Hans-Georg Gadamer

 

 

 

Il Dramma di Zarathustra

 

 

 

 

 

 

Al pari di Goethe e di Heinrich Heine, Nietzsche è considerato uno dei maggiori maestri di stile della lingua e della letteratura tedesca. Questa sua dote straordinaria si rivela in particolare nell'assenza di ogni forma di pesantezza. E in ciò sembra compiersi il grande messaggio di Zarathustra che raggiunge il suo culmine nella lotta contro lo spirito di gravita. Senza alcun dubbio Così parlò Zarathustra rappresenta un'eccezione nell'opera di Nietzsche e quindi se vi sono molti e appropriati motivi per ammirare e apprezzare in questo libro le singole parti liriche, è necessario aggiungere che non è certamente lo stile di quest'opera, forzato oltre ogni limite, ciò che induce ad annoverare Nietzsche fra i grandi maestri di stile della lingua tedesca.

Cionondimeno il fatto che in questa occasione abbia scelto di porre al centro del mio discorso Così parlò Zarathustra, non dipende dalla rievocazione nella memoria di una visita al lago di Silvaplana e alla roccia che campeggia alle sue spalle dove Nietzsche ebbe la grandiosa ispirazione della teoria dell'eterno ritorno. Di ciò ha scritto Nietzsche stesso, come tutti sanno, in una celeberrima pagina di Ecce homo. Piuttosto quel libro rappresenta per me, e da molto tempo, una sorta di sfida. Profondamente diviso fra ammirazione e disagio colgo l'occasione del centenario della sua pubblicazione per tentarne una valutazione. E a tal proposito io non sono ne uno studioso di Nietzsche, ne un pensatore della sua stessa razza, come Martin Heidegger, il quale si è costruito un suo proprio Nietzsche. Del resto sono nato nello stesso anno della scomparsa di Nietzsche — il 1900 — e questo non è il modo migliore per conoscere qualcuno. Le cose andarono in modo alquanto diverso. Quando compii sedici anni, mio padre mi consentì di frequentare la sua piccola biblioteca privata. Studioso di chimica, non possedeva un'eccezionale scorta di libri: la sua era la biblioteca di un borghese colto degli inizi di questo secolo. «Ora sei abbastanza maturo per poter leggere questi libri, ma questi due volumi (si trattava di Così parlò Zarathustra e di Al di là del bene e del male) non tè li raccomando ». Naturalmente furono i primi che presi. Ma questo gesto di indipendenza ebbe un effetto paradossale a cui faccio risalire la ragione per cui, diversamente dalla maggioranza dei miei coetanei, non ho vissuto nella giovinezza una stagione nietzscheana. Forse lessi quei libri troppo presto: le mie capacità intellettuali non erano ancora in condizione di comprenderli.

Così il mio primo incontro con Nietzsche si svolse fra le mura dell'università. In quegli anni a Marburgo Nicolai Hartmann avvertì per primo l'influsso decisivo di Nietzsche su Max Scheler e tenne un seminario su La volontà di potenza di Nietzsche. Così facendo interpretò il pensiero di Nietzsche come un contributo alla fenomenologia dei valori: ne venne fuori un Nietzsche scolorito, addomesticato, secondo i canoni ben collaudati della tradizione accademica. L'accesso a Così parlò Zarathustra non fu perciò agevole per la mia generazione, neppure in situazioni molto diverse. L'affinità stilistica con il melodramma wagneriano, il modo privo di ogni misura di imitare l'Antico e il Nuovo Testamento ci tennero lontani dallo Zarathustra di Nietzsche. Il gusto della mia generazione, come del resto quello della generazione odierna, non apprezzava lo stile allora in voga. Il movimento giovanile che fissava i nostri criteri di gusto, rifiutava la civiltà urbana e la cultura borghese, amava le marce nella foresta con l'inseparabile chitarra, le lunghe peregrinazioni, i falò notturni; questo era il clima della mia generazione. Il melodramma non rappresentava nulla ai nostri occhi:

neppure Richard Wagner per chi come la mia generazione aveva scoperto la musica barocca, Heinrich Schutz e la polifonia fiamminga. Nietzsche fu al contrario un estimatore e ammiratore dell'opera wagneriana. Così procedettero le cose finché non giunsi a un incontro più profondo con la figura epocale di Nietzsche. La celebre poesia di Stephan George, un autore molto importante per la mia formazione, ebbe un ruolo decisivo: quell'encomio di Nietzsche che si annuncia al tempo stesso come un avvertimento:

 

 

Troppo tardi giunse chi invocando ti disse:

Qui non vi è più sentiero oltre le rocce di ghiaccio

e un lugubre uccello pose il suo nido — ora é necessario

rifugiarsi nel cerchio che amore chiude...

E quando la voce serena e tormentata

risuona allora come canto di lode nella none celeste...

 

Così una seduzione in sé antitetica mi spinse a studiare Nietzsche e, ciò a maggior ragione, se si pensa che proprio in quegli anni il fascismo aveva iniziato a promuovere la sua brutale strumentalizzazione del filosofo. Ora, nella seconda metà del nostro secolo, ha luogo una sorta di riscoperta del pensiero nietzscheano. I suoi motivi non sono semplici da chiarire. In ogni caso Nietzsche rappresenta una provocazione costante per chi oggi si dedica all'arduo mestiere del pensare. Lo è, mi pare, in un triplice senso. Innanzitutto perché fu un genio degli estremi, uno sperimentatore radicale di idee e di pensieri. Egli stesso ha caratterizzato la figura del filosofo del futuro come colui che cerca, che non dispensa verità, ma rischio e pericolo. Per queste ragioni l'analisi concettuale del pensiero nietzscheano e il suo inserimento nella tradizione filosofica sono di una non comune difficoltà.

In secondo luogo Nietzsche non è stato soltanto un pensatore ma anche un esperto maestro della parodia. Il suo Zarathustra è una lunga sequenza delle parodie più diverse. Con quest'ultimo termine si intende un modo di dire che, una volta accolte formulazioni di pensiero anticipatamente date o stereotipe, le trasfigura o sviluppandole in una dirczione del tutto inconsueta e inusitata o distorcendole in forma caricaturale. In ogni caso il discorso parodistico non si manifesta in modo immediato, ma si serve di accenni e allusioni che mutano il senso dei testi già esistenti.

In terzo luogo, infine, Nietzsche è stato un geniale psicologo, capace di penetrare la superficie delle cose e di portare alla luce quanto vi si trova nascosto, celato, misterioso, rimosso, in una parola non-detto in forma chiara ed esplicita. Ci ha insegnato a interpretare come maschera ciò che si trova in primo piano, la superficie. E questo forse è l'aspetto più affascinante della sua opera. Anche Freud ha appreso molte cose da Nietzsche, alcune in modo indiretto, dal momento che Schopenhauer, il grande precursore di Nietzsche, lo ha decisamente influenzato.

Si può quindi affermare: Nietzsche non è stato un semplice interlocutore nel colloquio dellà\filosofia con se stessa che scorre attraverso I millenni. Per questo rappresenta tuttora una sfida per i filosofi. Dopo aver influenzato, agli inizi del secolo, poeti e letterati, nel primo dopoguerra la sua opera è diventata oggetto di un vero e proprio confronto accademico. Il tentativo di Karl Lowith, teoreticamente maturo ed estremamente documentato da un punto di vista storico, di dimostrare l'inconciliabilità dell'idea dell'eterno ritorno dell'identico con il concetto di volontà di potenza, e di interpretare il primo di questi due pensieri come il sintomo di una rottura « all'apice della modernità » e come un irrealizzabile ritorno alla cosmologia dei greci, alla loro teoria dei grandi periodi cosmici con tutte le conseguenze che ne derivano in relazione al concetto di fato, è stato il primo di questi confronti. In dirczione opposta il fascismo cercò di eliminare con brutale unilateralità la teoria dell'eterno ritorno e di presentare Nietzsche come lo scopritore del concetto di volontà di potenza, il gioioso sacerdote della vita, delle ragioni del corpo troppo a lungo dimenticate e infine della stessa mitologia razziale. In quest'ottica Alfred Baeumler, uno dei precursori ideologici della dogmatica nazista, scrisse nel 1931 un libro su Nietzsche in stile molto romantico e destinato a godere di una notevole diffusione. Lo stesso Karl Jaspers, che nel 1936 pubblicò un'esposizione complessiva molto equilibrata del pensiero nietzscheano, non riuscì a conciliare le molte affermazioni contraddittorie di Nietzsche e a ricondurle nell'orizzonte dell'esperienza storico-esistentiva che pur rappresenta la sede privilegiata in cui trova espressione ogni pensiero «estremo». Come abbiamo già detto, Nietzsche era effettivamente spinto da un impulso che non riusciva a dominare, in dirczione dei limiti estremi di ogni esperienza pensante. Una sincerità eccessiva, contro ogni senso della misura e del compromesso, fu per Nietzsche l'autentica virtù dello spirito.

Il vero compito filosofico che pone il pensiero di Nietzsche consiste certamente nel risolvere l'apparente inconciliabilità di volontà di potenza ed eterno ritorno dell'identico. E in ciò mi pare di poter indicare l'autentico contributo di Martin Heidegger che, pur con l'abituale violenza che caratterizza le sue inter-pretazioni, ha in questo caso trovato la prospettiva decisiva: una soluzione di quell'apparente contrasto che mi parve subito plausibile e chiara. Le teorie nietzscheane sono fra loro complementari e sono solo le due facce di una stessa medaglia. La volontà di potenza, che non vuole qualcosa ma se stessa, è volontà di volere, e l'anello dell'eterno ritorno smaschera ogni volizione e scelta, ogni evasione e ogni speranza come una sorta di follia. Entrambi questi aspetti dissolvono il problema del senso, dello scopo. E in ciò Heidegger scorge e individua il risultato ultimo del pensiero nietzscheano, l'ineludibile vicolo cieco in cui l'intera tradizione della filosofia occidentale ha smarrito se stessa, il cui grandioso inizio, carico di destino, era stato l'interrogare greco intorno all'essere dell'ente, in una parola la questione metafisica. L'idea della soggettività e il suo esito ultimo nel concetto di volontà di potenza si rivelano in quest'ottica come il destino catastrofico della nostra civiltà dominata dalla tecnica.

Nel frattempo, soprattutto in Francia, l'interpretazione heideggeriana è stata presa di mira da Derrida e Deleuze. La loro argomentazione può così riassumersi: Heidegger, continuando a porre il problema del senso dell'essere, compie un atto di fede in un senso anticipatamente dato e con ciò resta ancorato al pre-giudizio della priorità del logos. In questo senso Heidegger non è altrettanto radicale quanto Nietzsche che ha da sempre insistito nell'affermare che interpretare non significa scoprimento di senso ma investimento di senso, volontà di potenza, creatività. Perciò il pensiero deve liberarsi dallo schema presupposto della presenza di un senso e da ogni logocentrismo.

Il significato filosofico di Nietzsche si trova così oggi al centro di un dibattito dalle molteplici sfaccettature. Più d'uno ha creduto che la nuova edizione critica, pubblicata da Colli e Montinari, provocasse un nuovo e decisivo arricchimento e approfondimento della comprensione di Nietzsche. Ora è certamente vero che per la prima volta possediamo i quaderni di appunti di Nietzsche in forma criticamente sicura e cronologicamente ordinata e che non dipendiamo più dalla redazione e dalla selezione in cui la sorella di Nietzsche e gli editori successivi avevano compilato i suoi frammenti postumi; tuttavia è ingenuo credere che oggi, con a disposizione il vero Nietzsche siamo definitivamente affrancati dalle preoccupazioni che hanno tormentato gli interpreti precedenti. Valga per ciò questo esempio. In un recente opuscoletto di Derrida: Les épérons de Nietzsche, un intero capitolo è dedicato a una brevissima affermazione di Nietzsche che recita testualmente: « Ho smarrito il mio ombrello ». Derrida scrive un saggio molto elegante su queste due righe. Forse Nietzsche smarrì veramente il suo ombrello. Ma chi è in grado di sapere se in questo fatto si cela qualcosa di importante, di significativo? Comunque stiano le cose, l'esempio chiarisce come la smania di pubblicare tutto di un autore sia anche un modo caratteristico di nascondere cose essenziali fra altre che tali non sono. D'altra parte, ci siamo sempre serviti del lavoro di chi compie nuovi scavi e ci mostra le cose in una nuova luce.

A un unico effettivo risultato ci ha condotto la nuova edizione: d'ora in poi non possiamo più considerare La volontà di potenza un'opera a sé stante, per il semplice fatto che quest'opera non esiste.

Ma proprio questo risultato riporta al centro dell'attenzione Così parlò Zarathustra. Francamente non è facile ricavare da questo libro un universo di concetti unitario. Si tratta infatti di un'opera per metà poetica e per metà filosofica che va ascritta al genere letterario della mimesi, dell'imitazione. Si tratta di un'opera d'arte letteraria. Perciò non è corretto identificare sic et simpliciter Zarathustra con Nietzsche e i suoi discorsi con la filosofia nietzscheana. Da un punto di vista ermeneutico può essere invece decisivo cercare di determinare il rapporto di teoria e prassi caratteristico di ogni testo poetico. È necessario avere piena coscienza del problema che possiamo formulare in questi termini: come possiamo tradurre in un concetto il messaggio di un pensatore, scisso a tal punto fra discorso concettuale e discorso poetico?

Innanzitutto deve essere tenuta in gran conto la differenza ermeneutica che intercorre fra i discorsi e i detti da un lato e le parti narrative dall'altro. I discorsi di Zarathustra non sono mere collazioni di discorsi, come quelli di Buddha, ma sono di volta in volta inseriti in un'azione. Ciò implica due distinti punti di vista ermeneutici: un oratore che tiene un discorso, ha il suo pubblico davanti a sé: parla a qualcuno, e ciò significa parlare in modo diverso a ascoltatori diversi, varia il suo discorso col variare di coloro che lo ascoltano. È quanto Nietzsche stesso suggerisce quando nella chiusa della seconda parte, « Della redenzione », scrive: « Ma perché Zarathustra parla ai suoi scolari diversamente — che a se stesso? ». Coloro cui è destinato il discorso dell'oratore introducono necessariamente un punto di vista dialettico. Dobbiamo perciò sostituirci a quelli (cui è rivolto il discorso) e chiederci perché uno parla così a un tale uditorio.

Il secondo punto di vista è quello della narrazione. Un racconto, rispetto alle intenzioni di colui che parla, rivendica un superiore livello di autenticità, anche se richiede contestualmente una valutazione poetica. E ciò ha conseguenze concettuali enormi. A una prima lettura si è portati a leggere il libro come l'annuncio di una nuova tavola dei valori contrapposta a quella antica, cristiana. Si tratta certamente di un'interpretazione non falsa, e tuttavia in qualche modo superficiale se si prescinde dal dramma di cui il libro narra gli eventi.

Mi sono perciò posto il compito di cercare il significato di questo evento, la tragedia di Zarathustra, maestro di vita e di dottrina. Nessuno può negare che Nietzsche sia stato un inguaribile moralista. La critica che rivolge ai valori morali della tradizione cristiana è la critica di un moralista la cui passione più vera è il pudore e la sofferenza che il pudore produce. Non poteva tollerare l'arroganza, la sicurezza di sé e l'atteggiamento autoritario dominanti negli organismi sociali e religiosi e nella pubblica opinione. In questo senso nei detti e nelle affermazioni di Nietzsche è reperebile una vera e propria dialettica dell'emancipazione. Perciò afferma: « Donare è molto più difficile che ricevere doni ». In ciò infatti consiste il compito di superare il proprio pudore che vuole risparmiare la vergogna agli altri. L'esempio illustra, in modo scoraggiante, come sia difficile superare un'ipersensibilità tanto radicata e comprendere correttamente l'intera teoria dei detti che la illustra e il ruolo che questi ultimi svolgono nell'azione.

A tal fine potrei mettere in rilievo quei luoghi che nell'intera composizione del libro svolgono il ruolo di altrettanti punti di giuntura. Devo ripetere che lo stile di questo libro non piace a tutti, che in ogni caso non corrisponde ai miei gusti, ne a quelli della mia generazione. Noi tedeschi di oggi molto difficilmente riusciamo a comprendere l'oratoria particolare, il pathos di questi discorsi senza provare forti riserve mentali. Così parlò Zarathustra, più che una poesia veramente riuscita, è la geniale creazione di un pensatore, e perciò la struttura compositiva dell'intero poema è ciò che maggiormente ci consente di accedere alla pienezza del significato. Non si tratta di un involucro esteriore, di una pura e semplice cornice per discorsi di contenuto dottrinario. L'azione che viene raccontata rappresenta piuttosto ciò che ci consente di giungere alla verità. Naturalmente posso tentare un'operazione del genere, esaminando qualche parte opportunamente selezionata. Inizio con il primo discorso. Tralascio il prologo, la prima apparizione di Zarathustra nella piazza del mercato della città e l'avventura con il funambolo. Si tratta di cose arci-note e sovente trattate. Inizio col primo discorso, in quanto l'intero paradosso del linguaggio concettuale, proprio di quest'opera singolarissima, vi si esprime in forma molto chiara. « Delle tre metamorfosi » è la storia che ha per oggetto lo spirito e le forme del suo manifestarsi. Si manifesta come cammello, come leone e come bambino. Il cammello incarna la pazienza di chi sopporta ogni peso e assume su di sé ogni dovere. Lo spirito come cammello dice a se stesso: tu devi. Nella forma del leone lo spirito acquista la libertà di rifiutare tutti i doveri. Può pronunciare il « santo no », perché dice a se stesso: io voglio. La terza metamorfosi si compie nello spirito del bambino. È lo spirito dell'innocenza, del gioco, della completa assenza di senso del tempo, in cui la pienezza della vita è tutta nell'attimo; è lo spirito di chi riacquista fiducia, anche quando tutte le opportunità sono andate perdute. Questa è per Zarathustra la forma più alta dello spirilo e il vero contenuto del suo messaggio.

In questi termini il problema risulta chiarissimo: si può proclamare come fine ultimo dello spirito l'innocenza dell'infanzia? Come può colui che annuncia una nuova teoria dell'oltreuomo appellarsi a qualcosa che in nessun modo si può volere? Questa è la tensione più profonda nella proclamazione di innocenza, di immediatezza e dell'eterno ritorno dell'identico, tensione che filtra di sé l'intero libro, a noi ben nota come l'antica eredità tragica dell'idealismo tedesco: il paradosso dell'immediatezza ristabilita, dell'immediatezza mediata. In questa tensione, sospesi in un'atmosfera siffatta, tutti i discorsi di Zarathustra sono anche forme del silenzio, modalità del tacere e dell'occultare (II, 498). Nietzsche stesso afferma che non si può imparare, a parlare senza cooriginariamente imparare a tacere.

Quando uno dice qualcosa, tace e cela al tempo stesso qualcosa. Quando qualcuno dice una cosa, non dice qualcosa di diverso da ciò che forse nello stesso momento deve aver pensato, e tuttavia siamo egualmente chiamati a guardare alle spalle di ciò che ha detto. A questo punto viene in luce il significato che riveste l'azione per il senso dell'intera composizione. Nell'azione si apre sempre, in modo nuovo, uno spiraglio su ciò che è alla base dei discorsi: una via di accesso alla verità che ha la propria sede autentica in ciò che accade, vale a dire nella figura di Zarathustra e nella tragedia che ha vissuto prima di noi. Tenteremo di cogliere i cenni che rinviano a questa tragedia.

Innanzitutto la conclusione del primo libro. Il fatto che io presti particolare attenzione all'inizio o alla fine dei libri di cui si compone l'opera, è certamente motivato da un punto di vista ermeneutico. Nietzsche scrisse quest'opera, che si compone di quattro libri, in modo molto singolare: i primi tre furono composti in un tempo relativamente breve e il quarto molto più tardi. Inizialmente quest'ultimo non era neppure previsto. Per contro i primi tre sono il risultato di uno sforzo compositivo molto equilibrato. Per questa ragione il primo spiraglio si apre per noi a conclusione del primo libro, nel momento della prima separazione di Zarathustra dai suoi discepoli. I suoi discorsi hanno avuto un grande successo e un seguito notevolissimo. Nel congedarsi Zarathustra da ai suoi discepoli un avvertimento: dovete liberarvi anche del vostro maestro. Ognuno deve affrancarsi dal giogo dell'autorità. Ma ciononostante Zarathustra si accomiata dai suoi amici in modo tale da lasciar intendere di non aver ancora detto la sua ultima parola.

Nel seguito dell'opera si trovano altre premonizioni, per esempio quando Zarathustra in « Della redenzione » chiede alla volontà di dimenticare lo spirito di vendetta ed esita: « Chi le ha insegnato di volere a ritroso? —Ma a questo punto del suo discorso avvenne che Zarathustra improvvisamente si fermasse: pareva uno che fosse terrorizzato all'estremo ». Questa è una delle forme più eleganti di mandare un segnale. La conversazione che segue con il gobbo lo sottolinea ancor più. Questi rinfaccia a Zarathustra di parlare a lui e alla gente in modo diverso da come parla ai suoi discepoli e quando Zarathustra abbozza una difesa, il gobbo replica: « Ma perché Zarathustra parla ai suoi scolari diversamente— che a se stesso? ». Anche ciò vuoi far capire che qualcosa non è stato ancora detto. Infine la scena altamente drammatica e provocatoria nel capitolo « L'ora senza voce ». Qui lo Zarathustra di Nietzsche fa trasparire qualcosa della lotta tutta interiore che conduce con se stesso, tanto che deve parlare con la voce sommessa dell'anima che lo ammonisce. Ha sempre eluso questo colloquio, e così gli vien detto, così dice a se stesso: « Oh Zarathustra, i tuoi frutti sono maturi, ma tu non sei maturo per i tuoi frutti! ». Percorrendo questo itinerario giungiamo preparati alla parte centrale dell'intera opera, che è senza alcun dubbio il terzo libro. Il peso che chiaramente opprime Zarathustra è il compito di essere il maestro dell'eterno ritorno dell'identico. Zarathustra deve annunciare la sua dottrina senza provare vergogna.

Ma se richiamiamo alla memoria questo libro e lo trasfiguriamo in un'azione drammatica in cui i discorsi di Zarathustra si trovano inseriti, si dissolve e svanisce quella successione che da a questa raccolta di discorsi biblici-àntibiblici il tono di una predica che non vuole aver fine. Ancor più: si trova un accesso che i destinatari precedenti di questi discorsi non sono in grado di accettare e col quale non riescono a identificarsi. Questo cristianesimo neotedesco, imperiale e fittizio, bugiardo e magniloquente della seconda metà del diciannovesimo secolo, ha potentemente influenzato il tono con cui Nietzsche, al tempo stesso ammiratore e provocatore di Richard Wagner, intona il suo messaggio anticristiano. Le caratteristiche linguistiche e stilistiche di questi discorsi ci sono profondamente estranee. Nietzsche stesso indica nella sua emancipazione dall'incanto poetico del post-classicismo e del post-romanticismo, nel suo rifarsi al Nuovo Testamento e a Luterò, uno dei suoi meriti maggiori. Questa sua opzione di stile ha ritrovato nel nostro secolo dei seguaci, ma ciò non toglie che l'influenza dello stile poetico nietzscheano — a differenza dello stile incomparabilmente sottile e penetrante della sua prosa —^ tramontata nel vero senso della parola. La. superiore perspicuità dei suoi artifici stilistici, l'estrema concentrazione di assonanze e allitterazioni, l'abuso di giochi di parole, di allusioni, metafore e variazioni che ricorrono e si accavallano, tutto ciò non ha più per noi alcun interesse — evoca lo splendore fittizio dello storicismo degli anni di fondazione dell'impero, anche se qua e là echeggiano profondità e splendore di singole espressioni e locuzioni. In sostanza lo stile di Zarathustra appartiene inesorabilmente al passato.

Se al posto di queste tavole solo per metà descrittive che Zarathustra racconta a se stesso, consideriamo la tragedia del suo tramonto che si avvicina e di fronte al quale Zarathustra indietreggia costantemente, il tutto acquista in immediatezza, comprensibilità, unità e tensione. Questo processo ha il suo punto di massima concentrazione nel terzo libro che come un Furioso precipita verso la fine, verso il tramonto. Il fatto che vi sia un quarto libro, e altri ancora potrebbero essercene, è un'altra questione di cui si può parlare in un'altra occasione. Quando Così parlò Zarathustra, questo Libro per tutti e per nessuno, fece la sua comparsa, si lesse la fine del terzo libro, in particolare « La seconda canzone di danza » e « I sette sigilli (Ovvero: il canto "sì e amen") », come il compimento e la soluzione dell'attesa che cresce lungo l'intero libro. Nietzsche stesso lo ha avvertito in questi termini e ha detto a chiare lettere che il terzo libro rappresentava il vero Finale. Effettivamente questo libro ha il carattere di un Crescendo particolarmente drammatico: inizia con l'ascesa alle estreme, più solitàrie altitudini. Segue il racconto della visita dell'eremita che non si è ancora liberato dello spirito di gravita che lo opprime e solo in un bisbiglio onirico parla con se stesso delle cose eterne, dell'eterno ritorno dell'identico, « sempre più flebile: perché avevo paura dei miei stessi pensieri e dei miei pensieri reconditi » — e solo come in un sogno diverso sperimenta la propria liberazione in un enigma, nell'immagine del pastore che stacca con una mano la testa al serpente che è in procinto di strozzarlo ed esplode in un riso liberatorio; ma tutto ciò avviene in modo siffatto che Zarathustra stesso desidera ridere, sicché l'ora spirituale in cui il suo pensiero abissale vuole manifestarsi, non trova ancora in lui il proprio tempo. Si tratta delle scene iniziali dell'attesa sempre protratta del grande meriggio. Tutti i discorsi che hanno per oggetto le nuove tavole sono dettati e scanditi da tale attesa e afflizione. È ingenuo perciò, da un punto di vista rigorosamente ermeneutico, prestare ascolto solo ai discorsi che Zarathustra riferisce ai suoi scolari e a se stesso come se non fossero a loro volta seguiti dal più profondo collasso e dalla più lenta convalescenza — ancora una volta le cose stanno in modo tale che proprio il più abissale dei pensieri, non appena viene accennato, precipita Zarathustra nella nausea e nell'incoscienza. A questo proposito è sufficiente sottolineare il fatto che il capitolo di questo immane collasso non dice nulla di ciò nel titolo, ma ne accenna solo in modo indiretto. Infatti il titolo recita soltanto: « II convalescente » (come dimostrano i frammenti preparatorii, il titolo iniziale del capitolo, «II giuramento» o «Lo scongiuro», è stato successiavamente soppresso). La lunga convalescenza che Zarathustra trascorse dialogando con i suoi animali è contrassegnata da due aspetti significativi: innanzitutto dal fatto che sono i suoi animali con la loro propria natura a preannunciargli nella parola e nel canto la sua dottrina dell'eterno ritorno dell'identico — e in secondo luogo dal fatto che quegli stessi animali gli vietano di parlarne più a lungo e lo invitano a cantare. Lo anticipano e per così dire parlano profeticamente e dalle loro parole Zarathustra ottiene la guarigione, come dimostra chiaramente il brano che segue intitolato « Del grande anelito ».

Sicché la terza parte termina in realtà col canto, innanzitutto con il secondo canto di danza, che, in modo libero da ogni norma o regola metrica, conferisce alle rime scelte con poca cura (in cui è articolato) un ritmo che imita quello del cantastorie. Il titolo scelto non a caso rinvia perciò al primo canto di danza (seconda parte): quel canto beffardo sullo spirito di gravita che Zarathustra rivolge alle fanciulle. In questo primo « canto della danza » Zarathustra confessa il suo amore per la vita, un amore così forte, che in esso si smarrisce anche la sua saggezza. « E di nuovo mi sembrò di sprofondare nel senza-fondo ». Già in questo testo si manifesta la stessa tensione fra saggezza e vita che nel secondo canto di danza assume il ritmo e l'andamento di una scena di caccia e di inseguimento. Un inseguimento non a senso unico; in quanto nel lettore resta aperto l'interrogativo se la « vita » sia il cane (che segue fedelmente il cacciatore) o non piuttosto il camoscio (l'animale braccato). Altrettanto oscuro è se la vita debba danzare o urlare al ritmo della frusta. Questo canto di danza in cui la saggezza di Zarathustra deve manifestarsi cantando, è nondimeno ricolmo del « grande anelito » della sua anima verso il grande liberatore Lyaio, Bacco, Dioniso, « cui canti futuri troveranno un nome! ».

Ancora una volta il canto che l'anima impara a cantare, non è ancora il canto della « pienezza », del « compimento », il grande meriggio; ancora una vòlta si va avanti con un colloquio fra la vita e Zarathustra.

Ora accade che entrambe le parti che seguono, numerate 2 e 3, sotto l'identico titolo « La seconda canzone di danza » si sviluppino e procedano come se l'anima che professa come propria saggezza l'eterno ritorno, debba ancora imparare a cantare il suo canto — e effettivamente ha imparato a cantare, ma ancora una volta il suo cantare non è in grado di esprimere la dottrina per cui Zarathustra è chiamato a parlare, come se essa ne « II canto "sì e amen" » avesse definitivamente consumato la sua voce nell'intonare il canto? Consiste in ciò la vera pienezza? In realtà il colloquio con la vita che Zarathustra stesso riferisce, pare essere il punto più profondo cui lo ha portato la sua nuova saggezza. Il canto di danza era stato esplicito: « II rumore uccide i pensieri ». Ma è lecito e doveroso chiedersi:

può esserci un canto che non sia chiaro e forte per questi pensieri? Il problema filosofico che il libro nietzscheano pone comincia forse a delinearsi nei suoi contorni precisi.

In conclusione il colloquio dell'anima con se stessa, il colloquio di vita e saggezza che Zarathustra conduce, non cela forse una tensione irresolubile? Se seguiamo attentamente le battute, non possiamo sottrarci a questa conclusione. Il fatto che Zarathustra e la « vita » siano fra loro in buoni rapporti — dal momento che Zarathustra, al di là del bene e del male, da ragione alla vita — non esclude che fra la sua saggezza e la vita domini un rapporto di tensione — un rapporto di gelosia: l'amore della vita per lui è nient'altro che il suo amore per la vita — è indissolubilmente legato alla sua saggezza, che consiste nel prezzo della vita, della sua assenza di fondamento, della sua leggerezza nella danza: « Ma se un giorno la tua saggezza ti abbandonasse, ahimè! anche il mio amore subito ti abbandonerebbe »:

così l'una e l'altra sono la stessa cosa. Ma le cose non stanno del tutto così, e questo è il punto in cui convergono l'intero problema di Nietzsche e quello del suo Zarathustra. A questo punto subentra un enigmatico rimprovero che la vita gli rivolge. La vita si guarda intorno e dice con voce sommessa (oppure è Zarathustra a parlare rivolto alla vita?): « Oh, Zarathustra, tu non mi sei abbastanza fedele! Non è vero che tu mi ami quanto dici; io so che tu pensi di lasciarmi presto ». E Zarathustra: « Sì, risposi esitante ». Esitante poiché egli, come la vita, sa che nulla è totalmente perduto, e tutto ritorna. La vita Io sa perché essa stessa è l'eterno ritorno. Ma nessun uomo lo sa: « Ma nessuno lo sa ». E allora piangono insieme, guardando il crepuscolo che annuncia la notte. « Ma allora la vita mi era più cara di quanto mai non mi fosse stata tutta la mia saggezza. »

Una scena di estrema, infinita finezza. Che cosa significa il fatto che Zarathustra vuole abbandonare la vita? Che cosa significa il fatto che lo vuole? Forse per la disperazione che lo coglie intorno al senso della vita, quando la campana di mezzanotte richiama alla sua memoria l'inesauribile passare del tempo? Ma Zarathustra non è preparato da tempo a un tale evento? Non è maturo per il suo accadere? Non si chiede da sempre, come nel primo canto di danza: « Non è follia, vivere ancora? ». Dove è rimasta la sua saggezza che bisbigliava nell'orecchio. O quella saggezza consiste proprio nel fatto che egli sa ciò che nessuno sa, e nel fatto che nondimeno non lo sa? Il fatto che non può cessare di desiderare: «Dice il dolore: perisci! » e non può cessare di pensare a ciò che è stato anche di fronte alla totalità della vita. Ma ciò non significa che vuole lasciare la vita, ma che vive nella coscienza di doverla lasciare. La morte, la fine, gli sta davanti e ciò per la vita che solo conosce se stessa e l'eterno ritorno dell'identico, è un atto di infedeltà.

Si comprende a questo punto perché entrambi, Zarathustra e la vita, piangano e perché «allora» la vita gli sia più cara di tutta la sua saggezza — allora, cioè nel momento della confessione e dell'ultima intesa con la vita. Si comprende anche perché il canto di mezzanotte finisce col dodicesimo rintocco cui non segue parola alcuna. Non altrettanto semplice è capire la parte che segue « Ilcanto "sì e amen" ». Quest'ultimo vuoi essere una Presenza totale ed è molto lontano da quell'allora.In quanto Presenza non conosce nessun allora. Ci si deve chiedere se questo inno all'eternità, con cui si chiude il libro, non venga a trovarsi anch'esso nell'equivoco di dover cantare la propria saggezza del ritorno. Il cantore presenta se stesso come ricolmo di « spirito profetico». Questo brano conclusivo dell'intera parte intitolata « I sette sigilli », che devono apporre il loro sigillo alla verità della saggezza di Zarathustra, è chiaramente espressa nel ritornello del canto, ma è al tempo stesso il canto di un profeta, di chi si sente pregno di un messaggio che vuole vedere la luce, di uno che dopo l'anello degli anelli, l'anello dell'eterno ritorno, « è colmo d'amore » — l'innocenza del divenire, l'innocenza del bambino, l'« io sono », il dire sì e amen resta un messaggio che proviene da un luogo diverso.

Questa ultima, estrema saggezza che Zarathustra professa col dire sì a ogni cosa, anche al ritorno di quanto vi è di più meschino, è una verità possibile, un canto perfetto in cui tutti « gli uomini superiori » possono riunirsi?

La quarta parte, aggiunta successivamente, cerca una risposta a questa domanda. Qualcosa del genere vuole l'amore una volta, ne « Il canto del nottambulo», e con questa espressione intende « per tutta l'eternità »? In conclusione Zarathustra non riconosce come un'illusione la volontà, il desiderio di riunire in questo canto perfetto « gli uomini superiori »? E così si unisce allo stormo dei piccioni e al leone?

Tuttavia deve pur avere un significato il fatto che questa conclusione di Così parlò Zarathustra non è stata considerata tale da Nietzsche stesso. Ha progettato molti piani in vista di una prosecuzione e ne ha portato a termine uno, la quarta parte, senza renderlo pubblico al di là di una ristretta cerchia di amici. Perciò occorre pur sempre ritornare a quanto si è detto della conclusione della terza parte, come all'interpretazione più autentica dell'intera opera — ovviamente con tutte le ambiguità presenti in questo concetto in un autore come Nietzsche (del resto ciò vale per ogni poeta). Infatti quella fine ha tutto l'aspetto di una conclusione effettiva di un inequivoco tramonto. Zarathustra ha infine espresso a chiare lettere il suo pensiero più abissale dell'eterno ritorno dell'identico, di fronte al quale ha sempre indietreggiato pieno di timore e ne « II canto "sì e amen" » vi ha posto per sette volte il suo sigillo. In realtà esistono anche piani che prefigurano la morte di Zarathustra in cui non entrano in gioco pensieri di suicidio del resto non del tutto estranei al contesto. La quarta parte sembra piuttosto un tentativo di superare un ultimo stato di confusione e di scoraggiamento — generato dalla compassione per gli uomini superiori — e di dire addio ai suoi « scolari » da parte di un maestro di sapienza, ormai sicuro di sé e della propria vittoria.

È del resto normale nella letteratura più recente su Nietzsche, scorgere nel periodo più tardo della sua produzione, a partire da Al di là del bene e del male, una sorta di rifiuto dello stile sapienziale e semi-poetico di Così parlò Zarathustra; quasi che Nietzsche abbia riconosciuto il fallimento del cammino intrapreso con quell'opera. Questa opinione è ulteriormente avvalorata dal fatto che il piano grandioso di una presentazione sistematica della sua dottrina, intitolata La volontà di potenza, domina nettamente nei quaderni di appunti degli ultimi anni di Nietzsche.

D'altra parte vi è un certo accordo nel considerare fuorvianti entrambi i volumi inediti intitolati La volontà di potenza, che sono stati composti e pubblicati sotto l'egida dell'Archivio Nietzsche all'inizio del secolo. Suscitano infatti l'impressione del tutto falsa di presentare questo capolavoro filosofico come un'opera in sé compiuta nei suoi tratti fondamentali. Che le cose non stiano cosi, lo ha ampiamente dimostrato l'edizione critica curata da Colli e Montinari. I volumi di inediti raccolti dall'Archivio Nietzsche sono in realtà una compilazione che utilizza anche parzialmente un materiale più antico. Il criterio con cui è stato ordinato segue i punti di vista abituali e del tutto inadeguati della fine del secolo scorso, come dimostra il fatto che un frammento che recita: « Non la vittoria della scienza, ma la vittoria del metodo sulla scienza » è stato compreso, in armonia con le idee del secolo scorso, sotto la voce « teoria della conoscenza ». In realtà ne il titolo ne il contenuto preciso dei quattro libri programmati per presentare la sua dottrina possono essere fissati con qualche certezza. Accanto a La volontà di potenza viene indicato come titolo anche La trasvalutazione di tutti i valori. Ma soprattutto non è chiaro come debbano essere considerate le ultime pubblicazioni di Nietzsche, in particolare L'anticristo e il Crepuscolo degli idoli: come una parziale realizzazione dell'opera? Come un « estratto » di quanto Nietzsche andava programmando? Si ha come l'impressione che il nuovo editore di Nietzsche J.G. Naumann lo abbia aiutato a pubblicare negli ultimi anni una teoria di scritti che hanno il carattere di un annuncio — e che caddero nel vuoto con il totale crollo psichico.

Oggi il generale imbarazzo che hanno incontrato molti interpreti nel tentativo di conciliare volontà di potenza e eterno ritorno dell’identico, è stato chiarito dalla penetrante interpretazione di Martin Heidegger. Ma collocando il pensiero nietzscheano nell'ultima, estrema posizione conclusiva della storia della metafisica, la fase del completo oblio dell'essere, e interpretando quindi il suo pensiero come un tragico coinvolgimento nella « nonessenza » della metafisica, Heidegger si è risparmiato la tendenza consueta a sbarazzarsi della fase di Zarathustra e, al contrario, trova nella figura tragicamente minacciosa di Zarathustra che lotta per affermare il suo coraggio della verità, la più coerente espressione della irresolubile contraddizione in cui si impigliò il circolo magico della riflessione caratteristica del concetto « moderno » di autocoscienza.

Nietzsche non si è nascosto un rischio del genere. La sua grandiosa « nuova » ispirazione, la dottrina dell'eterno ritorno dell'identico è essa stessa impigliata in questa contraddizione e questo rischio è costantemente presente nella terza parte dell'opera. Già in quel mormorio notturno con il nano nell'androne, Zarathustra si chiede: « Questo attimo trae dietro di sé tutte le cose avvenire? Dunque — anche se stesso? », e gli animali dicono anche a Zarathustra ciò che egli deve sapere: « Io torno eternamente a questa stessa identica vita, nelle cose più grandi e anche nelle più piccole, affinchè io insegni di nuovo l'eterno ritorno di tutte le cose ». I frammenti e le annotazioni che dovevano concorrere alla composizione del grande capolavoro teoretico La volontà di potenza o La trasvalutaz.ione di tutti i valori contengono un materiale imponente che tende a porre in evidenza tanto il concetto di soggetto quanto quello di conoscenza e quindi anche di verità come creazioni del vero principio dell'essere e del divenire, la « volontà di potenza », e conseguentemente affermano in forma implicita l'auto-dissoluzione del suo progetto teoretico.

Per la teoria dell'eterno ritorno dell'identico, Nietzsche pianificò, prima di sprofondare nella notte, un programma di studi di scienze naturali a Lipsia — non senza aver coscienza del carattere paradossale di un progetto siffatto. Chiuse un occhio su ciò, al fine di porre la scienza al servizio della vita. In un certo senso prese molto sul serio la fisica, che doveva offrirgli la dimostrazione della sua dottrina. Per questa ragione, nei suoi piani, accanto al titolo Eterno ritorno dell'identico figura anche Allevamento e coltura. — Per una ragione analoga in Così parlò Zarathustra il suo continuo procedere in circolo attorno alla sua dottrina viene interrotto dal capitolo « Di antiche tavole e nuove » che spezza ogni indugio ulteriore.

Con l'ultimo sigillo che Zarathustra imprime alla sua teoria: « Canta! non parlare più! », non c'è più nessuna via d'uscita.

Questa conclusione non può essere ne contraddetta ne limitata dalla quarta parte. Pur senza entrare nel merito delle singole parti di questa ingegnosa creazione, l'ordine in cui si articola il procedere dell'azione tragica è chiarissimo. Zarathustra impara qui a proprie spese in compagnia degli uomini superiori a non lasciarsi confondere da loro. Questa partita di pesca in alta montagna, questo gesto di invitare gli uomini superiori nella propria caverna, riunisce coloro che soffrono, i profeti che nulla può compensare, i rè che cercano gli uomini sommi, gli uomini perplessi nelle cose dello spirito, il mago di cui Zarathustra smaschera la falsità (e così smaschera anche la propria), il vecchio papa, gli uomini più brutti, i mendicanti volontari, lo spirito libero e sempre in cammino che Zarathustra insegue come un'ombra — tutti vedono in Zarathustra la grande speranza. Vivono di speranza come chi soffre. Ma questo significa che non sono ancora preparati per la sapienza di Zarathustra: per dire sì a tutto.

Questa è la vera esperienza di Zarathustra. Non è facile diventare veramente liberi, accettare senza contro-partita la sofferenza, il male, il dolore e ogni limite umano. Questo è il messaggio di Zarathustra: imparare ad accettare. Amor fati. Zarathustra comprende alla fine di dover superare la compassione per la sofferenza di coloro che cercano ciò che vi è di più elevato. Costoro non possono seguirlo. Il canto rotondo del dire sì non ha alcun successo. E per Zarathustra questo è un indizio che gli animali, non solo i colombi, ma il leo-ne stesso, sono i soli a rivolgersi a lui e a dargli fiducia in sé e nel suo compito, nella sua opera. Si consideri anche: la tensione con cui Zarathustra incede solennemente nel suo grandioso Mezzogiorno, è rivolta ai suoi « bambini ». « I miei bambini sono vicini. » E ciò non significa « gli uomini », non « gli uomini superiori », ma i suoi bambini. L'innocenza del bambino, il loro dire io sono, viene invocata. Questo è qualcosa che non si può volere o dovere. È la fine della tragedia? O non piuttosto il suo inizio?

Il dramma di Zarathustra è l'azione che lo rende libero di dire sì. Ma il suo dramma non è più in questo senso la sofferenza di chi sa e dice sì a ogni cosa, sibbene è il dramma di chi vuole imparare la sua sapienza e non trova gli uomini giusti, maturi per siffatta sapienza. Fra sapere e far sapere non vi è tensione alcuna. Lo Zarathustra della quarta parte che soffre con « gli uomini superiori » e prova compassione per loro è sempre lo stesso. Egli sa e tuttavia non è ciò che sa. Lo sforzo teoretico di Nietzsche di trasporre il messaggio di Zarathustra in un sistema filosofico compiuto a partire da un principio universale, la volontà di potenza, che ha il suo vertice nella teoria dell'eterno ritorno dell'identico non verrà compiuto. Poteva compierlo? Avrebbe potuto? Era in condizione di compierlo? In conclusione nella critica radicale cui Nietzsche sottopone i concetti di coscienza e di autocoscienza a partire dalla vita stessa e nel progetto di una teoria universale della volontà di potenza è tutta conservata l'eredità della metafisica e conduce quest'ultima, come Heidegger ha visto giustamente, a concludere la propria storia (e a realizzare la propria essenza) nel dominio di ogni essere, nella signoria della tecnica. Quel maestro ed educatore che intendeva capovolgere l'intera tavola dei valori, Zarathustra, deve alla fine dire alla sua anima: « Canta! non parlare più! ». Con quale scopo? Nessuno dei suoi discorsi pedagogici che in ogni cosa vedono all'opera la volontà di potenza, e che strappano a ogni verità una dopo l'altra le maschere, giunge a una conclusione — piuttosto tutto questo dare ed esigere resta sofferenza, tanto quella dell'« io voglio », quanto quella dell'« io devo ». Anche gli spiriti liberi, gli uomini superiori, sono coloro che cercano e soffrono, che non possono disfarsi dello spirito di gravita. La leggerezza di un bimbo, la facilità con cui dimentica la sua atemporalità, il suo schiudersi nell'hic et nunc dell'attimo, il suo giocare è ciò che tutti li supera. È qualcosa come un canto. Canto è Esser-ci (Dasein) — non qualcosa che si è pensato ma qualcosa che al di sopra di ogni rivelare da parte di ciò che si è pensato, al di sopra di ogni « non-ascosità », giace nel cuore stesso dell'essere che totalmente si compie in se stesso. Qui non vi è più nessuna volontà di arrestare il tempo che passa, nessuno « spirito di vendetta ».

Indimenticabile la scena in cui Zarathustra afferma — allora — che la vita gli era più cara di tutta la sua sapienza. È la tristezza della sera, ma soprattutto la commozione dell'imminente commiato in cui « piangono insieme » in silenzio, sommessamente.