dai morti nascono le cose viventi, caro Cebete,
i vivi?"
"È chiaro," ammise.
"E allora, le nostre anime, sono nell'Ade?"
"Almeno."
"E del duplice processo generativo dei contrari di cui stiamo parlando,
ce n'è, forse, uno che non lascia alcun dubbio? Infatti, il morire
è fuori discussione, o no?"
"Certamente," disse.
"E allora, come la mettiamo? Non contrapporremo a questo processo
generativo il suo contrario? O che forse la natura, in questo caso,
presenta una falla? Non bisogna invece contrapporre al morire il processo
opposto?"
"Ma certamente," disse.
"E quale?"
"Il rivivere."
"Dunque, se esiste il rivivere non sarà proprio questo il
processo generativo dai morti ai vivi?"
"Senza dubbio."
"Siamo d'accordo, allora, su questo: che i vivi si generano dai
morti, non meno che i morti dai vivi. Stando così le cose è
sufficientemente provato che le anime dei morti esistono in qualche
luogo e che da lì tornano, poi, a nascere."
"Dopo quanto si è detto, Socrate, anche a me sembra così."
XVII
"Vedi, dunque, Cebete, che non senza ragione ci siamo trovati d'accordo,
come sembra. Se, infatti, un processo generativo non procedesse continuamente
dall'altro, come un perenne ciclo, se il divenire si svolgesse secondo
una linea retta, da uno all'altro contrario, senza che ciascun contrario
facesse la via all'indietro e confluisse, a sua volta, quasi compiendo
un giro, nel suo opposto, oh, allora, tu capisci che tutte le cose avrebbero
un unico aspetto e si troverebbero nel medesimo stato e il loro divenire
si arresterebbe."
"Come dici?" fece.
"Non è difficile capire quello che sto dicendo. Per esempio,
se ci fosse l'addormentarsi senza che gli corrispondesse il destarsi,
che è il suo contrario, capirai che la condizione ultima di tutte
le cose farebbe apparire il caso di Endimione una banalità, perché
tutto si troverebbe nelle sue condizioni, immerso, come lui, nel sonno.
E, ancora, se tutte le cose si unissero, senza mai decomporsi, il detto
di Anassagora tutte le cose insieme, sarebbe presto una
realtà.
"E supponiamo, ancora, caro Cebete, che ogni cosa che ha vita morisse
e che, una volta morta, rimanesse sempre in questo stato, senza mai
più rivivere; non vi sarebbe, allora, necessariamente, soltanto
morte e più nessuna forma di vita? E ammettiamo, infatti, che
i vivi nascano non dai morti ma da altri esseri e che poi muoiano; come
si potrebbe evitare che tutte le cose siano consumate dalla morte?"
"In nessun modo, Socrate, a mio giudizio," ammise Cebete.
"Mi pare, anzi, che tu abbia proprio ragione."
"Infatti, Cebete, la mia opinione è che la questione stia
proprio così e che il nostro accordo non si fondi su un inganno.
Vi è, infatti, proprio una realtà che continuamente si
ridesta alla vita e i vivi son generati dai morti e le anime dei morti
hanno una loro esistenza, migliore quelle buone, peggiore quelle malvage."
XVIII
"Infatti," aggiunse Cebete, "mi sembra che sia proprio
questo il senso di quella frase famosa (ammesso che sia vera) che tu
sei sempre solito ripetere, che cioè sapere non è altro
che ricordare. Da ciò deriva il fatto che noi dobbiamo avere
già imparato, in un tempo precedente, ciò che ora ricordiamo;
e questo non sarebbe possibile se la nostra anima non fosse già
esistita in qualche luogo prima di assumere la sua forma umana. Anche
per questo motivo, dunque, è da credere che l'anima sia immortale."
"Ma, Cebete, come possiamo provarlo, tutto questo?" interloquì
Simmia. "Cerca, di rinfrescarmi la memoria, perché in questo
momento mi pare di non ricordare più bene."
"Ma esiste una prova formidabile," assicurò Cebete.
"Prova a interrogare un uomo qualsiasi: se ci sai fare, vedrai
che ti saprà rispondere da sé, su tutto e questo non potrebbe
essere se in lui non ci fossero già delle cognizioni e una capacità
di giudizio. Mettilo, poi, davanti a un problema di geometria o a qualcos'altro
del genere, e vedrai chiaramente, allora, che le cose stanno proprio
così."
"Se però questo non riesce a convincerti," intervenne
Socrate, "vedi un po' se la questione, come te la pongo io, può
trovarti d'accordo. Tu, in fondo, non riesci a convincerti come la conoscenza
non sia altro che ricordo."
"Che io proprio non ne sia convinto," precisò Simmia,
"non è esatto; solo vorrei provare su di me l'evidenza della
nostra questione, cioè, vorrei che mi si facessero ricordare
le cose. Veramente, da quello che ha detto Cebete, mi par già
di ricordare qualcosa e comincio a convincermi; ad ogni modo, vorrei
sentire com'è che tu imposti la questione."
"Così. Siamo d'accordo, è vero, che quando uno ricorda
qualcosa deve, indubbiamente, averla già vista prima?"
"Ma certo."
"E quindi siamo anche d'accordo su questo punto: che il sapere,
cioè, quando si acquista attraverso un particolare procedimento,
è reminiscenza? E ti dico subito da quale: se uno ha visto una
cosa o ne ha sentito parlare o ne ha provato una sensazione qualunque,
non conosce solo questa data cosa, ma se ne richiama alla mente un'altra,
del tutto diversa, che non ha nulla a che fare con la prima. Non dobbiamo,
allora, affermare che egli si è ricordato di questa
cosa che s'è venuta in lui ridestando?"
"Che intendi dire?"
"Questo, cioè, che altro è il concetto di uomo, altro
quello di lira."
"Be', certo."
"E non sai che gli innamorati, vedendo una lira o un mantello o
qualche altra cosa che la loro dolce metà, di solito, adopera,
non solo riconoscono la lira ma richiamano alla loro mente l'immagine
fisica della persona amata cui la lira appartiene? E questo è
la reminiscenza. Allo stesso modo che vedendo Simmia ci si ricorda di
Cebete. E di esempi simili se ne possono citare a migliaia."
"Caspita, ma certo," riconobbe Simmia.
"E, in questo caso, non si ha una reminiscenza? Specialmente, poi,
per quelle cose che, o per il tempo o perché non sono più
sotto i nostri occhi, avevamo dimenticate?"
"Sicuro," confermò.
"E dimmi ancora: se uno vede il disegno di un cavallo o quello
di una lira, si può ricordare di un uomo? O se vede il ritratto
di Simmia, ricordarsi di Cebete?" "Ma certo," fece.
"E ci si può ricordare di Simmia, in carne e ossa, vedendo
un suo ritratto?"
"Sicuro che si può."
XIX
"E da tutto questo, non ne consegue che la reminiscenza nasce da
ciò che è simile ma anche da ciò che è dissimile?"
"È vero."
"Ma quando il ricordo di qualcosa viene stimolato da qualche altra
cosa che le somiglia, necessariamente, non vien fatto di pensare se
vi sia somiglianza più o meno perfetta tra l'oggetto che ha suscitato
il ricordo e l'immagine ridestatasi nella nostra memoria?"
"Certamente," disse.
"E allora, vediamo un po' che succede," riprese Socrate. "Noi
diciamo, senza alcun dubbio, che vi è l'eguale, non voglio dire
nel senso di un pezzo di legno che è eguale a un altro pezzo
di legno o di una pietra eguale a un'altra e così via, ma alludo
a qualcosa che è all'infuori di tutti questi oggetti eguali,
diversa, cioè all'Eguale in sé. Dobbiamo dire che esiste
o no?"
"Certo che dobbiamo affermarlo, per dio," disse Simmia.
"E sappiamo pure che cosa sia?"
Sicuro."
"E da dove ne è derivata la sua conoscenza? Forse da quelle
cose di cui parlavamo, legni, pietre e roba del genere, che, vedendoli
eguali, ci han suggerito il concetto dell'Eguale in sé, che è
diverso dagli altri?
O forse, a te, non sembra tale? Ebbene, sta attento: non può
essere che legni o pietre eguali, pur restando sempre quelli, ad alcuni
sembrano eguali e ad altri no?"
"Certo."
"Ebbene, l'Eguale in sé ti è mai apparso diseguale,
cioè l'eguaglianza ti si è mai presentata come disuguaglianza?"
"Mai, Socrate."
"Difatti, questi eguali e l'Eguale in sé, non sono la stessa
cosa."
"Mi pare proprio di no, Socrate."
"Eppure, non è proprio da queste cose eguali, sebbene diverse
dall'Eguale in sé, che tu hai potuto risalire e giungere alla
conoscenza di quest'ultimo?"
"Verissimo," rispose.
"Sia che somigli o che sia diverso da quelle, non ti pare?"
"Certo."
"È, naturale, non c'è differenza," confermò,
"perché ogni volta che tu, vedendo una cosa ne pensi un'altra,
eguale o diversa che sia, necessariamente, in te s'è prodotta
una reminiscenza."
"Esatto."
"Ma, allora," ribatté, "non possiamo dire che
succede qualcosa di simile riguardo all'eguaglianza dei pezzi di legno
o degli altri oggetti eguali di cui si parlava or ora? Ci sembrano proprio
eguali all'Eguale in sé o mancano di qualcosa per essere come
quello?"
"Mancano di molte cose," ammise.
"E noi, quindi, non siamo d'accordo che se uno, vedendo una cosa
pensa: quest'oggetto che io ora vedo, tende ad essere simile a
un'altra realtà, ma non riesce a conformarvici per una sua imperfezione,
anzi ne resta inferiore; non siamo d'accordo che per pensare così,
indubbiamente, è necessario che abbia conosciuto prima questa
realtà cui egli fa assomigliare il suo oggetto per quanto difettoso?"
"Certamente."
"E, allora, è così o no, anche per noi, a proposito
delle cose eguali e dell'Eguale in sé?"
"Proprio così."
"Necessariamente, quindi, noi dobbiamo aver conosciuto l'Eguale
in sé prima che la vista di cose eguali ci abbia fatto pensare
che esse tendono ad essere come l'Eguale in sé, pur restandogli
inferiori."
"È proprio così."
"E allora noi ci troviamo d'accordo anche su questo altro punto:
che alla base di tutte le nostre cognizioni su quanto si è detto
e delle loro stesse possibilità, vi è la vista, il tatto
e qualche altra sensazione, qualunque essa sia, tanto non fa differenza."
"Infatti, Socrate, questo, per la nostra questione, non ha alcuna
importanza."
"Comunque sia, sono certamente le nostre sensazioni a farci comprendere
che tutte le eguaglianze sensibili tendono alla realtà dell'Eguale
in sé a cui, però, restano inferiori. Altrimenti, come
potremmo dire?"
"Così."
"E quindi, prima che noi cominciassimo a vedere, a udire e a percepire
con gli altri sensi, noi dovevamo avere, necessariamente, in qualche
modo, già una conoscenza dell'Eguale in sé e della sua
realtà, perché altrimenti noi non avremmo mai potuto paragonargli
le eguaglianze sensibili, né pensare che, pur aspirando ad essergli
simili, queste ultime gli restavano inferiori."
"Da ciò che si è detto, Socrate, è proprio
così."
"E noi non abbiamo cominciato a vedere, a udire,
a usare gli altri sensi, subito, appena nati?"
"Sicuro."
"Ma non abbiamo detto che, per questo, era necessario aver prima
la conoscenza dell'Eguale in sé?"
"Sì."
"Quindi, questa conoscenza, noi l'avevamo prima di nascere."
"Pare di sì."
XX
"Dunque, se noi, prima di nascere, possedevamo questa conoscenza
e, con la nascita, ne potemmo disporre, ne consegue che già prima
e, poi, una volta nati, noi avevamo non solo il concetto di Eguale in
sé e quello di Maggiore e di Minore, ma anche tutte le altre
Idee. Perché il nostro discorso, ora, non vale solo per l'Eguale
in sé ma anche per il Bello, per il Buono, per il Giusto, per
il Santo, insomma per tutto ciò che noi, parlando, definiamo
coi termine di realtà in sé, sia nelle questioni
che poniamo che nelle risposte che diamo. Dunque, necessariamente, di
tutte queste realtà, noi dobbiamo averne avuto conoscenza prima
di nascere."
"È così."
"E se una volta acquistata, noi non perdessimo con la nascita,
questa conoscenza, nasceremmo sempre sapienti e tali saremmo per tutta
la vita. Esser sapienti, infatti, significa aver acquistato conoscenza
di qualcosa e conservarla, non perderla; perché forse, dimenticanza
non è, Simmia, perdita di conoscenza?"
"Senza dubbio, Socrate."
"Al contrario, se dopo aver perduto con la nascita questa conoscenza
precedentemente acquisita, in seguito, con l'uso delle sensazioni, noi
veniamo riacquistando le cognizioni che un tempo avevamo, ciò
che noi chiamiamo imparare non consiste forse in un riacquisto di quel
sapere che era già nostro? E se questo noi chiamiamo reminiscenza,
non diciamo bene?"
"Sì, certo."
"Infatti, si è dimostrato, che, percependo noi una data
cosa con la vista o l'udito o con qualche altro organo di senso, ci
si presenta alla mente un'altra cosa, che avevamo dimenticato, ma che
ha una relazione con la prima, che può assomigliarle o meno.
Da qui, una delle due: o siamo nati con la conoscenza, ripeto, delle
realtà in sé e continuiamo ad averla per tutta la vita,
oppure, quelli che noi diciamo che imparano dopo non fanno che ricordarsi
e, in tal caso, la sapienza non è che reminiscenza."
"Effettivamente è così, Socrate."
XXI
"Cosa ne pensi, dunque, Simmia, che noi siamo nati già sapienti,
oppure che, man mano, in seguito, ci ricordiamo di quanto già
conoscevamo?"
"Mah, così sul momento, non so proprio che cosa dire, Socrate."
"Però saprai dirmi la tua opinione almeno su questo: un
uomo che sa, sarà in grado di render conto delle cose che sa?"
"Certo che lo sarà, Socrate."
"E credi che tutti siano capaci di dare una ragione delle realtà
di cui ora parlavamo?"
"Ah, lo vorrei proprio, ma temo," rispose Simmia, "che
domani a quest'ora non ci sarà nessuno capace di cavarsela degnamente."
"Quindi, Simmia, secondo te, non tutti conoscono queste realtà?"
"Ah, no di certo."
"Allora si ricordano di quello che appresero un tempo?"
"Certamente."
"Ma quand'è che le nostre anime hanno conosciuto queste
realtà? Non certo da quando è iniziata la nostra vita
umana?"
"No, certo."
"Allora prima?"
"Sì."
"Quindi, Simmia, le anime esistevano prima ancora di assumere forma
umana, separate dal corpo e dotate di intelligenza."
"A meno che, Socrate, questa conoscenza non l'acquistiamo al momento
di nascere. C'è anche questa eventualità."
"Ah, sì? Ma allora quand'è che noi perdiamo la conoscenza
di queste realtà? Infatti, abbiamo appena detto che noi non la
possediamo alla nostra nascita. O pensi che la perdiamo nel momento
stesso in cui l'abbiamo acquistata? O mi sai dire quando?"
"No, Socrate e ora m'accorgo di aver detto una sciocchezza."
XXII
"Non è così, Simmia? Se esistono queste realtà
di cui stiamo tanto parlando, cioè, il Bello, il Buono, e così
via e se ad esse riconduciamo le cose che percepiamo con i sensi, perché
riconosciamo che quelle realtà sono in noi preesistenti, se ad
esse confrontiamo le cose sensibili, allora bisogna pur dire che come
esistono queste realtà così anche la nostra anima esiste
ancora prima della nostra nascita. Se non fosse così, non se
ne andrebbe all'aria tutto il nostro ragionamento? Non è, quindi,
logico e necessario che, se esistono queste realtà, anche le
nostre anime devono esistere prima della nostra nascita e, viceversa,
se non esistono le une, non possono nemmeno esistere le altre?"
"Sicuro, Socrate," ammise Simmia, "c'è un'innegabile
correlazione tra i due fatti e mi pare proprio che la questione si sia
risolta in questo rapporto necessario tra l'esistenza dell'anima, prima
della nostra nascita, e quella delle realtà di cui hai parlato.
Niente ora è più chiaro di questo, cioè che tutte
queste realtà di cui s'è parlato, il Bello, il Buono e
così via hanno al più alto grado, una loro esistenza.
E mi pare che questo sia stato dimostrato abbastanza."
"E Cebete?" soggiunse Socrate, "bisogna convincere, ora,
anche lui."
"Ma lo sarà anche lui," disse Simmia, "almeno
credo, per quanto sia l'uomo più cocciuto del mondo di fronte
a certe questioni. Penso, comunque, che anch'egli si sia convinto che
le nostre anime esistono prima della nostra nascita."
XXIII
"Però, c'è un punto, Socrate, che neanche a me sembra
ancora dimostrato, se cioè l'anima continua ad esistere anche
dopo la morte; resta valida l'opinione comune, quella a cui poco fa
accennava Cebete, che cioè l'anima si disperda con la morte dell'uomo
e conclude così la sua esistenza. Infatti, se essa si genera
e si forma in qualche luogo ed esiste prima di entrare in un corpo umano,
com'è che poi, dopo esservi entrata e successivamente distaccatasene,
non muore anch'essa e non si dissolve?"
"Ben detto, Simmia," approvò Cebete. "È
chiaro che si è dimostrato solo la metà di ciò
che bisognava dimostrare, cioè solo che la nostra anima esiste
prima che noi nasciamo; occorre ora dimostrare che essa esisterà,
né più né meno, anche dopo la nostra morte, se
vogliamo che la dimostrazione sia completa."
"Ma la dimostrazione," intervenne Socrate, "è
presto fatta, Simmia e Cebete, basta che voi fate coincidere ciò
che ora s'è concluso con la questione che poco fa ci ha trovato
tutti d'accordo, cioè che ciò che è vivo nasce
da ciò che è morto. Giacché se è vero che
l'anima esiste prima della nascita del corpo, se, per generarsi e per
vivere essa deve nascere dalla morte e dall'essere noi precedentemente
morti, non sarà altrettanto vero che essa sopravviverà
alla morte per il fatto che deve nuovamente generarsi? Ecco che la cosa
cui avete accennato è già bell'e dimostrata.
XXIV
"Eppure, se non mi sbaglio, tu e Simmia, vorreste esaminare più
a fondo la questione perché mi pare che siete spaventati come
dei bambini, quasi che l'anima, appena fuori del corpo, se la portasse
via il vento e la disperdesse, specie poi quando ci tocca morire non
con tempo sereno ma in mezzo a una gran bufera."
"E tu assicuraci, Socrate," fece Cebete, sorridendo, "come
se noi, effettivamente, avessimo paura o meglio, come se non fossimo
noi ad essere spaventati ma quel fanciullo che è in noi. Dunque,
fa in modo che questo fanciullo non abbia paura della morte come del
bau-bau."
"Bisognerebbe fargli ogni giorno gli incantesimi," ammise
Socrate, "per liberarlo da questi timori."
"E dove andremo a trovarlo un incantatore capace, per queste paure,
visto che tu ci stai per lasciare?"
"Oh, Cebete, la Grecia è grande," rispose, "e
non manca di uomini in gamba; e poi, vi sono i paesi esteri, verso i
quali voi dovete rivolgere le vostre ricerche. E non risparmiate né
spese né fatiche per un tale incantatore, perché voi non
potreste spendere meglio il vostro denaro. Ma soprattutto datevi da
fare voi stessi, gli uni con gli altri, perché è difficile
che troviate persone capaci di assolvere questo compito, più
che voi stessi."
"Ma certo, lo faremo," assicurò Cebete. "Però,
ora, se non ti dispiace, torniamo al punto dove eravamo."
"Affatto, figurati, perché dovrebbe?"
"Bene, allora."
XXV
"Anzitutto," riprese Socrate, "dobbiamo chiederci qual
è la cosa destinata a dissolversi e per la quale, perciò,
noi temiamo la morte e quale invece, no. In seguito considereremo a
quale delle due appartenga l'anima; ed è solo allora che potremo
star tranquilli o temere per la sua morte."
"È vero," disse.
"Non credi che soltanto ciò che è composto, che è
tale per natura, è soggetto a una corrispondente decomposizione,
mentre ciò che, per sua natura, non è composto sfugge
a tale destino?"
"Sembra così anche a me," ammise Cebete.
"E le cose non composte non sono quelle che restano sempre costanti
e immutabili mentre quelle composte mutano continuamente e assumono
ora un aspetto ora un altro?"
"Certo."
"E allora, torniamo al discorso di prima. Quella realtà
in sé di cui, tra domande e risposte, demmo la definizione, resta
sempre la stessa o muta di volta in volta? L'eguale in sé, il
bello in sé, la realtà in sé di ogni cosa, la sua
essenza, sono, per quanto poco, mutabili? O piuttosto, ciascuna di queste
realtà, che esiste in sé e per sé, resta costante
e immutabile e non ammette, in alcun modo, giammai, alcuna alterazione?"
"Ah, resta sempre costante e invariabile, penso, Socrate,"
confermò Cebete.
"E che ne pensi di tutte le molteplici altre cose, come gli uomini,
i cavalli, i vestiti e cosi via, di tutte quelle cose, insomma, che
sono eguali o belle, che hanno lo stesso nome delle realtà in
sé? Restano immutabili o, al contrario delle suddette realtà,
non sono mai identiche a se stesse o tra loro, mai, per cosi dire, invariabili?"
"È così," ammise Cebete, "esse non hanno
mai il medesimo aspetto."
"Ebbene, tutte queste cose tu le puoi vedere, toccare, percepire
con i sensi, mentre quelle immutabili non puoi coglierle se non attraverso
il pensiero e la meditazione. Non si sottraggono, forse, alla nostra
vista, non sono esse invisibili?"
"È verissimo quello che dici."
XXVI
"E allora, vuoi che ammettiamo due realtà, una visibile
e l'altra invisibile?"
"Ammettiamolo, certo," disse.
"E che quella invisibile resta sempre immutabile, mentre la visibile
mai?"
"Ammettiamo anche questo," confermò.
"E dimmi," continuò Socrate, "noi non siam fatti,
per una parte, di corpo e per l'altra, di anima?"
"Certo."
"E a quale delle due realtà credi che, per natura, il corpo
sia più affine?"
"È chiaro a tutti," rispose, "che è più
affine a quella visibile."
"E l'anima? Alla visibile o all'invisibile?"
"A quest'ultima, Socrate, almeno per l'uomo."
"Ma quando noi parliamo di realtà visibile o meno, la diciamo
tale rispetto alla natura umana o, pensi, rispetto a qualche altra?"
"A quella umana, certo."
"E che diciamo dell'anima che è visibile o che non è
visibile?"
"Che non è visibile."
"Che è dunque invisibile?"
"Sì."
"Quindi l'anima somiglia, più del corpo, alla realtà
invisibile e il corpo a quella visibile."
"Necessariamente, Socrate."
XXVII
"E non dicevamo poco fa anche questo che l'anima, quando si serve
del corpo per esaminare qualcosa, mediante la vista o l'udito o un altro
organo di senso (infatti, servirsi dell'aiuto del corpo vuol dire, appunto,
esaminare mediante i sensi), non dicevamo che l'anima è spinta
dal corpo verso ciò che è mutabile e, allora, essa stessa
ondeggia incerta e perturbata, presa da vertigini, come fosse ebbra,
perché venuta a contatto con cose che così si comportano?"
"Certamente."
"Invece, quando essa si volge in una sua ricerca, tutta raccolta
in sé, allora, si eleva a ciò che è puro, immortale,
eterno e immutabile, si sente di natura affine e gli dimora accanto,
ogni qual volta le sia possibile. Così cessa dal suo lungo errare
e resta immutabile e identica a se stessa, congiunta con quelle realtà
che sono tali. E questa condizione dell'anima non si chiama intelligenza?"
"Dici bene, Socrate; è proprio vero."
"A quale delle due realtà, dunque, secondo te, dopo quello
che s'è detto prima e dopo quanto abbiamo ora concluso, assomiglia
l'anima?"
"Ma anche il più duro di mente, Socrate, dopo un simile
ragionamento, deve ammettere, in tutto e per tutto, che l'anima è
più affine a ciò che è immutabile, che a ciò
che non lo è."
"E il corpo?"
"È più affine all'altra realtà."
XXVIII
"Ma sta ancora a sentire: quando l'anima e il corpo sono uniti,
la natura, a quest'ultimo, impone di servire e obbedire, a quella, invece,
di comandare e di dominare. Anche da quest'altro punto di vista, quale
dei due ti sembra simile a ciò che è divino e quale a
ciò che è mortale? Non ti pare che il divino sia, per
sua natura, atto a comandare e a dirigere mentre ciò che è
mortale, a farsi dominare e a servire?"
"Ah, sicuro."
"E a quale dei due somiglia l'anima?"
"È chiaro, Socrate, che l'anima somiglia a ciò che
è divino, il corpo, invece, a ciò che è mortale."
"E allora, Cebete, vedi un po' se da tutto questo che si è
detto, possiamo concludere che l'anima è simile a ciò
che è divino, immortale, intelligibile, uniforme, indissolubile,
mentre il corpo è simile all'umano, al mortale, all'inintelligibile,
al multiforme, al dissolubile, insomma a ciò che non è
mai eguale a se stesso. Siamo in grado di opporre qualche altro argomento
per provare che non è così?"
"Ah, proprio no."
XXIX
"E, allora, stando così le cose, non è il corpo destinato
a dissolversi e l'anima, invece, a restare indissolubile o giù
di lì?"
"Certo, come no?"
"Orbene, puoi comprendere ora che quando l'uomo muore, la sua parte
visibile, cioè il suo corpo, che giace in luogo visibile, ciò
che noi chiamiamo cadavere, che è destinato a corrompersi, a
dissolversi, a perdersi in fumo, non si altera subito, ma resta, così
com'è, per un periodo di tempo abbastanza lungo, specie quando
è un corpo ancor florido e giovane e se poi è disseccato
come le mummie egiziane, allora si conserva quasi intatto, addirittura
indefinitamente; e poi, anche quando il corpo si corrompe, vi sono delle
parti, come ossa, tendini e organi simili che sono per così dire,
immortali. Non è così?"
"Sì."
"Ma l'anima, allora, ciò che di noi è invisibile,
che va in un luogo della stessa natura, nobile, puro, cioè nell'Ade,
accanto a un dio buono e saggio, là dove anche l'anima mia dovrà
tra poco andare, se dio vuole, questa nostra anima, dunque, dotata di
tal natura, una volta separatasi dal corpo, sarà destinata, come
crede la maggior parte della gente, a dissolversi, a svanire? Sì,
ce ne vuole, miei cari Simmia e Cebete. Invece, è proprio vero
il contrario. Se essa si distacca pura dal corpo, senza tirarsene dietro
gli impacci, dato che durante la vita, nulla ha voluto avere in comune
con esso ma anzi lo ha fuggito ed è rimasta tutta raccolta in
sé, come per un esercizio - e questo significa niente altro che
darsi alla filosofia, nel vero senso della parola, un esercitarsi a
morire senza rimpianti, e forse, non è anche un prepararsi alla
morte?..."
"Oh, senza alcun dubbio."
"... dunque, se questa è la sua condizione, non se ne andrà
verso quel luogo che le si addice, verso l'invisibile, verso il divino,
l'immortale, l'intelligibile, dove, una volta giunta, sarà felice,
libera dall'errore, dalla malvagità, dalla paura, dalle selvagge
passioni, da tutti gli altri mali dell'uomo e dove potrà trascorrere
tutto il tempo avvenire, come si dice a proposito degli iniziati, veramente,
in compagnia degli dei? È così o no, Cebete?"
XXX
"Ma certo, per dio," fece Cebete.
"Se, invece, l'anima si separa dal corpo contaminata e impura perché
è vissuta con esso in stretto rapporto, servendolo e amandolo
e condividendone le passioni e i desideri, ritenendo per vero solo ciò
che era corporeo, cioè quello che si può toccare, vedere,
bere, mangiare e usare per i piaceri d'amore e odiando, invece, e fuggendo
impaurita ciò che ai nostri occhi è oscuro e invisibile,
ciò che si può percepire solo con il pensiero e comprendere
mediante la filosofia, un'anima così fatta, ripeto, credi tu
che si possa sciogliere dal corpo pura e tutta raccolta in sé?"
"In nessun modo," ammise.
"Non credi, invece, che sarà tutta pervasa da quell'elemento
corporeo che, per la familiarità con il corpo di cui ella ha
condiviso l'esistenza, per quel suo vivergli premurosamente insieme,
le si è come connaturato?"
"Certamente."
"E ciò che è corporeo, amico mio, pesa - credi pure
-, è terragno, visibile. E un'anima di tal fatta ne è
come gravata, attirata nuovamente verso la sfera del visibile, perché
impaurita dall'invisibile, dal cosiddetto regno dell'Ade e si aggira
tra le tombe e i sepolcri, dove se ne vedono, appunto, sotto forma di
spettri, im-magini di anime staccatesi dal corpo, impure, partecipi
ancora della realtà visibile e, perciò, come tali, visibili
anch'esse."
"È probabile, Socrate."
"Altro che probabile, Cebete, come - del resto - che queste non
siano le anime dei buoni ma dei malvagi, costrette ad errare per questi
luoghi e pagare così il fio della loro precedente esistenza,
che fu malvagia. E vanno errando fin quando il desiderio di ciò
che è corporeo, che sempre le accompagna, non le spinge a unirsi
nuovamente a un corpo.
XXXI
"E si legano, com'è naturale, a quei corpi che hanno abitudini
e sistemi di vita che esse praticarono nella loro precedente esistenza."
"E quali sarebbero, Socrate?"
"Che quelle anime, per esempio, che più di ogni cosa, si
abbandonarono ai piaceri del ventre, a quelli della carne o, del bere,
senza alcuna misura, è probabile che entrino in corpi d'asino
o di animali del genere. Non credi?"
"È probabile ciò che dici."
"E quelle che poi preferirono ingiustizie, tirannidi, rapine, entreranno
in corpi di lupi, di sparvieri, di nibbi. E dove potrebbero andare tali
anime?"
"Ah, certo, in corpi simili," ammise Cebete.
"Non è chiaro, allora," continuò Socrate, "che
anche per le altre anime, il loro destino sarà corrispondente
alle loro precedenti abitudini?"
"Chiaro, non potrebbe essere altrimenti."
"E tra queste ultime, le più felici, quelle che andranno
nella sede migliore, non saranno quelle che praticarono le virtù
sociali e civili, cioè quelle virtù che vengon chiamate
temperanza e giustizia, che nascono dalla consuetudine e dalla pratica
della vita, senza, però, il concorso della filosofia e della
riflessione?"
"Ma com'è che saranno più felici?"
"Perché è probabile che ritornino in una specie di
animali mansueti, che vivono associati, come api, vespe, formiche o
anche in forma umana, generando uomini buoni."
"È probabile."
XXXII
"E, invece, non è lecito giungere fino agli dei a chi non
abbia dedicato tutto se stesso alla filosofia e non si sia distaccato
dalla terra completamente puro, cioè solo a chi sia amante del
sapere. Per questo, Simmia e Cebete, i veri filosofi si tengon lontani
da tutte le passioni terrene e sanno opporvisi senza cedere minimamente,
padroni come son di se stessi, né li spaventa la perdita del
patrimonio o la povertà (com'è della maggior parte degli
uomini e specie di quelli che sono attaccati al denaro), né un'esistenza
senza onori, (come gli ambiziosi e i vanitosi); per questo se ne tengono
lontani."
"Ah, certo, Socrate, non sarebbe nemmeno conveniente," ammise
Cebete.
"Proprio no, caspita," confermò Socrate. "Per
questo, Cebete, quelli a cui sta a cuore la propria anima e che non
passano la vita a corteggiare il proprio corpo, danno un bel saluto
a tutti gli altri, che non sanno nemmeno dove andranno a finire, e non
si mettono sulla loro strada; ma, convinti come sono che non bisogna
comportarsi contrariamente a quanto suggerisce la filosofia e a ciò
che essa fa per renderci liberi e puri, si volgono ad essa, seguendola
per quella via che essa addita."
XXXIII
"In che modo, Socrate?"
"Ora te lo dico:" fece, "quelli che amano il sapere,
sanno bene che la loro anima, appena la filosofia comincia a guidarla,
è come legata, anzi interamente avvinta al corpo, costretta a
rivolgere lo sguardo alla realtà non da sé sola, con i
propri mezzi, ma come attraverso un carcere, per cui essa è gravata
da una profonda ignoranza, riconoscendo benissimo che sono le passioni
umane, questo terribile carcere e che, chi vi si ritrova prigioniero,
lo deve solo a se stesso. Quelli che amano il sapere, ripeto, sanno
che la filosofia quando prende a guidare la loro anima, che è
in simile stato, la conforta, cerca di liberarla, facendole vedere come
sia illusoria qualsiasi indagine svolta non solo per mezzo della vista,
ma anche attraverso l'udito o con l'ausilio degli altri sensi; la persuade,
così, a farne a meno, dei sensi, se non per quel tanto che le
sia necessario servirsi di essi e la esorta a comporsi, a raccogliersi
in sé, a non fidarsi che di se stessa e solo di quella realtà
che ella indaga con le sue facoltà e a giudicare falsa, invece,
quell'altra, mutevole e contingente, che ella esamina con mezzi non
suoi; perché questa è sensibile e visibile, mentre quella
è intelligibile e invisibile. L'anima, dunque, del vero filosofo
sa di non doversi opporre a questa liberazione e, perciò, si
tiene lontana, quanto più può, dai piaceri terreni, dai
desideri, dagli affanni e dai timori, ben sapendo che se uno si fa vincere
dalle passioni, dai timori, dai dolori e dai desideri, il male che ne
potrà ricevere, anche il più grande, come per esempio
una malattia o la perdita di tutti i suoi beni, sarebbe ben poca cosa
di fronte al male estremo cui andrebbe incontro e al quale, purtroppo,
non ci si pensa."
"E qual è questo male, Socrate?" chiese Cebete.
"Che cioè l'anima di ogni uomo quando prova un dolore o
un piacere intenso per qualche cosa, crede che ciò che le produce
questa intensa emozione, sia l'unica realtà, vera ed evidente,
mentre non lo è affatto. Si tratta, invece, solo della realtà
visibile. Non è forse così?"
"Sicuro."
"E non è forse in queste occasioni, soprattutto, che l'anima
diventa schiava del corpo?"
"E come?"
"Perché ogni piacere e ogni dolore, quasi fossero chiodi,
inchiodano l'anima al corpo, gliela saldano in modo che essa diventa
corporea, fino a ritener per vere le cose ritenute tali dal corpo. Infatti,
se l'anima ha le stesse inclinazioni del corpo, se ne condivide i piaceri,
io credo che essa ne ha dovuto assimilare un po' le tendenze e la natura
e che, quindi, mai potrà giungere all'Ade nella sua purezza,
contaminata com'è dal corpo donde è uscita; essa, presto,
cadrà in un altro corpo, come un seme, e vi germoglierà.
Ecco perché non potrà mai partecipare del divino, del
puro, e del semplice."
"Verissimo questo che dici, Socrate," ammise Cebete.
XXXIV
"Per questi motivi, Cebete, sono temperanti e forti quelli che
amano il sapere e non per quel che ne dice la gente. O tu la pensi come
gli altri?"
"Oh, no, no, di certo."
"No, davvero, perché l'anima di un filosofo non penserà
certo che, mentre la filosofia sta per liberarla dal corpo, essa possa
deliberatamente abbandonarsi ai piaceri o agli affanni e tornare schiava,
facendo un po', ma a rovescio, lo stesso interminabile lavoro di Penelope
che s'affaticava sulla sua tela ora in un verso ora nell'altro. Essa,
invece, placa le passioni al lume della ragione che le è sempre
di guida, contempla il vero, il divino, ciò che è al di
là delle opinioni e che è il suo cibo spirituale, convinta
com'è che così essa deve vivere la sua vita fino alla
fine e che quando sarà giunta al termine, perverrà là
dove tutto le sarà congeniale e consimile, libera, ormai, da
ogni umana miseria. Così arricchita, Simmia e Cebete, ella non
deve più temere d'essere lacerata quando si staccherà
dal corpo e, dispersa dai venti, di essere un nulla nel nulla."
XXXV
Un lungo silenzio seguì a queste parole di Socrate che, a guardarlo,
sembrava tutto assorto a ripensare a quanto aveva detto, come, del resto,
un po' tutti noi. Soltanto Cebete e Simmia continuavano a discorrere
tra loro a bassa voce.
"Dite un po', voi due," fece Socrate quando se ne accorse,
"forse che quanto s'è detto non vi ha soddisfatti? Certo
che se si volesse approfondire la questione, ci sarebbero ancora molti
punti da chiarire e parecchie obiezioni da fare. Se, però, voi
state parlando di altro io ho finito, ma se avete qualche incertezza
in proposito, parlate pure, dite le vostre ragioni, se vi pare di poter
meglio precisare qualche punto e servitevi pure di me se questo vi potrà
giovare."
"Ebbene, Socrate," ammise Simmia, "la verità è
che da un pezzo noi abbiamo qualche dubbio in proposito e ci stiamo
esortando a vicenda a farti delle domande, perché vorremmo sentire
il tuo parere, ma abbiamo paura di darti fastidio, di turbarti troppo
nella presente sventura."
Sorrise Socrate placidamente a queste parole: "Purtroppo, Simmia,
mi sarà difficile persuadere gli altri del fatto che io non reputo
una sventura la mia sorte presente, dal momento che non riesco a convincere
nemmeno voi che ve ne state lì tutti preoccupati, credendo che
io sia d'un umore più tetro che per il passato. Si vede che in
fatto di virtù profetiche voi mi giudicate assai meno dei cigni
che, pur avendo sempre cantato, quando sentono vicina la morte, levano
più alto e più bello il loro canto, lieti perché
sanno di recarsi presso il dio di cui sono i ministri. Gli uomini, invece,
con tutta la loro paura della morte, interpretano erroneamente questo
canto e dicono che essi si lamentano così perché stanno
per morire e, quindi, cantano per il dolore, senza sapere che nessun
uccello canta se ha fame o ha freddo o sta male, nemmeno l'usignolo,
la rondine o l'upupa, anche se si dice che il loro canto sia un pianto
di dolore; nessun uccello, credo, canta per il dolore e tanto meno i
cigni che son sacri ad Apollo e che, perciò, dotati come sono
di senso profetico, prevedono le delizie dell'Ade e cantano felici,
in quell'occasione, più di quanto non abbiano mai fatto in tutta
la loro vita.
"Credo di essere anch'io simile ai cigni, nella mia devozione al
dio e sacro a lui e di aver avuto dal mio signore, non meno di loro,
il dono della profezia e di non staccarmi dalla vita meno lietamente.
Per questo voi dovete dirmi e chiedermi ciò che volete finché
ce lo concedono gli Undici di Atene."
"Va bene, allora," disse Simmia. "Comincerò io
a dirti i miei dubbi e Cebete, poi, ti dirà quello che non approva
di quanto è stato detto. Mi sembra, Socrate, e forse sarai anche
tu del mio parere, che essere così sicuri su certe questioni,
sia una cosa impossibile o, per lo meno, molto difficile, almeno in
questa vita; d'altronde, io penso che il non esaminare da un punto di
vista critico le cose che si son dette, il lasciar perdere il problema,
prima di averlo indagato sotto ogni aspetto, sia proprio dell'uomo dappoco;
quindi, in casi simili, non c'è altro da fare: o imparare da
altri, come stanno le cose, o trovare da sé, oppure, se questo
è impossibile, accettare l'opinione degli uomini, la migliore
s'intende, e la meno confutabile e con essa, come su di una zattera,
varcare a proprio rischio il gran mare dell'esistenza, a meno che uno
non abbia la possibilità di far la traversata con più
sicurezza e con minor rischio su una barca più solida, cioè
con l'aiuto di una rivelazione divina. Ecco perché io, ora, non
mi faccio scrupolo di interrogarti, dal momento che anche tu insisti
e d'altra parte non voglio che, un domani, io debba rammaricarmi di
non averti detto quello che oggi penso. Infatti, Socrate, ripensando
tra me e poi anche con Cebete, alle questioni discusse, non mi sembra
che siano molto chiare."
XXXVI
"Forse la tua impressione non è sbagliata," ammise
Socrate; "ad ogni modo, amico mio, dimmi cos'è precisamente
che non ti ha soddisfatto."
"Vedi, il tuo ragionamento, a mio avviso, potrebbe andar benissimo
anche per quel che riguarda un accordo musicale, poniamo, di una lira;
la melodia, infatti, che nasce dalle corde di una lira ben accordata
è invisibile, incorporea, stupendamente bella, addirittura divina,
mentre la lira e le sue corde sono cose materiali, corpi, di natura
terrena e mortale. Ora, ammettiamo che uno rompa la lira, spezzi e strappi
via le corde, da quanto hai detto, si potrebbe sostenere che la melodia,
lungi dal dissolversi, continui a sussistere, poiché sarebbe
impossibile che la lira continui ad esistere anche con le corde spezzate,
che sono di natura mortale e che la melodia, invece, che partecipa del
divino e dell'immortale, si dissolva, consumandosi prima di ciò
che è finito. E, anzi, bisognerebbe affermare che è l'armonia
che continuerà a sussistere in qualche parte, mentre il legno
e le corde imputridiranno assai prima che ad essa capiti qualcosa. E
io credo, Socrate, che anche tu abbia visto che noi, sull'anima, pensiamo
press'a poco qualcosa di questo genere: dato che il corpo è armonicamente
regolato e sorretto dal caldo e dal freddo, dal secco e dall'umido e
da altri fattori analoghi, anche la nostra anima è costituita
dalla combinazione e dall'armonia di questi stessi elementi convenientemente
e proporzionatamente fusi tra loro. Se, dunque, l'anima è armonia,
è chiaro che quando il nostro corpo, per una malattia o per altri
malanni, subisce un rilassamento o un'eccessiva tensione, anche l'anima,
necessariamente, verrà distrutta benché sia, in sommo
grado, di natura divina, come del resto tutte le altre forme di armonia,
quelle cioè che sono nei suoni o in ogni altra espressione d'arte,
mentre i resti del corpo umano durano più a lungo e fino a quando
non vengono cremati o non si decompongono. Vedi un po' tu, ora, cosa
c'è da obbiettare se si sostiene che l'anima, dato che è
formata da quegli stessi elementi di cui è fatto il corpo, quando
giunge la cosiddetta morte, sarà essa la prima a morire."
XXXVII
"Non è mica tanto sbagliato quello che dice Simmia,"
e Socrate volse intorno quel suo sguardo penetrante che gli conoscevamo,
poi soggiunse sorridendo. "Se qualcuno di voi si sente meno incerto
di me, risponda pure; infatti, mi pare proprio che Simmia abbia mosso
un attacco in piena regola alla mia tesi. Sarebbe, però, opportuno
che, prima di rispondere, sentissimo cosa ne pensa Cebete, anche per
prenderci tempo per la nostra risposta. Dopo che li avremo ascoltati
entrambi, o accetteremo le loro obiezioni, se ci sembreranno intonate,
o riprenderemo a difendere la nostra tesi tutta da capo. E, allora,
parla, Cebete, dì pure quello che ti rende perplesso."
"Eccomi qua," rispose Cebete: "mi pare che la discussione
sia ferma allo stesso punto e che su quanto abbiamo detto ora si possono
fare le stesse obiezioni di prima. Che la nostra anima esista anche
prima di assumere la forma umana, io non lo nego: la cosa, infatti,
è stata dimostrata con molta finezza e, senza voler essere presuntuosi,
anche in modo del tutto soddisfacente; ma che l'anima, anche dopo la
nostra morte, continui a vivere, questo, poi, proprio non mi persuade.
D'altro canto non sono nemmeno d'accordo su quanto ha detto Simmia,
che, cioè, l'anima non sia affatto più forte e resistente
del corpo. Son convinto, invece, che c'è una gran bella differenza,
sotto tutti i punti di vista. Ma, allora, tu potresti dirmi
nel tuo ragionamento, perché hai ancora dei dubbi, quando
vedi che dopo la morte dell'uomo la sua parte più debole continua
ad esistere? Non ti pare allora che anche la parte più resistente
e durevole, necessariamente, debba continuare a vivere, almeno quanto
l'altra? Vedi un po', ora, se a questo proposito, dico bene, perché
anch'io, come Simmia, devo parlare per immagini. Io credo che lo stesso
discorso si potrebbe fare a proposito di un vecchio tessitore morto
e dire che il poveretto non è mica morto ma viva sano e vegeto
in qualche parte e, a prova di questo, si mostrasse il mantello che
egli indossava e che si era tessuto con le sue mani, ancora in buone
condizioni e per niente rovinato. A chi non volesse crederci, si potrebbe
domandare se sia più lunga la vita di un uomo o quella del mantello
che indossa. Indubbiamente la risposta sarebbe che è più
lunga la vita di un uomo e con ciò, a più forte ragione,
sarebbe dimostrato che l'uomo è senz'altro vivo, dato che il
mantello, che è cosa meno durevole, non è ancora consumato.
Ma io credo, Simmia, che le cose non stiano così; cerca, perciò
di seguirmi. Ognuno può rendersi conto che questa tesi è
molto debole. Infatti, questo tuo tessitore, che ha tessuto e consumato
molti mantelli, se è vero che è morto dopo averne usati
molti, è anche vero che egli ha cessato di vivere prima di aver
consumato l'ultimo e questo non mi sembra affatto un motivo valido per
affermare che l'uomo sia da meno e più debole di un mantello.
Lo stesso esempio potrebbe farsi, penso, riguardo all'anima e ai suoi
rapporti col corpo e credo che andrebbe proprio bene, cioè che
l'anima è di natura molto resistente, il corpo, invece, più
fragile e meno durevole. In realtà, si potrebbe dire che ogni
anima logora molti corpi, specialmente poi se vive per molti anni (supponiamo,
infatti, che mentre l'uomo vive se il corpo è come un flusso
che scorre e si esaurisce, l'anima, invece, rinnova via via ciò
che si consuma); ma è inevitabile che essa, quando giunge l'ora
della morte, si troverà ad avere la sua ultima veste e che muoia,
quindi, prima di questa. Morta l'anima, il corpo, allora, rivelerà
tutta la sua fragilità e, corrompendosi rapidamente, si dissolverà.
Da questo discorso, ne viene, di conseguenza, che noi non possiamo ancora
credere che, dopo morti, la nostra anima continui a vivere da qualche
parte. Ma voglio anche concederti più di quanto affermi, ammettere,
cioè, che le nostre anime non solo siano esistite prima della
nostra nascita, ma che nulla impedisce che esistano anche dopo la nostra
morte in altri esseri che nasceranno e morranno (e l'anima è,
per sua natura, così resistente da poter sopportare tutte queste
reincarnazioni); ammesso tutto ciò, non si potrebbe mai concederti
che l'anima non si indebolisca in queste continue rinascite e che, alla
fine, in una delle tante sue morti corporali, non muoia anch'essa definitivamente,
una buona volta. In verità, tu potresti affermare che nessuno
può saperne nulla di quest'ultima morte del corpo che segna anche
la rovina dell'anima - infatti è impossibile per qualsiasi di
noi averne completa consapevolezza -; in tal caso, nessuno può
giustificare la sua tranquillità dinanzi alla morte, se non è
in grado di provare che l'anima è senz'altro immortale e indistruttibile,
almeno che non la giudichi egli stesso un'insensatezza. Diversamente,
chi sta per morire, deve per forza temere per la propria anima, che,
al momento della sua separazione dal corpo, noti si dissolva anch'essa
del tutto."
XXXVIII
Dopo averli ascoltati, tutti noi provammo una penosa impressione, come
più tardi ci confidammo l'un l'altro perché, com'eravamo
rimasti convinti del ragionamento precedente, così, ora, ci sembrava
che quei due ci avessero confuso le idee e rigettato nella sfiducia
non solo riguardo ai discorsi che si eran fatti finora ma anche su quelli
che si sarebbero tenuti in seguito, quasi come se noi fossimo incapaci
di giudicare o che la questione stessa fosse del tutto campata in aria.
ECHECRATE
Per tutti gli dei, Fedone, io vi comprendo benissimo. Anche a me che
ti ho sentito parlare, ora vien fatto di chiedermi: "Ma a quale
tesi, d'ora in poi, dovremo credere, dal momento che gli argomenti di
Socrate, così persuasivi, si son rivelati addirittura tanto poco
credibili?" Mi ha sempre profondamente suggestionato la tesi che
la nostra anima fosse un'armonia; l'averla ora sentita, in certo qual
modo, ripetere, mi ha confermato quanto io la condividessi. Ecco, intanto,
che ora mi ci vuole una nuova dimostrazione, come se incominciassimo
tutto da capo, per convincermi che l'anima non muore con la morte del
corpo. Dimmi un po', insomma, come Socrate se l'è cavata, dopo
tutto quel discorso. Apparve, come voi, turbato o meno? O affrontò
tranquillamente la cosa? Ha ribattuto efficacemente, o no? Raccontami
tutto, per filo e per segno, se è possibile.
FEDONE
Ah, Echecrate, tu sai quanta ammirazione abbia sempre avuto per Socrate,
eppure, mai come quest'ultima volta che gli fui vicino. Che un uomo
come lui avesse i suoi argomenti per replicare, niente di straordinario,
ma quello che, soprattutto, mi stupì, fu la dolcezza, la benevolenza,
la serenità con cui accolse le obiezioni di quei due giovani
e l'intuito, poi, con cui si accorse del turbamento che quei loro discorsi
ci avevano procurato e come seppe rimediare alla cosa, come ci richiamò
e ci ridette fiducia a seguirlo e ad esaminare con lui la questione,
noi che eravamo già sbandati e sconfitti.
ECHECRATE
E come?
FEDONE
Te lo dico subito. Mi trovavo seduto, alla sua destra, su uno sgabello,
accanto al letto; lui, invece, stava più in alto di me. Cominciò
ad accarezzarmi il capo, lisciandomi i capelli che mi scendevano sul
collo (aveva l'abitudine di prendermi in giro, di tanto in tanto, per
i miei capelli): "Forse, domani, Fedone, ti taglierai questi bei
capelli," mi disse.
"Oh, sì Socrate, è naturale," gli risposi.
"E, invece, no, se mi ascolterai."
"Ma come?" esclamai.
"Oggi i capelli ce li taglieremo tutti e due se lasceremo lì
la nostra questione, senza saperla portare in porto. Anzi, se fossi
in te, non riuscendo a sostenere la nostra tesi, giurerei, come gli
Argivi, di non farmeli più crescere prima d'aver demolito, con
rinnovata energia, gli argomenti di Simmia e di Cebete."
"Ma contro due non ce la fa nemmeno Ercole, almeno così
dice il proverbio."
"E allora chiama me in aiuto, come se fossi il tuo Iolao, finché
è ancora giorno."
"Sì, ti chiamerò in aiuto, ma non come se fossi io
Ercole ma Iolao, che chiama Ercole in suo soccorso." "Ma andiamo,
che è lo stesso."
XXXIX
"Prima di tutto bisogna stare attenti che non ci succeda qualche
guaio."
"E quale?" domandai.
"Che non diventiamo dei misologi, come certi che diventano misantropi.
Non c'è male peggiore che questo di odiare ogni discussione.
Misologia e misantropia nascono nello stesso modo. La misantropia nasce
quando si è riposta eccessiva fiducia in qualcuno, senza conoscerlo
bene, ritenendolo amico leale, sincero, fedele mentre poi, a poco a
poco, si scopre che è malvagio e infido, un essere del tutto
diverso. Quando questa esperienza si ripete più volte, specie
con quelli che stimavamo più fidati e più amici, si finisce,
dopo tante delusioni, con l'odiare tutti e col credere che in nessun
uomo vi sia qualcosa di buono. Non succede così?"
"Proprio così," risposi.
"E non è ingiusto, questo? Non è forse vero che chi
si comporta così, evidentemente vive tra gli uomini senza averne
nessuna esperienza? Se, infatti, li conoscesse appena, saprebbe che
son pochi quelli veramente buoni o completamente malvagi e che per la
maggior parte, invece, sono dei mediocri."
"In che senso?" feci.
"È lo stesso delle cose molto piccole e molto grandi. Credi
forse che sia tanto facile trovare un uomo o un cane o un altro essere
qualunque molto grande o molto piccolo o, che so io, uno molto veloce
o molto lento o molto brutto o molto bello o tutto bianco o tutto nero?
Non ti sei mai accorto che in tutte le cose gli estremi sono rari mentre
gli aspetti intermedi sono frequenti, anzi numerosi?"
"Ma certo," riconobbi io.
"E non credi che se si facesse una gara di malvagità, pochissimi
arriverebbero tra i primi?"
"È probabile," ammisi.
"Altro che," disse. "Ma su questo punto, non si può
fare un parallelo tra le discussioni e gli uomini. Il fatto è
che tu hai continuato a discutere ed io ti son venuto dietro. Si può
vedervi una relazione, invece, in questo senso, quando uno presta, cioè,
troppa fede a una tesi e la ritiene buona senza conoscerla a fondo e
poi in un secondo momento, gli sembra falsa, a volte anche a ragione,
ma a volte a torto, e quando questo gli capita spesso... Tu sai bene
che quelli che si perdono in discussioni sul pro e sul contro, finiscono
col credersi dei sapientoni e di essere i soli ad avere intuito che
niente a questo mondo, e tanto meno le discussioni, è stabile
e sicuro e credono che tutto, come nell'Euripo, vada su e giù,
senza sosta, senza un momento di tregua."
"È proprio vero, è così!" affermai.
"Ebbene, Fedone," riprese, "sarebbe una cosa veramente
deplorevole se, con tutte le tesi vere e sicure che vi sono e vengono
riconosciute tali, soltanto per il fatto che ci si imbatte in altre
che, pur essendo sempre le stesse, ora ci sembrano vere ora false, si
finisse col dare la colpa non a se stessi e alla propria incapacità
ma, per la stizza, agli argomenti e si passasse tutta la vita a odiare
e maledire ogni discussione privandoci, così, della verità
e della conoscenza della realtà."
"Santo cielo," esclamai, "sarebbe veramente una brutta
cosa."
XL
"Dunque, prima di tutto," disse, "stiamo attenti che
in noi non si insinui la convinzione che ogni tesi sia falsa, ma che,
piuttosto, non ci sia proprio in noi qualcosa che non va. Comportiamoci
virilmente quindi e cerchiamo di vederci chiaro, tu e gli altri, per
tutti gli anni che vi restano da vivere, io, invece, per la morte che
mi sta sopra perché, proprio in una questione come questa, data
la mia situazione, corro il rischio di non comportarmi come un vero
filosofo ma come quelli che non capiscono niente e vogliono avere ragione
a tutti i costi. Questa gente, quando discute di qualche cosa, non si
preoccupa affatto di stabilire la verità ma solo di fare apparire
come vero ai presenti, quello che sostiene. La differenza tra me e loro
è che io non cerco di far passare per vero, a voi qui presenti,
quello che dico (cosa questa del tutto secondaria) ma che appaia tale
soprattutto a me stesso. Io, infatti, la penso così, mio caro
(guarda come faccio bene i miei calcoli): se quello che affermo corrisponde
a verità, è certamente un bene che me ne sia persuaso;
se, invece, dopo la morte non c'è che il nulla, allora, almeno,
in queste poche ore che mi restano prima di morire, non vi avrò
annoiato con i miei lamenti; del resto non durerà per molto questa
mia ignoranza, il che sarebbe veramente un grosso guaio, ma ancora un
poco e poi sarà finita. Eccomi, dunque, Simmia e Cebete, pronto
a riprendere la questione e voi datemi ascolto, non preoccupatevi tanto
di Socrate ma soprattutto della verità e se vi sembra che io
dico il vero, datemi il vostro consenso, altrimenti contradditemi pure,
in tutti i modi, e state attenti che, per la troppa foga, io non inganni
voi e me stesso e non vi lasci, nel partirmene dalla terra, il pungiglione,
come un'ape."
XLI
"Suvvia allora," disse. "Prima di tutto ricordatemi quello
che stavate dicendo se, per caso, me ne dimenticassi. Se non sbaglio,
Simmia dubita e teme che l'anima, pur essendo di natura divina e più
bella del corpo, muoia prima di esso perché è una specie
di armonia. Cebete, invece, mi pareva che fosse d'accordo con me nel
ritenere che l'anima è, per natura, più resistente del
corpo ma che nessuno, però, può sapere se, dopo aver consumato
in molte vite un certo numero di corpi, muoia anch'essa nel separarsi
dall'ultimo e che la morte sia, appunto, proprio questo dissolversi
dell'anima dal moínento che il corpo muore sempre un po', continuamente.
Son queste le questioni che dobbiamo affrontare, Simmia e Cebete, o
ce ne sono altre?"
Tutti e due dissero che erano soltanto queste.
"E le cose che si son discusse prima, le respingete tutte oppure
soltanto in parte?"
"Alcune sì, altre no," affermarono insieme.
"E che ne pensate di quello che abbiamo detto, cioè che
scienza è reminiscenza e quindi, se questo è esatto, che
l'anima nostra deve pur esistere in qualche parte prima di entrare in
un corpo?"
"Per conto mio," ammise Cebete, "ne sono rimasto straordinariamente
persuaso e perciò niente potrebbe, ora, farmi cambiare idea."
"Sono d'accordo anch'io," aggiunse Simmia, "e molto mi
meraviglierei se dovessi cambiare opinione."
"Eppure, tebano, non dovresti pensarla cosi, se insisti a credere
che l'anima sia una specie d'armonia e, come tale, composta da quegli
stessi elementi corporei sapientemente armonizzati tra loro. Infatti,
non vorrai mica ammettere che l'armonia, che è un composto, appunto,
di elementi, esista prima degli elementi che la compongono, o credi
che sia così?"
"Niente affatto, Socrate."
"Ma, intanto, non è questo che vieni a sostenere quando,
per un verso, dici che l'anima esiste prima di entrare in una forma
umana e di legarsi a un corpo e, per l'altro, che essa è composta
di quegli elementi che non esistevano prima di lei? L'armonia non è
affatto quella cosa a cui vorresti paragonarla; prima esistono, infatti,
la lira, le corde e i suoni non ancora armonizzati e, soltanto per ultima,
si forma l'armonia che, del resto, è poi, la prima a dissolversi.
Come credi, quindi, di poter accordare questo tuo ragionamento con l'altro?"
"Ah, certo, non è possibile," fece Simmia.
"E si che se c'è un argomento sul quale è bene trovare
un accordo," coinnìeiìtò Socrate, "è
proprio questo sull'armonia."
"Ah, certo, sarebbe bene," ammise Simmia.
"E, invece, il tuo ragionamento non è affatto accordato.
Vedi un po', allora, di scegliere quale delle due ipotesi preferisci:
che la scienza sia reminiscenza o che l'anima sia un'armonia?"
"Molto più volentieri il primo, Socrate; l'altro, infatti,
m'è venuto fuori così, senza che me ne rendessi veramente
conto, ma solo per una certa approssimazione, come del resto, in fondo,
un po' tutte le opinioni degli uomini; ed io, invece, so bene che i
ragionamenti fondati su analogie non sono che ciarle e se uno non fa
attenzione può essere facilmente tratto in errore, sia nella
geometria che in tutte le altre discipline. Invece, il ragionamento
che si è fatto sulla reminiscenza e sulla scienza, è partito
da un'ipotesi degna di essere accettata. Infatti è stato detto
che la nostra anima esiste ancor prima di entrare in un corpo, così
come esistono quelle essenze a cui abbiamo dato il nome di realtà
in sé e che sono un suo possesso. Orbene, questa ipotesi, dato
che ne sono pienamente convinto, io l'ho a buon diritto accettata. Quindi,
devo ammettere, logicamente, che non è più possibile sostenere,
né da parte mia, né da parte di altri, che l'anima è
un'armonia."
XLII
"E di un po', allora, Simmia: secondo te l'armonia e ogni altra
cosa composta, può essere di natura diversa, di quella degli
elementi che la costituiscono?"
"Assolutamente no."
"E allora io credo che non sia nemmeno possibile che faccia qualcosa,
o la subisca, diversa da quella che possono fare o subire quegli elementi
stessi."
Lo ammise.
"Così che l'armonia non può guidare gli elementi
che la compongono ma solo seguirli."
Ammise anche questo.
"E, per di più, non v'è alcuna possibilità
che essa possa emettere suoni o vibrazioni indipendentemente o, comunque,
in maniera contraria, alle parti che la compongono."
"Ah, sicuramente no."
"E dimmi ancora una cosa: l'armonia, per sua natura, non è
ciò che i singoli elementi, armonizzati tra loro, producono?"
"Non capisco," azzardò.
"Cioè che se si potesse riuscire, ammesso che fosse possibile,
ad armonizzare in accordi più alti e perfetti questi elementi,
si potrebbe avere, forse, un'armonia più bella e più piena,
mentre se gli accordi fossero più deboli e più bassi,
l'armonia sarebbe, anch'essa, debole e grave?"
"Certamente."
"E può succedere questo per l'anima, che cioè essa
sia, anche se in parte minima, più o meno anima di un'altra,
per intensità ed estensione e restare sempre quello che è,
cioè anima?"
"Niente affatto," ammise.
"Andiamo avanti, allora," disse: "Non si dice che un'anima
è buona quando ha senno e virtù e che, invece, è
malvagia quando in sé ha cattiveria e stoltezza? giusto dire
così?"
"È giusto, certo."
"E allora, quelli che sostengono che l'anima sia un'armonia, cosa
diranno della virtù e del vizio, cioè di queste qualità
che si trovano nelle anime? Che l'una è un'altra specie di armonia
e l'altra una disarmonia? Dirà che l'anima buona, perfettamente
armonizzata, essendo già un'armonia ne possiede un'altra e che
quella cattiva, invece, essendo disarmonica, non ne ha alcuna?"
"Ah, io non so che dirti," ammise Simmia, "ma è
chiaro che chi la pensa così direbbe qualcosa di simile."
"Ma poco prima," Socrate riprese, "abbiamo ammesso che
non esiste un'anima che sia più o meno anima di un'altra e questo
significa che non esiste un'armonia che sia più o meno tale rispetto
a un'altra. Non è così?"
"Certo."
"E un'armonia che non può essere più o meno tale,
non sarà, quindi, neanche più o meno armonizzata. Ti pare?"
"È così."
"E un'armonia che non può essere più o meno armonizzata,
può partecipare, invece, in misura maggiore o minore, all'armonia
o deve essere perfettamente corrispondente?"
"Deve essere corrispondente."
"E, quindi, un'anima, per il fatto che non è più
o meno tale rispetto a un'altra e che è, appunto soltanto anima,
non può neanche essere più o meno armonizzata."
"Ma certo."
"Ed essendo questa la sua condizione, potrà avere più
armonia o disarmonia di un'altra?"
"Indubbiamente no."
"E se è vero che il vizio è disarmonia e la virtù
armonia, potrà un'anima essere, più di un'altra, virtuosa
o malvagia?"
"In alcun modo."
"Anzi, a voler esser precisi, Simmia, senza dubbio dobbiamo dire
che nessuna anima può essere rnalvagia se è un'armonia.
L'armonia, infatti, per il fatto di essere decisamente tale, cioè
armonia, non può essere disarmonia."
"Certamente no."
"E quindi neanche l'anima che è decisamente anima, può
essere malvagia."
"E come potrebbe, dopo quel che s'è detto?"
"Dunque, da questo ragionamento, consegue, secondo noi, che tutte
le anime, di tutti gli esseri viventi, sono egualmente buone se, per
loro natura, sono tali, cioè anime."
"Certo, Socrate, anch'io la penso così."
"E ti pare che sia giusto tutto questo," aggiunse Socrate,
"e che il nostro discorso sarebbe giunto a queste conclusioni se
fosse esatta l'ipotesi che l'anima è un'armonia?"
"Ah, no, di certo," ammise.
XLIII
"E ora," riprese Socrate, "puoi dirmi se di tutte le
facoltà possedute dall'uomo ve ne sia qualcuna che abbia una
sua superiorità sulle altre, all'infuori dell'anima che, per
di più, è razionale?"
"Ah, io no."
"Ed è superiore perché cede alle passioni del corpo
o perché vi si oppone? Mi spiego meglio: bruciamo per l'arsura,
per esempio, e abbiamo sete, l'anima spinge il nostro corpo in senso
contrario, cioè, a non bere e se siamo affamati a non mangiare;
e infiniti altri sarebbero gli esempi, a confermarci che l'anima si
oppone agli istinti del corpo. Non è forse vero?"
"Sì, è proprio così."
"Ma noi non abbiamo concluso che se l'anima fosse un'armonia non
potrebbe mai dar suoni contrari a quelli degli elementi che la compongono,
ora tesi, ora allentati, ora più vibranti, ma dovrebbe seguirli
e non già guidarli?"
"E come no? Così, infatti, concludemmo," disse.
"E allora? Non è evidente che l'anima si comporta tutto
il contrario, che cioè guida tutti quegli elementi di cui si
dice che è composta, che, anzi, si oppone ad essi durante tutta
la vita, esercitando il suo dominio in tutti i modi, tenendoli a freno,
ora con maggiore durezza e con sistemi anche dolorosi, come per esempio
esercizi ginnici o cure mediche, ora con minore intransigenza, con minacce
o consigli, volgendosi agli istinti, alle ire, ai timori, come se fosse
estranea ad essi ed essi del tutto diversi da lei. Qualcosa di simile
volle dire Omero nell'Odissea quando così fa parlare Ulisse:
battendosi il petto così apostrofava il suo cuore:
sopporta o mio cuore, altre volte
soffristi già un male più acuto.
Credi che egli avrebbe scritto così se avesse pensato che l'anima
è un'armonia e tale da essere succube delle passioni del corpo
e non, invece, capace di guidarle e di dominarle e, quindi, cosa troppo
divina per esser messa al livello di un'armonia?"
"Per Giove, Socrate, pare anche a me che è così."
"Dunque, mio caro amico, non è proprio più il caso
di affermare che l'anima è un'armonia perché, a quanto
pare, non ci troveremmo d'accordo né con Omero, quel divino poeta,
né con noi stessi."
"È proprio così," disse.
XLIV
"Bene, allora," riprese Socrate, "per quel che riguarda
Armonia, quella tebana, in un certo qual modo ce la siam fatta amica;
ma, Cebete, come la mettiamo con Cadmo, in che modo e con quale ragionamento
possiamo tirarcelo dalla nostra parte?"
E Cebete: "Il modo lo saprai trovare tu. Il ragionamento che ora
hai fatto contro la tesi dell'armonia è stato addirittura straordinario
da superare ogni mia aspettativa. Infatti, mentre Simmia parlava esponendo
i suoi dubbi in proposito, io mi chiedevo tutto stupito se vi potesse
essere qualcuno capace di spuntarla contro le sue obiezioni e, così,
mi parve addirittura incredibile come esse crollassero di fronte al
primo assalto delle tue parole. Non mi meraviglierei, quindi, affatto
che capitasse lo stesso alla tesi di Cadmo."
"Mio buon amico," disse Socrate, "non vantiamoci troppo,
può essere di cattivo augurio e rovinarci tutto il ragionamento
che ci accingiamo a fare. Dopo tutto, anche in questo caso, siamo nelle
mani di dio; da parte nostra facciamoci sotto, come i guerrieri di Omero,
e vediamo, un po' se in quello che hai detto c'è qualcosa di
buono. In poche parole tu chiedi che ti si mostri che la nostra anima
è immortale e incorruttibile, se si vuole che la speranza di
un filosofo, in punto di morire, che crede di essere felice dopo morto,
in un'altra vita, assai più che se fosse vissuto in modo del
tutto diverso, non sia una vana e sciocca speranza. Dire, poi, che l'anima
è qualcosa di resistente e di divino e che esisteva già
prima che noi divenissimo creature umane, questo - seconto te - non
prova che essa sia immortale ma solo, tutt'al più, che è
più durevole e che è vissuta precedentemente in qualche
luogo, per lunghissimo tempo e che sapeva e faceva molte cose; il fatto
stesso, poi, che la sua discesa in un corpo umano segni il principio
della sua fine e sia come l'inizio di una malattia, è un altro
motivo per non credere nella sua immortalità, per cui essa vive
tutta questa nostra vita fra mille tribolazioni fino a quando, al sopraggiungere
della cosiddetta morte, non si dissolve del tutto. Infine dicevi che
non c'è differenza, per quel che riguarda il nostro timore della
morte, se l'anima entri una sola volta in un corpo o se le sue reincarnazioni
siano numerose; perché chi non sa e non può dimostrare
che essa è immortale, ha sempre mille ragioni di temere, almeno
che non sia fuor di senno. Questo, Cebete, presso a poco, è quello
che tu hai affermato; io l'ho riassunto a bella posta perché
niente possa sfuggirci e perché tu possa, se credi, aggiungervi
o togliervi qualcosa."
E Cebete: "No, non devo togliere né aggiungere altro: questo
è ciò che sostengo."
XLV
Socrate rimase a lungo in silenzio, tutto assorto in un suo pensiero,
poi disse: "Non è una questione da nulla questa che proponi,
perché si tratta di indagare sulle cause della vita e della morte.
E io voglio incominciare col narrarti, se lo desideri, quello che è
capitato a me, in proposito; e se ciò che dico ti sembrerà
utile, giovatene pure per rendere convincente la tua tesi."
"Ma certo," assicurò Cebete, "è proprio
questo che voglio."
"Sta attento, allora, a quel che sto per dirti. Quando ero giovane,
Cebete, avevo una gran passione per quella scienza che vien detta storia
naturale; mi sembrava, infatti, che fosse una disciplina meravigliosa
quella che insegnava a conoscere le cause delle singole cose, della
loro nascita e della loro morte, nonché il mistero della loro
vita. E spesso gravi dubbi sorgevano in me quando meditavo su questi
problemi: Che forse quando il caldo e il freddo producono una
specie di putrefazione, come dicono alcuni, si ha allora la vita?
- O è forse il sangue che dà origine, in noi, al
pensiero, o l'aria, o il fuoco? - O nulla di tutto questo,
ma è il cervello, invece, che ci dà le sensazioni dell'udito,
della vista, dell'olfatto, dalle quali poi nascerebbero la memoria e
le opinioni che una volta stabilizzatesi in noi, ci darebbero, poi,
la conoscenza? E andavo studiando anche i processi opposti, il
morir delle cose e le vicende del cielo e della terra, ma, alla fine,
dovetti persuadermi di non essere assolutamente portato per studi di
questo genere. E te ne darò una prova sufficiente: infatti, quello
che sapevo prima, in modo abbastanza chiaro, o almeno, così sembrava
e non solo a me ma anche agli altri, dopo quelle mie ricerche, mi divenne
così oscuro che disimparai letteralmente tutto ciò che
prima credevo di sapere, una tra le tante, per esempio, come fa l'uomo
a crescere. Prima d'allora credevo che fosse una cosa evidente che l'uomo
cresce perché si ciba e si disseta. Infatti, quando col cibo
si aggiungono carne alla carne e ossa alle ossa e, così, per
la stessa legge, ogni elemento specifico alle altre parti, credevo,
allora, che, in tal modo, il volume del corpo, da piccolo che era, divenisse
più grande. Così io pensavo e non ti pare che avessi ragione?"
"Secondo me, sì," rispose Cebete.
"Continua a seguirmi. Io credevo che fosse giusto pensare che un
uomo alto posto accanto a uno piccolo sembrasse più grande, appunto,
per il capo e, così, un cavallo, rispetto a un altro; e posso
farti altri esempi anche più lampanti: dieci, mi pareva che fosse
più di otto per il fatto che ha due unità in più
e che la misura di due cubiti fosse più grande di quella di un
cubito perché superiore della metà."
"Ma qual è, ora, la tua opinione in proposito?" intervenne
Cebete.
"Ah, io ora," esclamò, "sono ben lontano dal credere
di conoscere la causa di questi fatti, io che non mi azzardo più
ad ammettere che un'unità cui si aggiunga un'altra unità,
diventa due o che, per questa aggiunta, risultino tali sia la prima
che la seconda unità. Non so proprio rendermi conto come, finché
ciascuna di queste unità era separata dall'altra, fosse una e
non due mentre, poi, una volta congiunte insieme, ecco che son diventate
due e la causa di questo sia stata proprio l'averle collocate l'una
accanto all'altra. Del resto non riesco più nemmeno a capacitarmi
come, dividendo per metà un'unità, essa diventi due, per
il fatto stesso della divisione, cioè per una causa contraria
alla precedente per la quale l'uno era ugualmente diventato due. Prima,
infatti, l'uno è diventato due perché un'unità
era stata aggiunta a un'altra e ora, invece, perché l'una viene
allontanata e separata dall'altra. Non mi faccio più alcuna illusione
di sapere com'è che si forma quest'unità né, in
una parola, come nasce, vive e muore ogni altra cosa con questo sistema
che non mi fa approdare più a nulla. Ecco, perciò, la
necessità di trovare un nuovo metodo, ma così, a caso
magari perché questo non va assolutamente.
XLVI
"Ma ecco che un giorno io sentii un tizio che leggeva un libro
di Anassagora, almeno così mi diceva, dove c'era scritto che
esiste una Mente ordinatrice, causa di tutte le cose. Io mi rallegrai
al pensiero che ci fosse una Mente, causa di tutto e lo trovai giusto:
se è così, pensai, questa Mente ordinatrice, deve effettivamente
presiedere all'ordine universale e disporre nel modo migliore possibile
ogni cosa. Se uno, dunque, volesse trovare la causa di ciascuna cosa,
come essa, cioè, nasca, perisca o esista, costui deve scoprire,
di ciascuna cosa, il suo modo migliore di essere, di subire o di fare
alcunché.
"Partendo da questa premessa, io ritenni che un uomo, se avesse
voluto indagare su se stesso o sulle altre cose, non avrebbe dovuto
far altro che scoprire ciò che è perfetto ed eccellente;
questo lo avrebbe necessariamente portato a conoscere anche il pessimo,
perché unica è la scienza in proposito. E, così
ragionando, io mi rallegravo di aver trovato chi avrebbe potuto insegnarmi,
nel modo a me più confacente, le cause di ciò che è,
Anassagora, che mi avrebbe detto se la terra è piatta o è
rotonda e poi me ne avrebbe spiegato la causa e la necessità,
persuadendomi del perché è meglio che sia così;
e se avesse affermato che la terra è il centro dell'universo,
mi avrebbe certamente anche spiegato perché è meglio che
essa stia al centro. Oh, se mi avesse spiegato tutto questo io ero pronto
ad abbandonare ogni altra ricerca sulla causalità delle cose.
Naturalmente ero disposto a ricevere un simile insegnamento, anche per
ciò che riguarda il sole, la luna e gli altri astri, la loro
reciproca velocità, le loro orbite, le altre loro vicende e sentirmi
dire perché è meglio che ciascuno di essi produca o subisca
simili fenomeni. In effetti io non avrei mai pensato che egli, dichiarando
che tiitte queste cose erano state ordinate da una Mente, poi attribuisse
loro una causa diversa da questa, che cioè il meglio per esse
è di essere come sono; quindi, ritenevo che egli, dopo aver attribuito
a ciascuna di esse e a tutte insieme questa causa, avrebbe chiarito
quale fosse il meglio per ciascuna e il bene comune a tutte. Ah, a nessun
costo avrei ceduto queste speranze e così, con grande entusiasmo,
mi gettai sui suoi libri e li lessi di furia per sapere, il più
presto possibile, il meglio o il peggio delle cose.
XLVII
"Ah, ma a questa meravigliosa speranza, amico mio, subentrò
la delusione, perché, via via che procedevo nella lettura, mi
vedevo davanti un uomo che non si serviva affatto della Mente e che
ad essa non assegnava alcuna causalità nell'ordine delle cose
ma indicava come causa, l'aria, l'etere, l'acqua e altri assurdi principi
del genere. Mi pareva che egli facesse precisamente come uno che, mentre
dice, per esempio, che Socrate, tutto quel che fa, lo fa con la mente,
quando poi si tratta di spiegare le cause di ogni mio gesto, se ne esce
col dire che io sto seduto perché il mio corpo è fatto
di ossa e di muscoli e che le ossa son rigide e hanno le articolazioni
che le separano le une dalle altre, mentre i muscoli son fatti in modo
che si possono tendere e allentare, che essi circondano le ossa insieme
alla carne e alla pelle che tutto racchiude e che, quindi, grazie alle
ossa che fanno leva sulle loro giunture e ai muscoli che si tendono
e si allentano, io ho la possibilità di piegare le membra e che,
quindi, per questo motivo, ora sto qui seduto con le gambe piegate.
E del fatto che io ora sto parlando con voi, potrebbe tirare in ballo
un sacco di cause simili, la voce, per esempio, l'aria, l'udito e altre
del genere, ma non quelle che sono le vere ragioni, cioè che,
siccome gli ateniesi han pensato bene di condannarmi, io, a mia volta,
ho ritenuto che fosse più opportuno restarmene seduto qui e più
giusto subire la pena che essi hanno decretato. Ah, vi assicuro, perdinci,
che queste ossa e questi muscoli sarebbero, a quest'ora, già
a Megara o in Beozia, sicure che lì sarebbero state certo assai
meglio, se io non avessi, invece, ritenuto più giusto e più
bello, anziché tagliare la corda e fuggire, pagare alla patria
qualunque pena essa mi avesse inflitto. Chiamare cause tutte queste
cose, mi sembra proprìo un'assurdità: al massimo uno può
dire che, senza ossa, senza muscoli e tutto il resto, io non potrei
fare ciò che voglio, ed avrebbe ragione, ma affermare che di
tutto ciò che faccio - che è pure il frutto di un mio
pensiero -, la causa sono i muscoli e le ossa e non la conseguenza di
una scelta del meglio, è proprio un voler deformare il senso
delle parole. Perché questo, infatti, significa non capire che
una cosa è la causa vera e propria e un'altra è la condizione
senza la quale la causa non potrà mai essere tale. E io credo
proprio che per quest'ultima, molta gente, andando a tentoni, come nel
buio, usi un termine che non le spetta, definendola impropriamente come
se fosse la vera causa. Ne viene di conseguenza che c'è chi dice
che attorno alla terra v'è, come un vortice d'aria e che, per
questo essa si mantiene sospesa e ferma nello spazio e chi ancora la
immagina come una larga madia e, sotto, l'aria che la sostiene. Ma quel
potere in virtù del quale e terra e aria e cielo sono ora disposti
nel miglior modo possibile, costoro non lo ricercano affatto, né
pensano che esso abbia una forza divina, ma credono di poter trovare,
un giorno, un Atlante più robusto e più longevo dell'antico,
capace di sostenere l'universo intero e non si accorgono che, invece,
è proprio il Bene e ciò che si conviene a realizzare e
a tenere unite le cose. E io, invece, quanto volentieri sarei diventato
discepolo di chiunque mi avesse insegnato a far luce su questa vera
causa. Ma siccome essa mi sfuggiva, né io ero in grado di scoprirla
da me, né di apprenderla da altri, allora, decisi di cambiar
rotta e tu, Cebete, vuoi, forse, che ti racconti come mi sono adoperato
in questa mia nuova ricerca?"
"Certo, con quale piacere lo voglio."
XLVIII
"Stanco di simili indagini," riprese Socrate, "pensai
dopo tutto di dover stare attento che non mi succedesse ciò che
capita a quelli che guardano un'eclissi di sole che, se non osservano
l'immagine dell'astro riflessa nell'acqua o attraverso qualche altro
schermo, talvolta finiscono coi rovinarsi gli occhi. Anch'io pensai
a una cosa di questo genere e temetti di restare con l'anima completamente
cieca se avessi volto alle cose soltanto gli occhi e cercato di coglierle
solo con i sensi. Ritenni, perciò, necessario ricorrere ai concetti
e cercare in essi la verità delle cose. Ma forse il paragone
non è del tutto esatto perché io contesto fermamente che
chi considera le cose nei loro concetti le veda in immagine, anziché
nella loro realtà. Comunque, questa fu la strada che seguii e
prendendo, di volta in volta, come premessa, quel concetto che, a mio
avviso, era più sicuro, tutto ciò che mi pareva concordare
con esso lo ritenevo vero, sia che si trattasse del principio di causa,
sia di altre questioni; quello che non concordava, invece, lo giudicavo
falso. Voglio, però, spiegarti meglio quello che intendo dire
perché mi pare che tu non abbia ben capito."
"Non troppo bene, infatti," ammise Cebete.
XLIX
"Tuttavia non c'è niente di nuovo in quello che sto dicendo,
niente che non abbia già detto altre volte e anche nella discussione
di prima. Voglio, quindi, ora, mostrarti qual è il tipo di causa
per cui mi son tanto dato da fare ed ecco che torno da capo su quanto
s'è già tante volte discusso, ammettendo, come ipotesi,
l'esistenza di un Bello, di un Buono, di un Grande in sé e così
via. Se tu mi concedi che queste cose esistono, se lo ammetti, io spero
poterti svelare e dimostrare, prendendo le mosse da qui, che l'anima
è immortale."
"Ma certo, fa conto di si," assicurò Cebete; "basta
che cominci subito."
"Vedi un po', dunque, che cosa ne consegue dall'esistenza di questi
enti e se sei d'accordo con me. A me pare, infatti, che se c'è
qualche cosa bella all'infuori del Bello in sé è tale
solo perché partecipa di questo Bello e così per tutte
le altre cose. Sei d'accordo che sia questa la causa?"
"Sì, sono d'accordo."
"Stando così le cose," continuò Socrate, "io
non riesco più a capirle, non riesco più a spiegarmele
tutte le altre cause, quelle tirate in ballo dai sapienti che mi vogliono
far credere che una cosa è bella perché ha un bel colore
o una bella forma o altra roba del genere, tutte cause che io te le
saluto e che mi lasciano assai perplesso; mentre, invece, con tutta
semplicità e forse anche ingenuamente, io me ne resto nella mia
convinzione che una cosa è, bella soltanto perché in essa
vi è o la presenza del Bello in sé o una sua partecipazione
o un qualche altro rapporto qualsiasi, perché io non faccio tanto
questione di questo ma solo del fatto che è per il Bello che
tutte le cose belle sono tali. Questa è, infatti, la spiegazione
più convincente che io posso dare a me stesso e agli altri. Fedele
a questo principio, son certo di non cadere mai in fallo e che tanto
per me, quanto per gli altri, la risposta sicura è che le cose
belle sono tali per il Bello. Non credi?"
"Lo credo."
"E che le cose grandi sono così per la Grandezza e quelle
più grandi sono più grandi per la stessa ragione, come
è per la Piccolezza che son piccole le cose piccole?"
"Sì."
"Quindi, tu non saresti mica d'accordo se uno ti venisse a dire
che Tizio è più alto di Caio per la testa e che Caio è
più piccolo per lo stesso motivo, ma affermeresti, invece, che,
a tuo avviso, una cosa è grande per nessun'altra ragione che
per la Grandezza e che quindi solo questa è la causa per cui
essa è grande; così come una cosa è piccola per
nessun'altra ragione che per la Piccolezza e che, quindi, solo la Piccolezza
è la causa per cui essa è tale; tu risponderesti fermamente
questo perché se dicessi che Tizio è più alto di
Caio e Caio più piccolo di Tizio per la testa dovresti proprio
aspettarti, credo, una duplice obiezione, che cioè, il più
grande è più grande e il più piccolo è più
piccolo per un identico motivo e poi che il più grande è
tale per una cosa che è piccola. Ed è molto strano che
una cosa sia grande per una cosa piccola. Non te la devi aspettare un'obiezione
simile?"
Cebete, ridendo: "Oh, sì, certo."
"E avresti il coraggio di affermare," riprese Socrate, "che
il dieci supera l'otto per due unità e che per questo motivo
esso è maggiore e non, invece, che è per la Quantità
e che questa ne è la causa? E così pure, per una lunghezza
di due cubiti, diresti che è più grande del cubito per
la metà e non, invece, per la Grandezza? La paura di cadere nel
medesimo errore è sempre la stessa."
"Ah, certamente."
"Ancora: se aggiungessimo un'unità a un'altra unità,
non ti guarderesti, forse, dal dire che è stata questa aggiunta
a produrre il due, così come, se l'unità sì dividesse
in due, che è stata la divisione? Tu, invece, diresti a gran
voce che non sai in che altro modo si generi ogni singola cosa se non
partecipando dell'essenza propria di quella data realtà di cui
partecipa e che, nei nostri due casi, non v'è altra causa che
l'unità divenga due se non quella della sua partecipazione alla
Dualità e che ciò che sta per diventare due, necessariamente,
deve partecipare di questa Dualità, come quello che sta per diventare
uno deve partecipare dell'Unità; e manderesti al diavolo tutte
le divisioni, le addizioni e le altre finezze del genere, lasciandole
ai più sapienti di te; tu, invece, timoroso, come suol dirsi,
della tua stessa ombra, intimidito della tua inesperienza e, d'altro
canto, fermo nella tua tesi, risponderesti così. Se poi qualcuno
s'opponesse all'ipotesi in sé, tu lascialo perdere e non rispondere
fino a quando non avrai esaminato che tutte le conseguenze che ne derivano,
concordino o meno, secondo te, tra loro, e quando tu dovrai render conto
di essa, presa in se stessa, usa lo stesso metodo, poni, cioè,
a tua volta, un'altra ipotesi, quella che ti sembrerà la migliore
fra quante hanno carattere universale, finché non giungerai al
risultato che più ti soddisfi. In tal modo non farai confusione
come quelli che ti sciorinano in una stessa tesi il pro e il contro,
discutendo, nel medesimo tempo, del principio e delle conseguenze, e
solo così potrai giungere a qualche verità. Quei tipi,
infatti, della verità non ne parlano e non se ne danno proprio
alcun pensiero, ma, nella loro sapienza, mescolano e confondono ogni
cosa, solo per piacere a se stessi. Ma tu, invece, se sei veramente
un filosofo, farai, credo, come dico io."
"Dici cose verissime," approvarono, insieme, Simmia e Cebete.
ECHECRATE
Santo cielo, Fedone, hanno proprio avuto ragione; mi sembra, infatti,
che Socrate sia stato d'una chiarezza fantastica, anche per chi ha la
testa dura.
FEDONE
Proprio così, Echecrate, lo stesso parve anche a tutti i presenti.
ECHECRATE
Anche a noi che non c'eravamo e che ora soltanto ne sentiamo parlare.
E che vi diceste, dopo?
L
FEDONE
Se ben ricordo, dopo che fummo d'accordo con lui e ammettemmo che ogni
Idea ha una sua esistenza reale e che tutte le cose sensibili, partecipando
di queste Idee, ne prendono il nome, egli riprese, ponendo questa domanda:
"Se tu condividi tutto questo," disse, "quando affermi
che Simmia è più grande di Socrate ma più piccolo
di Fedone, non vieni a dire che in Simmia vi sono, nello stesso tempo,
l'una e l'altra cosa, cioè la Grandezza e la Piccolezza?"
"Sicuro."
"Ma, in realtà sei d'accordo che quando dici che Simmia
è più grande di Socrate, le parole non corrispondono alla
verità dei fatti? E che, in effetti, non è della natura
di Simmia l'essere più grande per questo, cioè, per il
fatto che è Simmia, ma perché ha in sé, per caso,
la Grandezza e che, d'altronde, supera Socrate non in quanto Socrate
è Socrate ma perché questi ha la Piccolezza in confronto
alla Grandezza di lui?"
"È vero."
"E che se a sua volta è più basso di Fedone, questo
non dipende dal fatto che Fedone è Fedone ma perché Fedone
ha in sé la Grandezza rispetto alla Piccolezza di Simmia? Così
che, possiamo dire che Simmia è grande e piccolo nello stesso
tempo essendo la sua statura intermedia, perché con la sua grandezza
supera la piccolezza dell'uno e lascia insieme superare la sua piccolezza
dalla grandezza dell'altro. Mi pare di parlare," soggiunse con
un sorriso, "come un notaio, ma le cose stanno proprio così
come dico."
E Cebete assentì.
"E se dico questo è perchè voglio che anche tu la
pensi come me. A me, tuttavia, sembra chiara una cosa, che cioè
non solo la Grandezza in sé non può mai essere grande
e piccola nello stesso tempo, ma anche la grandezza che è in
noi, non può accogliere la Piccolezza e lasciarsi superare. Quindi,
una delle due: o la Grandezza cede e fugge quando le si avvicina il
suo contrario, cioè la Piccolezza o, quando questa subentra,
scompare, ma mai che possa restarsene lì, accogliere in sé
la Piccolezza ed essere diversa da quello che era. Io, per esempio,
accogliendo in me la Piccolezza, resto sempre quello che sono, cioè
un uomo piccolo, ma la Grandezza, invece, essendo tale, non può
accogliere la Piccolezza. E lo stesso discorso vale per la piccolezza
che è in noi, che non può assolutamente diventar grande
e restare quello che era e, così, ogni contrario, che non tollera
di diventare o di essere, nello stesso tempo, il suo contrario e se
ciò dovesse accadere o cessa di essere o scompare."
"Sembra anche a me chiarissimo," confermò Cebete.
LI
Allora, uno che era lì presente, non ricordo bene chi, osservò:
"Ma nel discorso di prima non s'era affermato proprio il contrario
di quello che ora si va dicendo, che cioè, dal più piccolo
si genera il più grande e viceversa e che i contrari hanno la
loro origine, esclusivamente, dai loro contrari? Da quel che sento,
ora mi pare proprio che non sia più così."
E Socrate che lo aveva ascoltato, volse verso di lui il capo e: "Bravo
che te ne sei ricordato; tuttavia non hai pensato alla differenza che
c'è tra quello che abbiamo detto ora e il discorso di prima.
Allora si parlava che da una cosa contraria nasce cosa contraria, ora,
invece, s'è detto che il contrario in sé non può
mai diventare contrario a se stesso, né quello che è in
noi, né quello che è in natura. Insomma, mio caro, prima
si parlava di cose che hanno i contrari in sé e che noi chiamavamo
col nome di questi contrari; ora, invece, stiamo parlando dei contrari
in sé i quali, per il fatto che sono nelle cose, danno a queste
il loro nome ed è appunto di questi contrari che noi diciamo
che non si possono generare gli uni dagli altri." Poi Socrate si
volse verso Cebete e: "Ti sei forse turbato, Cebete, all'obiezione
dell'amico?"
"Oh, per niente. Non posso dire però, di non avere ancora
molte incertezze."
"Comunque, su una cosa siamo d'accordo che il contrario non sarà
mai contrario a se stesso."
"Ah, indubbiamente," confermò l'altro.
LII
"E vedi un po'," proseguì Socrate, "se ti trovi
d'accordo anche su questo: c'è qualcosa che tu chiami caldo e
qualche altra che chiami freddo?"
"Io sì."
"Cioè, precisamente, quello che tu chiami neve e fuoco?"
"Oh, no."
"Allora il caldo e il freddo son qualcosa di diverso dal fuoco
e dalla neve?"
"Sicuro."
"Perciò io credo che tu sia persuaso che la neve se riceve
il caldo, come dicevamo prima, non potrà assolutamente continuare
ad essere ciò che era prima, e cioè neve e caldo insieme
ma, al contrario, avvicinandosi il caldo o gli cederà il posto
o scomparirà."
"Certamente."
"E lo stesso è per il fuoco, quando gli si avvicinerà
il freddo o si ritirerà o cesserà di essere fuoco, ma
non potrà mai restare quel che era e accogliere il freddo, cioè
esser fuoco e freddo nello stesso tempo."
"È proprio vero," ammise.
"Può, quindi, capitare in casi del genere," continuò
Socrate, "che a mantenere il proprio nome in perpetuo non sia soltanto
l'Idea in sé ma anche qualche cosa che da essa si distingue pur
mantenendone i caratteri per tutto il tempo della sua esistenza. Ma
eccoti un esempio che potrà meglio chiarirti quello che voglio
dire. Il Dispari deve avere, sempre, in ogni caso, il nome di dispari,
che noi ora gli diamo. Non ti pare?"
"Certo."
"E fra tutte le cose solo esso - perché questo è
il punto - deve essere chiamato così o anche qualche altra cosa
che pur non essendo propriamente il Dispari può esser chiamato
con questo nome oltre che col suo proprio, dato che ha tale natura che
non può mai allontanarsi dal Dispari? Intendo dire che questo
è il caso del tre, per esempio, e di molti altri numeri. Pensa
bene a questo tre: non ti pare che debba essere sempre chiamato non
solo con il suo nome ma anche con quello di dispari sebbene quest'ultimo
non sia la stessa cosa del tre? Eppure è tale la natura del tre
e del cinque e di tutta una metà della serie numerica, che essi
pur non essendo la stessa cosa del Dispari sono, tuttavia, sempre dispari.
E, d'altra parte, il due, il quattro e tutta l'altra metà della
serie dei numeri, pur non essendo la stessa cosa del Pari, sono tuttavia
sempre pari. Sei d'accordo o no?"
"E come non esserlo?" disse.
"Ora sta attento a un altro fatto: è evidente che non soltanto
i contrari in sé non si accolgono a vicenda ma che anche quelle
cose che, pur non essendo fra loro contrarie, hanno in sé i contrari,
non possono ricevere una proprietà contraria a quella che le
caratterizza e quando questo avviene o si ritirano o scompaiono. E non
diremo che il tre, piuttosto che diventare pari, scomparirà o
subirà qualsiasi altra sorte, essendo ancora tre?"
"Di sicuro," confermò Cebete.
"Eppure," replicò Socrate, "il due e il tre non
sono contrari."
"No di certo."
"Quindi, non solo le Idee contrarie non possono accostarsi tra
loro ma vi sono anche altre cose che non tollerano questo accostamento
di contrari."
"È verissimo quello che dici," confermò.
LIII
"E allora," riprese Socrate, "vuoi che proviamo un po'
- se ci riusciamo - a chiarire di qual natura siano queste cose?"
"Va bene."
"Non saranno forse, Cebete, quelle che se qualche cosa s'impossessa
di loro, son costrette non solo ad accogliere l'Idea che è propria
di quest'ultima ma anche l'Idea di una qualche proprietà contraria
a quella che in essa, per esempio, è costante?"
"Come dici?"
"Quello che dicevamo poco fa. Infatti, indubbiamente, ora tu sai
che tutto ciò che è dominato dall'Idea del Tre, non è
soltanto tre ma anche dispari."
"Ah, di sicuro."
"E, naturalmente, aggiungiamo, in una cosa di questo genere non
vi sarà mai l'Idea contraria a quella che possa produrre il Tre."
"No di certo."
"E non era l'Idea del Dispari che produceva il Tre?"
"Sì."
"E a questa non è contraria l'Idea del Pari?"
"Sì."
"E, allora, nel Tre non vi sarà mai l'Idea del Pari."
"No, mai."
"E quindi il Pari non avrà mai nulla a che fare con il tre."
"Niente proprio."
"Quindi si conclude che il tre è dispari."
"Sì."
"Ecco, dunque, quello che volevo precisare, cioè, quali
sono le cose che, pur non essendo contrarie ad altre, le respingono,
com'è, per esempio, il caso del tre che, pur non essendo contrario
al Pari, lo esclude, perché ha in sé il contrario del
Pari e così anche il due, che ha in sé, sempre, il contrario
del Dispari e il fuoco, il contrario del Freddo e così via. Vedi,
allora un po' se ti va questa conclusione che cioè, non solo
il contrario non ammette in sé il suo contrario, ma che anche
quella cosa che porti con sé un contrario, in qualunque altra
cosa essa vada, non può mai accogliere il contrario del contrario
che da essa è portato. Cerca di ricordarti (non è male,
infatti, sentire due volte le stesse cose): il cinque, non avrà
mai in sé l'Idea del Pari né il dieci che è il
doppio del cinque, l'Idea del Dispari; e questo doppio, che, del resto,
è contrario a qualche altra cosa, non avrà mai in sé
l'Idea del Dispari, come pure la frazione 3/2, o, che so io, altre dello
stesso tipo, che hanno per denominatore il due, non avranno mai in loro
l'Idea dell'Intero; così le frazioni che sottintendono il tre
e tutte le altre della stessa natura, se mi stai seguendo e se sei d'accordo
con me."
"Ti seguo benissimo e condivido la tua opinione," disse.
LIV
"E, allora, cerca di rifarti al principio, ma non rispondermi ripetendo
la mia domanda; cerca, invece, di far come faccio io. Voglio dire che,
oltre alla risposta che abbiamo data prima e che era in ogni caso sicura,
dopo quanto s'è ora detto, possiamo darne un'altra altrettanto
certa. Se, tu, infatti, ti chiedessi che cosa ci dev'essere in un corpo
perché sia caldo, io non ti risponderei, come avrei fatto prima,
in modo sicuro ma un po' banale che, cioè, occorre il calore,
ma, dopo quel che s'è detto, in modo più pertinente, cioè
che è necessario il fuoco. E se mi domandi che ci vuole perché
un corpo si ammali, non ti risponderà più la malattia,
ma la febbre. E, ancora, che cosa occorre perché un numero diventi
dispari, io non dirò più che occorre il dispari, ma l'unità
e così via. Vedi un po' se hai capito quello che voglio dire."
"Benissimo," assicurò Cebete.
"E allora rispondi a questo: che cosa occorre perché un
corpo sia vivo?"
"L'anima penso," rispose.
"Ed è sempre così, per caso?"
"Ma certo."
"L'anima allora, in qualunque cosa entri, porta sempre la vita?"
"Sì, certamente."
"E c'è il contrario della vita o no?"
"Sicuro che c'è," disse.
"E cos'è?"
"La morte."
"Non è forse vero, allora, che l'anima, stando a quel che
abbiamo ammesso prima, non può mai contenere il contrario di
ciò che reca con sé?"
"Senza alcun dubbio," riconobbe Cebete.
LV
"Ancora? Ciò che non riceve l'Idea del Pari, com'è
che lo abbiamo chiamato poco fa?"
"Dispari," ammise.
"E ciò che non accoglie l'Idea del Giusto o quella della
Cultura?"
"Ingiusto il primo e Incolto il secondo," rispose.
"E ciò che non può avere in sé l'Idea della
Morte, come dobbiamo chiamarlo?"
"Immortale," disse.
"E l'anima, forse, non ha in sé la Morte?"
"No."
"Ma, allora, l'anima è immortale."
"Sì, immortale."
"E, allora, proseguiamo, perché su questo ci siamo,
non ti pare?"
"Ah, sì, sì, Socrate, in tutto e per tutto."
"E allora, Cebete," riprese Socrate, "se il Dispari fosse
indistruttibile, non sarebbe, di conseguenza indistruttibile anche il
tre?"
"E come no?"
"E se anche il Freddo fosse indistruttibile, se alla neve si accostasse
il Caldo, questa non si ritirerebbe intatta senza sciogliersi? Infatti,
essa non potrebbe distruggersi né, d'altra parte, star lì
ferma a ricevere il calore."
"È vero."
"E così pure se fosse il Caldo ad essere incorruttibile
e al fuoco si avvicinasse il Freddo, certo esso non potrebbe estinguersi
o morire, ma se ne andrebbe via intatto."
"Per forza."
"E, così, non è lo stesso per ciò che è
immortale? Se l'immortale è indistruttibile, non è possibile
che l'anima muoia, quand'anche le si avvicinasse la Morte; infatti,
per quanto s'è detto, essa non accoglierà la Morte, né
sarà un'anima destinata a morire, così come il tre, dicevamo,
non sarà mai pari e tanto meno il fuoco può essere freddo
e il calore che è nel fuoco. Ma che cosa impedisce, potrebbe
chieder qualcuno, che il Dispari, all'avvicinarsi del Pari, anche se
non diventa tale, cessi di esistere e, al suo posto, si generi il Pari?
A questa domanda, non potremmo sostenere che il Dispari, non perisce.
Infatti, esso non è indistruttibile; solo se noi avessimo convenuto
questo potremmo affermare facilmente che, quando sopravviene il Pari,
il Dispari, come del resto il tre, se ne vanno lontani; e così
potremmo dire del Fuoco e del Caldo e di ogni altra cosa. Non è
così?"
"Certamente."
"Ma, ora, tornando all'immortale, se siamo d'accordo che esso è
indistruttibile, l'anima oltre ad essere immortale sarà anche
indistruttibile. Se, invece, non ne sei persuaso, dovremo riprendere
la questione tutta da capo."
"Niente affatto," esclamò, "almeno su questo punto.
Infatti, se l'immortale che è eterno, fosse corruttibile, difficilmente
si troverebbe qualcosa che non fosse anch'essa tale."
LVI
"Io credo," proseguì Socrate, "che nessuno voglia
ammettere che la divinità, l'Idea stessa della vita o quanto
d'immortale vi sia, possa morire."
"Ah, certo, nessuno," riconobbe Cebete, "né da
parte nostra e tanto meno da parte degli dei."
"E dal momento che l'immortale è anche incorruttibile, l'anima,
se è immortale, non sarà incorruttibile anch'essa?"
"Per forza."
"E, quindi, quando nell'uomo sopraggiunge la morte, la parte di
lui che è mortale, muore, ma ciò che è immortale
se ne fugge intatto e si sottrae alla morte."
"È chiaro."
"Tanto più, dunque," disse, "l'anima che è
immortale e incorruttibile, Cebete, e quindi, sicuramente, le nostre
vivranno nell'Ade."
"Per conto mio non ho nulla da ridire, Socrate, né ho motivo
di dubitare delle tue parole. Se, però, Simmia o qualcun altro
hanno da dire qualcosa, ebbene, che lo facciano e che non se ne stiano
lì, tutti zitti. Non so a quale altra occasione più opportuna
potrebbero rimandare la discussione su quest'argomento."
"Sì, anch'io," assicurò Simmia, "posso
dire di non aver dubbi, dopo quanto s'è detto. Certo è
che l'ampiezza del problema e la poca fiducia che ho nella fragilità
dell'umana natura, mi fanno avere qualche riserva su quel che s'è
concluso."
E Socrate: "Dici bene, Simmia, specie per quel che riguarda le
nostre premesse che, sebbene voi le abbiate accettate, devono comunque
essere meglio riesaminate. Quando voi le avrete analizzate a fondo,
solo allora, credo, potrete cogliere il problema nei suoi sviluppi,
per quanto sia possibile a un uomo; e quando ve ne sareste resi ben
conto, non proseguirete più oltre nella vostra ricerca."
"È vero ciò che dici," concluse.
LVII
"È bene, però, amici," riprese Socrate, "che
ora si consideri un'altra cosa, che cioè, se l'anima è
immortale, essa richiede delle cure e non solo per il tempo che chiamiamo
vita ma per l'eternità; non preoccuparsene sarebbe un grosso
rischio. Se, infatti, la morte fosse separazione da tutto, sarebbe una
bella fortuna per i malvagi che, una volta morti, verrebbero a trovarsi
liberi del corpo e dell'anima e, quindi, da tutte le loro iniquità.
Dato che è chiaro, invece, che l'anima è immortale, essa
potrà avere nessun altro scampo dai mali, né salvezza
se non col diventare, quanto più è possibile, saggia e
virtuosa, poiché l'anima quando giunge nell'al di là,
non ha null'altro che la sua formazione morale e il suo costume di vita,
cioè - a quanto si dice - soltanto quello che giova o nuoce moltissimo
al defunto, giunto alle soglie dell'eternità. A questo proposito
si racconta che quando uno è morto il suo demone che l'ha avuto
in custodia durante la vita, ha l'incarico di condurre la sua anima
in un luogo prestabilito, dove si raccolgono tutte le altre anime per
essere giudicate. Da qui, spinte da colui che ha il compito di accompagnarle,
esse vanno verso le dimore dell'Ade. Qui, una volta subita la sorte
loro assegnata e trascorso un periodo di tempo stabilito, un'altra guida
le conduce nuovamente verso la terra ma questo attraverso un vastissimo
arco di tempo. È chiaro che il cammino non è come dice
Telefo in Eschilo, il quale assicura che una strada diritta conduce
all'Ade; e, invece, per me, essa non è né semplice, né
una sola, perché, in tal caso, non ci sarebbe bisogno di guida
e nessuno sbaglierebbe direzione, se così fosse. Pare, invece,
che essa abbia molte diramazioni e biforcazioni; dico questo da quel
che posso arguire dai sacrifici e dai riti che si fari qui sulla terra.
Dunque, l'anima prudente e saggia segue la sua guida e non ignora il
suo destino; quella che, invece, è legata bramosamente al corpo,
come dissi prima, per lungo tempo, resta attratta violentemente al mondo
sensibile e solo dopo molta resistenza e gran patimenti se ne distacca,
trascinata a forza e a fatica dal demone che le è stato assegnato.
Giunta, infine, dove sono le altre, impura com'è per le cattive
azioni commesse, per nefande uccisioni o altri delitti del genere che
fanno il paio con queste e son degni di anime simili, a quest'anima
che tutti fuggono e scansano, nessuno vuol far da guida e da compagno
di viaggio ed essa se ne va, così, errando disorientata, penosamente
sola, fin quando non si sia maturato il prescritto ordine d'anni e,
fatalmente, allora, non sia condotta nel luogo che le spetta. L'anima,
invece, che ha trascorso una vita pura e sobria, trova gli dei a guida
e compagni di viaggio e pone la sua dimora nel luogo che le si addice.
Vi sono, poi, molti luoghi meravigliosi sulla terra che, peraltro, per
natura e dimensione non è affatto come la credono quelli che
son soliti parlarne: un tale, almeno, di questo m'ha convinto."
LVIII
"Che vuoi dire, Socrate?" interruppe Simmia.
"Anch'io ne ho sentito molte sulla terra ma la teoria che t'ha
convinto non la conosco e quindi ti ascolterei volentieri."
"Ah, non ci vuol mica l'arte di un Glauco per spiegartela; che
risponda però, a verità è un'altra questione e
mi sembra molto difficile potertela dimostrare anche se possedessi l'arte
di un Glauco. E, poi, credo, che non ne sarei nemmeno capace o, ammesso
che lo fossi, il poco tempo che mi resta da vivere, Simmia, non credo
sarebbe sufficiente per l'ampiezza della questione. Tuttavia posso,
però, benissimo parlarti dell'aspetto esteriore della terra e
delle sue regioni, almeno per quel che ne so."
"Ma sì," fece Simmia, "sarà più
che sufficiente."
"Io, prima di tutto, son convinto di una cosa," riprese Socrate,
"che se la terra è al centro dell'universo ed è rotonda,
essa, per non cadere, non ha bisogno né dell'aria, né
di alcun altro sostegno del genere; ma ciò che basta a reggerla
è l'omogeneità costante dell'universo e il perfetto equilibrio
della terra stessa. Infatti, una cosa equilibrata, posta al centro di
una sostanza omogenea, non potrà mai inclinarsi da nessuna parte,
né poco né tanto ma, risultando essa stessa omogenea,
resterà immobile. Prima di tutto io di questo sono convinto."
"E giustamente," riconobbe Simmia.
"Poi," riprese, "ritengo che la terra sia grandissima
e che noi, dal Fasi alle colonne d'Ercole, non ne abitiamo che una ben
piccola parte, solo quella in prossimità del mare, come formiche
o rane intorno a uno stagno; e molti altri popoli vivono anch'essi in
regioni un po' simili alle nostre. Infatti, sparse su tutta la superficie
terrestre vi sono cavità di ogni specie, per forma e per grandezza,
nelle quali si raccolgono l'acqua, la nebbia e l'aria. Ma la terra vera
e propria, la terra pura si libra nel cielo limpido, dove son gli astri,
in quella parte chiamata etere da coloro che sogliono discutere di queste
questioni; ciò che confluisce continuamente nelle cavità
terrestri non è che un suo sedimento. Noi che viviamo in queste
fosse non ce ne accorgiamo e crediamo di essere alti sulla terra, come
uno che stando in fondo al mare credesse di essere alla superficie e
vedendo il sole e le altre stelle attraverso l'acqua, scambiasse il
mare per il cielo; costui non è mai riuscito, per inerzia o debolezza,
a salire alla superficie del mare e non ha mai, così, potuto
osservare, emergendo dalle onde e sollevando il capo verso la nostra
dimora, quanto essa fosse più pura e più bella della sua,
né ha sentito mai parlarne da qualcuno che l'abbia vista. È
quello che capita anche a noi: relegati in qualche cavità della
terra, crediamo di abitare in alto, sulla sua sommità e chiamiamo
cielo, l'aria, convinti come siamo che esso sia lo spazio dove si volgono
gli astri; il caso è identico e anche noi, per debolezza e inerzia,
siamo incapaci di attraversare gli strati dell'aria, fino ai più
eccelsi; se potessimo giungere fin lassù o aver l'ali per volare
in alto, noi vedremmo, levando il capo, le cose di lassù, come
i pesci che, emergendo dalle onde, vedono quanto accade quaggiù;
e se le nostre facoltà fossero in grado di sostenerne la vista,
noi riconosceremmo che il vero cielo è quello, quella la vera
luce e la vera terra. Perché questa nostra terra, le sue pietre
e tutta quanta la regione che abitiamo, sono guaste e corrose come,
dalla salsedine, quelle sommerse nel mare; nulla nasce nel mare di cui
valga la pena parlare, nulla che sia, per così dire, perfetto,
ma dirupi e sabbie e distese di fango e pantani ovunque, anche dove
c'è terra, insomma, cose che non si possono per nulla paragonare
alle bellezze che abbiamo noi; quelle di lassù, poi, sono di
gran lunga superiori alle nostre. E sarà bello come ascoltare
una favola, Simmia, sentir parlare di queste terre vicine al cielo."
"Oh, sì, Socrate," esclamò Simmia, "e noi
ascolteremo volentieri questa favola."
LIX
"Ecco, amico mio, quel che si dice, che per prima cosa questa vera
terra, a chi la guardi dall'alto, appare come una di quelle variopinte
sfere di cuoio, divise in dodici spicchi, dai colori diversi, simili
questi, appena, a quelli che di solito usano quaggiù i pittori.
E quella terra lassù, tutta di questi colori è dipinta,
ma molto più luminosi e più puri dei nostri: ora, infatti,
è purpurea, di una meravigliosa bellezza, ora è color
dell'oro o tutta bianca, più bianca del gesso e della neve, e
gli altri colori, poi, di cui è composta, assai più numerosi
e più belli di quanti noi mai ne abbiamo visti. E le stesse cavità
della terra, colme corsie son d'acqua e d'aria, assumono una colorazione
particolare nella gamma variopinta degli altri colori, così che
la terra appare in una sua tonalità cangiante e uniforme insieme.
E, in modo analogo, crescono i prodotti che le si addicono, alberi,
fiori, frutti; e le montagne, poi e le pietre, nella stessa proporzione,
sono come di smalto, trasparenti, dai vividi colori, di una bellezza
estrema; le nostre pietruzze di quaggiù, quelle che teniamo in
gran conto, sardonici, diaspri e simili, ne sono i frammenti. Lassù,
insomma, non v'è nulla che non sia come queste nostre gemme,
anzi tutto è ancora più bello. E la ragione è che
lì le pietre sono pure, non corrose, né guaste, come le
nostre, dalla putredine e dalla salsedine che son prodotte da tutto
ciò che quaggiù confluisce e che apportano deformazioni
e malattie alle rocce, alla terra, agli animali e così pure alle
piante. E quella terra non è soltanto ornata di tutte queste
bellezze ma anche d'oro e d'argento e d'altri metalli del genere. Essi
si trovano alla superficie, in gran quantità, dovunque, ed è
una visione meravigliosa concessa a spettatori beati. E vi sono anche
molti animali diversi da quelli di qui e uomini, poi, che abitano all'interno,
altri sulle rive dell'aria, come noi, qui, su quelle del mare e altri
ancora in isole avvolte d'aria, non lungi dal continente. In una parola,
quello che per noi, per i nostri bisogni, è l'acqua e il mare,
per loro è, l'aria e ciò che è l'aria per noi,
per loro è l'etere. E le stagioni son così temperate che
quella gente non conosce malattie e vive una vita assai più lunga
della nostra. Ed è così superiore a noi per la vista,
per l'udito, per l'intelligenza, per ogni altra facoltà, come
l'aria lo è per purezza rispetto all'acqua e l'etere all'aria.
Lì vi sono anche boschi sacri e templi, dove realmente abitano
gli dei e si avverano oracoli e profezie, per cui, veramente, quegli
uomini hanno contatti visibili e rapporti concreti con le divinità.
E il sole, la luna e le stelle essi li vedono come sono in realtà
e v'è ogni altra beatitudine che s'accompagna a queste cose.
LX
"Così appare, dunque, la terra nel suo insieme e negli aspetti
particolari della sua superficie. Nelle zone interne e disposte tutt'intorno,
in corrispondenza delle cavità terrestri, vi sono molte regioni,
alcune più profonde e più vaste di quella che abitiamo
noi, altre ancora di profondità minore ma più estese.
Tutte queste regioni sono, in molti luoghi, comunicanti tra loro attraverso
gallerie più o meno larghe. Vi sono cunicoli profondi per dove
molta acqua passa da una regione all'altra come in grandi bacini e fiumi
perenni, sotterranei, di enorme grandezza, che portano acque calde e
fredde; e molto fuoco, fiumi di fuoco e, molti, anche di fango, ora
più liquido, ora più denso, come in Sicilia quelli che
scorrono davanti alla lava, simili alla lava stessa. E tutti sboccano,
questi fiumi, in quelle regioni e le colmano dove, di volta in volta,
la corrente li riversa; e la causa di questo, di tutti questi fiumi
che vanno su e giù, è data da un movimento pendolare sotterraneo
dovuto al fatto che fra le tante voragini della terra, ce n'è
una, la più vasta, che la perfora da parte a parte, quella di
cui parla Omero53 quando dice:
molto lontano, dove sotterra c'è un baratro immenso
quella, insomma, che non solo lui, in altri passi, ma anche altri poeti,
chiamano Tartaro. In questo baratro confluiscono tutti i fiumi per poi,
nuovamente, defluire e ciascuno di essi assume un proprio aspetto a
seconda la natura del terreno che attraversa. Il motivo per cui tutte
queste acque correnti piombano in questo baratro e né tornano
a sgorgare è che questa gran massa d'acqua non ha né un
fondo né una base ma resta come sospesa e ondeggia, quindi, su
e giù.
Lo stesso è per l'aria e il vapore che la circonda: esso segue,
infatti, il corso delle acque, sia quando precipitano verso la parte
opposta della terra che quando ritornano in su verso la nostra: un po'
come quando noi respiriamo, che provochiamo un continuo flusso e deflusso
d'aria, così anche laggiù, il vapore, seguendo il moto
delle acque, dà origine, quando entra e quando esce, a terribili
venti vorticosi. Orbene, quando l'acqua si ritira verso l'emisfero comunemente
detto meridionale, affluisce, attraverso la terra, nei ghiareti di laggiù
e li riempie come se fossero canali d'irrigazione; quando, invece, defluisce
da lì e irrompe nel nostro emisfero, allora, colma i greti che
son qui e, gonfia, scorre nei canali attraverso la terra giungendo fin
dove riesce a scavarsi una strada e forma mari, laghi, fiumi e sorgenti.
Da qui, nuovamente, tutte quelle acque si inabissano nella terra e,
dopo aver percorso giri ora più brevi ora più lunghi e
numerosi, si riversano ancora nel Tartaro; alcune molto più in
giù del punto da cui erano sgorgate, altre meno, ma sempre tutte
si gettano in un punto più basso di quello da cui, prima, scaturirono.
Talvolta irrompono dalla parte opposta, altre volte dalla medesima.
Ve ne sono, poi, alcune che, dopo aver circondato la terra con uno o
più giri, a spirale, come serpenti penetrano così in profondità
da sfociare, poi, nel punto più basso del Tartaro. È possibile,
ora, per queste acque, da una parte e dall'altra dei due emisferi, scendere
verso il centro ma non andar oltre perché, dal centro, le correnti,
se volessero proseguire verso la parte opposta, troverebbero una salita.
LXI
"In conclusione ve ne sono tanti di fiumi d'ogni specie e molto
grandi e tra questi, soprattutto quattro, di cui il più grande
e quello che scorre più esternamente, e quindi più lontano
dal centro, vien chiamato Oceano. Dalla parte opposta, e con un corso
contrario, c'è l'Acheronte che attraversa regioni desertiche
e poi prosegue sotto terra per giungere alla palude acherusiade dove
si raccolgono le infinite anime dei morti che dopo quel certo tempo
a loro destinato, più o meno lungo, vengono restituite alla luce
per incarnarsi in esseri viventi. Il terzo fiume sgorga tra questi due
e, dopo un breve percorso, si riversa in una grande pianura arsa tutta
da un fuoco violento e forma una palude più grande del nostro
mare, tutta ribollente d'acqua e di fango; da qui scorre circolarmente,
torbido e fangoso e, sempre sotto terra, volge a spirale il suo corso
e giunge, dopo aver attraversato diverse zone, alle estreme rive della
palude acherusiade ma senza mescolarsi alle sue acque; e dopo molti
altri giri sotterranei, si getta in un punto del Tartaro che è
più in basso. Questo è il fiume che chiamano Periflegetonte
e che riversa sulla terra torrenti di lava dovunque trovi uno sbocco.
Di fronte gli scaturisce il quarto fiume che dilaga, a quanto si dice,
in una regione spaventosa e selvaggia, dal colore blu cupo, che chiamano
Stigia e Stige la palude che esso forma con le sue acque. Qui riversandosi,
da quelle acque acquista terribile violenza, poi s'inabissa e scorre
a spirale, in senso contrario al Periflegetonte, fino a toccare, dalla
parte opposta, le sponde della palude acherusiade; ma nemmeno que-sto
fiume vi mescola le sue correnti e, dopo aver compiuto un largo giro,
si getta nel Tartaro dalla parte opposta al Periflegetonte. Il suo nome,
così almeno lo chiamano i poeti, è Cocito.
LXII
"Questa è, dunque, la disposizione dei fiumi e quando i
morti giungono, ciascuno, in quel luogo dove il demone li ha guidati,
prima di tutto vengono giudicati e distinti secondo che vissero o meno
onestamente e santamente. Quelli che nella vita tennero, invece, una
condotta mediocre, giunti all'Acheronte, salgono su delle barche già
pronte per loro e arrivano alla palude acherusiade e lì si fermano
per purificarsi e scontare le loro pene e liberarsi delle colpe se mai
ne hanno commesse, dove però ricevono anche il premio delle buone
azioni compiute, ciascuno secondo il suo merito. Ma quelli che sono
stati riconosciuti peccatori senza rimedio, per la gravità dei
loro delitti, per numerosi sacrilegi , per ingiuste e crudeli uccisioni
o altri misfatti del genere, un giusto destino li precipita nel Tartaro,
da dove non escono mai più. Quelli poi i cui peccati, sebbene
gravi, son giudicati espiabili, per esempio chi nell'impeto dell'ira
è stato violento contro il padre e la madre, ma poi ha trascorso
in pentimento il resto della sua vita o chi ha commesso qualche omicidio
sotto lo stesso impulso, costoro precipitano anch'essi nel Tartaro ma
vi restano soltanto un anno, perché l'onda li ricaccia fuori,
gli omicidi, nella corrente del Cocito, i violenti contro il padre e
la madre, in quella del Periflegetonte; così sospinti, giungono
alla palude acherusiade e qui chiamano con alte grida e invocano coloro
che uccisero e che oltraggiarono, pregandoli di lasciarli passare nella
palude e di accoglierli con loro; se riescono a persuaderli, passano
al di là e le loro pene finiscono, altrimenti sono risospinti
nuovamente nel Tartaro e ancora nei fiumi a patire il loro destino fino
a quando non siano riusciti a piegare quelli che hanno offeso: è
questa, infatti, la pena che per costoro han voluto i giudici. Quelli,
invece, che si son distinti per santità di vita, e che son poi
coloro che si son liberati da questa terra e se ne sono allontanati
come da un carcere, giungono in alto, in una pura dimora e abitano la
vera terra. E specialmente quelli che si son purificati attraverso la
filosofia, vivono sciolti da ogni legame corporeo, per l'eternità,
anzi giungono in sedi ancor più belle di queste che non è
facile descrivere e del resto ne mancherebbe, ora, anche il tempo.
"Quindi, Simmia, dopo questo che ti ho detto, bisogna far di tutto
per acquistare nella vita virtù e sapienza: perché il
premio è bello e la speranza è grande.
LXIII
"Certamente, affannarsi a dimostrare che le cose stanno proprio
così come io le ho esposte, non mi pare troppo assennato; ma
che sia questa la sorte delle nostre anime, questa la loro dimora o
presso a poco, dal momento che s'è indiscutibilmente dimostrato
la loro immortalità, mi sembra che valga proprio il rischio di
crederlo. Bello, infatti, è questo rischio e, in simili argomenti
v'è, per così dire, come un incantesimo che bisogna fare
a se stessi, ecco perché, da un pezzo mi sto indugiando nel mio
racconto. Ma ecco anche perché deve aver fede nella sorte della
sua anima chi nella vita ha allontanato i piaceri del corpo e i suoi
vezzi, considerandoli del tutto estranei, anzi più dannosi che
altro; chi ha goduto, invece, dei piaceri che dà la sapienza,
chi ha abbellito la sua anima non di ornamenti esteriori ma di quelli
che le si addicono, temperanza, giustizia, fortezza, libertà,
verità, costui sì che attende il momento di mettersi in
viaggio verso l'Ade, quando lo chiami il destino."
E così concluse: "Anche voi, Simmia e Cebete e tutti gli
altri, ve ne partirete, uno alla volta, quando verrà la vostra
ora; quanto a me, invece, il destino già mi chiama, direbbe qui
un eroe tragico, e quindi, quasi quasi è il momento che io faccia
un bagno: è più giusto, infatti, che mi lavi da me, prima
di bere il veleno e non dar così il fastidio alle donne di dover
lavare un cadavere."
LXIV
Ebbe appena finito che Critone gli chiese: "Hai da darci qualche
disposizione, Socrate, sui tuoi ragazzi o cosa possiamo fare per te,
che ti sia maggiormente gradita?"
"Non ho nulla di nuovo da dirvi," rispose, "se non quello
che vi ho sempre detto: abbiate cura di voi stessi e così farete
cosa gradita a me e a voi, anche se ora non mi dovete promettere nulla;
se, invece, vi lascerete andare, se non sarete disposti a seguire, per
così dire, le tracce di quanto s'è detto, non solo ora
ma anche per il passato, se pure adesso venite a farmi molte e solenni
promesse, non concluderete un bel niente."
"Ce la metteremo tutta a far come tu dici," assicurò.
"Ma per i tuoi funerali, che dobbiam fare?"
"Ma fate come volete, sempre che riusciate ad afferrarmi e che
io non vi sfugga."
Sorrise serenamente e volgendo gli occhi verso di noi, soggiunse: "Non
mi riesce, amici, di persuadere Critone che il vero Socrate sono proprio
io, questo che, ora, vi sta parlando, che sta mettendo in buon ordine,
per benino, i suoi pensieri; invece, egli crede che io sia già
un altro, quello che tra poco vedrà cadavere e perciò
mi chiede cosa fare per i miei funerali. E tutto il lungo discorso che
vi ho fatto, che cioè, dopo che ho bevuto il veleno, io non me
ne starò più con voi ma me ne andrò, via di qui,
verso la felicità dei beati, mi pare proprio che per lui sia
stato inutile, fatto solo per consolare voi e, a un tempo, un po' anche
me stesso. Fatevi voi, ora, garanti di me verso Critone, ma del contrario
di ciò che in mio nome egli garantì ai giudici, che cioè
non sarei fuggito; voi, invece, assicurategli che io non rimarrò
qui dopo morto ma che me ne partirò, così che Critone
potrà sopportare più facilmente la cosa e non dolersi
troppo per me vedendo bruciare o seppellire il mio corpo, come se stessi
soffrendo chissà quali atroci tormenti e non dire, magari, durante
i funerali che è il suo Socrate che egli espone, che sta portando
via e che va a seppellire.
"Devi, infatti, sapere, mio caro Critone, che parlare in modo scorretto,
non solo è brutto di per sé ma danneggia anche le anime.
Suvvia, non avere, di queste preoccupazioni, quindi e di', piuttosto,
che è solo il mio corpo che seppellisci e perciò fa come
credi, come meglio vuole l'usanza."
LXV
Detto questo si alzò e andò in un'altra stanza per lavarsi
e Critone che gli andò dietro ci disse di aspettare. Così
noi rimanemmo e ci mettemmo a discutere e a ripensare su quel che s'era
detto e, inoltre, sulla grande disgrazia che c'era capitata, sentendoci,
veramente, come se avessimo perduto un padre e dovuto trascorrere, ormai,
da orfani, tutta la vita.
Quand'ebbe finito il bagno, gli condussero i figliuoletti (ne aveva
due ancora piccoli e uno più grandicello) e vennero anche le
donne di casa; egli si intrattenne un po' con loro, alla presenza di
Critone, fece qualche raccomandazione, poi le pregò di allontanarsi
con i bambini e tornò da noi. Era stato parecchio di là
e, perciò, il sole stava ormai tramontando. Tornò, dunque,
dopo il bagno e si venne a sedere, ma da quel momento scambiò
soltanto qualche parola. Poi entrò il funzionario degli Undici
che gli andò vicino e gli disse: "Socrate, con te, non mi
toccherà quello che spesso mi capita con gli altri, che se la
prendono con me e mi maledicono, quando porto loro il veleno per ordine
dei magistrati. In tutti questi giorni, invece, io ho capito che tu
sei l'uomo più nobile, più mite, più buono di quanti
sono entrati finora qua dentro; io so benissimo, ora, che tu non ce
l'hai con me ma con i responsabili e tu li conosci bene. E, ora, addio,
perché sai quel che son venuto ad annunziarti e cerca di sopportare
come meglio puoi la tua sorte."
Non finì di parlare che gli venne da piangere, si voltò
dall'altra parte e se ne andò.
Socrate lo seguì con lo sguardo: "Addio anche a te,"
disse. "faremo come tu dici." E rivolto a noi, "che brav'uomo
che è; in tutti questi giorni è venuto a trovarmi e, spesso,
s'è messo anche a parlare con me, proprio una degna persona e
ora, che caro, con quel suo pianto. Ma via, Critone, obbediamogli, che
portino il veleno, se è già stato preparato; altrimenti
che facciano presto."
E Critone: "Ma Socrate, se non mi sbaglio, il sole non è
mica tramontato, è ancora sui monti, e io so di gente che ha
aspettato un bel pezzo prima di bere il veleno, anzi dopo aver mangiato
e bevuto e, alcuni, magari, dopo esser rimasti con chi volevano. Quindi,
non aver fretta, c'è ancora tempo."
E Socrate: "Ma è naturale, Critone, che questi tali di cui
parli, facciano così, perché credono di guadagnarci qualcosa.
Ma è anche naturale che io mi comporti diversamente perché
so che non ci guadagno nulla a bere un po' più tardi se non di
rendermi ridicolo a me stesso mostrandorni cosi attaccato alla vita,
cercando di risparmiarla, proprio quando non resta più nulla.
Va, dunque," concluse, "e fa come ti dico."
LXVI
E Critone, allora, fece cenno a un suo servo che se ne stava in disparte.
Questi uscì e dopo un po' tornò con l'uomo che, in una
ciotola, portava già tritato il veleno che doveva somministrargli.
"Tu, brav'uomo, che sei pratico di queste cose," disse Socrate
vedendolo, "cos'è, allora, che bisogna fare?"
"Nient'altro che bere e poi passeggiare un po' per la stanza finché
non ti senti le gambe pesanti; poi ti metti disteso e così farà
il suo effetto."
Così dicendo porse la ciotola a Socrate. La prese, Echecrate,
con tutta la sua serenità, senza alcun tremito, senza minimamente
alterare colore o espressione del volto, ma guardando quell'uomo, di
sotto in sù, con quei suoi occhi grandi di toro. "Che ne
dici di questa bevanda, se ne può fare o no libagione a qualcuno?
È permesso?"
"Socrate, noi ne tritiamo giusta la quantità che serve."
"Capisco, ma pregare gli dei che il trapasso da qui all'al di là,
avvenga felicemente, questo mi pare sia lecito; questo io voglio fare
e così sia."
Così dicendo, tutto d'un fiato, vuotò tranquillamente
la ciotola.
Molti di noi che fino allora, alla meglio, erano riusciti a trattenere
le lacrime, quando lo videro bere, quando videro che egli aveva bevuto,
non ce la fecero più; anche a me le lacrime, malgrado mi sforzassi,
sgorgarono copiose e nascosi il volto nel mantello e piansi me stesso,
oh, piansi non per lui ma per me, per la mia sventura, di tanto amico
sarei rimasto privo. Critone, poi, ancora prima di me, non riusciva
a dominarsi e s'era alzato per uscire. Apollodoro, poi, che fin dal
principio non aveva fatto che piangere, scoppiò in tali singhiozzi
e in tali lamenti che tutti noi presenti ci sentimmo spezzare il cuore,
tranne uno solo, Socrate, anzi: "Ma che state facendo?" esclamò.
"Siete straordinari. E io che ho mandato via le donne perché
non mi facessero scene simili; a quanto ho sentito dire, bisognerebbe
morire tra parole di buon augurio. State calmi, via, e siate forti."
E noi, provammo un senso di vergogna a sentirlo parlare così
e trattenemmo il pianto. Egli, allora, andò un po' su e giù
per la stanza, poi disse che si sentiva le gambe farsi pesanti e cosi
si stese supino come gli aveva detto l'uomo del veleno il quale, intanto,
toccandolo dì quando in quando, gli esaminava le gambe e i piedi'e
a un tratto, premette forte un piede chiedendogli se gli facesse male.
Rispose di no. Dopo un po' gli toccò le gambe, giù in
basso e poi, risalendo man mano, sempre più in su, facendoci
vedere come si raffreddasse e si andasse irrigidendo. Poi, continuando
a toccarlo: "Quando gli giungerà al cuore," disse,
"allora, sarà finita."
Egli era già freddo, fino all'addome, quando si sco-. prì
(s'era, infatti, coperto) e queste furono le sue ultime parole: "Critone,
dobbiamo un gallo ad Asclepio, dateglielo, non ve ne dimenticate."
"Certo," assicurò Critone, "ma vedi se hai qualche
altra cosa da dire."
Ma lui non rispose. Dopo un po' ebbe un sussulto. L'uomo lo scoprì:
aveva gli occhi fissi.
Vedendolo, Critone gli chiuse le labbra e gli occhi.
Questa, Echecrate, la fine del nostro amico, un uomo che fu il migliore,
possiamo ben dirlo, fra quanti, del suo tempo, abbiamo conosciuto e,
senza paragone, il più saggio e il più giusto.
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