Carlo Cattaneo

 

 

VITA DI DANTE E DI CESARE BALBO

 

 

Nota: Publicato nel 1839, quando uscì a Torino presso Pomba quest'opera del Conte Balbo.

 

 

Perché mai mentre il cinquecento ebbe quaranta edizioni di Dante, il seicento, tutto addottrinato e fastoso di collegi e d'academie, ne diede tre sole e assai meschine?

Perché mai, col succedere del settecento, Dante tornò in tanto favore agl'Italiani, che alla fine di quel secolo se ne contavano già trentaquattro edizioni; ed ora, nei soli trentott'anni che corsero di questo secolo XIX, se n'ebbero già più di settanta, ossia altrettante a un dipresso quante se ne fecero nei trecento anni precorsi?

Nello snervato e torpido seicento un'edizione bastava al consumo di trentatré anni, ossia d'un'intera generazione; nel secolo seguente il bisogno era più di dieci volte maggiore; l'età vivente omai ne divora una ristampa in sei mesi. Né ciò sarà forse tutto. L'Italia versa ogni anno entro le scuole di belle lettere una nuova leva di forse diecirnila giovinetti. Ove ognun di loro si munisse d'un Dante, per uso di tutta la vita, o almeno per apparato scolastico, se ne richiederebbero altre più migliaia di copie ogni anno. E non poniamo in conto le edizioni eleganti e costose, che lo studente, fatto medico, fatto avvocato, pone in luogo del sudicio esemplare giovanile, e destina agli onori del marrocchino ed ai sonni della libreria virile.

Parrà irriverenza e barbarie parlar di Dante con questo gergo numerico. Eppure le ristampe non si farebbero, se non accorressero costanti i compratori. Perloché il numero di quelle edizioni segna certamente il favor publico e le propensioni di chi scrive ai nostri giorni; all'incirca come i gradi del termometro dinotano i tormenti dell'inverno e gli affanni dell'estate, o come i pollici del barometro annunciano di quanto un luogo si approssimi di livello alle alpi gelate o alle tepide aspergini del mare.

Fin da quando il buon Muratori risvegliò la istoria del medio evo, e il Varano gettò fra le corrotte academie la prima imitazione dantesca, l'Italia, infervorata a ristaurare le memorie del suo risurgimento, volle riannodare la catena della letteratura sociale, e da trastullo di scioperati tornarla strumento di vita civile. Gli scrittori non furono paghi ornai di far millanteria d'ingegno in un crocchio d'iniziati; ma si diedero maestri delle moltitudini e nunci dell'utile e del vero. Parini e Gozzi sbeffarono l'inerzia adagiata nei cocchi lombardi e nelle gondole veneziane; Beccaria, Verri, Bandini, Filangeri scrutarono le instituzioni civili; Baretti sgridò gl'Italiani, perché non erano Inglesi; e Alfieri pensò rifarli da capo, perché non erano più Romani. Egli allora li volle virili, torvi, frementi; altri cominciò poco di poi a volerli tutti eterei, melliflui e sospirosi; non manca chi li spera fra poco tutti neri di carbon fossile e di ferraccia. E allora e poi, gli scrittori si elessero fini arditi, altissimi, forse impossibili, come se la nazione fosse una materia prima, senza opinioni, senza antecedenze, senza volontà: un frusto di ceralacca, che dovesse prendere ogni impronta ad arbitrio degli scriventi.

Ma intanto tutta la nostra letteratura è trasmutata. Non più il culto del Petrarca e del Boccaccio; non più il terrore dei Salviati e dei Salvini, non più il dolciume degli Arcadi, o il grasso bollente dell'Aretino. La nostra gioventù si è appassionata d'Omero nella virile versione del Monti; recita a mente d'Ugolino e d'Uberti; vanta Otello e Macbeto, Fausto e Ivanhoe; e sopratutto si vanta ammiratrice alla grandiloquenza dei poeti ebrei e alle tetre memorie del medio evo; nausea nelle lettere ciò ch'è meramente letterario, sdegna la lode dei dotti, affetta disprezzo delle forme. La somma ambizione d'uno scrittore novello è d'aver favore dagl'indotti, e secondo le viste della propria scuola, cacciar bene inanzi, o ricacciar bene indietro, la marmaglià dei minori viventi.

La cosa non è facile; perché i destini delle nazioni si sono complicati fra loro inestricabilmente; e le religioni, le guerre, le finanze, le lettere, le mode, le carte publiche, le società industri, fecero di tutta l'Europa un solo vortice, che mena gli spirti colla sua rapina.

Non v'è ormai popolo che abbia in sé solo la ragione del suo moto e della vita civile, e che possa dirsi libero signore delle sue opinioni, e nemmeno delle forme di cui l'opinione si veste. E mal sui se lo fosse, perché in pochi anni si troverebbe fantoccio e mummia, a trastullo dei popoli viventi.

Perloché quando vediamo gli scrittori gonfiar pretese di missioni e d'apostolato, ne sembra vedere sul lago di Zurigo i poveri peregrini d'Einsiedeln, messi dai maligni barcaiuoli a tirare una corda per aiutare alla spinta dei rematori. Lo scrittore s'illude degli sforzi che fa tirando una nave la quale, cacciata inanzi da ben altre forze trae seco verso regioni ch'egli non sa. Ma in questi vani tentativi d'Alfieri che rivuole i suoi Romani, di Béranger che si consuma d'amore per la Vecchia Guardia, di Chateaubriand che vuol trarre dai sepolcri quell'antica baronia francese, che viveva a credere e battagliare, v'è una generosa semplicità che conforta l'animo. Piace raffrontare queste nobili illusioni al rozzo senso commune di coloro, che camminano carponi verso i carnali e bassi fini della vita effettiva. Ma solo chi crede che i fiori facciano la primavera, e non la primavera i fiori, può credere che i versi e le prose facciano le nazioni, e non siano meri frutti e indizi della vita politica e morale, e opera sopratutto di quella sorte che nel fondo dell'Inghilterra, in casa d'un macellaio, fa nascere il divino Shakespeare.

Dacché però la nostra letteratura ha dovuto per forza dei tempi assumere dignità di ministerio civile, e questa sola persuasione basta a conferirle decenza e dignità, era naturale ch'ella cercasse sopratutto ricongiungersi ad uno scrittore, che, oltre all'essere più grande e più antico, era più profondamente impresso di quella splendida persuasione che le lettere siano una irresistibile arme civile.

E per ciò che nel novero degli illustratori di Dante o dei coltivatori delle controversie dantesche si riscontrano i più illustri nomi del secolo. Pare che nessun bell'ingegno si rassegni a lasciar questa vita

senza legare all'Italia una nota istorica, uno schiarimento scientifico, una riforma almeno d'un punto e d'una virgola nel testo della Divina Comedia. È inutile rammentare Foscolo, Monti, Perticari, l'autore del Veltro Allegorico, e gli altri tutti, sacerdoti del Dio Dante; ai quali ora s'aggiunge l'autore d'una nuova Vita di Dante, il conte Cesare Balbo di Torino. Balbo, s'apprese al principio, ornai posto in piena luce, che, essendo l'Alighieri poeta civile, non lo si possa apprezzare né comprendere, senza riferirlo agli eventi ed alle persone fra cui visse, e verso cui volse gli odii e le speranze. Laonde questa Vita di Dante è in parte un memoriale delle vicende di quell'età sanguinosa, che vide il supplicio dei Templari e la balestra di Guglielmo Tell, che inalzò il patibolo di Corradino e lo vendicò nei Vespri di Palermo.

Chi dall'aquilino e arcigno profilo, dalle rugose labbra e dall'austero capuccio di Dante se lo imagina un'anima dura e inamabile, s'inganna a partito. Dante fu il vero cavaliere del medio evo; uno degli ultimi di quella stirpe romanzesca, che viveva fra i torneamenti e i duelli, e cantando di gloria e d'amore andava a morire nelle crociate. Nella crociata di Currado Imperatore era morto l'antenato Suo Cacciagnida, dopo avervi conquistato combattendo il cingolo di cavaliero. Dante viveva nella più culta e gentile città di quei tempi, quando veniva risurgendo l'arte musicale, e Cimabue e Giotto risuscitavano la pittura; poco dopo che i trovatori provenzali e i siciliani avevano ravvivata la poesia. Perciò la sua gioventù cavalleresca fu divisa fra le armi e le arti, e nulla ebbe della ferocia castellana.

In un tempo nel quale le famiglie erano sanguinose custodi dell'onor delle donne, e il dovere della vendetta si tramandava nei figli dei figli, l'amore vestiva le forme d'un'affettuosa venerazione. E Dante inamorato, nella prima adolescenza, di donna bellissima che mori giovane, ammirato e additato dalle donzelle di Firenze come il più devoto e puro degli amatori, vivendo con cantori e poeti, fra giostre e armeggiamenti,. pronto a cavallo nella prima fronte delle battaglie (e così vorremmo che alcuno una volta il dipingesse), non aveva grido di poeta se non per i suoi versi d'amore. Questa tempra appassionata dell'animo suo fu ben dipinta dal Balbo in un capitolo ch'egli intitolò d'amore e poesia; poiché queste due flalane arsero sempre eguali nell'anima di Dante, e si spensero solo colla vita.

Se tutto il libro del Balbo fosse, dettato con siffatta libertà e scioltezza, sarebbe stato più breve e più bello; ma egli, pur proponendosi di non volerlo, urtò in un medesimo scoglio con tutti quelli che scrissero di Dante. Volle seguirlo passo passo nei diecinove anni del suo esilio, quando da ministro dello stato e d'ambasciatore al Pontefice, trovatosi d'improviso sbandito, spogliato dei beni, condaunato per calunnia di concussioni ad essere arso vivo, ebbe a ripararsi qua e là nelle castella dei baroni ghibellini, in mezzo a continui pericoli di tradimenti e di prigionia, meditando un libro che redimesse la sua parte dalla taccia d'empietà e dalle maledizioni che gli si fulminavano ogni anno sugli altari delle città guelfe, e rivolgesse l'odio e l'infamia sul capo de' suoi persecutori. Ora, nessuna menzione mal fece Dante di questo arcano suo Libro negli altri suoi scritti; molto meno poi notò i luoghi e i tempi dove ne avesse composto le singole parti o avesse osato divulgarle. E siccome poneva d'aver fatto la sua visione nell'anno 1300, così v'andava innestando, a modo di predizione, tutti i grandi fatti che sopravennero di poi, fino all'anno della sua norte. Laonde, nelle prime pagine della Divina Comedia quasi tutti i commentatori vedono le lodi d'un principe di Verona, che divenne poi capitano formidabile della lega ghibellina, e all'ombra quale il Libro poté venire alla luce del giorno. Ma nel 1300 il gran capitano era fanciullo di nove anni; ed era giovinetto di diecisette quando, al credere del Balbo, quella cantica era già compiuta e data fuori. Questi minuti scrutinii di luoghi e di tempi sarebbero sempre mutili e tediosi, anche quando non fossero fallaci; e perciò la lettura dei due volumi del Balbo, che sul principio e sulla fine scorre piacevole e vivace, va intorbidando e languendo nel mezzo dell'opera, e fa veramente desiderare che l'autore non si fosse messo in siffatte spine.

Pare eziandio ch'egli sia troppo corrivo a tollerare tutte le gloriole municipali, che additano a punto a punto l'anno e il mese, in cui Dante doveva essere stato ospite a Fonte Avellana, a Castel Colmolaro, a Cividale, a Paratico, a Tolmino, e in altri luoghi che forse non visitò mai, se non nell'itinerario del Troya. Come credere così leggerinente, che Dante scegliesse di far vacanza nei castelli d'un Torriano, parente di quel Napoleone che i ghibellini avevano fatto morire in una gabbia di ferro, e capo di quella fazione che aveva predato i beni e diroccata la casa di Dante e lo voleva arder vivo? Se non vi andò per avventura ambasciatore di qualche signore ghibellino, come credere che s'arrischiasse d'andarvi altrimenti, in una età di gabbie di ferro e di trabocchetti? Nessuno de' suoi parlò di questa sua gita e di questa ospitalità torriana, che, mirabilmente estorta a un nemico, sarebbe uno dei più splendidi trionfi della poesia, ma che agli altri ghibellini poteva parere un segnale di perfidia. Come credere che a Tolmino gli alpigiani slavi, che parlano l'idioma cragnolino, poco diverso da quello dei Croati e dei Cosacchi, venissero sì fattamente incantati ai versi di Dante, da tramandare ai loro posteri dopo cinquecento anni la memoria del sasso dove si era assiso, e dove componeva non so qual trattato della natura dei pesci? E la prova di questo sarebbe che in quelle Alpi vi sono «passi strettissimi», e giusta una cronica «si crede che Dante vi scrivesse alcune parti delle sue cantiche, per aver i luochi in esse descritti molta correspondenza con questi». Il che varrebbe altretanto a provare che Dante scrivesse le sue cantiche nei monti Pirenei.

Nel quinto o sesto anno dell'esilio suo, Dante recossi a Parigi, e v'attese a studii che tornavano necessarii a dar nervo scientifico all'opera sua, che doveva essere tutta piena di siffatti argomenti. Boccaccio, che gli visse assai vicino di tempi, dice solo che «passati i monti che dividono l'Italia dalla provincia di Gallia, COME POTÉ se n'andò a Parigi». Ma il Balbo a quei monti soggiunse: «cioè gli Apennini delle due riviere fino a Provenza». Ora gli Apennini non sono invero i «monti che dividono l'Italia dalla provincia di Gallia». E se Dante nomina qua e là nel suo poema tre o quattro luoghi delle marine di Liguria e di Provenza, chi può sapere se li abbia visti mai? o se li vide piuttosto nella gita che nel ritorno? o se non li avea visti prima, giacché i sepolcri di Arle si trovano nominati nell'inferno, che, al dir di Balbo, era già finito e publicato prima di quel viaggio? E sappiamo ch'egli soggiornò a lungo nei vicini feudi dei Malaspina, che si valsero di lui per ambasciatore; ed a quei tempi le loro squadre e quelle dei Fieschi loro congiunti correvano tutti quei monti, e assalivano Genova, e prendevano Parma.

Pure il Sig. Balbo afferma che «andando a Parigi ei NON POTÉ PASSAR ALTROVE che per Provenza, e molto probabilmente per la via antica, e nuova, e quasi sola, d'Avignone». Ma Genova ed Avignone erano nidi di guelfi caldissimi, mentre varie città e signorie di vassalli imperiali, potevano condurlo salvo fino al sommo delle Alpi. E il Balbo stesso per condur Dante in Lunigiana trovò che «NIUN'ALTRA VIA gli era quasi aperta in mezzo alle guelfe Ferrara e Bologna, se non per Mantova e Parma città ghibelline, ondeché NON SI PUÒ DUBITARE CHE PASSASSE PER ESSA?» Ma perché mai chi aveva strada aperta fra i guelfi di Genova e d'Avignone, non poteva averla fra i guelfi di Ferrara e di Bologna? Perché mai nell'un caso non poté Dante passar altrove che fra i guelfi, mentre nell'altro non si può dubitare che passasse altrove che fra ghibellini? Queste erano tutte sterili triche da saltarsi a piè pari, perché £suna luce ne riverbera sul cuore di Dante e sulla sua mente; e il conte Balbo saprà farne accorto sacrificio in una novella edizione, che senza dubbio verrà richiesta del suo libro.

Il dotto scrittore sembra lasciarsi trarre ad accogliere come opera di Dante ogm troppo misera e troppo fiacca inezia, che gli venisse gratuitarnente attribuita da eruditi senza tatto, parecchi secoli dopo la sua morte. Chi può credere frutto della più matura età del gran poeta una terzinaccia come questa?

Difendimi, Signor, da lo gran vermo,

e sanami; imperò ch'io non ho osso,

che conturbato possa omai star fermo.

 

In questi versi si vede una sconciatura di quella rapida e pittorica e fremebonda terzina:

Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,

le bocche aperse, e mostrocci le sanne.

Non avea membro che tenesse fermo.

E il tener fermo è ben altro modo che lo star fermo; e Dante non era così stremo di parole che, traducendo un salmo, potesse ripetere di sé stesso quelle voci che nell'Inferno aveva applicate a un cane, e potesse cader nel brutto equivoco di lagnarsi di non avere un osso.

Tutto ciò non accade perché al conte Balbo manchi gusto di poesia o delicatezza di sentire, ma per uno strano proposito di rappresentar Dante come Dante non fu. Il che proviene da spirito di parte, e da due supposti, nei quali non è facile convenire; il primo dei quali si è che il poema di Dante, perché dettato a lui da passioni civili e religiose, possa avere oggidi un'efficacia civile e religiosa che veramente non ebbe mai; e il secondo si è che le fazioni dell'età nostra possano riguardarsi come raffigurate in quelle del tempo di Dante.

È perciò che l'autore si affaccenda a provare, che Dante non intese dir male della corte di Roma, ma solo di quella d'Avignone, come quella che fosse dannosa all'Italia ed alla Chiesa. Ora Bonifacio, tanto bersagliato dalla Divina Comedia, era pur papa di Roma e nato in terra romana; e il soggiorno dei pontefici in uno od altro luogo non tolse mai nulla né aggiunse alla loro autorità.

Dante scrisse da ghibellino; e Balbo si protesta guelfo; il che davvero non aggiunge valore a ciò ch'egli può scrivere per chiarire il vero animo di Dante. Balbo vuole che la parte gueffa sia la parte nazionale in Italia; eppure nei vespri siciliani, che furono un fatto di nazione quant'altro mai, non si fece strage se non di guelfi.

Invero non si vede parte nazionale, dove l'una invoca Arrigo di Lussemburgo e l'altra Carlo di Francia, e tutta l'Italia vien corsa da Provenzali e Angioini e Svevi e Fiamminghi e Inglesi e Catalani e «Caorsini e Guaschi».

La mente si affatica a dipanare quella scarmigliata matassa che il tempo fece dei guelfi e dei ghibellini, quando vennero a intrecciarsi le rivalità marittime, le ingiurie confinali, li avvolgimenti dei trattati e delle leghe, li interessi delle famiglie, le ambizioni dei capitani e i casi delle battaglie. Troviamo ghibellina la più valorosa di. quelle republiche, Pisa; troviamo guelfi i Signori d' Este e molti baroni d'Apulia. Nondimeno a chi prende le cose dai loro principli e le corre d'un guardo generale, appar chiaro che tutta quella mischia proveniva dalla resistenza che i feudatarii delle provincie dovevano opporre al rinascente potere delle corporazioni cittadine. Erano due mondi diversi, due leggi, due vite; la società rurale e la società urbana, distese in lungo e in largo per tutta la penisola a combattersi e divorarsi; erano come una stoffa in cui la trama e l'orditura sono fili di diverso fiocco, e il più duro rode l'altro e logora sè stesso.

Ed ora in te non stanno senza guerra

li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode

di quei che un muro ed una fossa serra.

. . . . . . . . . . . . . .

Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura

de' tuoi gentili.

 

Romagnosi, nel suo volume sull'Incivilimento, notò che l'agricultura è il fondamento dell'economia, come la possidenza territoriale è il fondamento del potere; e che i municipli italiani nel loro risurgirnento cominciarono dal ramo industriale e mercantile per giungere al territoriale; e perciò ripigliarono l'incivilimento antico in ordine inverso. E v'ebbero a trovare gravissimi ostacoli, che non li lasciarono gettare le radici naturali e salde del civile ordinamento. Così Romagnosi; ma questa verità non fu vista da Sismondi, il quale non riguardò la caduta delle republiche comunali come una fusione dei due principii avversi, ma come una ricaduta della civiltà.

Tre elementi costituivano il principio ghibellino: beni feudali, unità imperiale di tutta l'Italia, e avversione alla Chiesa. I tre opposti elementi formavano il principio guelfo: beni mercantili, republiche municipali, e avversione all' imperio. I fondamenti erano questi; il resto era variazione fortuita e secondaria.

Ora come può il signor Balbo parlare di guelfi e ghibellini moderni? I tre elementi che costituivano quei principii si sono disciolti affatto e in sempiterno. La proprietà fondiaria non ha più natura feudale, né avversione al Pontefice, né dipendenza da altro potere civile che dello Stato entro cui vive. I grandi e gentili non vivono più nei feùdi; non hanno armi proprie; non hanno fortezze in campagna, né torri in città; né avanti ai tribunali dichiarano, a guisa di stranieri, di vivere secondo la legge salica o la legge longobarda. In ogni Stato una legge sola e un solo giudice attribuiscono i diritti; e una sola forza publica li sanziona. E quando il signor Balbo si chiama guelfo, anzi ci vuole in Italia tutti guelfi, siamo tentati di guardarlo attonito, come uno dei Sette Dormienti, che si sveglia a finire un discorso incominciato cinquecento anni fa. Il nome di guelfi suppone il riscontro dei ghibellini; il nome di guelfi non può mai convenire a una nazione, nella quale chiunque ha cento scudi vuoi divenir possidente; la quale si adagia quasi tutta nell'agricultura; e guarda le procellose meraviglie del commercio e dell'industria come cose accessorie, a cui vorrebbe partecipare soltanto quantum sufficit, e in via di decorazione e di moda. Se nel tempo dei guelfi la civiltà italiana fece troppo poco fondamento sull'agricultura, potrebbe dirsi che oggidì sia trascorsa all'opposta estremità, e ora mai sia davvero troppo lontana da quel vivere venturoso e intraprendente dei guelfi, che allevò Enrico Dandolo e Marco Polo e Colombo e Americo.

Dante, essendo possidente d'antica famiglia, studioso, guerriero, e per nulla trafficante, tuttoché nato in Firenze aborriva la mercatura e la banca, e sprezzava «la gente nuova»; sprezzava «i villani che venuti da Aguglione, da Signa e da Semifonte, dove il loro avolo andava alla cerca, s'erano, cambiando e mercando, levati ai subiti guadagni ed agli onori della città, della quale deturpavano i costumi». Quindi il suo cuore fu sempre per gli usi cavallereschi, pieni d'amore e cortesia; e affettò perfino di sprezzare ogni linguaggio di popolo, e lo stesso suo toscano, vantandosi di scrivere solo in quella lingua aulica purificata nelle corti e nelle università. Laonde quando fu magistrato di Firenze, quantunque professasse attenersi al giusto mezzo, che allora si chiamava la parte bianca, fu tenuto fautore dei Capitani ghibellini. E appena i caporioni neri giunsero a farlo bandire, egli si gettò affatto coi ghibellini, e scrisse il libro della Monarchia e la Visione, affinché i guelfi non avessero più vantaggio di diritto sacro né di profano. Perloché fu errore il dir guelfa l'educazione di Dante, e lo studiarsi di tornano gueffo prima della morte, e l'attribuirgli quella incondita versione dei salmi penitenziali, e farlo sepellire coll'abito di San Francesco; poiché ben si sa che i guelfi tentarono di tòrre il suo cadavere dal sepolcro e arderlo e disperderlo ai venti, come avevano arso la sua casa e rapito i suoi beni. Così correvano i tempi.

Il conte Balbo sembra aver paura di Dante, e riguardano come acceso di passioni contagiose e capaci di agitare la nostra età, ch'egli imagina piena di guelfi e ghibellini. E perciò sta intorno a Dante con mille ansiose precauzioni, come se volesse redigerlo in usum Delphini. Si faccia pure animo il conte Balbo; noi non abbiamo più signori ghibellini, che, ricinti dai roghi dell'inquisizione e attorniati da plebi infuriate a smantellare le loro torri, abbiano mestieri d'una Visione dei tre Mondi, la quale annunciata in vulgare al popolo, li mostri in commercio essi pure col cielo, e volga in loro pro i terrori della vita avvenire. Perloché né noi crediamo alle visioni di Dante, né ai decreti coi quali manda all'inferno i morti ed i vivi; né riguardiamo le invettive sue contro Firenze o contro Genova o contro i Pontefici d'Avignone e di Roma, se non come un capo d'arte. Noi ascoltiamo con quieta meravtglia quella maschia eloquenza, che sgorga improvisa dal mezzo d'una nazione novella e quasi balbettante, come riguardiamo con quieta meraviglia le lave fiammeggianti d'un Vesuvio dipinto. Perciò mettiamo pure i nostri giovani alla lettura di Dante; e Dante, rischiarato dalle semplici leggende di Dino Compagni e di Giovanni Villani, li introduca al gran tesoro istorico di Muratori. Così cresceranno accompagnando all'esempio della bella e viva forma il dominio della materia istorica; così non avremo tanti scrittori vacui del pensiero, prolissi e affettati della parola, pezzati di riboboli da piazza, antiquati, ineguali, esitanti.

Ma dacché siam caduti a far menzione della lingua, vogliamo notar due cose nelle quali il conte Balbo ci sembra discostarsi troppo dal vero. Egli dice che «abonda l'elemento germanico tanto più in ogni lingua, quanto più furono probabilmente numerose le schiatte nuove stanziate in ogni paese, e così più che nelle altre nella lingua inglese».

Prima di tutto, non in tutte le lingue romane si difiuse il principio germanico, perché, a cagion d'esempio, nella lingua valaca entrò quasi unicamente il principio slavo. Inoltre le lingue potrebbero assimigliarsi ai corpi, nei quali bisogna discernere le fibre vitali dalla linfa e dal polpaccio che le riempie. Nelle lingue romane questa tessitura rimase tutta latina; nella inglese rimase tutta germanica; perloché la differenza fra loro non è cosa d'un di più o d'un di meno, ma una differenza fondamentale e organica. E in ciò non ebbe influsso il numero delle schiatte straniere, perché un popolo radicale assimilò a poco a poco gli avventizii.

Avvenne bensì che i Tedeschi, e infinitamente più gli Inglesi assunsero molte voci latine senza mutare l'ordito delle loro lingue, come avvenne che gl'Italiani e i Francesi adottassero qualche dozzina di voci gotiche; ma non vi ebbe mai fusione negli elementi organici delle diverse favelle.

Tanto il latino, quanto il greco e il gotico, si decomposero nel dilatarsi, e nel divenire da idiomi di tribù lingue commerciali di vaste popolazioni. Si diradò quella selva lussureggiante di neutri, di passivi, di medii, d'ottativi, di duali. Il greco moderno non ha futuri, mentre l'antico ne aveva una dozzina per verbo, attivi, medii, passivi, participiali. Paragonate la poverissima grammatica tedesca alle dovizie della gotica; paragonate la inglese, la più semplice di tutte, alla madre anglosassone; la danese; sì gretta, alla pindarica breviloquenza dell'Edda. Quando si sconcerta il delicato congegno delle inflessioni grammaticali, il vulgo si confonde e le abbandona; le lingue non reggono alla libera trasposizione, e assumono. per necessità un ordine fisso, diretto o inverso, dove la posizione aiuta a stabilire il senso della parola, come le colonne delle cifre numeriche. Laonde il latino parlato si dové semplificare, nel propagarsi pei vasto occidente e nel divenir lingua mercantile di cento rozze popolazioni, dalle foci del Tago a quelle del Danubio. E in questo le tarde invasioni dei barbari, almeno in Italia e in Francia, lasciarono le cose, poco più poco meno, com'erano prima. Che importava qualche migliaio di Vandali o di Goti, sparsi per entro un imperio, dòve già da secoli erano a milloni i Celti, gli Iberi e gli Africani?

L'altra asserzione del conte Balbo si è che «nei dialetti italiani si osserva maggior mescolanza di parole e di desinenze tedesche quanto più essi sono settentrionali. Il meno mescolato e più latino è il sardo».

Il fatto torna contrario; poiché in nessuno dei nostri dialetti popolari si trovano tante voci gotiche quanto nella lingua scritta, ed anzi nella parte sua più poetica ed elevata. Le parole gotiche arpa, brando, usbergo, agguato, strale, dardo, schermo, desco, elmo, daga, stormo, tregua, sestio, smacco, gramo, foggia, spalto, e così via, sono pur tutte della lingua poetica, ben poche sono incorse nei dialetti e alcune sono appena intese dal vulgo. Esse appartengono alla lingua cavalleresca dei romanzi, e appaiono introdutte dal curiali di Carlomagno, o dai mercenari normanni che si posero qua e là per l'Italia, e vi acquistarono signorie; ma non vissero nelle piazze col popolo, né divennero patriarchi di numerose plebi; e si facevano ripetere quelle loro voci straniere nelle fiabe e nelle cantilene dei loro giullari, d'onde elle pervennero a romanzieri e poeti, e con loro si rimasero, non intese o non curate dai popoli.

I dialetti di Trento, di Verona, di Vicenza, di Padova, di Treviso, città poste sul passo dei Goti, degli Eruli e dei Longobardi, dovebbero, secondo il conte Balbo, esser quasi gotici, e radicalmente diversi da quello di Venezia, la quale non fu invasa mai. Al contrario, essi formano tutti la famiglia dei dialetti veneti, e non senza molto sottile attenzione, giungiamo a distinguerli dal dialetto proprio della città di Venezia; e ad ogni modo le loro desinenze sono cento volte meno tronche dei dialetti di Bologna e di Parma, che, invece di toccar le Alpi, toccano l'Apennino. Il dialetto veneto, il friulano, il lombardo, il ligure, il toscano, hanno fra loro una differenza radicale, che in nulla dipende dal settentrione o dal mezzodì; ma proviene dalla differenza delle popolazioni primitive, le quali non si sradicarono mai dal terreno nativo, né dopo i Romani né prima; e assumendo dal Romani il linguaggio latino, lo modificarono a seconda del loro anteriore idioma etrusco, o celtico, o veneto, o carnico, e della domestica lor abitudine di pronunciarlo. Le invasioni posteriori non introdussero in uno o in altro dialetto il minimo elemento che non s'introducesse egualmente in tutti, e prima ancora nella lingua scritta.

Il dialetto sardo, così diverso dal vicino còrso che si parla sul lembo boreale della isola stessa di Sardegna, si lega linguisticamente piuttosto allo spagnolo che all'italiano, dal quale si divide principalmente per quel suo distintivo di terminare i plurali in s alla maniera di tutta l'Europa occidentale. Un solo dialetto italiano in ciò gli assimiglia, ed è il friulano, il quale, secondo la dottrina signor Balbo, ne dovrebbe essere precisamente il più lontano di tutti. E solo il grigione, se potesse dirsi dialetto italiano, si dovrebbe aggiungere al friulano e al sardo; eppure vien parlato sull'altro pendio delle Alpi. Del resto alla Sardegna non mancarono invasioni straniere; anzi oltre ai Vandali e ai Goti del settentrione, v'ebbero dominio anche gli Arabi dai mezzodì; e solo un secolo addietro vi si faceva maggior uso della lingua spagnola che non dell'italiana, e la città d'Alghero vi parla tuttavia un dialetto spagnolo. Ben è strano che dopo cinquecento anni che Dante cominciò a trattare dei nostri dialetti, dobbiamo trovarci ancora oggidì in tanta oscurità su così fecondo argomento, e che in sì angusti e oscuri termini fra noi si chiuda ogni ragionamento intorno alle lingue.

Né le opinioni civili né le linguistiche sembrano il campo più favorevole al conte Balbo; ma, lo ripetiamo ancora, egli è un eloquente e delicato interprete ogni qualvolta si debbano svolgere quei gentili affetti, dai quali nasce veramente il valor vitale d'ogni bella poesia. E le cose che mise nel suo libro, e quelle che sembrò sollecito di velare, lo mostrano inteso sopratutto a conciliare a Dante gli studii della gioventù. Chi legge il suo libro non può non provare un senso di affezione e di pietà per la bell'anima e la dolorosa vita del grande Alighieri, e un desiderio di penetrare vie più colla mente nella notte di quella agitata età.