LIBRO SECONDO

 

CAPITOLO I

PER LA CADUTA E LA RIVOLTA DI ADAMO, TUTTO IL GENERE UMANO È STATO ASSERVITO ALLA MALEDIZIONE ED È DECADUTO DALLA PROPRIA ORIGINE; IL PROBLEMA DEL PECCATO ORIGINALE

 

1. Con ragione l'antico proverbio ha sempre tanto raccomandato all'uomo la conoscenza di se stesso. Se consideriamo vergognoso l'ignorare quanto concerne la vita umana, ancora più colpevole è la cattiva conoscenza di noi stessi. A causa di essa ci lasciamo guidare nelle cose necessarie da opinioni qualsiasi, ci inganniamo miseramente e rimaniamo del tutto accecati. Data la serietà di questo ammonimento dobbiamo dunque guardarci diligentemente dall'intenderlo male come è accaduto ad alcuni filosofi. Ammonendo infatti l'uomo a conoscere se stesso, lo inducono, nello stesso tempo, a considerare la sua dignità e la sua eccellenza e gli mostrano solo ciò che gli fornisce lo spunto per elevarsi in vana fiducia e per gonfiarsi di orgoglio.

Ora la conoscenza di noi stessi consiste, in primo luogo, nel considerare quanto abbiamo ricevuto nella creazione, come Dio si mostri generoso nel mantenere a sua buona volontà nei nostri riguardi, allo scopo di prendere in questo modo coscienza dell'eccellenza della nostra natura, qualora si fosse mantenuta ella sua integrità, e anche di pensare che non abbiamo nulla di ostro ma riceviamo gratuitamente tutto quello che Dio ci ha largito e dunque dipendiamo sempre da lui.

In secondo luogo deve apparire chiara la nostra misera condizione, sopravvenuta per la caduta di Adamo; e questo sentimento abbatta in noi ogni gloria e presunzione e ci umili schiacciandoci di vergogna. Dato che Dio ci ha formati fin dal principio a sua immagine (Ge. 1.27) per indirizzare il nostro spirito alla virtù e ad ogni bene, anzi alla meditazione della vita celeste, ci è utile conoscere che siamo dotati di ragione e intelligenza per tendere allo scopo propostoci della beata immortalità, preparataci dal cielo; onde la nobiltà di cui Dio ci ha rivestiti non sia annullata dalla nostra disattenzione e dalla nostra insensibilità.

Del resto non possiamo prendere coscienza di questa dignità primiera senza essere, d'altra parte, costretti a constatare il triste spettacolo della nostra deformità e miseria, decaduti come siamo dalla nostra origine nella persona di Adamo; da questa visione nasce l'odio e l'insoddisfazione di noi stessi, unito ad una autentica umiltà; e parimenti 5i accende un desiderio nuovo di cercare Dio per ritrovare in lui tutti i beni che abbiamo visto mancarci completamente.

2. Questo la verità di Dio ci ordina di cercare, esaminando noi stessi: una conoscenza che ci trattenga da ogni presunzione della nostra propria forza e ci spogli di ogni motivo di gloria per condurci all umiltà. Dobbiamo seguire questa norma se vogliamo raggiungere il fine di ben sentire e ben operare. So che è molto più gradevole per l'uomo essere condotto a riconoscere i propri motivi di compiacimento, di vanto, di lode, piuttosto che prendere coscienza della propria miseria e povertà con l'obbrobrio che deve coprirlo di vergogna. Non vi è nulla che lo spirito umano desideri maggiormente che essere lodato con parole zuccherate e blandizie. Di conseguenza quando sente lodare i suoi beni, è subito incline a credere tutto quello che si dice a suo favore. Non c'è da meravigliarsi che quasi tutti abbiano errato a questo proposito. Mossi da questo amore di se stessi, disordinato e cieco, gli uomini si convincono volentieri di non avere in se nulla che sia meritevole di disprezzo. Così, anche senza bisogno di incoraggiamenti esterni, accettano l'opinione vana che l'uomo è sufficiente a se stesso per vivere bene e felicemente. Quelli che vogliono essere più modesti concedono qualche cosa a Dio per non sembrare attribuire tutto a se stessi, ma fanno la spartizione in modo tale che la parte principale di gloria e di presunzione rimanga loro. L'uomo è talmente incline a blandire se stesso che nulla gli è più piacevole del veder solleticato il suo orgoglio da vani allettamenti. Di conseguenza chi ha più esaltato la eccellenza della natura umana, è stato sempre accolto con più favore.

Tuttavia questa dottrina (che insegna all'uomo ad aver fiducia in se stesso) non fa che ingannarlo, e ingannarlo in modo tale da condurre in rovina chiunque vi presta fede. Che vantaggio abbiamo a concepire una vana fiducia nella possibilità di deliberare, ordinare, tentare ed intraprendere quanto ci sembra essere buono, se poi siamo carenti sia nella retta intelligenza che nella capacità di realizzare? Essere viziati dall'origine, ripeto, e tuttavia perseverare, ostinatamente, fin quando sia tutto confuso. D'altronde non può avvenire altrimenti a quanti confidano di potere qualcosa con le proprie forze. Se qualcuno dunque ascolta questi dottori che ci distraggono, facendoci prendere in considerazione la nostra giustizia e la nostra capacità, non trarrà alcun vantaggio dalla conoscenza di se ma si estasierà in questa ignoranza perniciosissima.

3. Sebbene la verità di Dio si accordi, in questo, con l'opinione comune di tutti gli uomini nel riconoscere che la seconda parte della sapienza consiste nel conoscere se stessi, sussiste tuttavia un grande contrasto riguardo a tale conoscenza di se. Secondo l'opinione della carne sembra acquisito che l'uomo si conosca benissimo quando, confidandosi nel proprio intelletto e nelle proprie forze, riceve il coraggio di compiere il proprio dovere, e, rinunciando, a tutti i vizi, si sforza di fare ciò che è buono e onesto. Ma chi considera attentamente se stesso alla luce del giudizio di Dio, non trova nulla che possa invogliare il cuore a fiducia ottimistica; e più si esamina attentamente, più è abbattuto, fino ad essere completamente sfiduciato, non trovando nulla su cui poter impostare rettamente la propria vita

Dio non vuole tuttavia che dimentichiamo la nostra dignità originaria che egli aveva dato al nostro padre Adamo e questo ricordo deve stimolarci e spingerci a seguire l'onestà e la dirittura. Non possiamo infatti pensare alla nostra origine prima, né al fine per il quale siamo stati creati, senza che questa riflessione ci sia come un pungolo per stimolarci e invogliarci a meditare e a desiderare l'immortalità del regno di Dio. Lungi però dal gonfiare il nostro cuore, questa riflessione deve piuttosto condurre all'umiltà e alla modestia. Non siamo decaduti infatti da questa origine? Non siamo del tutto stornati dal fine per cui eravamo stati creati? Di sorta che non ci resta nulla se non gemere considerando la nostra misera condizione, e gemendo bramare la nostra dignità perduta.

Quando diciamo che l'uomo non deve vedere in se stesso nulla che lo esalti, intendiamo dire che non c'è nulla di cui possa inorgoglirsi. Perciò, con il vostro consenso, strutturiamo così la conoscenza che l'uomo deve avere di se stesso: in primo luogo consideri a qual fine è stato creato e dotato di grazie singolari, ricevute da Dio, e da questa considerazione sia incitato a meditare sulla vita futura e a desiderare di servire Dio. Valuti in séguito le proprie ricchezze o meglio la propria indigenza, che lo abbatterà nella confusione più profonda, come se fosse ridotto al nulla. La prima considerazione tende a fargli conoscere quale sia il proprio dovere e la propria funzione; la seconda a fargli conoscere in quale misura sia capace di svolgere il proprio compito. Parleremo dell'uno e dell'altro aspetto secondo l'ordine dell'argomentazione.

4. Dobbiamo ora considerare quale genere di peccato sia stata la caduta di Adamo, perché non si è trattato di un delitto trascurabile ma di un crimine detestabile che Dio ha così rigorosamente punito. Essa ha provocato e suscitato una vendetta orribile su tutto il genere umano.

L'opinione comunemente accettata, che Dio lo abbia punito a causa della sua golosità, è troppo puerile; come se la principale di tutte le virtù fosse l'astenersi dal mangiare una qualità di frutta, visto che da ogni lato era circondato da tutte le delizie che poteva desiderare!

Aveva, data la fecondità di allora, di che saziarsi ampiamente e di che soddisfare, data la varietà della creazione, tutti i suoi desideri.

Bisogna dunque cercare più in là: la proibizione di toccare l'albero della conoscenza del bene e del male rappresentava per lui come una prova di obbedienza con cui doveva mostrare di sottomettersi volentieri ai comandamenti di Dio. Il nome dell'albero mostra che il precetto aveva questo unico scopo: Adamo doveva accontentarsi della propria condizione senza elevarsi più in alto per cupidità folle ed eccessiva. Inoltre la promessa fattagli, che vivrebbe per sempre mangiando dell'albero della vita e, all'opposto, l'orribile minaccia che non appena avesse gustato il frutto della conoscenza del bene e del male morirebbe, dovevano servire a mettere alla prova ed esercitare la sua fede. Da qui è facile dedurre in qual modo abbia provocato l'ira di Dio contro di sé.

Sant'Agostino dice bene che l'orgoglio è stato il principio di tutti i mali, perché se l'ambizione non avesse trasportato l'uomo più in alto di quanto gli era lecito, avrebbe potuto rimanere nella propria condizione. Dobbiamo tuttavia cercare una definizione più completa di questa tentazione descritta da Mosè. Quando la donna, per l'astuzia del serpente, è stornata dalla parola di Dio all'infedeltà, già appare che la disobbedienza è stata l'inizio della rovina. San Paolo lo conferma dicendo che per la disobbedienza di un uomo siamo tutti perduti (Ro 5.19). Bisogna tuttavia notare anche che l'uomo si è sottratto alla sottomissione a Dio non solo perché è stato ingannato dagli allettamenti di Satana ma anche perché, disprezzando la verità, si è sviato nella menzogna. Difatti quando non si tiene conto della parola di Dio, si rovescia ogni rispetto dovutogli, perché la sua maestà non può sussistere tra noi né lo si può degnamente servire se non attenendosi alla sua parola. La mancanza di fiducia è stata dunque la radice della rivolta. Da essa sono procedute ambizione e orgoglio e ad esse si è congiunta l'ingratitudine, in quanto Adamo desiderando più di quanto gli era stato concesso, ha disprezzato la liberalità di Dio, dalla quale sarebbe stato maggiormente arricchito.

È stata certo mostruosa empietà da parte di colui che appena usciva dalla terra non accontentarsi di rassomigliare a Dio ma volere essergli uguale. Se l'apostasia o la rivolta, per cui l'uomo si sottrae alla superiorità del suo Creatore è un crimine esecrabile, soprattutto quando rigetta il giogo con audacia sfrontata, invano si cercherà di sminuire il peccato di Adamo. L'uomo e la donna non sono stati solamente apostati, ma hanno oltraggiosamente disonorato Dio, accettando la calunnia di Satana che accusava Dio di menzogna, di malvagità e di avarizia. In breve, la sfiducia ha aperto la porta all'ambizione, e l'ambizione è stata madre dell'arroganza e dell'orgoglio che hanno gettato Adamo ed Eva fuori della via, al seguito della propria cupidigia.

San Bernardo dice molto bene che la porta della salvezza è nelle nostre orecchie quando riceviamo l'Evangelo; così come sono state le finestre per cui è entrata la morte. Infatti Adamo non avrebbe mai osato ribellarsi alla suprema autorità di Dio se non avesse dubitato della sua parola; essa era una briglia efficace per moderare e frenare ogni cattivo desiderio di conoscere e ricordava non esservi nulla di meglio che agire bene, obbedendo al comandamento di Dio. Ma travolto dalle bestemmie del Diavolo, per quanto stava in lui, ha annullato tutta la gloria di Dio.

5. Come la vita spirituale di Adamo consisteva nell'essere e nel rimanere congiunto al suo Creatore, così la morte dell'anima sua è consistita nell'esserne separato. Né bisogna stupirsi che con la sua rivolta abbia rovinato tutta la sua discendenza, pervertendo tutto l'ordine di natura nel cielo e sulla terra."Tutte le creature gemono", dice san Paolo"essendo assoggettate alla corruzione e non per causa propria" (Ro 8.20-22). La causa deve senza dubbio essere cercata nel fatto che esse soffrono una parte della pena meritata dall'uomo: al suo servizio erano infatti state create.

Così la maledizione di Dio si è diffusa in alto e in basso e per tutte le regioni del mondo a causa della colpa di Adamo; non c'è dunque da meravigliarsi se essa si è propagata a tutta la sua posterità. L'immagine celeste è stata cancellata in lui e questa punizione non l'ha sostenuta da solo. Era stato dotato abbondantemente di sapienza, virtù, verità, santità e giustizia; al contrario lo hanno dominato queste pesti detestabili: accecamento,impotenza a fare il bene, impurità, vanità e ingiustizia, rimanendo avvolto e immerso in queste miserie con tutta la sua discendenza. E: la corruzione ereditaria che gli antichi hanno chiamato peccato originale, intendendo con la parola"peccato"una depravazione della natura, che prima era buona e pura.

Hanno sostenuto grandi polemiche su questo tema perché è contrario al senso comune considerare tutti colpevoli, a causa dell'errore di uno solo, e vedere così il peccato come una realtà comune. I più antichi dottori sembrano trattare questo argomento in modo più oscuro e sintetico di quanto sarebbe richiesto, per paura di provocare dispute del genere. Ma questa prudenza non ha potuto impedire che un eretico di nome Pelagio se ne sia venuto a sostenere la tesi assurda che Adamo, peccando, aveva fatto male solo a se stesso, senza nuocere ai suoi successori. Satana si è sforzato con questo tranello di rendere incurabile la malattia, nascondendola. Essendo Pelagio messo di fronte a esplicite testimonianze della Scrittura, secondo le quali il peccato era disceso dal primo uomo su tutta la sua posterità, argomentava cavillosamente che vi era disceso per imitazione e non per generazione. Per contro i santi dottori, e sant'Agostino più di tutti, insistevano nell'affermare che la nostra corruzione non deriva da una malvagità che verrebbe su di noi dal di fuori, attraverso l'esempio, ma che siamo posseduti da perversità fin nel ventre della madre. E questo non lo si può negare senza grande sfacciataggine. Chi avrà visto, attraverso gli scritti di sant'Agostino, che bestie erano i Pelagiani e i Celestini, senza vergogna alcuna, non si meraviglierà della loro temerarietà su questo punto. L'affermazione di Davide:"Sono stato generato nell'iniquità e mia madre mi ha concepito nel peccato" (Sl. 51.5) è indubitabile. Non accusa le iniquità dei propri genitori ma, per meglio glorificare la bontà di Dio nei suoi confronti, indica nella stessa nascita l'origine della propria perversità. Questo non è peculiare a Davide; ne deriva che il suo esempio mostra la condizione universale di tutti gli uomini. Noi tutti dunque, prodotti da semenza impura, nasciamo contaminati dall'infezione del peccato; e prima ancora di vedere la luce, di fronte a Dio siamo corrotti."Chi può trarre una cosa pura da una impura?"dice il libro di Giobbe (Gb. 14.4).

6. Vediamo così che la corruzione dei padri discende sui figli di generazione in generazione, di sorta che tutti, senza eccezioni, ne sono macchiati sin dall'origine. Non si trova l'inizio di questa degradazione se non risalendo al primo progenitore di tutti, come alla sorgente. Bisogna tener per certo che Adamo non è stato solo il padre della natura umana ma ne è anche radice o ceppo; di conseguenza nella corruzione di lui il genere umano è stato corrotto. L'Apostolo lo dimostra più chiaramente paragonandolo con Cristo:"Così come il peccato è entrato nell'universo tutto per mezzo di un solo uomo"egli dice"e attraverso il peccato la morte si è estesa a tutti gli uomini, dato che tutti hanno peccato; così similmente la giustizia e la vita ci sono restituite dalla grazia di Cristo" (Ro 5.12.18).

I Pelagiani diranno che il peccato è stato diffuso nel mondo per l'imitazione di Adamo? Questo significa che non possiamo trarre vantaggio dalla grazia di Cristo altrimenti che ricevendola come un esempio da seguire. Chi potrebbe tollerare questa bestemmia? Non c'è dubbio alcuno riguardo al fatto che la grazia di Cristo è nostra per comunicazione e che per essa riceviamo la vita; ne consegue ugualmente che l'una e l'altra sono andate perse in Adamo e le riacquistiamo in Cristo; che il peccato e la morte sono stati generati in noi da Adamo, nello stesso modo come sono aboliti da Cristo. Non è oscura la dichiarazione che molti sono giustificati dall'obbedienza di Cristo, così come erano stati costituiti peccatori per la disobbedienza di Adamo: come Adamo, coinvolgendoci nella sua rovina, è stato la causa della nostra perdizione, così similmente Cristo ci riconduce alla salvezza con la sua grazia. Non penso sia necessaria una più lunga dimostrazione.

Parimenti nella prima ai Corinzi, volendo confermare i credenti nella speranza della risurrezione, l'Apostolo afferma che in Cristo ricuperiamo la vita che avevamo persa in Adamo (1 Co. 15.22). Quando dichiara che siamo morti in Adamo, chiaramente mostra che siamo contagiati dal peccato di lui; la dannazione non giungerebbe a noi infatti se la colpa non ci toccasse. Ma la sua intenzione può essere ricavata ancor meglio dal secondo punto, dove afferma che la speranza di vita è restituita da Cristo. Ciò avviene, è chiaro, in questo modo: quando Gesù Cristo si comunica a noi per mettere in noi la forza della sua giustizia (come è detto in un altro passo) il suo Spirito ci è vita a causa della giustizia (Ro 8.10). Non si può dunque chiarire altrimenti l'affermazione che siamo morti in Adamo, se non dicendo che questi, peccando, non ha solo rovinato e distrutto se stesso, ma ha parimenti trascinato la nostra natura in una consimile perdizione. La colpa non è solo sua ma tocca anche noi, avendo contagiato tutta la sua progenie con la perversità in cui è caduto.

Infatti l'affermazione di san Paolo che tutti per natura sono figli d'ira (Ef. 2.3) non risulterebbe vera se tutti non fossero maledetti sin dal ventre della madre. Si può facilmente dedurre che parlando di natura, non la si intende quale è stata creata da Dio, ma quale è stata pervertita da Adamo. Non sarebbe giusto infatti considerare Dio quale autore della morte. Adamo si è dunque contagiato e infettato a tal punto che il contagio è disceso da lui su tutta la sua discendenza. Anche Gesù Cristo, il giudice davanti al quale dovremo rendere conto, intende chiaramente che tutti nasciamo malvagi e viziosi allorché dice: che ciò che è nato di carne è carne (Gv. 3.6). La porta della vita è dunque chiusa a tutti, fino a che non siano rigenerati.

7. Per comprendere tutto questo non è necessario invischiarsi nella deplorevole disputa che ha tormentato gli antichi dottori: se cioè l'anima del figlio proceda dalla sostanza dell'anima paterna, dato che il peccato originale risiede nell'anima. Accontentiamoci di sapere che il Signore aveva concesso ad Adamo le grazie e i doni che voleva conferire alla natura umana; che questi li ha persi non soltanto per se ma per noi tutti. Chi si preoccuperà dell'origine dell'anima, quando abbia appreso che Adamo aveva ricevuto i doni che ha perso, per noi non meno che per se, dato che Dio non glieli aveva dati come uomo singolo ma perché tutta la discendenza ne godesse con lui?

Non vi è alcuna assurdità: se egli è stato spogliato, la natura umana ne è stata privata; se egli è rimasto macchiato dal peccato, l'infezione ne è stata diffusa a noi tutti. Come da una radice marcia nascono solo tronchi marci che trasportano la loro infezione in tutti i rami e le foglie che producono, così i figli di Adamo sono stati contaminati attraverso il proprio padre e sono causa di infezione per tutti i loro successori. Il principio di corruzione era così fortemente radicato in Adamo, che si è diffuso dal padre ai figli con un flusso perpetuo. La corruzione infatti non ha la sua causa e il suo fondamento nella sostanza della carne o dell'anima, ma nel fatto che i doni commessi in deposito al primo uomo, per volontà di Dio, erano comuni a lui e ai suoi, nel conservarli o nel perderli.

È facilmente refutato il cavillo dei Pelagiani: essi affermano essere inverosimile che i bambini nati da genitori credenti ne ricevano corruzione e li considerano invece purificati dalla purezza di questi. Rispondiamo che i figli non discendono attraverso quella generazione spirituale che i servitori di Dio ricevono dallo Spirito Santo, ma attraverso la generazione carnale che viene da Adamo. Dice sant'Agostino:"Sia un incredulo che sarà ancora colpevole, sia un credente che sarà assolto, ambedue genereranno figli colpevoli perché li generano dalla propria natura viziosa"vero che Dio santifica i figli dei credenti a causa dei loro genitori, ma questo non in virtù della loro natura bensì della sua grazia. Si tratta dunque di una benedizione spirituale, che non impedisce alla maledizione precedente di sussistere universalmente nella natura umana poiché la condanna deriva dalla natura, ma il fatto che i bambini siano santificati deriva dalla grazia soprannaturale.

8. Dobbiamo ora dare una definizione del peccato originale per puntualizzare quanto esposto sin qui. Non ho l'intenzione di esaminare tutte le definizioni che ne sono state date; mi limiterò a offrirne una, che mi sembra essere conforme a verità. Diremo dunque che il peccato originale consiste in una corruzione le perversità ereditarie della nostra natura, che diffuse in tutte le parti dell'anima ci rendono, in primo luogo, meritevoli dell'ira di Dio, e in séguito producono in noi le opere definite dalla Scrittura: opere della carne. È proprio questo che san Paolo chiama spesso"peccato"senza aggiungere l'aggettivo: originale. Le opere che ne derivano: adulterio, dissolutezza, ladrocinio, odio, omicidio e gozzoviglia (Ga 5.19- 21) le chiama di conseguenza"frutti del peccato", sebbene queste opere siano comunemente definite"peccato"sia dalla Scrittura, sia dallo stesso san Paolo.

Dovremo considerare separatamente questi due punti. Siamo talmente corrotti in tutte le parti della nostra natura da dover essere giustamente condannati nel cospetto di quel Dio, al quale sono accette la giustizia, l'innocenza e la purezza. Né bisogna pensare che questa costrizione al peccato sia causata solamente dalla colpa altrui, come se rispondessimo del peccato del nostro progenitore senza essere responsabili di nulla. L'affermazione secondo cui in Adamo siamo imputati di fronte al giudizio di Dio non significa che siamo innocenti e che portiamo il peso del suo peccato senza aver meritato alcuna pena. È affermato invece che egli ci ha vincolati tutti perché la sua trasgressione ci ha tutti avviluppati nella confusione.

Tuttavia non dobbiamo intendere che ci abbia solo costituiti passibili di pena senza averci anche comunicato il peccato. In verità il peccato derivato da lui risiede in noi e giustamente la pena ci è dovuta. Per questo sant'Agostino, sebbene talvolta lo chiami"peccato da altro", per mostrare chiaramente che l'abbiamo come razza, tuttavia lo conferma essere proprio a ciascuno di noi. Anche l'Apostolo conferma che la morte è venuta su tutti gli uomini perché tutti hanno peccato (Ro 5.12); vale a dire che tutti sono avvolti nel peccato originale e sporcati dalle sue macchie.

Per questa ragione persino i bambini sono inclusi nella condanna, non solo per il peccato altrui, ma per il proprio. Sebbene infatti, non abbiano ancora prodotto i frutti della propria iniquità, ne hanno tuttavia la semenza nascosta in se stessi. E per di più la loro natura è una semenza di peccato: essa non può che dispiacere ed essere abominevole a Dio. Ne consegue che a buon diritto e correttamente questo male è considerato peccato di fronte a Dio. Senza colpa non saremmo colpiti da condanna.

L'altro punto da considerare è che questa perversità non è mai passiva in noi, ma genera continuamente nuovi frutti, vale a dire quelle opere della carne che abbiamo testé descritto; come una fornace ardente emette fiamma e scintille o una sorgente zampilla la sua acqua. Quanti dunque hanno valutato il peccato originale come carenza di giustizia originale inerente all'uomo, sebbene ne abbiano, in queste parole, inteso tutta la sostanza, non ne hanno tuttavia espresso tutta la forza. Infatti la nostra natura non è solamente vuota e priva di ogni bene, ma è talmente fertile in ogni genere di male da non poter rimanere passiva. Chi l'ha chiamata concupiscenza non ha adoperato una parola eccessiva, purché si aggiunga quanto molti non accettano, e cioè che tutte le parti dell'uomo, dall'intelletto alla volontà, dall'anima alla carne, sono corrotte e completamente pervase di questa concupiscenza; oppure, per farla più breve, che l'uomo di per se stesso non è che concupiscenza.

9. Per questo ho detto che da quando Adamo si è allontanato dalla fonte di giustizia, tutte le parti dell'anima sono state dominate dal peccato. Non è stato solo il suo appetito inferiore o la sua sensualità ad allettarlo al male, bensì questa maledetta empietà, di cui abbiamo parlato, che ha occupato la parte più alta ed eccellente del suo spirito: e l'orgoglio è penetrato fino nel profondo del cuore. i;: ragionamento misero e sciocco voler limitare la corruzione originata in questo modo, ai moti o appetiti chiamati"sensuali"e definirla"alimento di fuoco,"che alletta, muove e conduce la sensualità al peccato. In questo il Maestro delle Sentenze ha dimostrato ignoranza molta e grave. Cercando la sede di questo peccato, ha affermato che, secondo san Paolo, risiede nella carne; aggiungendovi la sua glossa secondo cui non e quivi in proprio ma vi appare più frequentemente. È: sciocco prendere questo termine"carne"nel significato di corpo, come se san Paolo opponendolo alla grazia dello Spirito Santo dalla quale siamo rigenerati, indicasse solo una parte dell'anima e non comprendesse tutta la nostra natura. Paolo stesso toglie ogni dubbio affermando che il peccato non risiede solamente in una parte, ma che non v'è nulla di puro e netto dal mortale marciume. Infatti argomentando sulla natura viziosa egli non condanna solamente gli appetiti apparenti, ma insiste soprattutto su questo punto: tutto l'intelletto è completamente asservito alla bestialità e alla cecità e il cuore dedito alla perversità. E tutto il terzo capitolo dei Romani non è che una descrizione del peccato originale.

Questo appare ancora meglio nella rigenerazione: lo Spirito che è opposto al vecchio uomo e alla carne non indica solamente la grazia per mezzo della quale la parte inferiore o sensuale dell'anima è corretta, ma indica una riforma totale di tutte le parti. Per cui san Paolo altrove non domanda solo di eliminare e annullare i desideri peccaminosi, ma vuole che siano rinnovati nello spirito del nostro intendimento (Ef. 4.23) , e in un altro passo, che siamo trasformati in novità di spirito (Ro 12.2). Ne segue che quanto c'è di più nobile e lodevole nelle nostre anime, non solamente è colpito e ferito, ma è completamente corrotto (anche se vi riluce qualche dignità) di sorta che non ha solamente bisogno di guarigione, ma deve rivestire una natura nuova.

Vedremo appresso come il peccato domini lo spirito e il cuore. Ho voluto qui solo brevemente illustrare come l'uomo sia travolto come da un diluvio, dalla testa fino ai piedi, di modo che non v'è in lui alcuna parte esente da peccato; e come di conseguenza, tutto ciò che da lui procede è a buon diritto condannato e imputato quale peccato. Come san Paolo dice, tutti gli affetti della carne sono contrari a Dio (Ro. 8.7) e pertanto conducono a morte.

10. Veniamo ad esaminare, ora, le tesi di quelli che osano attribuire a Dio la causa del proprio peccato, quando affermiamo che gli uomini sono peccatori per natura. Fingono perversamente di contemplare l'opera di Dio nelle proprie macchie, mentre la dovrebbero piuttosto cercare nella natura ricevuta da Adamo prima di essere corrotto. La nostra perdizione deriva dunque dalla colpevolezza della nostra carne e non da Dio, dato che siamo periti solamente per il fatto di essere decaduti dalla condizione primitiva dello stato di creazione.

Né serve replicare che Dio avrebbe potuto provvedere meglio alla nostra salvezza se avesse prevenuto la caduta di Adamo: questa obiezione, audace e temeraria, non deve aver posto nell'animo dell'uomo credente. Essa concerne inoltre la predestinazione di Dio, che tratteremo a suo tempo. Ricordiamoci comunque di attribuire sempre la nostra rovina alla corruzione della nostra natura e non alla natura che era stata data primieramente all'uomo, onde non accusiamo Dio, quasi che il nostro male provenga da lui. È vero che questa piaga mortale del peccato è radicata nella nostra natura; è però molto diverso affermare che essa è stata ferita fin dall'origine oppure è stata resa tale in séguito e dal di fuori. Ora è certo che questa ferita è stata inflitta dal peccato sopravvenuto. Non abbiamo dunque che da compiangere noi stessi. E la Scrittura lo nota esplicitamente, quando l'Ecclesiaste dice: "So che Dio aveva creato l'uomo buono ma egli si è fabbricato molte invenzioni malvagie" (Ecclesiaste 7.29). Ne deriva che bisogna imputare solo all'uomo la sua rovina, dato che aveva ricevuto una dirittura naturale dalla grazia di Dio e unicamente per la propria follia è inciampato nella vanità.

11. Diremo dunque che l'uomo è naturalmente corrotto nella perversità ma che questa perversità non è affatto naturale in lui. Neghiamo che appartenga alla natura: insistiamo nel dire che è una qualità sopravvenuta nell'uomo e non una proprietà della sua sostanza, radicata in lui fin dall'inizio. Pur tuttavia la chiamiamo "naturale" onde nessuno pensi che la si acquisisce per semplice abitudine o imitazione; essa ci pervade tutti fin dalla prima nascita.

E non parliamo così di testa nostra ché l'Apostolo per questo motivo ci chiama tutti: "eredi, per natura, dell'ira di Dio" (Ef. 2.3). Dio sarebbe corrucciato contro la più nobile delle sue creature, quando si compiace delle opere minime che ha creato? Egli è piuttosto adirato per la corruzione della sua opera che non per la sua opera stessa. Se dunque l'uomo a ragione è detto essere naturalmente abominevole a Dio, a buon diritto potremo dirlo naturalmente vizioso e malvagio. Così sant'Agostino non ha difficoltà, data la nostra natura corrotta, a definire peccati naturali quelli che regnano necessariamente sulla nostra carne quando ci manca la grazia di Dio. Questa distinzione refuta la folle fantasticheria dei Manichei che immaginando una perversità essenziale nell'uomo lo dicevano creato da altri che da Dio, allo scopo di non attribuire a Dio l'origine di alcun male.

 

 

CAPITOLO II

L'UOMO È ORA PRIVO DEL LIBERO ARBITRIO E MISEREVOLMENTE SOGGETTO A OGNI MALE

 

1. Abbiamo detto che la tirannia del peccato, avendo asservito il primo uomo, non solo si è estesa a tutti gli uomini ma ne possiede interamente le anime. Dobbiamo ora domandarci se, essendo caduti in questa cattività, siamo privati di ogni libertà e libero arbitrio o se invece ce ne sia rimasto qualche residuo e quale ne sia l'entità.

Ma la verità ci apparirà più chiaramente in questo problema se fin dal principio ci proporremo una meta verso cui orientare tutta la discussione. Eviteremo di cadere in errore se sapremo considerare i pericoli che ci minacciano da una parte e dall'altra. Quando infatti l'uomo si sa spogliato di ogni bene, ne prende immediatamente scusa per un atteggiamento di noncuranza gli si dice che da solo non è capace di fare il bene, non si dà perciò la pena di applicarvisi, come se non fosse affar suo. D'altra parte non gli si può concedere nulla senza che subito assuma atteggiamenti baldanzosi con fiducia vana e temeraria e insieme sottragga a Dio altrettanto onore.

Per non cadere in questi inconvenienti dovremo seguire questo giusto mezzo: l'uomo, pur essendo conscio di non aver nulla di buono in se stesso e di essere avvolto da miseria e necessità, comprenda però di dover aspirare al bene di cui è privo e alla libertà di cui è sprovvisto: sia anzi più vivamente pungolato e incitato a farlo che se gli facesse credere di essere in possesso della più grande virtù.

Non v'è chi non veda l'importanza di questo secondo punto: di scuotere l'uomo dal suo atteggiamento di negligenza e di pigrizia. Riguardo al primo punto (mostrargli la sua povertà) molti esitano a farlo più del dovuto. Non v'è dubbio che non bisogna togliere all'uomo nulla che gli appartenga, né attribuirgli meno di quanto abbia; ma è evidente l'utilità di spogliarlo di una gloria immotivata e falsa. Se non gli era lecito inorgoglirsi da se, quando la benevolenza di Dio lo aveva rivestito e adornato di grazie sovrane, tanto più gli è convenevole umiliarsi ora che la sua ingratitudine lo ha abbassato alla estrema ignominia, avendo perso l'eccellenza primitiva.

Per esprimermi più facilmente affermo che la Scrittura, quando l'uomo era esaltato al massimo grado di onore possibile, gli attribuisce solo ciò che è contenuto nell'affermazione: "è creato a immagine di Dio" (Ge. 1.27). Con questo essa indica che non era ricco per beni propri ma la sua beatitudine consisteva nell'essere compartecipe di Dio. Che gli resta ora, spogliato e privo di ogni gloria, se non riconoscere il suo Dio? Non ha saputo riconoscerne la benignità e la generosità quando abbondava delle ricchezze della sua grazia. Non avendolo glorificato in riconoscenza dei beni ricevuti, almeno lo glorifichi ora nella confessione della propria povertà.

Inoltre, mentre è utile per noi stessi spogliarci di ogni lode riguardo alla nostra propria sapienza e virtù, è necessario farlo anche per mantenere intatta la gloria di Dio; e chi ci attribuisce qualcosa oltre misura, bestemmia Dio e ci rovina. Quando ci si insegna a camminare con la nostra forza e virtù, è come volerci innalzare su di una canna che non può sostenerci ma si rompe e ci fa cadere. Anzi troppo onore diamo alle nostre forze paragonandole ad una canna! Tutto quello che gli uomini ne hanno immaginato e detto non è che fumo. Non per nulla sant'Agostino ripete sovente questa bella frase: "Quanti sostengono il libero arbitrio, lo demoliscono piuttosto che confermarlo". Queste considerazioni preliminari sono necessarie perché taluni non possono tollerare di veder distrutta e annichilita la forza dell'uomo onde edificare in lui quella di Dio. Essi giudicano questa argomentazione non solamente inutile ma molto pericolosa: ci accorgeremo invece che essa è molto utile, ancor più, è uno dei fondamenti della religione.

2. Abbiamo già detto che le facoltà dell'anima risiedono nell'intelletto e nel cuore: dobbiamo ora considerare quel che vi sia nell'uno e nell'altro. Di comune accordo i filosofi pensano che la ragione risieda nell'intelletto ed essa sia come una lampada per guidare tutte le decisioni, come una regina che dirige la volontà. La immaginano talmente ripiena della luce divina da poter discernere tra il bene e il male e talmente forte da poter rettamente comandare. Al contrario giudicano i sensi ignoranti e grossolani, incapaci di innalzarsi alla considerazione delle cose alte ed eccellenti ma legati sempre alla terra. L'appetito, se vuole obbedire alla ragione e non si lascia soggiogare dal senso, ha un moto naturale di ricerca del buono e dell'onesto e può così tenere il retto cammino. Se al contrario si sottomette alla servitù dei sensi, ne è corrotto e depravato e cade nell'intemperanza.

Secondo questa opinione dunque essendoci tra le facoltà dell'anima intelligenza e volontà, l'intelletto umano avrebbe in se, a loro avviso, la capacità di condurre l'uomo a vivere bene e felicemente, purché mantenga questa sua nobiltà e lasci operare la virtù, naturalmente radicata in lui. Tuttavia aggiungono giustamente esservi il movimento inferiore dei sensi che distrae e fuorvia nell'errore e nell'inganno: può però essere domato dalla ragione e poco a poco annullato. Pongono la volontà in posizione intermedia tra ragione e senso, avendo la libertà di ottemperare alla ragione quando le sembri bene, oppure di abbandonarsi al senso.

3. L'esperienza li ha però costretti talvolta a riconoscere quanto sia difficile per l'uomo stabilire in se stesso il dominio della ragione: essendo talvolta sollecitato dagli allettamenti del piacere, talvolta ingannato dalla esperienza di falsi beni, talvolta agitato da affetti sfrenati che come corde, secondo l'espressione di Platone, lo tirano e lo scuotono qua e là. Per questo motivo Cicerone dice che abbiamo solamente delle piccole scintille di bene, accese dalla natura nel nostro spirito, facilmente spente da false opinioni e da cattivi costumi. Inoltre essi riconoscono che quando queste infermità hanno preso possesso del nostro spirito vi regnano in modo tale che non è facile limitarle; e non esitano a paragonarle a cavalli ribelli. Come un cavallo ribelle, essi dicono, gettato a terra il conduttore s'impenna sfrenatamente, così l'anima che ha respinto la ragione e si è data alla concupiscenza non ha più freno.

D'altra parte ritengono che tanto le virtù quanto i vizi siano in nostro potere. Infatti se non fosse in nostro potere scegliere tra fare il bene o il male, essi dicono, non potremmo neanche scegliere di astenercene. Al contrario, se siamo liberi di astenercene, lo siamo anche di compierlo. Tutto quel che facciamo, lo facciamo dunque per libera scelta e ci asteniamo liberamente da quanto ci asteniamo: ne consegue che è in nostro potere abbandonare il bene che facciamo e anche il male, e similmente tornare a fare quel che abbiamo cessato di fare.

In realtà alcuni di loro sono giunti alla follia di vantarsi di ricevere sì la vita dalla generosità di Dio, ma di vivere bene grazie a se stessi. Cicerone si è spinto a dire, nella persona di Cotta: dato che ciascuno si procura la propria virtù, nessun saggio ne ha mai reso grazie a Dio. "Infatti" egli dice "siamo lodati per la virtù e ce ne gloriamo. Questo non avverrebbe se essa fosse un dono di Dio e non venisse da noi", successivamente: "È opinione di tutti che si debbano domandare a Dio i beni temporali ma che ciascuno debba ricercare in se la sapienza".

Questa è insomma l'opinione dei filosofi: la ragione posseduta dall'intelletto umano è sufficiente a guidarci e ad indicare il giusto cammino; la volontà che le è sottomessa è tentata e sollecitata dai sensi ad agire male; tuttavia, avendo la libera scelta, non può essere impedita di seguire interamente la ragione.

4. Quanto ai dottori della Chiesa cristiana, sebbene abbiano tutti riconosciuto che il peccato ha fortemente colpito la ragione dell'uomo e assoggettato la sua volontà a molte concupiscenze, tuttavia in maggioranza hanno seguito più del necessario i filosofi. Due sono, a mio giudizio, le ragioni che li hanno spinti in questa direzione. In primo luogo temevano che i filosofi avrebbero deriso la loro dottrina qualora avessero negato all'uomo la libertà di agire bene. In secondo luogo temevano che la carne, sempre pronta a rilassarsi, prendesse occasione per lasciarsi andare a trascurare il bene. Così per non offrire un insegnamento che contravvenisse alla comune opinione umana, hanno voluto trovare una via di mezzo tra la dottrina della Scrittura e quella dei filosofi.

Risulta tuttavia dalle loro parole che hanno avuto soprattutto presente la seconda esigenza: non raffreddare lo zelo umano per le buone opere. Crisostomo dice: "Dio ha messo il bene e il male a nostra disposizione, dandoci libero arbitrio per scegliere l'uno o l'altro; e non ci trae a se per costrizione ma ci riceve se andiamo volontariamente a lui": "Chi è malvagio può diventare buono, se vuole; e chi è buono si modifica e diventa malvagio; perché Dio ha dato alla nostra natura il libero arbitrio e non ci impone la necessità ma ci prescrive i rimedi perché li adoperiamo se ci sembra bene": "Come non possiamo compiere alcun bene senza essere aiutati dalla grazia di Dio, così se non contribuiremo per quanto sta in noi, la sua grazia non ci sarà data". Precedentemente aveva affermato che l'aiuto divino non è tutto, ma occorre anche il nostro apporto. Frequentemente afferma: "Facciamo quanto ci spetta e Dio supplirà al resto". Con questo concorda l'affermazione di san Girolamo: "Sta a noi di cominciare e a Dio di portare a termine; è nostro compito offrire quel che possiamo, è suo compito compiere quel che non possiamo".

Con queste espressioni hanno attribuito all'uomo maggiore capacità di quanto dovessero perché pensavano di poter risvegliare la nostra pigrizia con l'affermazione che il vivere bene dipende solo da noi. Vedremo in séguito se hanno avuto ragione di farlo. In realtà, per dire le cose come stanno, le parole che abbiamo citato risulteranno false.

Sebbene i dottori greci abbiano più degli altri, specialmente san Crisostomo, oltrepassato i limiti nel lodare le forze umane, tutti gli antichi Padri, però, eccetto sant'Agostino, sono così incostanti in questa materia e si esprimono in modo così impreciso e oscuro che non si può ricavare dai loro scritti una dottrina chiara e precisa.. Non ci dilungheremo dunque nel riferire in modo particolareggiato l'opinione di ciascuno, ma menzioneremo occasionalmente ciò che gli uni o gli altri hanno detto, man mano che lo richiederà la trattazione.

I teologi successivi, cercando di mettere in rilievo qualche sottigliezza in difesa delle capacità umane, sono caduti di male in peggio, finché hanno condotto l'umanità a pensare che l'uomo sia corrotto solo nella parte sensuale ma abbia la ragione integra e detenga quasi interamente la propria libertà. Ha continuato a passare di bocca in bocca l'affermazione di Agostino: i doni naturali dell'uomo si sono corrotti e quelli soprannaturali (concernenti cioè la vita celeste) gli sono stati completamente tolti. Tuttavia solo una minoranza ne ha inteso il senso. Per conto mio, se dovessi chiaramente esporre la corruzione della nostra natura, mi accontenterei di questa formulazione. Ma interessa soprattutto considerare attentamente quali facoltà restino all'uomo, quello che valga e che possa, macchiato com'è in tutte le sue parti e spogliato completamente di tutti i doni soprannaturali.

Tutti costoro dunque, pur vantandosi di essere discepoli di Gesù Cristo, si sono troppo accostati ai filosofi su questo punto. Infatti l'espressione libero arbitrio è rimasta in uso fra i Latini a significare l'integrità dell'uomo. I Greci non hanno avuto scrupolo di ricorrere ad un termine più presuntuoso per indicare la facoltà dell'uomo di disporre di se stesso.

Dato che tutti, fino al popolino, sono convinti di possedere il libero arbitrio e la maggioranza di quanti vogliono essere considerati saggi ignora l'estensione di questa libertà, dobbiamo in primo luogo esaminare il significato del termine per poi desumere dalla pura dottrina della Scrittura quali facoltà l'uomo abbia di fare il bene oppure il male.

Sebbene tutti adoperino il vocabolo, ben pochi lo definiscono. Sembra tuttavia che Origene abbia proposto una definizione accettata da tutti, ai suoi tempi, affermando trattarsi di una facoltà della ragione per discernere il bene dal male e della volontà per scegliere l'uno o l'altro. Sant'Agostino non se ne allontana molto considerandolo una facoltà della ragione e della volontà per mezzo della quale si sceglie il bene quando si è assistiti dalla grazia di Dio e il male quando questa manca. San Bernardo volendo esprimersi sottilmente è riuscito più oscuro definendolo un consenso per la libertà di volere che non può perdersi ed un giudizio immutabile della ragione. La definizione di Anselmo non è più chiara: trattasi di una podestà di conservare la rettitudine per se stessa.

Così il Maestro delle Sentenze e i dottori scolastici hanno accolto piuttosto la definizione di sant'Agostino che era più facile e non escludeva affatto la grazia di Dio, senza la quale manca alla volontà umana ogni potere, com'essi ben sapevano. Tuttavia vi aggiungono qualcosa di proprio, pensando di esprimere meglio o almeno di spiegare meglio le affermazioni altrui. In primo luogo riconoscono che il termine "arbitrio" deve riferirsi alla ragione il cui compito è di discernere tra il bene e il male; che l'aggettivo "libero" che vi si aggiunge, appartiene propriamente alla volontà che può essere volta in un senso o nell'altro. Dato che la libertà si addice propriamente alla volontà, Tommaso d'Aquino ritiene si possa considerare valida questa definizione: il libero arbitrio è una facoltà di scelta equidistante dall'intelligenza e la volontà ma tuttavia più vicina alla volontà.

Abbiamo visto che la forza del libero arbitrio consiste in una sintesi di ragione e volontà. Resta ora da vedere brevemente quanto si attribuisca all'una e quanto all'altra.

5. Generalmente le cose esterne, non appartenenti al regno di Dio, sono sottoposte alla decisione e alla scelta degli uomini; la vera giustizia viene riservata alla grazia spirituale di Dio ed alla rigenerazione del suo Spirito. Intende questo l'autore del libro Sulla vocazione dei Gentili, attribuito a sant'Ambrogio, affermando esservi tre tipi di volontà: chiama la prima "sensitiva", la seconda "animale", la terza "spirituale". Considerare le due prime a disposizione dell'uomo; la terza, opera dello Spirito Santo, vedremo in séguito se questo sia vero. Esaminiamo brevemente, ora, le dichiarazioni di altri al riguardo. Da qui deriva, anzitutto, la scarsa attenzione che gli scrittori, trattando il libero arbitrio, danno a tutte le opere esterne relative alla vita del corpo rivolgendo invece l'attenzione all'obbedienza e alla volontà di Dio. Riconosco che questo secondo problema è essenziale; ma nello stesso tempo affermo che non si può negligere l'altro e quando vi giungeremo spero di dimostrare chiaramente la mia tesi.

Vi è inoltre un'altra distinzione accettata dalle scuole di teologia, che elenca tre generi di libertà. La prima è la "libertà dalla necessità"; l'altra "dal peccato"; la terza "dalla miseria". Affermano che la prima è talmente radicata nell'uomo, per natura, da non potergli essere tolta; ammettono che le altre due sono state annullate dal peccato. Accolgo volentieri questa distinzione; essa però confonde "necessità" e "costrizione"; mostreremo a suo tempo trattarsi di due cose diverse.

6. Accettato questo, risulta chiaro che l'uomo non ha libero arbitrio per fare il bene se non aiutato dalla grazia di Dio, dalla grazia speciale data solamente agli eletti attraverso la rigenerazione. Rifiuto infatti la tesi di quegli esaltati i quali sostengono che essa è offerta a tutti indistintamente. Non è ancora evidente, tuttavia, se l'uomo sia del tutto privato della facoltà di agire bene oppure se gli rimanga ancora qualche residuo, sia pur piccolo e debole, insufficiente per fare alcunché senza la grazia di Dio, ma in grado di operare per parte propria se aiutato da questa.

Il Maestro delle Sentenze su questo punto afferma esservi una doppia grazia necessaria all'uomo per renderlo idoneo a bene operare. Definisce "operante" quella che ci spinge a volere efficacemente il bene, "cooperante" quella che segue la buona volontà con il suo aiuto. Quello che non mi convince in questa ripartizione è il fatto che, attribuendo alla grazia di Dio di farci desiderare il bene con efficacia, si presuppone che per nostra natura lo desideriamo in qualche modo, anche se il nostro desiderio non ha effetto. Si esprime in modo analogo san Bernardo asserendo essere opera di Dio ogni buona volontà; e tuttavia aggiungendo che l'uomo può desiderare la buona volontà per moto proprio. Ma il Maestro delle Sentenze ha interpretato male sant'Agostino, pur introducendo questa distinzione con il proposito di seguirlo. C'è inoltre nella seconda parte dell'affermazione una ambiguità che mi urta, per il fatto che ha generato una interpretazione perversa. Gli Scolastici hanno pensato: egli afferma che cooperiamo alla seconda grazia di Dio, dunque è in nostro potere di annullare la prima grazia offertaci respingendola, oppure di confermarla obbedendovi. Nella stessa persuasione l'autore dell'opera Sulla vocazione dei Gentili afferma che quanti hanno giudizio di ragione, sono liberi di allontanarsi dalla grazia e quando non se ne allontanano, è merito loro; di sorta che hanno qualche merito per aver fatto quanto poteva non essere fatto, se avessero voluto, sebbene non possa essere fatto senza la grazia cooperante di Dio.

Ho voluto rilevare questi due punti per inciso perché il lettore veda dove mi discosto dai dottori scolastici che hanno conservato una dottrina più completa di quella dei Sofisti venuti dopo; con questi la divergenza è maggiore dato che si sono allontanati di molto dalla purezza dei loro predecessori.

 Comunque sia, questa doppia partizione ci permetterà di intendere cosa li abbia spinti a concedere all'uomo il libero arbitrio. Infatti il Maestro delle Sentenze dichiara che attribuendo all'uomo il libero arbitrio non si intende che egli possa pensare o fare il bene come il male, ma solamente che egli non è soggetto a costrizione; questa libertà non è bloccata anche se noi siamo malvagi, servi del peccato e possiamo fare solamente il male.

7. Riconoscono dunque all'uomo il libero arbitrio non perché abbia libera scelta tra il bene e il male, ma perché fa quello che fa volontariamente e non per costrizione. Questo è esatto. È però ridicolo attribuire qualità sì grandiose ad una realtà così sta. Bella libertà per l'uomo il non essere costretto a servire il peccato, ma di essergli schiavo volontariamente al punto che la sua volontà sia prigioniera dei suoi legami! Io detesto le polemiche verbali che turbano inutilmente la Chiesa; ma sono d'avviso che si debbano evitare tutti i vocaboli assurdi e specialmente quelli che generano errori. Ora, quando si attribuisce all'uomo il libero arbitrio, tutti immediatamente pensano che egli dispone del proprio giudizio e della propria volontà, in grado di volgersi per capacità propria da una parte oppure dall'altra.

Questo malinteso si potrà evitare avvertendo bene il popolo del significato dell'espressione "libero arbitrio".

Penso al contrario che, data la nostra naturale inclinazione a seguire la falsità e la menzogna, trarremo più facilmente occasione di errore da una sola parola che illuminazione veritiera da un lungo commento che vi si aggiunga. E questo lo sperimentiamo più di quanto sia necessario, in questo caso. Infatti, dopo che il termine è stato inventato, lo si è accettato senza tenere conto della esegesi degli antichi, in modo assoluto; se ne è così tratto motivo per innalzarsi in folle orgoglio e per rovinarsi.

8. Anzi, se accettiamo l'autorità dei Padri che hanno fatto uso costante di questo termine, dobbiamo considerare come lo valutino, specie Agostino che non esita definirlo"servo". È vero che in alcuni casi polemizza contro quelli che negano il servo arbitrio, ma contemporaneamente dimostra che cosa intende quando dice: "Solo non si neghi il libero arbitrio per scusare il peccato". D'altra parte riconosce che la volontà dell'uomo non è libera senza lo Spirito di Dio, dato che è soggetta alle proprie concupiscenze che la tengono assoggettata e legata: dopo che la volontà è stata vinta dal vizio cui è sottomessa, la nostra natura ha perso la sua libertà: l'uomo usando male il libero arbitrio, lo ha perduto ed ha perduto se stesso: il libero arbitrio è in cattività e non può operare il bene: non sarà libero fino a che la grazia di Dio lo abbia liberato: la giustizia di Dio non si adempie quando la Legge ordina e l'uomo opera per forza propria, ma quando lo Spirito aiuta e la volontà dell'uomo, non libera di per se ma liberata da Dio, obbedisce. In un altro passo giustifica queste affermazioni dicendo che l'uomo aveva ricevuto alla creazione tutta la forza del libero arbitrio ma l'ha perduta a causa del peccato; e in un altro passo, dopo aver mostrato che il libero arbitrio è fondato sulla grazia di Dio, rimprovera aspramente quanti se l'attribuiscono senza la grazia: "Quegli sventurati "egli dice"si sono inorgogliti del libero arbitrio prima di essere liberati; si sono inorgogliti della propria forza ed erano stati liberati! Non considerano che nella parola "libero arbitrio" è significata una libertà. Ora dove è lo Spirito del Signore, quivi è la libertà (2 Co. 3.17). Se dunque sono servi del peccato, come si vantano di avere il libero arbitrio? Chi infatti è vinto, è soggetto a chi l'ha vinto. Se sono già liberi, perché se ne vantano come di un'opera propria? Sono liberi al punto da non voler essere servi di colui che dice: "Senza di me non potete nulla" (Gv. 15.5) ?".

Che dire? In un altro passo sembra voglia ironizzare sulla parola dicendo che v'è nell'uomo un arbitrio libero ma non liberato e che è libero dalla giustizia e servo del peccato. Ripete questa frase e la commenta nel primo libro a Bonifacio, al capo secondo, dicendo che l'uomo è libero dalla giustizia solo per volontà propria ma è libero dal peccato solo per la grazia del Salvatore. Chi mostra di considerare la libertà umana solo come emancipazione dalla giustizia, avendone respinto il giogo per servire il peccato, non deride in sostanza l'espressione "libero arbitrio"?

Così dunque se qualcuno adopera la parola comprendendola rettamente, da parte mia non ne farò una gran questione; ma vedo che non la si può adoperare senza grande pericolo e che sarebbe un gran vantaggio per la Chiesa se venisse abolita. Se qualcuno mi chiedesse il mio parere, gli direi di astenersi dall'usarla.

9. A qualcuno sembrerà che io mi sia messo nel torto affermando che tutti i dottori ecclesiastici, eccettuato sant'Agostino, hanno parlato in modo così ambiguo e contraddittorio di questo argomento che non se ne può ricavare una dottrina certa. Si potrà credere che io voglia svalutarli perché le loro tesi sono contrarie alle mie. Ma io non ho voluto far altro che avvertire semplicemente ed in buona fede i lettori, nel loro interesse, di come stiano le cose, onde non si aspettino più di quanto troveranno; rimarranno sempre nell'incertezza, dato che una volta i dottori insegnano a cercar rifugio nella sola grazia di Dio, spogliando l'uomo di ogni potere; un'altra volta gli attribuiscono qualche capacità o per lo meno sembrano disposti ad attribuirgliela.

Tuttavia non mi è difficile mostrare con alcune loro affermazioni che, nonostante qualche ambiguità nelle parole, in realtà non hanno tenuto alcun conto delle forze umane o almeno ne hanno avuto ben poca considerazione e hanno attribuito tutta la lode per le buone opere allo Spirito Santo. Non vuole significare proprio questo la frase di san Cipriano, spesso citata da sant'Agostino: "Non dobbiamo glorificarci di nulla perché non vi è alcun bene che sia nostro?". L'uomo viene completamente annientato per insegnargli a cercare tutto in Dio.

Nello stesso senso Eucherio, vescovo di Lione, dice con sant'Agostino che Cristo è l'albero della vita e chiunque gli tenderà la mano, vivrà: l'albero della conoscenza del bene e del male è il libero arbitrio e chiunque vorrà gustarne, morrà. Parimenti san Crisostomo dichiara che l'uomo non solo è peccatore per natura ma è intieramente peccato. Se non vi è nulla di buono in noi, se l'uomo dalla testa fino ai piedi non è che peccato, se non è neanche lecito sondare quanto valga il libero arbitrio, come sarà lecito dividere tra Dio e l'uomo la lode per le buone opere?

Potrei citare molte altre testimonianze dei Padri, simili a queste; ma perché nessuno possa accusarmi di avere scelto solo quelle che servono il mio scopo e tralasciato quelle che mi potevano nuocere, mi astengo dal farne una ulteriore elencazione. Tuttavia oso affermare che sebbene essi superino talvolta il limite esaltando il libero arbitrio, tendono sempre in definitiva a scoraggiare la fiducia dell'uomo nella sua propria virtù, per insegnargli che tutta la sua forza è in Dio solamente. Veniamo ora a considerare semplicemente e veracemente quale sia la natura dell'uomo.

10. Sono costretto a ripetere qui, da capo, quanto ho trattato al principio di questo libro, vale a dire che ha raggiunto un'ottima conoscenza di se chi si sente costernato ed abbattuto dal riconoscimento della propria calamità, povertà, nudità ed ignominia. Non si deve temere che l'uomo si umili troppo purché comprenda che deve trovare in Dio quanto di per se gli manca. Al contrario non può attribuirsi un granello di bene oltre la misura, senza rovinarsi in vana fiducia e rendersi colpevole di sacrilegio, perché usurpa la gloria di Dio. E in realtà ogni volta che sorge in noi questa brama di possedere qualche cosa di nostro, situato in noi più che in Dio, dobbiamo renderci conto che questo pensiero ci è presentato dallo stesso consigliere che ha indotto i nostri padri a voler essere simili a Dio, conoscendo il bene e il male (Ge 3.5). È dunque diabolica la parola che esalta l'uomo in se stesso e non dobbiamo ascoltarla; accetteremmo i consigli del nostro nemico.

È molto piacevole pensare di avere in noi tanta forza da poter essere soddisfatti di noi stessi: ma troppe affermazioni della Scrittura ci allontanano da questo vanto infondato. Eccone alcune: "Maledetto è colui che si confida nell'uomo e mette la sua forza nella carne" (Gr. 17.5);"Dio non prende piacere nella forza del cavallo, né nelle gambe dell'uomo forte ma pone il suo affetto in coloro che lo temono e riconoscono la sua bontà" (Sl. 147.10);"È lui che dà forza allo stanco e stimola chi manca di coraggio, scoraggia ed abbatte chi è nel fiore dell'età, porta alla decadenza i forti ma fortifica chi spera in lui", (Is. 40.29-31). Tutte queste citazioni hanno lo scopo di ammonire affinché nessuno si adagi nella buona opinione della propria forza, se vuol avere l'aiuto di quel Dio che resiste agli orgogliosi e fa grazia agli umili (Gm. 4.6).

A questo punto ricordiamoci di queste promesse: "Spargerò dell'acqua sulla terra assetata, innaffierò coi fiumi la terra secca": "Tutti voi che avete sete, venite attingere acqua!", (Is. 44.3; 55.1) e altre simili. Esse dimostrano che nessuno è ammesso a ricevere le benedizioni di Dio se non colpito ed abbattuto dal sentimento della propria miseria. E non bisogna dimenticare le altre, come la seguente di Isaia: "Non avrai più il sole per illuminarti di giorno né la luna di notte, ma il tuo Dio sarà la tua luce in perpetuo," (Is. 60.19). Certamente il Signore non toglie ai suoi servitori la luce del sole o della luna, ma, volendo essere il solo a manifestare la sua gloria in essi, sottrae la loro fiducia dalle cose che noi consideriamo le più eccellenti.

2. Per questo mi è sempre molto piaciuta l'affermazione di Crisostomo che il fondamento della nostra filosofia è l'umiltà; e ancora di più quella di sant'Agostino: "Demostene, oratore greco, richiesto quale fosse il primo precetto dell'eloquenza, rispose essere la buona pronuncia; interrogato sul secondo diede la stessa risposta e così per il terzo; così, disse, se mi interroghi sui precetti della religione cristiana ti risponderò che il primo, il secondo e il terzo sono l'umiltà". Per umiltà non intende che l'uomo, pensando avere qualche virtù, non se ne inorgoglisca, bensì che veramente senta non aver altro rifugio che nell'umiliarsi davanti a Dio. Così afferma in un altro luogo: "Nessuno si lusinghi; ognuno è un diavolo, tutto il bene che ha, lo ha da Dio. Che cos'hai da te stesso se non il peccato? Se vuoi prendere ciò che è tuo, prendi il peccato perché la giustizia appartiene a Dio". E: "Perché presumiamo tanto dalla forza della nostra natura? È desolata, abbattuta, dissipata, distrutta; essa ha motivo di confessione sincera e non di falsa difesa", : "Se qualcuno sa di non essere nulla di per se e di non aver sostegno in se, in lui le armi sono spezzate. Ora è necessario che tutte le armi dell'empietà siano spezzate, rotte e bruciate, che tu sia disarmato, non avendo in te alcun aiuto. Tanto più sei debole in te stesso, tanto meglio Dio ti riceve". Per ciò in un altro luogo, al Salmo settantesimo, ci vieta di ricordarci della nostra giustizia per riconoscere quella di Dio: la grazia di Dio è completa solo se riceviamo tutto da essa, dato che siamo malvagi di per noi stessi.

Non vantiamo dunque il nostro diritto verso Dio come se fossimo impoveriti da quanto attribuiamo a lui. La nostra umiltà significa il suo innalzamento, così la confessione della nostra umiltà ha sempre pronto il soccorso della sua misericordia. Non pretendo che l'uomo ceda a Dio il suo diritto senza esserne convinto e che non riconosca la propria capacità, se ne ha qualcuna, per essere ridotto all'umiltà; richiedo solo che abbandonando il folle amore di se stesso, la superbia e l'ambizione che lo accecano, si guardi allo specchio della Scrittura.

12. Come ho già detto, questa frase tratta da Agostino mi piace molto: i doni naturali sono stati corrotti nell'uomo dal peccato e quelli supernaturali sono stati del tutto annullati. I secondi sono rappresentati sia dalla purezza della fede che dall'integrità e la dirittura attinenti alla vita celeste e all'eterna felicità. L'uomo abbandonando il regno di Dio è stato privato dei doni spirituali di cui era adornato e protetto in vista della salvezza. Ne segue che è bandito dal regno di Dio e che tutti i beni della vita beata dell'anima sono spenti in lui, finché rigenerato dalla grazia dello Spirito Santo non li riacquisti: vale a dire la fede, l'amore per Dio, la carità verso il prossimo, il desiderio di vivere santamente e rettamente. Se queste cose ci sono restituite da Gesù Cristo, non si può pensare che appartengano alla nostra natura, dato che ci vengano dal di fuori. Di conseguenza se ne deve concludere che sono state abolite in noi.

Parimenti l'integrità dell'intelletto e la dirittura del cuore ci sono state tolte. Questa è la corruzione dei doni naturali. Sebbene ci resti qualche elemento di intelligenza e di giudizio con la volontà, tuttavia non possiamo dire che l'intelletto sia sano ed integro: esso è debole e avvolto da molte tenebre. La malizia e la ribellione della volontà sono abbastanza note. Dato che la ragione con la quale l'uomo discerne il bene dal male, comprende e giudica, è un dono naturale, essa non ha potuto essere spenta del tutto; ma in parte indebolita e in parte corrotta non è oggi che rovine.

In questo senso san Giovanni dice che la luce splende nelle tenebre ma che le tenebre non la ricevono (Gv. 1.5). E con questo esprime chiaramente due concetti: nella natura dell'uomo, anche se pervertita ed imbastardita, brillano ancora alcune fiammelle, a dimostrare che è un essere ragionevole e che differisce dalle bestie brute, essendo dotato di intelligenza; e tuttavia questa luce è soffocata da un'oscurità sì fitta d'ignoranza da non poter riuscire efficace. Parimenti la volontà, essendo inseparabile dalla natura dell'uomo, non è completamente perita ma è prigioniera ed ammanettata dalle malvagie concupiscenze, al punto da non poter desiderare alcun bene.

Questa definizione è completa e sufficiente, ma deve essere ancora spiegata più ampiamente. Onde l'ordine della nostra argomentazione proceda secondo la distinzione che abbiamo formulata dividendo l'anima umana in intelligenza e volontà, dobbiamo in primo luogo esaminare quale forza vi sia nell'intelligenza.

 Giudicarla accecata al punto da non poter conservare alcuna conoscenza delle cose, contrasterebbe non solo con la parola di Dio ma anche con l'esperienza comune. Riscontriamo infatti nello spirito umano un desiderio di indagare la verità, per la quale l'uomo non avrebbe alcun interesse se non ne avesse precedentemente gustato il sapore. l: dunque una scintilla di luce nello spirito umano questo amore naturale per la verità, mentre il disinteresse per essa da parte delle bestie brute ci rivela la loro ignoranza e la mancanza di qualsiasi senso di ragione. Questo desiderio però, così com'è, vien meno prima di aver corso, perché scade nella futilità. La mente umana a causa della sua ignoranza, non può seguire una via sicura nella ricerca della verità ma devia in diversi errori e, come un cieco che brancola nelle tenebre, urta qua e là fino a smarrirsi completamente. Proprio da questa ricerca della verità risulta quanto sia inadatta ed incapace a indagarla e a trovarla.

Vi è un altro grave errore: l'intelligenza non discerne spesso a quale oggetto debba applicarsi. Si tormenta allora con folle curiosità e cerca cose superflue o di nessun valore. E disprezza le cose necessarie oppure, invece di considerarle, dà loro una occhiata soltanto. Ma quasi mai vi applica un'attenzione seria. E di questo errore tutti gli scrittori pagani si dolgono; tuttavia ne sono tutti vittime. Per questo motivo Salomone nell'Ecclesiaste dopo aver enumerato tutte le cose in cui gli uomini si compiacciono e nelle quali pensano essere savi, le definisce alla fine vane e frivole.

13. Quando tuttavia l'intelletto umano si impegna in qualche ricerca, non lavora invano, ma ne trae qualche frutto: specialmente quando si volge alle realtà inferiori. Anzi, non è così stupido da non gustare anche qualcosa delle cose superiori, sebbene le cerchi con negligenza. Ma non ha uguale capacità nei riguardi delle prime o delle seconde. Quando vuole innalzarsi al di sopra della vita presente allora specialmente è messo di fronte alla propria debolezza.

Per intendere meglio dunque che punto possa raggiungere in ogni cosa, adopreremo questa distinzione: l'intelligenza delle cose terrene è diversa da quella delle cose celesti. Definisco cose terresti quelle che non concernono Dio o il suo Regno né la vera giustizia o l'immortalità della vita futura, ma sono in relazione con la vita presente e contenute nei limiti di questa. Cose celesti, la pura conoscenza di Dio, la norma e il senso della vera giustizia e i misteri del Regno celeste.

Nella prima categoria sono incluse la dottrina politica, il modo di ben governare la propria casa, le arti meccaniche, la filosofia e tutte le discipline chiamate liberali. Alla seconda si riferisce la conoscenza di Dio e della sua volontà e la regola di conformare la nostra vita a questa conoscenza. Riguardo alla prima categoria, dobbiamo affermare quanto segue: l'uomo essendo di natura socievole, tende per inclinazione naturale a costituire e conservare una vita socievole; una qualche idea generale di onestà e di ordine civile risulta impressa nell'animo di ogni uomo. Di conseguenza non c'è nessuno che neghi che ogni assemblea debba essere regolata da qualche legge e che qualche principio di questa legge sia contenuto nella mente di tutti. Di qui il consenso dei popoli, come dei singoli nell'accettare le leggi, essendo presente in tutti un seme che deriva dalla natura, senza maestro o legislatore.

 Questo non è contraddetto dai dissensi e dalle lotte che sopravvengono improvvisi. Gli uni vorrebbero distruggere tutte le leggi, rovesciare ogni morale, abolire ogni giustizia per governarsi secondo la propria cupidigia, come i ladroni e i briganti. Altri (e questo avviene più spesso) considerano iniquo quanto un legislatore stabilisce come buono e giusto, e giudicano buono quanto egli proibisce come malvagio. I primi non odiano le leggi perché ignorano che esse siano buone e sante; ma travolti e trasportati dalla propria cupidigia come da una furia, combattono contro la ragione, e quanto approvano con il loro intelletto, lo odiano nel loro cuore in cui regna la malvagità. I secondi non differiscono talmente gli uni dagli altri e hanno anch'essi quella percezione della rettitudine di cui abbiamo parlato. Essi non si accordano nel riconoscere quali leggi siano migliori: è segno che consentono su un qualche concetto di rettitudine. P: evidente, in questo caso, la debolezza dell'intelligenza umana che pur pensando di seguire la via giusta, zoppica ed inciampa.

Questo fatto è comunque indubbio: in tutti gli uomini esiste un germe di coscienza politica: il che conferma che nessuno è privo della luce di ragione per quanto concerne il governo della vita presente.

14. L'abilità che abbiamo nell'apprendere le arti meccaniche e quelle liberali, mostra esservi qualche capacità a questo riguardo nell'intelletto umano. Sebbene infatti, ciascuno non sia adatto né capace di apprenderle tutte, tuttavia è segno sufficiente che la mente umana non è priva di capacità a questo proposito, dato che non c'è quasi nessuno che non abbia la capacità di servirsene. Anzi, non c'è solamente la capacità e la facilità ad apprenderle, ma vediamo che ciascuno, nella sua arte, spesso inventa qualcosa di nuovo, oppure aumenta e perfeziona quello che ha appreso dagli altri. Platone si è sbagliato credendo che questo apprendimento non fosse che un ricordo di quello che l'anima sapeva prima di essere messa nel corpo, tuttavia la ragione ci costringe a riconoscere che vi è un qualche principio di queste cose impresso nell'ingegno umano.

Questi esempi ci mostrano esservi una facoltà di apprendimento razionale impressa naturalmente in tutti gli uomini; e tuttavia questo è talmente universale che ciascuno per parte sua, nella sua intelligenza, deve riconoscervi una grazia speciale di Dio. Egli ci conduce a questo riconoscimento creando gli insensati e i pazzi, che ci presenta come uno specchio dell'eccellenza che l'anima dell'uomo raggiungerebbe se non fosse rischiarata dalla sua luce! Luce naturale in tutti, in modo tale però da rappresentare un beneficio gratuito della sua generosità verso ciascuno.

L'inventiva nel campo delle arti, le tecniche nell'insegnarle, la struttura organica della dottrina, la conoscenza singolare ed eccellente di queste scienze, essendo appannaggio di poche persone, non sono prove sicure dell'ingegnosità naturale degli uomini; dato tuttavia che sono comuni ai buoni ed ai malvagi possiamo includerle tra le grazie naturali.

15. Quando vediamo risplendere nei libri degli scrittori pagani questa mirabile luce di verità, dobbiamo comprendere che la natura dell'uomo, pur essendo decaduta dalla sua integrità e profondamente corrotta, non cessa peraltro di essere adornata di molti doni divini. Se riconosciamo lo Spirito di Dio quale unica sorgente di verità, non disprezzeremo la verità dovunque essa appaia, per non recare ingiuria allo Spirito di Dio: i doni dello Spirito non possono essere vilipesi infatti, senza che risulti anche disprezzato e svilito questo Spirito.

 Negheremo agli antichi giureconsulti lucida chiarezza nel costituire un ordine di governo saggio ed equo? Diremo che i filosofi sono stati ciechi, essi che hanno considerato sì diligentemente i segreti della natura e ne hanno scritto con tanta arte? Diremo che chi ci ha insegnato l'arte della discussione, vale a dire il modo di parlare secondo ragione, non avesse alcuna intuizione? Diremo insensato chi ha inventato la medicina? Considereremo le altre discipline come follie? Al contrario: non possiamo leggere i libri scritti su tutti questi argomenti senza rimanerne meravigliati. E siamo meravigliati perché siamo costretti a riconoscere la sapienza ivi contenuta. Ma potremmo considerare qualcosa eccellente e lodevole senza anche riconoscere che proviene da Dio? Saremmo troppo ingrati se lo facessimo: mentre non lo sono stati i poeti pagani che hanno riconosciuto essere doni di Dio la filosofia, le leggi, la medicina e le altre buone arti. Se Cl. solo aiuto della natura furono così perspicaci nella intelligenza delle cose mondane ed inferiori, il loro esempio deve mostrarci quante grazie il Signore ha lasciato alla natura umana dopo che essa è stata spogliata del bene supremo.

16. Non bisogna tuttavia, dimenticare che tutte queste grazie sono doni dello Spirito di Dio, il quale li distribuisce a chi vuole, per il bene comune del genere umano. Se la scienza e l'arte sono state date espressamente dallo Spirito di Dio a quelli che costruivano il tabernacolo nel deserto (Es. 31.2; 35.31) non c'è da meravigliarsi se dico che la conoscenza delle cose principali della vita umana ci è comunicata dallo Spirito di Dio.

Se qualcuno obbietta: Che ha da fare lo Spirito di Dio con gli iniqui che sono del tutto estranei a Dio?, rispondo che l'obbiezione non è valida. Quando è detto che lo Spirito abita solamente negli uomini fedeli, si intende lo Spirito di santificazione, per il quale siamo consacrati a Dio per essere suoi templi. Tuttavia Dio non cessa di riempire, guidare, vivificare ogni creatura con la forza di questo stesso Spirito; e compie questo, secondo le caratteristiche attribuite nella creazione. Se dunque il Signore ha voluto che gli iniqui e gli increduli ci aiutino a comprendere la fisica, la dialettica e le altre discipline, dobbiamo servirci del loro aiuto, nel timore che la nostra negligenza sia punita se sprezziamo i doni di Dio là dove ci vengono offerti.

Nessuno pensi tuttavia che l'uomo debba rallegrarsi troppo perché gli concediamo così grande capacità di comprendere le cose inferiori contenute In questo mondo corruttibile. Dobbiamo nel contempo notare infatti che questa facoltà di intendere e la comprensione che ne segue, sono cosa frivola e insignificante di fronte a Dio se non hanno un fermo fondamento di verità. La citata affermazione di sant'Agostino: le grazie concesse all'uomo alla creazione gli sono state tolte dopo la caduta e le grazie naturali rimastegli sono state corrotte, è verissima e il Maestro delle Sentenze e gli Scolastici sono stati costretti ad approvarla. I doni che procedono da Dio non possono contaminarsi: ma hanno cessato di essere puri per l'uomo, dopo che è stato inquinato, per cui non si può attribuirgliene alcuna lode.

17. La somma di tutto questo si riduce ad un fatto: in tutto il genere umano la ragione appare essere propria alla nostra natura e ci distingue dagli animali bruti i quali a loro volta differiscono dalle cose insensibili. Il fatto che alcuni nascano pazzi ed altri stupidi non deve oscurare la grazia generale di Dio; questo, anzi, ci avverte che dobbiamo attribuire alla grande liberalità di Dio il residuo che ci rimane; perché se non ci avesse risparmiato, la rivolta di Adamo avrebbe abolito tutto quello che Ci era stato concesso.

Quanto al fatto che gli uni sono più intelligenti degli altri, oppure hanno giudizio più acuto, altri hanno lo spirito più agile nell'inventare o nell'imparare un'arte, in questa varietà Dio ci mostra evidente la sua grazia onde nessuno attribuisca a se quanto proviene dalla pura liberalità di colui da cui procede ogni bene.

Un uomo eccelle sull'altro infatti perché la grazia speciale di Dio ha la preminenza sulla comune natura, il che appare quando la grazia, lasciandone da parte molti, si dimostra indipendente da tutti.

Anzi Dio ispira moti particolari a ciascuno secondo la propria vocazione: ne abbiamo parecchi esempi nel libro dei Giudici laddove è detto che lo Spirito di Dio ha rivestito quanti incaricava del governo del popolo (Gd. 6.34). In breve, in ogni atto importante, vi è qualche moto particolare: ecco perché è detto che gli uomini coraggiosi di cui Dio aveva toccato il cuore, hanno seguito Saul (1 Re 10.26). E quando a questi perviene il messaggio che Dio vuol farlo regnare, Samuele gli dice: "Lo Spirito di Dio passerà su te e diverrai un altro uomo" (1 Re 10.6). Questo si estende a tutto il corso del suo governo, come è detto appresso di Davide che lo Spirito di Dio è passato su lui dal giorno della sua unzione, per continuare ancora in seguito (1 Re 16.13). Lo stesso è espresso ancora in séguito a proposito di direzione e di atteggiamenti particolari.

Anche in Omero è detto che gli uomini hanno ragione e prudenza non solo secondo che Giove ha attribuito a ciascuno, ma secondo il suo quotidiano intervento. E infatti l'esperienza mostra, allorché i più abili e astuti restano attoniti, che le menti umane sono nella mano di Dio per essere guidate ad ogni minuto. A questo corrisponde la citazione che abbiamo già menzionato: Dio toglie il senno ai prudenti per farli errare e smarrirsi (Sl. 107.40).

Del resto continuiamo a vedere in questa diversità il sussistere di tracce dell'immagine di Dio che distinguono in generale il genere umano da tutte le altre creature.

13. Dobbiamo ora considerare cosa la ragione umana possa scorgere quando cerca il Regno di Dio e quale capacità abbia di raggiungere la sapienza spirituale che consiste in tre cose: conoscere Dio, la sua volontà paterna verso noi, nella quale risiede la nostra salvezza, come dobbiamo regolare la nostra vita secondo la norma della Legge. Per quanto riguarda i due primi punti e specialmente il secondo, i più acuti tra gli uomini sono ciechi più dei ciechi stessi. Non nego che si trovino qua e là nei libri dei filosofi delle affermazioni appropriate riguardo a Dio; ma la frammentarietà che risulta in esse lascia chiaramente intendere trattarsi solo di intuizioni confuse. È vero che Dio ha dato loro di percepire qualche elemento della propria divinità affinché non potessero rifugiarsi nell'ignoranza, per scusare la propria incredulità, e li ha spinti, in certo modo, a formulare delle dichiarazioni dalle quali essi stessi potessero essere convinti. Ma ne hanno percepito così poco che, lungi dal pervenire alla verità, non sono stati neppure indirizzati ad essa.

Potremo illustrare questo per mezzo di similitudini. Se durante un temporale un uomo si trova in mezzo ai campi, di notte, i lampi gli permettono di vedere intorno a se, ma solo per un minuto, e non lo aiutano gran che a trovare la strada perché prima che abbia potuto fissare l'occhio sulla strada la luce è svanita, è di nuovo nelle tenebre e non ne è condotto a casa.

Inoltre, le piccole tracce di verità che vediamo contenute nei libri dei filosofi, da quante orribili menzogne non sono oscurate! Ma come ho detto, la loro ignoranza consiste nel fatto che essi non hanno mai gustato alcuna certezza della buona volontà di Dio a nostro riguardo e, senza di questa, la mente umana è piena di straordinaria confusione. Ecco perché la ragione umana non può mai avvicinare, né aspirare a comprendere questa verità: chi sia il vero Dio e quale egli voglia essere nei nostri riguardi.

19. Ubriachi quali siamo di falsa presunzione, abbiamo grande difficoltà a credere che la nostra ragione sia cieca e stupida nella comprensione delle cose di Dio: mi sembra dunque meglio dimostrarlo con la testimonianza della Scrittura che non con il ragionamento.

Quanto ho detto è chiaramente esposto da san Giovanni quando afferma: al principio la vita era in Dio e questa vita era la luce degli uomini, questa luce splende nelle tenebre e non è ricevuta dalle tenebre (Gv. 1.4-5). Con queste parole insegna che l'anima dell'uomo è illuminata parzialmente dalla luce di Dio, di modo che non è mai priva di qualche fiamma o almeno di qualche scintilla; ma insieme nota che con questa illuminazione essa non può comprendere Dio. Perché? Perché tutto l'ingegno è pura oscurità relativamente alla conoscenza di Dio. Quando lo Spirito Santo chiama gli uomini "tenebre", li spoglia di ogni facoltà di intelligenza spirituale. Per questo l'Evangelista afferma che i credenti che ricevono Cristo non sono nati da sangue, né da volontà di carne, né da volontà d'uomo, ma da Dio solamente (Gv. 1.13). È come se dicesse: la carne non è capace di una sapienza abbastanza alta per comprendere Dio e quello che a Dio appartiene, a meno di essere illuminata dallo Spirito Santo. Difatti Gesù Cristo dichiarava a san Pietro che questi aveva potuto conoscerlo grazie ad una rivelazione speciale di Dio Padre (Mt. 16.17).

20. Non avremmo motivo di esitare né dubitare, se tenessimo per certo che quanto il nostro Signore conferisce ai suoi eletti attraverso lo Spirito di rigenerazione, manca alla nostra natura. Il popolo credente si esprime in questi termini per bocca del Profeta: "Presso te, Signore, è la sorgente della vita e nella tua luce vedremo la luce" (Sl. 36.10). E san Paolo asserisce che nessuno può benedire Cristo se non spinto dallo Spirito Santo (1 Co. 12.3). Parimenti Giovanni Battista, vedendo l'ignoranza dei discepoli, esclama: nessuno può comprendere se non gli è dato dal cielo (Gv. 3.27). Con la parola "dare" intende una rivelazione speciale e non una intelligenza comune, naturale: questo appare dal fatto che si dolga del poco profitto tratto dai propri discepoli dalle molte predicazioni sul Cristo ascoltate. Vedo bene, egli dice, che le mie parole non hanno la forza di far conoscere agli uomini le cose divine, solo Dio le può far conoscere per mezzo del suo Spirito.

Parimenti Mosè, rimproverando al popolo la sua ingratitudine, contemporaneamente nota che esso non può comprendere il mistero di Dio, a meno che la grazia non gli sia data."I tuoi occhi "egli dice "hanno visto grandi segni e miracoli e il Signore non ti ha dato intendimento per comprendere, né orecchie per udire, né occhi per vedere" (De 29.2-4). Non esprimerebbe di più se li chiamasse pezzi di legno nel considerare le opere di Dio! Per questa ragione il Signore, per bocca del suo Profeta, promette agli Israeliti, quale grazia singolare, di dare loro intelletto per esserne conosciuto (Gr. 24.7) , sottintendendo che la mente dell'uomo non può avere sufficiente sapienza spirituale se non viene illuminata.

Questo è chiaramente confermato dalla bocca stessa di Gesù Cristo quando afferma che nessuno può andare a lui se non gli è dato dal Padre (Gv. 6.44). Non è egli l'immagine viva del Padre, in cui ci è raffigurata la luce della sua gloria (Eb. 1.3) ? Non poteva dunque meglio dimostrare quale sia la nostra capacità a conoscere Dio che dicendo che non abbiamo occhi per contemplarne l'immagine, mentre essa ci è mostrata così chiaramente. Egli stesso non è disceso sulla terra per rendere manifesta agli uomini la volontà del Padre (Gv. 1.18) ? Non ha egli fedelmente svolto il proprio compito? Non possiamo dire il contrario. Ma la sua predicazione non poteva riuscire se lo Spirito Santo non gli avesse dato accesso al cuore degli uomini. Nessuno dunque viene a lui senza essere stato istruito dal Padre.

Questa istruzione avviene allorché lo Spirito Santo, con forza singolare e meravigliosa, concede orecchie per udire e spirito per intendere. Per confermarlo il Signore Gesù cita una frase di Isaia (Gv. 6.45) in cui Dio, dopo la promessa di restaurare la sua Chiesa, dice che i credenti che raccoglierà in essa saranno discepoli suoi (Is. 54.13). Se vi si parla di grazia speciale che Dio concede ai suoi eletti, bisogna concludere che l'insegnamento promesso è diverso da quello dato indifferentemente ai buoni ed ai malvagi. Bisogna dunque intendere che nessuno accede al Regno di Dio se non ha la mente rinnovata dall'illuminazione dello Spirito Santo.

San Paolo si esprime ancora più chiaramente e trattando questa materia, dopo aver asserito che la sapienza umana è piena di follia e di vanità, conclude che l'uomo sensuale non può comprendere le cose dello Spirito, le quali sono follia per lui e non può assimilarle (1 Co. 2.14). Egli definisce "uomo sensuale" chi si fonda sulla luce naturale; se ne deduce che l'uomo non può conoscere le cose spirituali per via naturale.

Per quale ragione? Non solamente perché non se ne cura; quand'anche si sforzasse con tutte le sue capacità, non potrebbe in nessun caso pervenirci perché bisogna discernerle spiritualmente, dice san Paolo. Con questo vuol dire che, nascoste alla mente umana, esse sono illuminate dalla rivelazione dello Spirito, di sorta che tutta la sapienza di Dio per l'uomo è solo follia fino a quando egli non sia stato illuminato dalla grazia. San Paolo aveva in precedenza considerato superiore alla vista, all'udito e alla capacità del nostro intelletto, la conoscenza delle cose preparate da Dio per i suoi servitori e anzi aveva testimoniato che la sapienza umana è come un velo che ci impedisce di contemplare Dio.

Che vogliamo di più? L'Apostolo dichiara che la sapienza di questo mondo deve essere resa folle (1 Co. 1.20) , come in verità Dio ha voluto fare. E noi vorremmo attribuirle profonda percezione con la quale poter conoscere Dio e tutti i segreti del suo Regno? Lungi da noi questa insensatezza!

21. Quello che l'Apostolo nega qui all'uomo, lo attribuisce a Dio in un altro passo, allorché prega Dio di dare agli Efesini spirito di sapienza e di rivelazione (Ef. 1.17). Già con queste parole indica che ogni sapienza e ogni rivelazione sono dono di Dio. Cosa viene dopo?: "Illumini gli occhi della vostra mente", se hanno bisogno di una nuova illuminazione, di per se sono ciechi. Li esorta di conseguenza a pregare affinché intendano la speranza della loro vocazione. Con questo sottintende che la mente umana non è capace di comprendere.

Nessun pelagiano venga cianciando, a questo punto, che Dio sovviene a questa ignoranza e debolezza quando guida la mente umana con la sua Parola fin dove da sola non avrebbe potuto giungere. Davide aveva infatti la Legge in cui era compresa tutta la sapienza desiderabile; non essendone però soddisfatto pregava Dio che gli aprisse gli occhi per poter considerare i segreti della sua legge (Sl. 119.18). Con questo indica che quando la parola di Dio splende sugli uomini, essa è come un sole che illumina la terra; ma tutto questo non ci serve a nulla finché Dio non ci abbia dato, o aperto, gli occhi per vedere. Per questo motivo è chiamato Padre delle luci (Gm. 1.17); dove non risplende il suo Spirito, non vi sono che tenebre. Lo confermano gli Apostoli: essi erano stati sufficientemente e correttamente istruiti dal migliore maestro che esista, tuttavia questi promette di inviar loro lo Spirito di verità per istruirli nella dottrina che avevano precedentemente ascoltata (Gv. 14.26). Se domandando qualcosa a Dio riconosciamo di esserne privi e se egli, promettendoci qualche bene, rileva che ne siamo privi dobbiamo concluderne, senza difficoltà, che siamo in grado di comprendere i misteri di Dio nella misura in cui siamo illuminati dalla grazia che egli ci concede. Chi presume di avere maggiore intelligenza è tanto più cieco in quanto non riconosce la propria cecità.

22. Resta ora da esaminare il terzo punto, vale a dire la regola per ben ordinare la nostra vita; cioè la conoscenza della vera giustizia delle opere.

In questo campo l'intelletto umano sembra essere più acuto che nei settori dinanzi menzionati. L'Apostolo riconosce che quanti non hanno la Legge sono legge a se stessi e mostrano che le opere della Legge sono scritte nel proprio cuore e che la coscienza ne rende testimonianza; i loro pensieri li accusano e li giustificano di fronte al giudizio di Dio per quello che fanno (Ro 2.14). Ora, se i pagani hanno la giustizia di Dio naturalmente impressa nel loro spirito, non li possiamo considerare completamente ciechi per quanto concerne la conoscenza del vivere rettamente. in: infatti noto che l'uomo ha sufficiente conoscenza di quella esatta norma per vivere bene grazie alla legge naturale di cui parla l'Apostolo.

Dobbiamo peraltro esaminare a qual fine questa conoscenza della Legge sia stata data agli uomini e allora risulterà evidente fin dove può condurci nella direzione di un apprendimento della ragione e della verità.

Possiamo ricavare questo dalle parole di San Paolo considerando l'andamento del passo. Aveva poco prima affermato che chi ha peccato sotto la Legge sarà giudicato dalla Legge e chi ha peccato senza la Legge, perirà senza la Legge. Questo ultimo punto sembrava sragionevole: vale a dire che i poveri popoli ignoranti debbano perire senza avere alcuna luce di verità; egli allora aggiunge subito che la loro coscienza può servire da legge perché è sufficiente a condannarli con giustizia.

Fine della legge naturale è dunque rendere l'uomo inescusabile. Potremo dunque definirla: una dimensione della coscienza che le permette di discernere tra il bene e il male, tanto dato togliere all'uomo la scusa dell'ignoranza, essendo rimproverato dalla propria testimonianza stessa.

 La tendenza ad adularsi è tale nell'uomo che egli si sforza sempre per quanto gli è possibile distrarre la propria mente dalla percezione del proprio peccato. Questo ha spinto Platone a dire che pecchiamo solo per ignoranza. Sarebbe ben detto se l'ipocrisia dell'uomo, coprendone i vizi, potesse evitare alla coscienza di essere colpita dal giudizio di Dio. Ma il peccatore che mette da parte il discernimento del bene e del male che possiede in se, vi è ricondotto per forza e non può chiudere gli occhi senza essere costretto, lo voglia o no a riaprirli, è falso dire che si pecca per ignoranza.

23. Temistio, un altro filosofo, è più vicino al vero quando insegna che di rado l'intelletto umano si inganna nelle considerazioni generali, ma si sbaglia nella considerazione particolare di quanto concerne la propria persona. Ad esempio: si ponga in termini generali la domanda se l'omicidio sia male; tutti risponderanno di sì. Tuttavia, chi macchina la morte del proprio nemico, agisce come se si trattasse di una buona cosa. Parimenti, un adultero condannerà la sensualità in generale, e tuttavia si compiacerà nella propria. Ecco in che consiste l'ignoranza: l'uomo dopo aver formulato un giudizio universalmente valido, quando è direttamente implicato nel caso particolare dimentica la norma che prima enunciava quando prescindeva da se stesso. Di questo argomento sant'Agostino tratta molto bene esponendo il primo versetto del Salmo 57.

Tuttavia l'affermazione di Temistio non ha affatto valore universale: infatti a volte la turpitudine della mala azione incalza a tal punto la coscienza del peccatore che egli non cade in virtù di una falsa concezione del bene, ma si dà al male scientemente e intenzionalmente. Da questo hanno origine le frasi che troviamo nei libri dei pagani: vedo il bene e l'approvo, ma non desisto di seguire il male e altre consimili.

Per eliminare ogni ulteriore incertezza si può menzionare una utile distinzione di Aristotele tra "incontinenza" e "intemperanza". "Dove regna incontinenza" egli dice "l'intelligenza particolare del bene e del male viene tolta all'uomo dalla sua disordinata concupiscenza ed egli non riconosce nel proprio peccato il male che condanna in via generale negli altri: ma quando non e più accecato dalla cupidità, la penitenza sottentra ed egli può riconoscerlo. L'intemperanza è malattia più pericolosa: l'uomo sa di fare il male ma non desiste e persegue ostinatamente la propria volontà malvagia".

24. Quando sentiamo affermare l'esistenza nell'uomo di un giudizio universale che discerne il bene dal male, non dobbiamo credere sia interamente sano ed integro. Se l'intelletto umano può discernere tra il bene ed il male in modo sufficiente perché gli sia sottratta la scusa dell'ignoranza, non è necessario che egli conosca la verità in ogni suo aspetto; è sufficiente che gli sia nota al punto da impedirgli di giustificarsi senza essere convinto dalla testimonianza della coscienza, e cominci ad avvertire paura per la giustizia divina.

Se vogliamo considerare infatti, quale comprensione della giustizia riceviamo dalla legge di Dio, che è un modello di perfetta giustizia, constateremo quanto la legge naturale sia cieca. Essa non riconosce quello che è preminente nella "prima Tavola," mettere la nostra fiducia in Dio e attribuirgli la lode per la sua potenza e la sua giustizia, invocare il suo nome e osservare il suo riposo. Quale mente umana ha mai, non dico conosciuto, ma immaginato o intuito attraverso il senso naturale che il vero onore e il servizio a Dio risiedono in queste cose? Quando gli iniqui vogliono onorare Dio, anche se richiamati centomila volte dalle loro folli fantasie, vi ricadono sempre di nuovo. Diranno che i sacrifici non piacciono a Dio se sono disgiunti dalla purezza di cuore e in questo testimoniano di intendere qualcosa del culto spirituale da rendere a Dio: ma poi lo smentiscono subito con le loro illusioni. Possiamo lodare un intelletto incapace da solo di comprendere e ascoltare i buoni ammonimenti? Tale è l'intelletto umano; ci rendiamo dunque conto della sua assoluta inintelligenza.

Esso è un pochino più accorto per quanto riguarda i precetti della seconda Tavola, dato che risultano più vicini alla vita umana e civile. Ma talvolta sbaglia anche qui. Sembra assurdo agli spiriti migliori tollerare una autorità eccessivamente rigida quando la si può rifiutare in qualche modo. E la ragione umana non può giudicare altrimenti; un animo servile e scoraggiato sopporta pazientemente la dominazione, uno integro e virile la scuote. Anche tra i filosofi la vendetta non è considerata un vizio. Al contrario, il Signore condanna questo orgoglio e prescrive ai suoi la pazienza, che invece gli uomini condannano e disprezzano.

Inoltre il nostro intelletto è cieco anche su un altro punto della legge di Dio, incapace com'è di riconoscere il male della propria concupiscenza. L'uomo sensuale non può essere condotto a riconoscere il proprio male interiore e la luce della sua natura è spenta prima che possa avvicinarsi all'entrata del proprio abisso. Quando i filosofi parlano di moti immoderati del nostro cuore, intendono quelli che appaiono con segni visibili. Ma non danno alcun peso ai malvagi desideri che muovono il cuore in modo più occulto.

25. Come dunque abbiamo refutata la tesi platonica dei peccati frutto dell'ignoranza, dobbiamo altresì respingere l'opinione di coloro che pensano che in tutti i peccati si riscontri una malvagità deliberata. Esperimentiamo infatti, più del necessario, di errare molte volte con buone intenzioni. La nostra ragione e la nostra intelligenza sono così spesso avvolte in tante fantasticherie da trarci in inganno; sono soggette a tanti errori, inciampano in tanti ostacoli, sono così spesso perplesse da essere ben lungi dal rappresentare una guida sicura. San Paolo mostra quanto esse siano inette a condurci, affermando che da noi stessi non siamo in grado di pensare alcunché come venendo da noi (2 Co. 3.5). Non parla solo della volontà o del sentimento, ma ci nega anche ogni pensiero buono escludendo ci possa venire alla mente cosa sia bene di fare.

Qualcuno dirà: Come, tutta la nostra industriosità, sapienza, conoscenza e sollecitudine sono talmente depravate da non permetterci di pensare né meditare nulla di buono riguardo a Dio? Riconosco che questo sembra ben duro e ci sentiamo grandemente offesi nel vederci privati dell'intelligenza e della sapienza che consideravamo nostro vanto più prezioso. Ma questo sembra giusto allo Spirito Santo, che sa esser vane tutte le riflessioni dei sapienti e chiaramente considera cattivo tutto quello che il cuore umano può elaborare (Sl. 94.2; Ge 6.3; 8.21). Se tutto quel che la nostra mente concepisce, valuta, delibera e progetta, risulta sempre malvagio, come possiamo pensare di deliberare qualcosa che piaccia a Dio, cui sono accette soltanto giustizia e santità?

Si può così vedere che la ragione della nostra mente, ovunque si volga, è miseramente soggetta all'inutilità. Davide lo riconosceva in se stesso quando chiedeva di ricevere da Dio l'intelletto per apprendere rettamente i suoi precetti (Sl. 119.34). Chi desidera un nuovo intelletto, riconosce insufficiente quello che ha. E non parla così una volta sola, ma ripete questa preghiera quasi dieci volte in uno stesso Salmo. La ripetizione denota quanto sia pressato dalla necessità di chiedere. Quello che Davide chiede per se, san Paolo lo domanda per tutte le Chiese: "Non cessiamo" egli dice" di chiedere a Dio che vi colmi della sua conoscenza in ogni sapienza e intelligenza spirituale, onde camminiate in modo degno" (Fl. 1.4; Cl. 1.9). Ogni volta che insegna essere questo un dono benevolo di Dio, è come se affermasse che non risiede nella facoltà umana.

Sant'Agostino ha conosciuto questa incapacità della nostra ragione ad intendere le cose di Dio e ha riconosciuto che la grazia dello Spirito Santo è necessaria per l'illuminazione della nostra mente quanto il sole per i nostri occhi. Non soddisfatto di questo, aggiunge che siamo soliti aprire bene gli occhi del corpo per ricevere la luce, ma gli occhi della nostra mente rimangono chiusi fino a che il Signore li apra.

La Scrittura però non insegna solo che i nostri spiriti debbono essere una volta illuminati perché poi possano vedere da soli. La citazione precedente di san Paolo si riferisce infatti al progresso continuo dei credenti e all'accrescimento della loro fede. Anche Davide lo esprime chiaramente con queste parole: "Ti ho cercato con tutto il mio cuore, non lasciarmi allontanare dai tuoi comandamenti" (Sl. 119.10). Pur essendo rigenerato e avendo progredito più di tutti nel timore di Dio, riconosce tuttavia di aver bisogno di una guida costante, ad ogni minuto, per non allontanarsi dalla conoscenza che gli è stata data. In un altro passo prega che gli venga rinnovato lo spirito retto che aveva perduto per colpa propria (Sl. 51.12) perché a Dio spetta di renderci quanto ci toglie per un tempo, come di darcelo al principio.

26. Dobbiamo ora considerare la volontà in cui dovrebbe esprimersi la libertà dell'uomo qualora esista. Abbiamo visto infatti che la facoltà di scelta caratterizza la volontà più che l'intelletto.

In primo luogo non si creda che quanto hanno detto i filosofi, ed e correntemente accettato, che cioè tutte le cose tendono naturalmente al bene, dimostri che c'è una qualche rettitudine nella volontà umana. Dobbiamo notare che il libero arbitrio non deve essere considerato parte di questo desiderio, basato su un'inclinazione naturale più che su deliberazione determinata. Anche i teologi scolastici riconoscono non esservi alcuna azione del libero arbitrio se non quando la ragione guarda da una parte e dall'altra. Con questo vogliono dire che l'oggetto dell'appetito deve poter essere sottomesso ad una scelta e la deliberazione deve precedere e dar luogo alla scelta.

E difatti, se consideriamo questo desiderio naturale del bene nell'uomo, lo constateremo comune alle bestie brute. Esse desiderano il proprio vantaggio e quando vi è qualche apparenza di bene che colpisce i loro sensi, la seguono. L'uomo segue questo istinto naturale e senza valutare con la ragione, propria della sua eccellente natura immortale, quel che deve ricercare o decidere in base ad una autentica sapienza, ma senza ragione e senza riflessione segue la tendenza della propria natura come una bestia. Non ha dunque nulla a che vedere con il libero arbitrio il fatto che l'uomo sia spinto da un sentimento naturale a cercare il bene; se così fosse, bisognerebbe che lo discernesse con retta ragione, riconosciutolo lo scegliesse, e avendolo scelto, lo praticasse.

 Per fugare ogni perplessità notiamo che vi sono a questo proposito, due punti dove si sbaglia. Nell'uso comune la parola "appetito" non è usata per indicare il movimento proprio della volontà, ma la inclinazione naturale. In secondo luogo la parola "bene" non serve a indicare giustizia e virtù, ma solo il fatto che tutte le creature desiderano essere a proprio agio secondo la propria natura. Ed anche se l'uomo desiderasse intensamente di ottenere quel che gli è vantaggioso, egli non lo persegue e non si concentra nel cercarlo. Infatti, sebbene tutti desiderino la felicità eterna, nessuno vi aspira fino a che non sia spinto dallo Spirito Santo.

Dato dunque che questo desiderio naturale non serve affatto a provare l'esistenza nell'uomo della libertà, così come l'inclinazione delle creature insensibili a cercare la perfezione della propria natura non dimostra la loro libertà, dobbiamo cercare altrove se la volontà dell'uomo sia così totalmente viziata e corrotta da non poter generare che il male, oppure se ve ne sia qualche parte intatta da cui nascano buoni desideri.

27. Quanti attribuiscono la nostra possibilità di volere con efficacia alla prima grazia di Dio, sembrano pensare che vi sia qualche facoltà nell'anima che aspira volontariamente al bene ma che è così debole da non poter giungere ad una ferma determinazione ne smuovere l'uomo allo sforzo.

Non v'è dubbio che gli Scolastici hanno seguito generalmente questa opinione che era loro offerta da Origene e da alcuni antichi quando infatti considerano l'uomo nella sua natura propria, lo descrivono con le parole di san Paolo: "Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ho il volere ma mi manca il modo di compiere" (Ro 7.15.18). Ma in questo modo falsano tutto il problema che Paolo sta esaminando! Egli tratta del combattimento cristiano che espone più brevemente nella lettera ai Galati, vale a dire insegna che i credenti sentono in perpetuo dentro di se una lotta tra lo Spirito e la carne (Ga 5.17). Essi non hanno lo Spirito per natura, ma attraverso la rigenerazione. È evidente che egli parla di quelli che sono rigenerati perché, dopo aver detto che in se stesso non abita alcun bene, aggiunge come chiarimento, che allude alla propria carne; per questo nega di essere l'attore del male, afferma invece esserlo il peccato presente in lui. Che cosa significa questo "in me stesso" o, vale a dire "nella mia carne?" È come se dicesse: in me non abita alcun bene che venga da me stesso, dato che non si potrebbe trovare nulla di buono nella mia carne. Ne deriva questa giustificazione, che può valere solo per i credenti i quali tendono verso il bene con tutta la forza della propria anima.

Inoltre la conclusione del discorso chiarisce tutta la questione. "Io mi compiaccio nella legge di Dio secondo l'uomo interiore" egli dice "ma vedo un'altra legge nelle mie membra che combatte contro la legge della mia mente" (Ro 7.22-23). Chi può avere in se tale combattimento se non colui che, pur essendo rigenerato dallo Spirito di Dio, porta sempre le tracce della propria carnalità? Ecco perché sant'Agostino, pur avendo talvolta inteso questo passo come riferentesi alla natura dell'uomo, ha poi ritrattato la sua interpretazione come falsa e non pertinente. Infatti, se ammettiamo che l'uomo abbia la minima aspirazione al bene senza la grazia di Dio, cosa risponderemo all'Apostolo il quale nega che siamo in grado anche solo di pensare qualche cosa di buono (2 Co. 3.5) ? Cosa risponderemo al Signore il quale per bocca di Mosè dichiara che tutto quello che il cuore umano costruisce è interamente perverso (Ge 8.21) ?

 Se dunque si sono sbagliati a causa della cattiva intelligenza di un passo, non dobbiamo fermarci alle loro fantasticherie. Dobbiamo invece accettare l'affermazione di Cristo: "Chi commette il peccato è servo del peccato" (Gv. 8.34). Essendo tutti peccatori per natura, ne segue che siamo sotto il giogo del peccato.

Ora se tutto l'uomo è prigioniero nella schiavitù del peccato, certamente la volontà, che è la sua parte principale, deve essere imprigionata da strettissimi legami. Anche l'asserzione di san Paolo: Dio opera in noi il volere (Fl. 2.13) , non avrebbe significato se vi fosse in noi una volontà che precede la grazia dello Spirito Santo.

Sia dunque rifiutato quanto sono andati biascicando a proposito del nostro prepararci al bene. I credenti domandano infatti talvolta a Dio che disponga i loro cuori ad obbedire alla sua legge, come Davide in molti passi: ma bisogna rilevare che il desiderio stesso di pregare, viene da Dio. La si può dedurre dalle parole di Davide: egli desidera che Dio gli crei un cuore nuovo (Sl. 51.12) , dunque non attribuisce a se stesso l'inizio di una tale creazione. Accettiamo piuttosto il dire di sant'Agostino: "Dio ti ha prevenuto in ogni cosa, previeni qualche volta la sua collera. E come? Confessa di ricevere da lui tutte queste cose, che da lui è venuto tutto quello che hai di buono e che il tuo male viene da te", poi conclude con una parola: "Non abbiamo nulla di nostro, fuorché il peccato".

 

 

CAPITOLO III

TUTTO QUELLO CHE LA NATURA CORROTTA DELL'UOMO PRODUCE È DEGNO DI CONDANNA

 

1. La natura umana sarà meglio conosciuta nei suoi due aspetti in base alla definizione della Scrittura: l'uomo nella sua totalità è descritto dalle parole del Signore: "Quel che è nato dalla carne è carne" (Gv. 3.6); se ne può dedurre facilmente che è ben misera creatura. Ogni desiderio della carne infatti è morte, come testimonia l'Apostolo, essendo inimicizia verso Dio; essa non è soggetta e non può esserlo, alla Legge di Dio (Ro 8.6-7). Se la carne è tanto perversa da esercitare tutta l'inimicizia di cui è capace verso Dio; se essa non può consentire con la giustizia divina; se essa insomma non può che produrre materia di morte, come potremo trarre dall'uomo qualche goccia di bene, sapendo che nella natura di lui non vi è che carne?

Ma qualcuno dirà: questo vocabolo si riferisce solo all'uomo sensuale e non alla parte superiore dell'anima. Rispondo che questo e facilmente refutato dalle parole di Cristo e dell'Apostolo. L'insegnamento del Signore è che l'uomo deve rinascere perché è carne (Gv. 3.6-7). Egli non desidera che rinasca secondo il corpo. Non si può dire che l'anima rinasce se qualche elemento ne viene corretto, ma solo se è interamente rinnovata. Questo è confermato dalla contrapposizione presentata in questo passo, come in quello di san Paolo. Lo spirito è nettamente contrapposto alla carne e nulla rimane in mezzo. Tutto quello che non è spirituale nell'uomo è dunque carnale, secondo questa motivazione. Ora non abbiamo neanche una sola goccia di questo spirito, se non attraverso la rigenerazione. Dunque tutto quello che abbiamo per natura è carne.

Se vi fosse ancora qualche dubbio, san Paolo ce ne dà la soluzione quando, dopo aver descritto il vecchio uomo che dice essere stato corrotto da colpevoli concupiscenze, ci prescrive di essere rinnovati nello spirito della nostra anima (Ef. 4.23). Ognuno vede che egli non colloca le malvagie concupiscenze nella parte sensitiva solamente, ma nello stesso intelletto e perciò ordina che sia rinnovato.

Infatti poco prima aveva presentato una tale descrizione della natura umana, da doverne concludere che siamo corrotti e perversi in tutte le nostre parti. L'affermazione che tutti camminano nella vanità dei propri sensi, hanno l'intelligenza accecata e sono lontani dalla vita di Dio a causa della propria ignoranza e dell'accecamento del cuore (Ef. 4.17- 18) , senza dubbio si riferisce a tutti coloro che Dio non ha ancora riformato alla rettitudine della sua sapienza e della sua giustizia. Questo è anche dimostrato dal paragone susseguente quando ammonisce i credenti dicendo che non hanno imparato Cristo. Possiamo concludere da queste parole che la grazia di Gesù Cristo è il rimedio unico per liberarci da questo accecamento e dai mali conseguenti.

Isaia lo aveva profetizzato a proposito del regno di Cristo, dicendo che mentre le tenebre avrebbero coperto la terra e l'oscurità avrebbe regnato sui popoli, il Signore sarebbe una luce perpetua per la sua Chiesa (Is. 60.2). Se la luce del Signore splenderà solo nella Chiesa, fuori di essa non restano che tenebre e cecità.

 Non elencherò dettagliatamente tutto quello che è detto della vanità dell'uomo da Davide e da tutti i profeti. Ma nei Sl. abbiamo una definizione degna di nota: se l'uomo fosse messo sulla bilancia con la vanità, ne risulterebbe ancora più vano (Sl. 62.10). È una grave condanna dell'ingegno umano; tutte le riflessioni che ne procedono sono derise come sciocche, frivole, sregolate e perverse.

2. La condanna del "cuore" non è meno radicale, quando è detto pieno di frode e di perversità più di ogni altra cosa (Gr. 17.9). Intendo però essere breve e mi accontenterò di una citazione, che come uno specchio tersissimo ci farà contemplare pienamente l'immagine della nostra natura. Quando l'Apostolo vuole annientare l'arroganza del genere umano fa queste dichiarazioni: "Non v'è nessun giusto, neppure uno; nessuno che cerchi Iddio; tutti hanno errato, tutti sono inutili' nessuno opera il bene, neanche uno solo; la loro bocca è un sepolcro aperto, le loro lingue sono infide, veleno d'aspide è sotto le loro labbra, la loro bocca è piena di maldicenza e di amarezza, i loro piedi sono veloci nello spargere il sangue; nelle loro vie non c'è che perdizione e dissipatezza; davanti ai loro occhi non v'è timore di Dio", (Ro 3.10; Sl. 14.1-3.53.2-4). Colpisce con queste parole severe non alcuni uomini ma tutta la discendenza di Adamo. E non rimprovera i costumi corrotti di un periodo particolare, ma accusa la corruzione costante della nostra natura. In questo passo non è sua intenzione riprendere gli uomini onde correggano le proprie tendenze, ma piuttosto insegnare loro che tutti, dal primo all'ultimo, sono inseriti in una situazione tale da non poterne uscire se non sono liberati dalla misericordia di Dio. Questo non si poteva mostrare se non facendo vedere come la nostra natura sia caduta in tale rovina; egli quindi presenta queste testimonianze in cui è mostrato come la nostra natura sia più che perduta.

Questo rimanga dunque chiaro: gli uomini sono quali san Paolo li descrive non solo per costume perverso, ma anche per naturale perversità. Altrimenti il suo ragionamento non si giustificherebbe; è per mostrare che abbiamo salvezza solo nella misericordia di Dio, dato che ogni uomo di per se è perduto e disperato. Non mi preoccupo qui di valutare la pertinenza delle' citazioni: prendo queste frasi come se fossero state pronunciate direttamente da lui e non citate dai profeti.

In primo luogo nega all'uomo la giustizia, vale a dire l'integrità e la purezza; poi l'intelligenza, la cui mancanza si dimostra nel fatto che tutti gli uomini si sono allontanati da Dio, mentre cercarlo è il primo elemento della sapienza. Ne seguono i frutti dell'infedeltà: tutti si sono allontanati diventando corrotti al punto che neanche uno opera il bene. Inoltre aggiunge tutte le malvagità con cui quelli che sono caduti nell'ingiustizia, macchiano e infettano le membra del proprio corpo. Infine dichiara che tutti gli uomini sono privi del timore di Dio, al quale invece avremmo dovuto misurare tutte le nostre azioni.

Se tali sono le ricchezze ereditarie del genere umano, invano cercheremo qualche bene nella nostra natura! Riconosco che non tutte queste malvagità appaiono in ogni uomo, ma nessuno può negare che ognuno ne abbia la semenza in se stesso. Un corpo che abbia già in se la causa e i germi di una malattia non può dirsi sano, anche se la malattia non si è ancora manifestata e mancano i sintomi del male; analogamente non si può dire sana l'anima che contiene tali impurità. Ma questa similitudine non è del tutto pertinente. Il corpo infatti, anche se viziato, non è privo del suo vigore e della sua vita: ma l'anima, sprofondata in questo abisso di iniquità, non è solo viziosa ma anche priva di ogni bene.

3. Sorge poi una questione analoga. In ogni secolo vi sono stati uomini che, ispirati dalla propria natura, hanno ricercato la virtù durante tutta la loro vita, e quand'anche ci sia molto da ridire sui loro costumi, tuttavia hanno mostrato, con quel desiderio di onestà, che una qualche purezza sussisteva nella loro natura. Spiegheremo più ampiamente il valore di queste virtù davanti a Dio quando tratteremo del merito delle buone opere; per il momento dobbiamo dire quanto è necessario in relazione all'argomento che stiamo trattando.

Questi esempi dunque ci ricordano che non dobbiamo ritenere completamente viziata la natura dell'uomo, dato che, seguendone gli impulsi, alcuni hanno compiuto numerosi atti eccellenti e si sono condotti onestamente per tutto il corso della loro vita. Ma dobbiamo considerare che nella corruzione universale di cui abbiamo parlato, la grazia di Dio si manifesta in qualche modo, non per correggere la perversità della natura, ma per reprimerla e per frenarne la manifestazione. Se Dio permettesse a tutti gli uomini di seguire liberamente i propri desideri, si vedrebbe, per esperienza, che tutti possiedono tutti i vizi che san Paolo denuncia nella natura umana. E chi potrebbe separarsi dall'umanità nel suo complesso? Questo bisognerebbe fare per non essere colpiti dalle accuse che san Paolo rivolge contro di lei: i loro piedi sono rapidi nello spargere sangue, le loro mani macchiate di rapine e di omicidi, le loro bocche simili e sepolcri aperti, le lingue infide, le labbra velenose, le opere inutili, inique, corrotte, mortali, i cuori senza Dio, ripieni di malizia, con occhi pronti all'imboscata, i cuori pronti all'oltraggio; insomma tutte le loro parti pronte a fare il male (Ro. 3.10). Se ogni anima e soggetta a questi vizi mostruosi, come l'Apostolo dichiara esplicitamente, ci rendiamo conto di cosa accadrebbe se il Signore lasciasse libero corso alla cupidigia umana! Nessuna fiera è così sfrenata nella sua furia, nessun fiume sia pur violento, trabocca in modo altrettanto impetuoso.

Questi mali sono cancellati dal Signore nei suoi eletti nel modo che esporremo: nei reprobi essi sono solamente repressi come con una briglia onde non dilaghino, secondo quanto Dio sa essere utile per la conservazione del mondo. Di conseguenza alcuni per vergogna, altri per timore delle leggi, sono trattenuti dall'abbandonarsi a molte malvagità; sebbene in parte non dissimulino i loro desideri malvagi. Altri ancora, ritenendo vantaggiosa una vita onesta la desiderano in qualche modo. Altri infine, vanno più in là e rivelano qualità particolari per trattenere il popolo nella sottomissione con la loro superiorità morale. In questo modo il Signore limita la perversità della nostra natura con la sua provvidenza affinché essa non esca dai cardini; senza però purificarla interiormente.

4. Qualcuno potrà osservare che questo non risolve la questione. Infatti o consideriamo Catilina simile a Camillo, oppure abbiamo in Camillo un esempio che la natura, quando è ben condotta, non è del tutto sprovvista di bontà.

Ammetto che le virtù proprie di Camillo sono state doni di Dio e potrebbero essere considerate lodevoli, se valutate in se stesse: ma come potranno considerarsi segni di una naturale probità? Per dimostrarlo bisogna ritornare al cuore seguendo questo ragionamento: se un uomo naturale è stato dotato di tale integrità di cuore, l'aspirazione al bene non è dunque assente nella natura umana: ma che avviene se il cuore pur essendo perverso e falso tuttavia ricerca la rettitudine? Se diciamo trattarsi di uomo naturale, non c'è dubbio che il suo cuore rispondeva a questi caratteri.

Ora, quale capacità di fare il bene possiamo attribuire alla natura umana, se anche nella massima integrità, essa risulta tendere sempre alla corruzione? Di conseguenza, non si loderà come virtuoso un uomo i cui vizi siano travestiti da virtù, né si attribuirà alla volontà umana la facoltà di desiderare il bene, fin quando rimanga confitta nella sua perversità.

Del resto, la soluzione più sicura e facile è riconoscere che queste virtù non fanno parte della natura, ma costituiscono grazie speciali del Signore, che le distribuisce anche ai malvagi secondo il modo e la misura che determina. Per questo motivo nel linguaggio corrente non esitiamo a dire che uno è nato bene e un altro male, uno è di natura buona e l'altro di natura malvagia, e tuttavia includiamo gli uni e gli altri nella condizione universale della corruzione umana. Ma vogliamo indicare la grazia che Dio ha dato particolarmente all'uno e ha negato all'altro. Volendo stabilire Saulo quale re, lo ha quasi rifatto uomo nuovo (1 Re 10.6).

Ecco perché Platone, alludendo alla favola di Omero, asserisce che i figli dei re sono composti di una materia preziosa per essere distinti dalla gente comune, Dio, volendo provvedere al genere umano, dota di singolari virtù quelli che innalza alle massime dignità. Ed infatti di qui sono usciti tutti gli uomini valorosi ed eccellenti che le storie celebrano. Lo stesso si deve dire riguardo ai privati. Ma quanto più uno è eccelso, tanto più è stato spinto dalla sua ambizione, la quale macchia tutte le virtù e le fa perdere ogni grazia di fronte a Dio; quello che appare degno di lode alla gente profana deve dunque essere tenuto in nessun conto.

Inoltre, quando manca il desiderio di glorificare Dio, manca la parte essenziale di ogni rettitudine. Ora è certo che mancano di questo bene e ne sono privi tutti coloro che non sono rigenerati. Non invano Isaia dice che lo spirito di timore dell'Eterno riposerà su Gesù Cristo (Is. 11.3). Con questo indica che chi è estraneo a quest'ultimo, sarà anche privo di questo timore, che è il principio della sapienza (Sl. 111.10).

Le virtù che ingannano con vana apparenza saranno molto lodate dalla società e dall'opinione popolare: ma nel tribunale di Dio non valgono una pagliuzza per acquistare giustizia.

5. La volontà dunque, essendo legata e tenuta prigioniera nella servitù del peccato, non può in alcun modo desiderare il bene e tanto meno applicarvisi. Se lo facesse, sarebbe l'inizio della nostra conversione a Dio, che la Scrittura attribuisce esclusivamente alla grazia dello Spirito Santo. Così Geremia prega Dio che lo converta se vuole che sia convertito (Gr. 31.18). Per questo motivo il Profeta nello stesso capitolo, descrivendo la redenzione spirituale dei credenti, dice che sono stati riscattati dalla mano di uno più forte, mostrando con questa espressione quanto strettamente il peccatore sia legato, nel tempo in cui lontano da Dio rimane sotto il giogo del Diavolo. Tuttavia all'uomo rimane sempre la volontà, che per tendenza propria è propensa a peccare, anzi vi si affretta. Quando l'uomo è caduto in questa necessità, non è stato spogliato della sua volontà ma di una "sana" volontà.

 San Bernardo non si esprime impropriamente quando dice che il volere e in tutti gli uomini, ma volere il bene è per riparazione, volere il male, per nostra volontà, semplicemente volere è dell'uomo, volere il male è della natura corrotta, volere il bene è della grazia. Nessuno trovi strano che io dica la volontà essere priva di libertà e necessariamente volta al male, perché non è affatto assurda ed è stata usata dagli antichi dottori.

Alcuni si lamentano che non c'è possibilità di distinguere tra "necessità" e "costrizione"; ma a chi chiedesse loro se Dio non è necessariamente buono e il Diavolo necessariamente cattivo, che cosa risponderebbero? Certamente la bontà di Dio è legata alla sua divinità, di sorta che non è per lui necessario essere buono che essere Dio. E il Diavolo con la sua caduta si è talmente alienato ogni comunione del bene che non può far altro che agire male.

Ora, se qualche bestemmiatore mormora che Dio non merita lode per la sua bontà, dato che è costretto a mantenerla, la risposta sarà facile. L'impossibilità di agire male deriva in lui dalla sua bontà infinita, non da una costrizione violenta. Se la necessità di fare il bene non impedisce alla volontà di Dio di essere libera nel fare il bene: se il Diavolo pecca volontariamente, sebbene non possa che operare il male, chi dirà il peccato non essere volontario nell'uomo, perché questi è soggetto alla necessità di peccare?

Sant'Agostino insegna ovunque questa necessità e non cessa dall'affermarla anche quando Celestio calunniava tale dottrina per renderla odiosa. Adopera queste parole: l'uomo è caduto in peccato a causa della propria libertà: la corruzione che ne è seguita ha fatto della libertà necessità. E ogni volta che tocca questo argomento dichiara senza ambagi che v'è in noi una necessaria servitù al peccato. Dobbiamo dunque rilevare questa distinzione: l'uomo dopo essere stato corrotto dalla caduta, pecca volontariamente e non malgrado il proprio cuore o per costrizione; pecca per inclinazione e non perché gli si faccia violenza: pecca mosso dalla propria cupidigia e non per pressione esterna: e nondimeno la sua natura è così perversa che egli non può che essere mosso, spinto o condotto al male. Se questo è vero, è chiaro che egli è soggetto alla necessità di peccare.

San Bernardo, accettando la dottrina di sant'Agostino, così si esprime: "Solo l'uomo è libero tra gli animali e tuttavia, essendo sopravvenuto il peccato, egli subisce qualche pressione, nel campo della volontà e non della natura; di sorta che non è privato della libertà che ha per nascita, poiché quello che è volontario è anche libero". E poco dopo: "La volontà, essendo volta al male dal peccato, si impone una necessità, in modo incomprensibile e perverso; questa essendo volontaria non può scusare la volontà e la volontà così allettata non può escludere la necessità, poiché questa necessità è come volontaria". In séguito dice che siamo oppressi da un giogo, ma di volontaria servitù; e di conseguenza, riguardo alla servitù siamo miserabili, riguardo alla volontà siamo inescusabili, dato che questa essendo libera si è fatta serva del peccato. Finalmente conclude: "L'anima dunque, sotto questa necessità volontaria e in libertà perniciosa, è divenuta serva e rimane libera, in modo strano e assai malvagio: serva per la necessità, libera per la volontà. E quel che è più stupefacente e più miserabile, essa è colpevole perché è libera ed è serva perché è colpevole. E così è serva perché è libera".

Da queste testimonianze risulta che io non propongo nulla di nuovo ma ripeto quello su cui consentivano i santi dottori, che sant'Agostino ci ha lasciato per iscritto, ed è stato accettato per più di mille anni nei conventi dei monaci.

Il Maestro delle Sentenze non avendo saputo distinguere tra "costrizione" e "necessità" ha aperto la porta a questo errore, diventato peste mortale nella Chiesa: pensare che l'uomo possa evitare il peccato perché pecca liberamente.

6. È utile al contrario, considerare quale sia il rimedio della grazia divina attraverso il quale la nostra perversità è corretta e guarita. Il Signore aiutandoci, ci accorda quanto ci manca: quando sarà evidente la sua opera in noi, allora per contrasto potremo facilmente intendere quale sia la nostra miseria.

L'Apostolo dice ai Filippesi di nutrire fiducia che colui che ha incominciato in loro una buona opera la condurrà a termine fino al giorno di Gesù Cristo (Fl. 1.6) : non c'è dubbio che per "inizio di una buona opera "intenda l'origine della loro conversione, il volgersi a Dio della loro volontà. Il Signore dunque inizia in noi la sua opera ispirando nei nostri cuori l'amore, il desiderio e l'applicazione del bene e della giustizia o, per esprimerci più propriamente, volgendo, formando e indirizzando i nostri cuori alla giustizia. Termina la sua opera confermandoci nella perseveranza. E onde nessuno cavilli che il bene è "iniziato" in noi da Dio e che la nostra volontà, di per se troppo inferma, è solo "aiutata" da lui, lo Spirito Santo in un altro passo espone quanto valga la nostra volontà abbandonata a se stessa: "Io vi darò un cuore nuovo" dice "creerò in voi uno spirito nuovo; toglierò il cuore di pietra che è in voi e ve ne darò uno di carne; metterò in voi il mio Spirito e vi farò camminare nei miei comandamenti" (Ez. 36.26-27). Chi oserà dire che solo l'infermità della volontà umana è corretta affinché aspiri virtuosamente a scegliere il bene, quando vediamo che essa deve essere completamente riformata e rinnovata? Se la pietra è così molle che maneggiandola la si può formare a piacimento, non nego che il cuore dell'uomo abbia qualche facilità e inclinazione a obbedire a Dio, sol che la sua debolezza sia fortificata. Ma se il Signore ha voluto mostrare con questa similitudine che è impossibile trarre il bene dal nostro cuore, a meno che esso non sia costruito completamente diverso, allora non possiamo spartire tra lui e noi il merito che egli attribuisce solamente a se stesso.

Se quando il Signore ci converte al bene è come se si trasformasse una pietra in carne, è certo che quanto appartiene alla nostra propria volontà è annullato, e quanto vi succede viene da Dio. Dico che la volontà è abolita non in quanto essa è "volontà", perché nella conversione dell'uomo quanto appartiene alla natura originaria permane. Dico anche che essa è creata "nuova", non perché incominci ad essere volontà, ma perché è trasformata da cattiva in buona. Dico che tutto questo è compiuto interamente da Dio perché, l'Apostolo ne è testimone, non siamo capaci di concepire un solo pensiero buono (2 Co. 3.5). A questo corrisponde quanto detto altrove: non solo Dio aiuta e soccorre la nostra debole volontà e ne corregge la malvagità, ma crea e mette in noi il volere (Fl. 2.13). È facile dedurne quanto ho asserito: tutto il bene che si trova nel cuore umano è opera della pura grazia.

Ancora in questo senso afferma altrove che Dio fa ogni cosa in tutti (1 Co. 12.6). Egli non discute quivi del governo universale del mondo, ma sostiene che la lode per tutti i beni che si trovano nei credenti deve essere riservata a Dio solo. Dicendo: "ogni cosa", considera Dio autore della vita spirituale in tutta la sua estensione. Aveva espresso in precedenza lo stesso concetto con altre parole, dicendo: i credenti sono da Dio, mediante Gesù Cristo (1 Co. 8.6); qui presenta una nuova creazione in cui è annullato quanto appartiene alla comune natura.

 Egli formula anzi un paragone, presentando Gesù Cristo come l'antitesi di Adamo, ed in un altro passo lo sviluppa più chiaramente: siamo l'opera di Dio, essendo stati creati in Gesù Cristo in vista delle buone opere preparate perché camminassimo in esse (Ef. 2.10). Con questo ragionamento vuole dimostrare che la nostra salvezza è gratuita, dato che la sorgente di ogni bene è nella seconda creazione che otteniamo in Gesù Cristo. Se vi fosse in noi la minima facoltà, vi sarebbe anche una porzione di merito; ma per svuotarci completamente egli afferma che non abbiamo potuto meritare nulla, dato che siamo creati in Gesù Cristo per fare le buone opere che Dio ha preparato. Con questo indica di nuovo che dal primo moto fino all'estrema perseveranza, il bene che facciamo viene da Dio in tutte le sue parti.

Per lo stesso motivo il Profeta, dopo aver detto nel Salmo che siamo opera di Dio, onde nessuno incominci a operare suddivisioni, aggiunge subito: "Egli ci ha fatti; non siamo noi che ci siamo fatti" (Sl. 100.3). Dal filo del ragionamento appare che parla della rigenerazione: infatti subito dopo aggiunge che siamo il popolo di Dio e il gregge del suo pascolo. Vediamo che non si è accontentato di attribuire a Dio la lode per la nostra salvezza, ma ci esclude da ogni cooperazione, quasi dicesse: essendo il gregge di Dio, gli uomini non hanno di che gloriarsi neppure un briciolo, perché tutto viene da Dio.

7. C'è forse chi è disposto ad ammettere che la volontà dell'uomo, di per se ostile, è convertita alla giustizia e alla rettitudine dalla sola potenza di Dio; ma che essa, dopo essere stata preparata, agisce per conto proprio, secondo quanto dice sant'Agostino che la grazia precede ogni buona opera e che la volontà operante il bene è condotta dalla grazia e non la conduce, segue e non precede. Questa affermazione in se non contiene nulla di male, ma è stata travisata dal Maestro delle Sentenze.

Considero che sia nelle parole del Profeta, già citate, sia in altri passi analoghi, vi siano due cose da notare: Il Signore corregge, anzi annulla, la nostra perversa volontà, indi ce ne dà, per parte sua, una buona. Essendo la nostra volontà prevenuta dalla grazia, ammetto si possa dire che essa "segue", essendo però opera di Dio, per il fatto che deve essere riformata, non è possibile attribuire all'uomo il fatto di andare incontro, con la propria volontà, alla grazia preveniente.

Non è quindi giusta l'affermazione di san Crisostomo, secondo cui la grazia non può nulla senza la volontà, così come la volontà non può nulla senza la grazia; quasi la volontà non fosse generata e formata dalla grazia, come abbiamo visto essere affermato da san Paolo.

Passando a sant'Agostino, egli non aveva l'intenzione di dare alla volontà umana una parte della lode per le buone opere quando la chiama "ancella della grazia": intendeva solo refutare la malvagia dottrina di Pelagio che vedeva nei meriti dell'uomo la causa prima della salvezza. Ma in accordo con questo proposito dimostra che la grazia precede tutti i meriti, tralasciando la questione del suo effetto perpetuo su di noi, che tratta molto bene altrove. Quando ripete più volte che il Signore previene colui che non vuole onde voglia, e assiste colui che vuole onde non voglia invano, lo costituisce autore unico di ogni bene.

 Del resto nei suoi scritti vi sono tante affermazioni chiare su questo argomento che non c'è bisogno di ulteriori argomentazioni. "Gli uomini" egli dice "si affannano a trovare nella nostra volontà qualche bene che ci appartenga, e non sia di Dio; ma non so come potranno trovarcelo". Parimenti nel primo libro contro Pelagio e Celestio, commentando la frase di Gesù: "Chi ha udito il Padre, viene a me" (Gv. 6.45) , dice: "La volontà dell'uomo è aiutata non solo a sapere quel che deve fare, ma una volta saputolo, a farlo. E così quando il Signore insegna, non secondo la lettera della Legge, ma per la grazia del suo Spirito, insegna non solo in modo che ognuno impari a riconoscerlo, ma anche a perseguirlo e a tradurlo in opera".

8. Siamo così giunti al cuore del problema: trattiamo la cosa sinteticamente e documentiamo le nostre affermazioni con le testimonianze della Scrittura. Successivamente, onde nessuno possa affermare che travisiamo la Scrittura, mostriamo che la verità da noi sostenuta è stata insegnata anche da una santa persona, intendo dire sant'Agostino. Non penso sia utile elencare uno dopo l'altro tutti i passi che si possono riscontrare nella Scrittura per sostenere la nostra tesi: è sufficiente scegliere quelli che possono illustrare la comprensione degli altri. D'altra parte penso che non sarà male mostrare chiaramente la mia concordanza con quel sant'uomo, che giustamente la Chiesa venera.

È evidente per motivo chiaro ed esplicito che l'origine del bene è solamente in Dio: infatti solo la volontà degli eletti è propensa al bene. La causa dell'elezione deve essere cercata al di fuori degli uomini: ne segue che nessuno ha volontà retta di per se stesso e che essa gli perviene dallo stesso gratuito beneplacito per il quale siamo eletti prima della creazione del mondo.

Vi è un'altra ragione quasi simile. Se l'origine del volere e dell'agire rettamente viene dalla fede, bisogna sapere da dove venga la fede stessa. Ora, siccome la Scrittura attesta ovunque in modo esplicito che si tratta di un dono gratuito, ne segue che cominciamo a volere il bene per pura grazia: noi, dico, che naturalmente siamo dediti al male con tutto il cuore.

Quando dunque il Signore dichiara queste due cose relativamente alla conversione del suo popolo: che gli toglierà il suo cuore di pietra e gliene darà uno di carne, manifesta chiaramente la necessità che tutto quello che è nostro sia annullato per condurci al bene, e che tutto quello che vi è sostituito, provenga dalla sua grazia.

Questo non è dichiarato una sola volta; si legge anche in Geremia: "Darò loro un cuore solo ed una via unica, affinché mi temano per tutta la vita e poi metterò il timore del mio nome nei loro cuori affinché non si allontanino da me" (Gr. 32.39). Così in Ezechiele: "Darò a tutti lo stesso cuore e creerò in loro uno spirito nuovo. Toglierò il loro cuore di pietra e darò loro un cuore di carne" (Ez. 11.19). Non potrebbe sottrarci meglio la lode di quanto è buono ed integro nella nostra volontà per attribuirla a se stesso, che definendo la nostra conversione: creazione di un nuovo spirito e di un nuovo cuore. Ne consegue infatti, ancora una volta, che nulla di buono può procedere dalla nostra volontà fino a quando non sia stata riformata; e in secondo luogo che tale trasformazione, in quanto buona, non può essere opera nostra ma solo opera di Dio.

9. In questo senso deve intendersi la preghiera dei santi, ad esempio quella di Salomone: "Il Signore inclini a se i nostri cuori onde lo temiamo e osserviamo i suoi comandamenti" (2 Re 8.58). Egli denuncia in questo modo la pervicacia del nostro cuore che dichiara essere naturalmente ribelle a Dio e alla sua legge, fin che non sia piegato al contrario. Lo stesso è detto nel Salmo: "O Dio, inclina il mio cuore ai tuoi statuti!" (Sl. 119.36). È da notare l'antitesi tra la perversità che ci spinge al male e alla ribellione contro Dio, e il cambiamento che ci conduce a servirlo.

Quando Davide, sentendo di essere stato privato per un tempo della guida della grazia di Dio, domanda al Signore di creare in lui un cuor nuovo e di rinnovare in lui uno spirito diritto (Sl. 51.12) , non riconosce forse che tutte le parti del suo cuore sono piene di impurità e di corruzione e che il suo spirito è interamente perverso? Inoltre, definendo la purezza che desidera "creazione di Dio", gliene attribuisce tutto il merito.

Se qualcuno obbietta che questa preghiera è espressione di un sentimento buono e santo, la risposta è facile: Davide, già in parte ricondotto sul buon cammino, paragona l'orribile abisso nel quale era sprofondato e che aveva esperimentato, con la sua situazione primitiva. Assumendo così la parte dell'uomo lontano da Dio, non senza motivo chiede che venga adempiuto in se stesso quanto Dio offre ai suoi eletti rigenerandoli. E di conseguenza, essendo come morto desidera essere creato di nuovo onde, da schiavo di Satana qual era, divenga strumento dello Spirito Santo.

Il nostro orgoglio è davvero stupefacente! Nulla ci è chiesto da Dio con tanta insistenza quanto l'osservanza del riposo, cioè l'interruzione delle nostre opere, e nulla ci costa maggiore difficoltà quanto la rinuncia a tutte le nostre opere per dar luogo alle sue. Se il nostro impulso non ce lo impedisse, il Signor Gesù ci ha fatto chiaramente conoscere le sue grazie perché esse non siano oscure. "Io sono" egli dice "la vigna, voi siete i tralci e mio Padre è il vignaiolo. Come il tralcio non può dar frutto da se se non rimane sulla vite, così voi, se non dimorate in me; senza di me non potete far nulla" (Gv. 15.1). Se da soli non portiamo frutto, come un ceppo strappato dalla terra e privo di linfa, non c'è più bisogno di chiederci quali siano le possibilità della nostra natura di operare il bene. Ne è ambigua la conclusione: senza lui non possiamo far nulla. Non dice che siamo infermi al punto da non poter bastare al compito, ma ci riduce al nulla assoluto, escludendo anche l'immaginazione di una qualche capacità. Se una volta innestati in Cristo fruttifichiamo, come un tralcio che trae vigore dall'umidità della terra, dalla rugiada del cielo e dal calore del sole, mi sembra che non ci resta alcun elemento in tutte le buone opere, se vogliamo conservare interamente a Dio il suo onore.

Invano si ricorre al cavillo di dire che un qualche succo è contenuto nel ceppo e gli farà produrre frutto: e di conseguenza che esso non prenderebbe tutto dalla terra o dalla radice originaria ma apporterebbe qualcosa di proprio. Gesù Cristo intende dire invece che siamo legno secco e sterile e di nessun valore non appena siamo separati da lui, né si troverà in noi alcuna capacità di fare il bene; come dice altrove: ogni albero che non è stato piantato dal Padre sarà strappato (Mt. 15.13).

Per questo l'Apostolo gliene attribuisce tutta la lode, dicendo: "È Dio che opera in noi il volere e l'operare" (Fl. 2.13). Il primo elemento delle buone opere è la volontà; l'altro è lo sforzo di attuarle e la possibilità di farlo. Dio è l'autore dell'una e dell'altra cosa. Ne consegue che se l'uomo si attribuisce qualcosa nella volontà o nell'esecuzione, sottrae qualcosa a Dio. Se fosse detto che Dio dà aiuto alla nostra volontà inferma, qualcosa ci sarebbe lasciato; ma quando è detto che crea la volontà, questo mostra che tutto quel che vi è di buono viene da fuori di noi. E poiché la stessa buona volontà è impedita e oppressa dalla pesantezza della nostra carne, dice che per sormontare ogni difficoltà il Signore ci dà la costanza e la capacità di compiere.

È vero quanto insegna altrove: non vi è che un solo Dio, il quale opera ogni cosa in tutti (1 Co. 12.6) , e, come abbiamo prima dimostrato, questo include tutto il corso della vita spirituale. Per questo motivo Davide, dopo aver chiesto a Dio di rivelargli le sue vie, per poter camminare nella verità, aggiunge immediatamente: "Unisci il mio cuore al timor del tuo nome!" (Sl. 86.2). Con questo indica che persino quanti nutrono buoni sentimenti sono soggetti a pericolose distrazioni al punto da venir meno o disperdersi come acqua se non fossero rafforzati nelle perseveranza. In un altro passo, avendo pregato Dio di guidare i suoi passi, aggiunge la richiesta della forza per combattere: "L'iniquità non domini in me!" (Sl. 119.133).

In questo modo dunque, Dio inizia e porta a termine in noi la buona opera: la volontà è incitata dalla sua grazia ad amare il bene, spinta a desiderarlo e mossa a cercarlo e a dedicarvisi; per di più questo amore, questo desiderio e questo sforzo non vengono meno, ma durano fino a tradursi in atto; infine l'uomo persegue il bene e vi persevera fino alla fine.

10. Egli muove la nostra volontà non come si è immaginato ed insegnato per lungo tempo: in modo cioè che successivamente noi saremmo in grado di scegliere di tener dietro alla sua azione oppure opporci ad essa; egli la muove con tale efficacia che essa in séguito è costretta a seguirlo.

Di conseguenza non si può accettare quanto spesso scrive Crisostomo, che Dio attira solo quanti vogliono essere attirati. Con questo intende dire che Dio ci tende la mano e aspetta, se ci sembrerà bene di servirci del suo soccorso. Ammettiamo che, nel tempo in cui l'uomo era integro, la sua condizione gli permettesse di volgersi dall'una oppure dall'altra parte. Ma Adamo ha mostrato con il suo esempio quanto sia povero e miserabile il libero arbitrio se Dio non opera in noi il volere e il fare. Che vantaggio potremo ritrarne, se Dio non ci impartirà la sua grazia? E quando riversa su noi la pienezza della sua grazia, gliene togliamo la lode con la nostra ingratitudine! L'Apostolo non insegna solamente che la grazia di volere il bene ci è offerta, se l'accettiamo, ma che Dio fa e forma in noi il volere: il che equivale a dire che Dio con il suo Spirito dirige, piega e modera il nostro cuore e vi regna come in un suo possesso.

In Ezechiele non solo egli promette di dare un cuor nuovo ai suoi eletti perché possano camminare nei suoi precetti, ma perché vi camminino effettivamente (Ez. 11.19; 36.27). E non si può comprendere altrimenti questa frase di Cristo: "Chi ha udito il Padre, viene a me" (Gv. 6.45) se non nel senso che la grazia di Dio ha di per se l'efficacia di compiere e mettere ad effetto la sua opera, come sant'Agostino sostiene. La qual grazia Dio non concede a chiunque, come invece sostiene il proverbio comune affermando che essa non è negata a chi fa tutto ciò che può fare.

 Bisogna certo insegnare che la misericordia di Dio è offerta a chiunque la cerchi, senza eccezione alcuna. Ma poiché in realtà, nessuno comincia a cercarla prima di essere stato ispirato dal cielo, non bisognava sminuire la grazia di Dio in questo punto. Certo il privilegio di essere guidati da Dio, dopo essere stati rigenerati dal suo Spirito, appartiene solo agli eletti.

Per questo sant'Agostino tanto si beffa di coloro che si vantano di desiderare da se il bene, almeno parzialmente, quanto rimprovera coloro che considerano la grazia essere data a tutti, alla rinfusa, mentre essa è pegno della elezione gratuita di Dio. Egli dice che la natura è comune a tutti, non la grazia, e quanti estendono genericamente a tutti, ciò che Dio concede solo per suo beneplacito, dimostrano intelligenza brillante ma fragile come vetro. Parimenti: "Come sei venuto a Cristo? Credendo. Temi dunque di perire ed essere allontanato dalla giusta via, se ti vanti di averla trovata da solo. Se dici di essere venuto con il tuo libero arbitrio e la tua volontà, di cosa ti gonfi? Non vuoi riconoscere che anche questo ti è stato dato? Ascolta colui che ci chiama: Nessuno viene a me se il Padre non lo attira". Ed è facile concludere, con le parole di san Giovanni, che i cuori dei credenti sono guidati dall'alto, con il risultato che seguono un impulso immutabile e teso all'obbedienza. "Chi è da Dio" dice "non può peccare perché il seme di Dio dimora in lui" (1 Gv. 3.9).

Vediamo così escluso questo moto, privo di efficacia, immaginato dai Sofisti, quando dicono: Dio offre solamente la sua grazia in modo che ognuno la accetta o la respinge a suo piacimento. Questa fantasticheria, rispondo, non è né carne né pesce, ed è esclusa dall'affermazione secondo cui Dio ci sostiene nella perseveranza tenendoci lontani dal pericolo di deviare.

11. Né si sarebbe dovuto dubitare che la perseveranza debba essere considerata un dono gratuito di Dio. L'erronea opinione contraria è radicata nel cuore umano: che cioè essa sia dispensata a ciascuno, proporzionatamente al merito, secondo che l'uomo dimostra di non essere ingrato nei riguardi della prima grazia. Questa opinione, nata dalla convinzione che sia in nostro potere rifiutare oppure accettare la grazia di Dio che ci viene presentata, è facile da refutare, dato che tale convinzione si è dimostrata falsa, essendo basata su un duplice errore. Affermano infatti che adoperando bene la prima grazia di Dio meritiamo che con altre grazie successive remuneri il nostro buon uso: aggiungono che la grazia di Dio non è sola ad agire in noi, ma semplicemente coopera.

Quanto al primo punto, bisogna essere certi che il Signore moltiplicando le sue grazie nei suoi servitori e conferendone loro delle nuove ogni giorno, dato che l'opera cominciata in loro gli è gradita, trova in loro materia e occasione di arricchirli maggiormente. A questo si riferiscono le affermazioni seguenti: "A chi ha, sarà dato", "Poiché sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte" (Mt. 25.21-23.29; Lu 19.17.20. Ma dobbiamo mettere in guardia contro due errori: attribuire all'uomo l'uso della prima grazia, in modo tale che sia lui a rendere efficace la grazia di Dio con la propria collaborazione, e in secondo luogo affermare che le grazie conferite al credente siano ricompense per il buon uso fatto della prima grazia, come se tutto non gli pervenisse dalla gratuita bontà di Dio.

I credenti, lo riconosco, possono aspettarsi che quanto meglio avranno impiegato le grazie di Dio, tante nuove e maggiori grazie saranno loro giornalmente sopraggiunte. Ma d'altra parte aggiungo che questo buon impiego viene da Dio e che questa remunerazione procede dalla sua gratuita benevolenza.

Gli Scolastici hanno sempre in bocca questa distinzione corrente tra "grazia operante" e "grazia cooperante", ma la travisano e rovinano tutto. Sant'Agostino l'ha correttamente adoperata, aggiungendo però una dichiarazione per precisare quanto poteva essere Malinteso: Dio compie cooperando quanto ha cominciato operando, vale a dire, adopera quanto ci ha già dato assieme a quanto vi aggiunge; si tratta della medesima grazia ma prende il nome dal diverso modo di effettuarsi. Di conseguenza egli non opera una separazione tra Dio e noi, come se vi fosse una mutua concorrenza tra il moto di Dio ed un altro che avessimo a parte; ma vuol solo mostrare come la grazia aumenti. A questo si riferisce il testo già citato: che la buona volontà precede molti doni di Dio, ma essa è nel numero. Ne segue che non può esserle attribuito nulla di proprio: san Paolo lo ha espressamente dichiarato. Dopo aver detto infatti che Dio opera in noi il volere e il fare, subito aggiunge che egli fa una cosa e l'altra secondo la propria buona volontà, intendendo con questa la sua gratuita benignità (Fl. 2.13).

Alla pretesa che, dopo aver accolto la prima grazia, noi coopereremmo con Dio, io rispondo: se i miei avversari vogliono dire che dopo essere stati condotti dalla forza di Dio ad obbedire alla giustizia noi seguiamo poi volontariamente la guida della sua grazia non faccio obbiezioni; e certo che dove regna la grazia di Dio, vi e questa prontezza all'obbedienza. Ma donde ha questo origine se non nel fatto che lo Spirito di Dio, sempre uguale a se stesso, conferma in noi il desiderio di obbedienza che ha generato fin dal principio? Se al contrario vogliono dire che l'uomo lo faccia per virtù propria e cooperi con la grazia di Dio, dichiaro che questo è errore pestilenziale.

12. A questo riguardo interpretano erroneamente la frase dell'Apostolo: "Ho lavorato più di tutti gli altri, non io ma la grazia di Dio con me" (1 Co. 15.10). Essi dicono: sarebbe stato troppo arrogante l'anteporsi a tutti gli altri e perciò egli lo attenua rendendo lode alla grazia di Dio, in modo tuttavia da dirsi compagno d'opera di Dio.

Stupisce che tanti personaggi, ammirevoli sotto altri aspetti, abbiano inciampato in questa pagliuzza! San Paolo non dice che la grazia di Dio abbia operato con lui per farsi compagno di questa, ma piuttosto le attribuisce tutto il merito per l'opera: "Non sono io ad aver lavorato "egli dice "ma la grazia di Dio che mi assisteva". Lo sbaglio deriva dal fatto che si fermano alla traduzione corrente che è dubbia: ma il testo greco di san Paolo è chiaro da non poter aver dubbi. Se si vuol tradurre veracemente l'affermazione, essa non significa che la grazia di Dio fosse cooperante con l'Apostolo, ma che essa faceva tutto, con la assistenza di lui.

Sant'Agostino lo espone chiaramente e brevemente dicendo che la buona volontà presente nell'uomo precede molte grazie di Dio ma non tutte, perché essa è nel numero. Aggiunge di conseguenza: "Infatti è scritto: La misericordia di Dio ci precede e ci segue (Sl. 59.2; 23.6) , vale a dire, essa previene colui che non vuole affinché voglia e segue colui che vuole onde non voglia invano",.

Con questo concorda san Bernardo, il quale ci presenta una Chiesa che pronuncia queste parole: "O Dio, tirami in qualche modo con la forza e mio malgrado rendimi volonterosa: tirami, pigra quale sono, e rendimi capace di correre".

13. Ascoltiamo ora sant'Agostino, in modo che i Pelagiani del nostro tempo, vale a dire i Sofisti della Sorbona, non ci rimproverino, secondo la loro abitudine, di essere contro tutti gli antichi dottori. E in questo seguono il loro padre Pelagio che ha creato fastidi a sant'Agostino con la stessa calunnia.

Egli tratta questa materia in un libro intitolato Della correzione e della grazia di cui riassumerò alcuni passi adoperando le sue stesse parole. Afferma che la grazia di perseverare nel bene è stata data ad Adamo, se avesse voluto adoperarla; ci è data per spingerci a volere e perché, volendo, sormontassimo le concupiscenze. Adamo dunque ha avuto il potere, se avesse voluto; ma non ha avuto il volere di potere, a noi è dato il volere e il potere. La prima libertà è stata di potersi astenere dal peccare: quella di cui godiamo ora è molto più grande ed è di non poter peccare.

I Sorbonisti riferiscono queste affermazioni alla perfezione che sarà nella vita futura: ma è ridicolo, dato che sant'Agostino afferma poco dopo che la volontà dei credenti è condotta dallo Spirito Santo in modo che possono fare bene, perché vogliono; e che lo vogliono perché Dio crea in loro il volere. Se in questa grave infermità, egli dice, nella quale deve attuarsi l'azione di Dio per rimediare all'orgoglio e reprimerlo (2 Co. 12.9) , fosse loro lasciata la volontà di poter compiere il bene con l'aiuto di Dio, qualora lo desiderassero, e Dio non fornisse loro il volere, in mezzo a tante tentazioni la loro volontà, inferma, soccomberebbe e non potrebbero perseverare. Dio dunque ha rimediato alla infermità della natura umana, dirigendola in modo che non possa volgersi qua o là e guidandola in modo che non possa distrarsi. In tal modo, sebbene sia inferma, non può venir meno.

Successivamente egli esamina la necessità che i nostri cuori seguano l'impulso con cui Dio li trascina e afferma: Dio guida gli uomini secondo la loro volontà e non per costrizione, ma la volontà l'ha formata lui in loro.

Ecco così la nostra tesi principale approvata dalla bocca di sant'Agostino: la grazia non è solamente offerta da Dio con la possibilità di essere accettata o rifiutata secondo il beneplacito di ciascuno; ma è questa grazia stessa che induce i nostri cuori a seguire i suoi moti e produce tanto la scelta che la volontà, di sorta che le buone opere susseguenti ne sono il frutto. Essa è ricevuta dall'uomo solo in quanto ha piegato il suo cuore all'obbedienza. Per questo motivo, in un altro passo, lo stesso Dottore dice che solo la grazia di Dio produce ogni opera buona in noi.

14. L'affermazione sua che si legge altrove: la volontà non è distrutta dalla grazia, ma cambiata da malvagia in buona e dopo essere fatta buona è aiutata, significa che l'uomo non è gettato come una pietra da Dio, senza alcun movimento del cuore, come da una forza esterna: ma è mosso talché obbedisce di buon grado.

Inoltre egli asserisce che la grazia è data specialmente agli eletti, quale dono gratuito; scrive infatti a Bonifacio nei seguenti termini: "Sappiamo che la grazia di Dio non è data ad ogni uomo e quando è data a qualcuno, non è per i meriti delle opere né della volontà, ma per la gratuita bontà di Dio; se essa è negata, lo è per giusto giudizio di Dio". In questa stessa epistola condanna fermamente l'opinione di quanti stimano che la grazia seconda verrebbe concessa come retribuzione ai meriti umani, in quanto gli uomini se ne mostrerebbero degni non respingendo la prima. Vuole sia riconosciuto da Pelagio che la grazia ci e necessaria per ogni opera, e che non viene concessa per i meriti, onde permanga grazia vera.

Non si può riassumere meglio l'argomento di quanto egli faccia nell'ottavo capitolo del suo libro Della correzione e della grazia, dove in primo luogo insegna che la volontà umana non ottiene la grazia in virtù delle propria libertà, ma ottiene la libertà per la grazia di Dio. In secondo luogo, che essa è condotta ad amare e a perseverare nel bene. In terzo luogo, che essa è fortificata con forza invincibile per resistere al male. In quarto luogo, che quando essa è guidata dalla grazia, non viene mai meno; quando ne è privata, subito inciampa; che la misericordia gratuita di Dio converte la volontà al bene e una volta convertita, essa vi persevera, che se la volontà dell'uomo è condotta al bene, e dopo esservi stata indirizzata vi persevera, è unicamente per la volontà di Dio e non per meriti propri.

In questo modo l'unico libero arbitrio lasciato all'uomo è quello che descrive in un altro passo: non può convertirsi a Dio né rimanere in Dio se non per la sua grazia; e tutto quello che può, deriva da questa.

 

 

CAPITOLO IV

DIO OPERA NEL CUORE UMANO

 

1. Credo aver sufficientemente dimostrato che l'uomo è prigioniero sotto il giogo del peccato al punto da non poter, per natura, desiderare il bene con la propria volontà né dedicarvisi. Inoltre abbiamo posto la distinzione tra costrizione e necessità, da cui deriva che l'uomo pecca necessariamente, senza peraltro cessare di peccare per volontà propria.

Ma, dato che sottoponendolo alla schiavitù del Diavolo, sembra si dica che è guidato dalla volontà di quello e non dalla propria, occorre esaminare in qual modo ciò avvenga. Bisogna, in séguito, risolvere la questione su cui sussiste, generalmente, incertezza: se si debba attribuire a Dio una qualche responsabilità per le azioni malvagie in cui la Scrittura indica una sua qualche partecipazione.

Quanto al primo punto, sant'Agostino paragona la volontà dell'uomo ad un cavallo guidato dalla volontà del cavaliere. Paragona d'altra parte Dio e il Diavolo a dei cavalieri, dicendo: se Dio domina la volontà dell'uomo, la conduce all'andatura giusta, come un cavaliere abile ed esperto, incitandola quando tarda, frenandola quando è troppo pervicace, reprimendola quando s'impenna troppo, correggendone la ribellione e riportandola sulla retta strada. Se al contrario il Diavolo è riuscito ad occupare la posizione, come un cattivo cavaliere incapace, la smarrisce attraverso i campi, la fa cadere nei fossati, la fa inciampare e deviare per le valli, l'abitua alla ribellione e alla disobbedienza.

Per il momento ci accontenteremo di questa similitudine, non essendocene di migliore.

Il fatto che la volontà dell'uomo naturale sia soggetta alla sovranità del Diavolo e ne sia guidata, non significa che vi sia costretta con la forza e che debba obbedirvi suo malgrado, così come si costringe un servo a fare il suo lavoro, anche se non ne ha voglia. Vogliamo invece dire che, ingannata dai malefici del Diavolo, è inevitabilmente sottomessa ad obbedire ai suoi voleri, anche se lo fa senza costrizione. Infatti quanti non ricevono dal Signore la grazia di essere guidati dallo Spirito Santo, sono abbandonati a Satana e sono guidati da lui. Per questo motivo san Paolo dice che il dio di questo mondo (cioè il Diavolo) ha accecato l'intelletto degli increduli perché non possano percepire la luce dell'Evangelo (2 Co. 4.4). E in un altro passo dice che egli regna su tutti gli iniqui ed i disobbedienti (Ef. 2.2). L'accecamento dei malvagi e tutte le male azioni che ne derivano sono chiamati "opere del Diavolo; e tuttavia le cause non devono essere cercate fuori della loro stessa volontà, nella quale ha sede la radice del male, il fondamento del regno del Diavolo, vale a dire il peccato.

2. L'azione di Dio nei malvagi invece è ben differente. Per ben comprenderla consideriamo il danno inflitto dai Caldei a Giobbe: dopo aver ucciso i suoi pastori gli rubarono tutto il suo bestiame. Gli autori del misfatto sono identificabili a prima vista. Se infatti vediamo dei ladri che hanno commesso qualche assassinio o ladrocinio, non abbiamo dubbi nell'imputare loro la responsabilità e nel condannarli. Ma il racconto afferma che questo proveniva dal Diavolo. Egli dunque vi ha contribuito, per parte sua. D'altra parte Giobbe riconosce l'opera di Dio e afferma che Dio lo ha privato dei beni di cui era stato derubato dai Caldei (Gb. 1). Come possiamo affermare che una stessa azione sia stata compiuta da Dio, dal Diavolo e dagli uomini, senza con questo giustificare il Diavolo che sembra agire in concordanza con Dio oppure considerare Dio autore del male?

La risposta è facile se si considera prima il fine e poi il modo di operare. Lo scopo di Dio era di esercitare la pazienza del suo servitore nell'avversità; Satana si sforzava di condurlo alla disperazione; i Caldei cercavano con la rapina di arricchirsi con i beni altrui. Questa differenza di propositi distingue chiaramente l'opera dell'uno e dell'altro.

Altrettanta differenza vi è nel modo di agire. Il Signore abbandona il suo servitore Giobbe a Satana perché lo tormenti; d'altra parte dà in mano a quest'ultimo i Caldei che aveva eletto suoi ministri per questo fine, e lo incarica di spingerli e guidarli. Satana con i suoi dardi velenosi stimola il cuore dei Caldei, d'altronde malvagi, a compiere questo misfatto. I Caldei, abbandonandosi al Malfare, contaminano le proprie anime e i propri corpi. È dunque corretto dire che Satana opera attraverso i reprobi su cui esercita il suo dominio, vale a dire il regno della perversità.

È d'altra parte corretto affermare che, in certo modo, Dio è all'opera, dato che Satana, strumento della sua ira, li spinge qua e là secondo il proprio volere e i propri desideri, per eseguire i giudizi divini. Non parlo qui dell'azione universale di Dio che sostiene tutte le creature e da cui traggono forza per agire. Mi riferisco alla sua azione particolare che si manifesta in una singola opera

Non è dunque assurdo attribuire una stessa azione a Dio, al Diavolo e all'uomo contemporaneamente. La diversità però del fine e della modalità fa sì che la giustizia di Dio risulti comunque irreprensibile, la malvagità del Diavolo e dell'uomo si manifesti in tutto il suo obbrobrio.

3. Gli antichi dottori si fanno talvolta scrupolo di riconoscere la verità su questo punto, perché temono di dare la possibilità ai malvagi di bestemmiare o parlare irriverentemente delle opere di Dio. Approvo questa prudenza, ma non credo tuttavia che questo pericolo sussista se ci atteniamo semplicemente a quanto la Scrittura ci insegna. Anche sant'Agostino ha talvolta questo scrupolo: per esempio quando afferma che l'accecamento e l'indurimento dei malvagi non è da attribuire all'opera di Dio ma alla sua prescienza. Questa sottigliezza non si accorda con molte espressioni della Scrittura che mostrano con evidenza esservi altra causa che la prescienza di Dio. E lo stesso sant'Agostino nel quinto libro contro Giuliano, ritrattando la prima affermazione, sostiene chiaramente che i peccati non hanno luogo solo con il permesso e la sopportazione di Dio ma anche mediante la sua potenza, allo scopo di punire gli altri peccati.

Anche l'affermazione di altri, secondo cui Dio permetterebbe il male, ma non lo invierebbe, è troppo debole per poter sussistere. Spesso è affermato che Dio acceca ed indura i malvagi, che torce e piega e spinge i loro cuori, come abbiamo esposto precedentemente. Il ricorrere alla prescienza o alla autorizzazione, non spiega queste affermazioni.

Rispondiamo dunque che questo avviene in due modi. Se è vero che, tolta la luce di Dio, restano in noi solo oscurità e cecità, tolto il suo Spirito i nostri cuori sono induriti come pietra, venendo meno la sua guida non possiamo che smarrirci; perciò è giustificata l'affermazione secondo cui egli acceca, indura e spinge quelli a cui toglie la facoltà di vedere, di obbedire e di agire rettamente.

In secondo luogo Dio, per eseguire i suoi giudizi per mezzo del Diavolo, ministro della sua ira, volge a suo piacimento le decisioni dei malvagi, ne dirige la volontà e ne rafforza i propositi. Ecco perché Mosè, dopo aver raccontato che Sihon re degli Amorrei, a cui Dio aveva indurito il cuore e lo spirito, si era armato per impedire il passaggio al popolo, aggiunge immediatamente che il fine della decisione divina era di darlo nelle mani degli Ebrei (De 2.30). La sua ostinazione ha avuto la funzione di preparare la sua rovina, cui Dio l'aveva predestinato.

4. Alla luce del primo punto bisogna intendere l'affermazione contenuta in Giobbe: "Dio toglie la lingua a quelli che parlano bene e la ragione ai savi e ai vecchi. Toglie il cuore ai capi del popolo e li fa errare fuori strada" (Gb. 12.20). Parimenti in Isaia: "Perché o Signore ci hai resi insensati? Perché hai indurito il cuore: Perché non ti temessimo?" (Is. 63.17). Tutte queste frasi esprimono quello che Dio fa degli uomini, abbandonandoli e allontanandoli, ma non mostrano come operi in essi.

Vi sono però espressioni più radicali, come quando si parla dell'indurimento di Faraone: "Indurirò il cuore di Faraone "dice il Signore" affinché non vi ascolti e non liberi il popolo". In séguito afferma di averne spinto e confermato il cuore (Es. 4.21; 7.3; 10.1). Bisogna intendere che l'ha indurito perché non l'ha intenerito? Certamente: ma vi è di più. Ha dato il suo cuore a Satana perché lo confermasse nell'ostinazione. Per questo aveva precedentemente detto: Manterrò in mano il suo cuore. Parimenti quando il popolo d'Israele esce dall'Egitto, gli abitanti del paese in cui entra si fanno avanti con intenzioni ostili. Chi li spinge? Mosè dichiara che il Signore aveva indurito i loro cuori (De 2.30). Il Profeta raccontando lo stesso episodio dice: il Signore aveva volto i loro cuori all'odio verso il suo popolo (Sl. 105.25). Non si può dunque dire che abbiano errato solo perché erano privi della guida di Dio; perché è il Signore in certo qual modo che li guida e li conferma a farlo.

Anzi, ogni volta che Dio ha voluto castigare le trasgressioni del popolo, come ha eseguito la propria volontà per mezzo dei malvagi? In modo da far risultare chiaramente che la forza e l'efficacia dell'azione derivava da lui e che essi ne erano solo ministri. Per questa ragione, talvolta, minaccia di fischiare per far accorrere i popoli infedeli a distruggere Israele (Is. 5.26; 7.18); talvolta li paragona ad una rete (Ez. 12.13; 17.20); talvolta ad un martello (Gr. 50.23). Ma ha specialmente dimostrato di non essere alieno dal servirsi di loro quando paragona Sennacherib, uomo malvagio e perverso, ad una scure (Is. 10.15) dicendo di guidarlo e spingerlo con mano per tagliare, secondo il proprio volere. Sant'Agostino in un passo stabilisce una distinzione da non sottovalutare: il fatto che gli iniqui pecchino, deriva da loro stessi; che, peccando, facciano una cosa o un'altra, deriva dalla potenza di Dio che divide le tenebre come gli sembra bene.

5. Vi è un passo da cui appare che l'opera di Satana interviene ad incitare i malvagi quando Dio vuole, nella sua provvidenza, volgerli ora qua ora là. È detto spesso che il cattivo spirito di Dio ha posseduto o abbandonato Saul (1 Re 16.14; 18.10; 19.9). Non è lecito riferire questo allo Spirito Santo; vediamo però che lo spirito immondo è chiamato" di Dio "in quanto risponde al beneplacito e al potere di Dio ed è strumento della sua volontà e non autore. Bisogna anche aggiungere quanto san Paolo dice: Dio rende efficace l'errore e l'illusione, onde chi non ha voluto credere alla verità, creda alla menzogna (2 Ts. 2.10 - 11).

Tuttavia, come abbiamo detto, vi è sempre una grande distanza tra l'azione di Dio e quella del Diavolo o dei malvagi in una stessa opera. Dio fa servire alla propria giustizia i malvagi strumenti che ha in mano e che può volgere dove gli sembra bene. Il Diavolo e gli iniqui, essendo malvagi, traducono in opere la malvagità che hanno concepito nel proprio spirito perverso.

Per il resto abbiamo già esposto precedentemente, parlando della provvidenza di Dio, quanto è necessario per difendere la maestà di Dio e refutare i cavilli di cui si servono a questo proposito i bestemmiatori. Qui ho voluto solo mostrare brevemente come il Diavolo regni in un uomo malvagio e come Dio sia all'opera tanto nell'uno quanto nell'altro.

6. Non abbiamo ancora detto quale libertà l'uomo abbia nelle azioni che non sono né buone né malvagie e appartengono alla vita terrestre più che a quella spirituale. Alcuni hanno detto che in esse abbiamo libera scelta. Penso abbiano sostenuto questa tesi non per sostenere una convinzione sicura, ma più che altro perché non volevano discutere una questione che consideravano di scarsa importanza.

Per quanto mi riguarda, riconosco che chi ammette l'insufficienza delle proprie forze ai fini della giustificazione, ha compreso tutto quello che è necessario alla salvezza; non bisogna tuttavia dimenticare che se sappiamo scegliere e desiderare quanto ci è utile e d'altra parte fuggiamo quanto ci è nocivo, ciò avviene per grazia speciale di Dio. E infatti la provvidenza di Dio giunge non solo a far accadere quanto sa esserci utile, ma anche a piegare la volontà degli uomini ad uno stesso scopo. È vero che se valutiamo l'andamento delle cose esterne con il nostro giudizio, ci sembreranno sottostare all'arbitrio dell'uomo; ma se ascoltiamo le molte testimonianze che confermano come il nostro Signore stesso guidi i cuori degli uomini a questo proposito, siamo condotti a sottomettere la capacità umana alla speciale azione di Dio.

Chi ha spinto gli Egiziani a prestare al popolo d'Israele i vasi più preziosi che avessero? (Es. 11.3). Mai lo avrebbero fatto da soli. Ne deriva che il loro cuore era condotto da Dio più che dalle proprie inclinazioni o dai propri sentimenti. Anche Giacobbe il patriarca, se non fosse stato persuaso che Dio infonde negli uomini sentimenti diversi secondo il suo beneplacito, non avrebbe detto a proposito del proprio figlio Giuseppe, che credeva essere un Egiziano pagano: Dio vi dia di trovar misericordia presso quell'uomo (Ge 43.14). E tutta la Chiesa proclama nel Salmo che Dio le ha fatto grazia nell'ammansire i cuori dei popoli crudeli (Sl. 106.46).

Inversamente, quando Saul, infiammatosi, ha iniziato la guerra, la causa di tale mutamento è ravvisata nel fatto che Dio lo ha spinto (1 Re 11.6). Chi ha distratto il cuore di Absalom perché non accettasse il consiglio di Ahitofel che era uso accettare come vangelo? (2 Re 17.14). Chi indusse Roboamo ad ascoltare i consigli dei giovani? (2 Re 12.10.14). Chi, all'arrivo dei figli di Israele, terrorizzò tanti popoli più coraggiosi e meglio armati? La povera meretrice Raab vi riconobbe la mano di Dio (Gs. 2.9). E ancora: chi ha colpito di spavento il cuore del popolo d'Israele, se non colui che nella Legge minaccia di dare un cuor pavido? (Le 26.36; De 28.65).

7. Qualcuno vorrà obbiettare che questi sono esempi singolari, dai quali non si può trarre una norma generale. Io rispondo che sono sufficienti a provare la mia affermazione: ogniqualvolta Dio vuol dare via libera alla sua provvidenza, anche nelle cose esterne, piega e spinge la volontà degli uomini a suo piacimento; e la loro libertà di scelta non è libera al punto da non essere retta da Dio.

Lo vogliamo o no, l'esperienza quotidiana ci costringerà a constatare che il nostro cuore è guidato dall'azione di Dio più che dalla propria libertà di decisione: infatti spesso la ragione e il giudizio ci vengono meno in cose non troppo difficili a comprendere e perdiamo coraggio in situazioni facili da risolvere. Mentre al contrario, in questioni oscurissime e dubbie, decidiamo senza difficoltà e sappiamo come uscirne; in situazioni di grande responsabilità e grande pericolo, il coraggio ci sostiene con fermezza. Donde viene questo se non dal fatto che Dio opera in un senso come nell'altro? In questo senso intendo la parola di Salomone: "Il Signore fa udire l'orecchio e vedere l'occhio" (Pr 20.12). Non mi sembra infatti che quivi parli della creazione, bensì della grazia speciale che Dio offre agli uomini giorno dopo giorno.

Inoltre, quando dice che il Signore tiene nella sua mano il cuore dei re, come ruscelli d'acqua, e li fa scorrere dove gli sembra bene (Pr 21.1) , non v'è dubbio che includa tutta l'umanità sotto una stessa categoria. Se c'è infatti un uomo la cui volontà sia libera da ogni soggezione, questo è proprio il sovrano, la cui volontà governa gli altri. Se dunque la volontà del re è condotta dalla mano di Dio, la nostra non sarà affatto libera da questa condizione. Questo è espresso da una bella frase di sant'Agostino: "Se guardiamo attentamente la Scrittura" egli dice "vediamo che sono sottoposte alla potenza di Dio non solamente la buona volontà umana, che Dio ha creato nei cuori e che li conduce alle buone opere e alla vita eterna, ma anche quella che si riferisce alla vita presente. E ciò al punto che egli la volge secondo il suo beneplacito, dove vuole, quando vuole, o per essere utile al prossimo o per essergli nociva, allorché vuole infliggere un castigo. E tutto avviene per il suo giudizio occulto eppure giusto".

8. A questo punto i lettori devono però ricordarsi che non bisogna valutare la facoltà di libera scelta dell'uomo in base al verificarsi dei fatti, come fanno alcuni ignoranti. Essi credono di poter provare che la volontà umana sia schiava perché per sino i sommi monarchi di questo mondo non riescono a portare a compimento le proprie imprese.

La facoltà e la libertà di cui parliamo devono essere considerate nell'uomo e non valutate in base agli avvenimenti esterni. Quando si dibatte il problema del libero arbitrio, non si discute se l'uomo abbia la possibilità di realizzare e portare a termine quello che ha deciso, senza che nulla possa impedirglielo: ma ci si domanda se in ogni cosa egli abbia libertà di scelta nel proprio giudizio per discernere il bene dal male, accettare l'uno e respingere l'altro; e similmente se la sua volontà abbia libera scelta di desiderare, cercare e seguire il bene, di odiare ed evitare il male. Se tale fosse la condizione dell'uomo non sarebbe meno libero stando in un carcere che essendo dominatore della terra intera.

 

 

CAPITOLO V

GLI ARGOMENTI PORTATI A DIFESA DEL LIBERO ARBITRIO SONO PRIVI DI VALORE

 

1. Potremmo considerare sufficientemente dibattuto il problema della servitù dell'animo umano, se argomentazioni contrarie non venissero addotte da coloro che cercano di sedurlo con una falsa concezione della libertà.

In primo luogo vengono raccolte alcune assurdità per fare apparire odiosa questa servitù, quasi ripugnasse al senso comune. Si ricorre poi alla testimonianza della Scrittura. Risponderemo seguendo lo stesso ordine.

Essi argomentano, dunque, che se il peccato è commesso necessariamente non è più peccato; e se è volontario si può evitare. Con quest'arma Pelagio combatteva contro sant'Agostino; pure queste tesi vanno prese in considerazione finché non siano state refutate.

Io nego che il peccato cessi di essere considerato tale per il fatto che è inevitabile. Nego d'altra parte che si possa concludere che, considerandolo volontario, lo si possa evitare. Qualcuno volendo criticare Dio, ricorre al sotterfugio di pretendere l'impossibilità a fare altrimenti? La risposta è pronta: se gli uomini, asserviti come sono al peccato, l'abbiamo già detto, non possono che volere il male, questo non deriva dalla loro creazione originaria, ma dalla corruzione che è sopravvenuta. Donde viene l'infermità di cui i malvagi si prevarrebbero volentieri, se non da Adamo che spontaneamente si è sottomesso alla tirannia del Diavolo? Questa è l'origine della perversità che ci tiene tutti vincolati nei suoi lacci: il primo uomo si è ribellato al suo Creatore. Se tutti sono considerati a buon diritto colpevoli di tale ribellione, non pensino di giustificarsi con la scusa della necessità, nella quale è la causa evidentissima della loro condanna. Questo l'ho illustrato precedentemente ed ho citato l'esempio dei diavoli, dal quale risulta che chi pecca per necessità non cessa di peccare volontariamente; come inversamente, sebbene gli angeli abbiano una volontà che non può declinare dal bene, essa non cessa peraltro di essere volontà. Questo è stato rettamente inteso da san Bernardo, il quale dice che siamo tanto più miserabili in quanto la necessità è volontaria: ed essa tuttavia ci costringe sotto il suo giogo, di sorta che siamo servi del peccato.

La seconda parte della loro argomentazione, vale a dire la pretesa che quanto è compiuto volontariamente sia compiuto in piena libertà, non è valida. Abbiamo precedentemente dimostrato che molte azioni sono compiute volontariamente pur senza essere scelte liberamente.

2. Inoltre i nostri avversari sostengono che se i vizi e le virtù non dipendono dalla libera scelta, non ha senso che l'uomo ne sia remunerato oppure punito. Questa considerazione è ripresa da Aristotele ed è talvolta utilizzata, lo riconosco, da san Crisostomo e da san Girolamo. Girolamo non nasconde che essa è corrente presso i Pelagiani e cita queste loro parole: Se la grazia di Dio agisce in noi, essa sarà remunerata e non noi che non operiamo. Per quanto riguarda le punizioni di Dio contro il malfatto, faccio notare che esse ci sono inflitte giustamente perché la colpa del peccato risiede in noi. Poco importa se pecchiamo per determinazione libera o condizionata dato che lo facciamo per cupidità volontaria; l'uomo si riconosce peccatore in quanto vive sotto la servitù del peccato.

D'altra parte, quale assurdità parlare di premio per il vivere bene, se riconosciamo che esso ci viene attribuito dalla benignità di Dio e non per i nostri meriti! Molte volte sant'Agostino ripete che Dio non corona i nostri meriti, bensì i suoi doni in noi, e che il salario che riceviamo non è definito in questo modo perché sia dovuto ai nostri meriti, ma perché è dato quale retribuzione delle grazie precedentemente conferiteci. Essi comprendono rettamente che i meriti non hanno più ragion d'essere se non procedono dalla forza propria dell'uomo. Stupirsene è ridicolo!

Sant'Agostino non teme di proporre come realtà certa quanto essi considerano così irragionevole. Egli dice: "Quali sono i meriti di tutti gli uomini? Gesù Cristo viene non con un salario dovuto ma con la sua grazia gratuita e li trova tutti peccatori; egli che è libero da ogni peccato e che libera gli altri"; e: "Se ti fosse dato il dovuto, dovresti essere punito. Ma cosa avviene? Dio non ti rende la pena che ti era dovuta, ma ti dà la grazia che non ti spettava affatto. Se vuoi escluderti dalla grazia di Dio, vantati dei tuoi meriti"; e ancora: "Da solo non sei nulla, i peccati sono tuoi, i meriti sono di Dio. Devi essere punito e quando Dio ti darà il salario della vita, coronerà i suoi doni, non i tuoi meriti". In questo senso altrove insegna che la grazia non viene dal merito, ma il merito viene dalla grazia. E subito dopo conclude che Dio precede tutti i meriti con i suoi doni affinché i suoi altri meriti seguano; che egli dà completamente e gratuitamente quanto dà, perché non c'è nessuna ragione per salvarci. Ma è superfluo continuare in questa enumerazione, dato che i suoi scritti sono pieni di queste affermazioni.

L'Apostolo stesso li libererà da questa idea assurda e fole se vorranno prendere in considerazione i princìpi da cui egli deduce la nostra felicità e la gloria eterna da noi attesa: "Quelli che Dio ha eletti" egli dice "li ha pure chiamati: quelli che ha chiamati, li ha pure giustificati: e quelli che ha giustificati, li ha pure glorificati", (Ro 8.30). Perché dunque i credenti sono incoronati? Perché sono stati eletti, chiamati e giustificati dalla misericordia del Signore e non per il loro impegno.

Si superi dunque questa paura assurda che non vi sarà più alcun merito senza il libero arbitrio. : È stoltissimo voler cercare di sfuggire alle conclusioni cui ci conduce la Scrittura: "Se hai ricevuto ogni cosa" dice san Paolo "perché ti glorifichi come se non l'avessi affatto ricevuta?" (1 Co. 4.7). Vediamo che toglie ogni forza al libero arbitrio, per distruggere tutti i meriti. Tuttavia Dio è ricco e generoso nella benevolenza e la sua generosità non si esaurisce mai: egli dunque rimunera le grazie che ci ha conferito come se fossero virtù provenienti da noi, perché dandocele, le ha fatte nostre.

3. Successivamente sollevano una obbiezione, che sembra essere ripresa da san Crisostomo: se non fosse in nostro potere scegliere il bene o il male, tutti gli uomini dovrebbero essere buoni oppure cattivi, dato che hanno la stessa natura. Con questo concorda l'affermazione dell'autore del libro Della vocazione dei Gentili, attribuito a sant'Ambrogio, secondo cui nessuno mai perderebbe la fede se la grazia di Dio non lasciasse alla volontà dell'uomo possibilità di modificarsi.

Mi meraviglio che a questo proposito personaggi così illustri siano caduti in errore. Come infatti non è venuto in mente a Crisostomo che è l'elezione di Dio a discriminare gli uomini? Non dobbiamo vergognarci di dichiarare quanto san Paolo afferma con tanta certezza: tutti sono perversi e dediti alla malvagità (Ro 3.10); ma aggiungiamo anche, assieme a lui, che la divina misericordia aiuta alcuni, onde non tutti rimangano nella perversione. Così dunque per natura siamo tutti colpiti dalla stessa malattia e ne sono esenti solo quelli che Dio si compiace di guarire. Gli altri, abbandonati per il suo giusto giudizio, rimangono nel proprio marciume fino alla consumazione. Ecco perché alcuni perseverano fino alla fine, altri vengono meno a metà strada. La perseveranza infatti è un dono che Dio non elargisce a tutti indiscriminatamente, ma solo a chi vuole. Non si troverà altra ragione di questa differenza, per cui gli uni perseverano e gli altri sono instabili; i primi sono sostenuti dalla forza di Dio, onde non periscano: i secondi non hanno la stessa forza, perché egli vuol mostrare in loro l'esempio della incostanza umana.

4. Obbiettano anche che tutte le esortazioni sono superflue, gli ammonimenti sono ridicoli, o inutili qualora il peccatore non abbia la possibilità di ottemperarvi.

Queste osservazioni furono rivolte, nel passato, a sant'Agostino che si vide costretto a pubblicare il libro intitolato: Della correzione e della grazia. Quivi, pur rispondendo ampiamente a tutto, riassume la questione in questi termini: "O uomo, riconosci nel comandamento ciò che devi fare, nel rimprovero per non averlo fatto, riconosci che la forza ti manca, per colpa tua, pregando Dio riconosci donde devi ricevere quel che ti manca",. Il libro che ha intitolato: Dello Spirito e della lettera sostiene la stessa tesi. Dio non ha commisurato i suoi comandamenti alle forze umane, ma dopo aver ordinato quello che era giusto, dà gratuitamente ai suoi eletti la facoltà di potere ottemperare. Questo punto non richiede ulteriori discussioni.

Prima di tutto non siamo soli a sostenere questa tesi, ma con noi sono Cristo e tutti i suoi apostoli. Badino dunque i nostri avversari a quali antagonisti si fanno incontro! Sebbene Cristo abbia dichiarato che senza di lui non possiamo far nulla (Gv. 15.5) , tuttavia non tralascia di rimproverare quanti fanno il male senza di lui e non tralascia di esortare tutti alle buone opere. Con quale violenza san Paolo riprende aspramente i Corinzi perché non vivevano in spirito di carità (1 Co. 3.3) ! E successivamente prega Dio di renderli caritatevoli.

Dichiara ai Romani che la giustizia non dipende dal volere né dall'affannarsi umano, ma dalla misericordia di Dio (Ro 9.16); tuttavia non tralascia in séguito di ammonirli, esortarli e correggerli. Perché dunque i nostri avversari non invitano il Signore a non sprecare le proprie forze, chiedendo senza scopo agli uomini quello che lui solo può dare e rimproverandoli di quello che fanno per semplice mancanza della sua grazia? Perché non ammoniscono san Paolo a perdonare a coloro che non hanno la volontà di fare il bene dato che senza la misericordia di Dio non si può che sbagliare?

Tutte queste assurdità non hanno ragion d'essere: se considerato con attenzione l'insegnamento divino si rivela, infatti, fondato su solidissime motivazioni.

San Paolo ammette, è vero, che l'insegnamento, le esortazioni e gli incitamenti non servono, da soli, a cambiare il cuore dell'uomo, quando afferma che chi pianta non è nulla, né chi annaffia, ma tutta l'efficacia risiede nel Signore che fa crescere (1 Co. 3.7). Vediamo anche con che severità Mosè prescriva i precetti della Legge; con che insistenza i profeti minaccino i trasgressori; non per questo cessano di riconoscere che gli uomini iniziano a comprendere quando vien loro data l'intelligenza, che è compito proprio di Dio circoncidere i cuori e convertirli da pietra in carne, che egli scrive la sua legge nelle nostre interiora, in breve, che rinnovando le anime nostre egli dà efficacia al suo insegnamento.

5. A cosa servono dunque le esortazioni? domanderà qualcuno. Rispondo che se un cuore ostinato le sprezza, esse gli saranno di testimonianze per convincerlo quando sarà davanti al giudizio di Dio. E la cattiva coscienza ne è toccata e stimolata nella vita presente. Per quanto infatti se ne faccia beffe, non le può invalidare.

Si obbietta: che dunque farà il povero peccatore dato che gli è negata la prontezza del cuore che è necessaria per obbedire? Rispondo: come potrà tergiversare dato che può imputare la durezza del cuore solo a se stesso? Per quanto i malvagi, sebbene vogliano prendere possibilmente alla leggera i precetti e gli avvertimenti di Dio, sono tenuti in scacco dalla potenza divina, lo vogliano oppure no.

Ma l'utilità principale delle esortazioni è nei riguardi dei credenti: il Signore agisce in loro con il suo Spirito, ma adopera anche lo strumento della sua parola e lo adopera con efficacia. Sia dunque chiaro, come deve essere chiaro, che l'unica forza dei giusti è situata nella grazia di Dio, secondo l'affermazione del Profeta: "Darò loro un cuor nuovo per camminare nei miei precetti" (Ez. 11.19) , e se poi qualcuno domanda perché li si incita al loro dovere e non li si abbandona alla guida dello Spirito Santo; perché li si spinge con l'esortazione, dato che non possono essere stimolati più di quanto lo Spirito li spinga; perché li si corregge quando hanno sbagliato, dato che sono necessariamente impediti dall'infermità della loro carne, dobbiamo rispondere: Uomo, chi sei tu da voler imporre la legge a Dio? Se vuole prepararci con l'esortazione a ricevere la grazia di obbedire alla sua esortazione, cosa hai da rispondere o da ribellarti a questo sistema? Se anche le esortazioni non servissero ad altro che a rimproverarci i credenti per i peccati, non dovrebbero essere reputate inutili. Ma dato che esse fruttuosamente infiammano i cuori all'amore della giustizia e inversamente all'odio del peccato, visto che lo Spirito Santo adopera questo strumento esterno per agire all'interno in vista della salvezza dell'uomo, chi oserà respingerle come superflue?

Se poi qualcuno desidera una risposta più chiara, la sintetizzo così: Dio opera in noi in due modi, all'interno con il suo Spirito, all'estero con la sua parola. Illuminando le menti con il suo Spirito, formando i cuori all'amore della giustizia e dell'innocenza, rigenera l'uomo in una nuova creatura. Con la sua parola stimola l'uomo e lo incita a desiderare e cercare questo rinnovamento. Manifesta la potenza della sua mano nell'uno e nell'altro strumento, secondo l'economia della sua dispensazione.

Rivolgendo la stessa parola agli iniqui ed ai reprobi, sebbene essa non li conduca a correggersi, le conferisce tuttavia forza in un altro modo: esercita ora una pressione sulle loro coscienze e nel giorno del giudizio saranno tanto più inescusabili.

Per questo motivo il nostro Signore Gesù, sebbene dichiari che nessuno può andare a lui se non venga guidato dal Padre (Gv. 6.44-45) , non tralascia tuttavia di attuare il suo compito di insegnamento e invita con la sua voce quanti hanno bisogno di essere istruiti dallo Spirito Santo e traggono profitto di quanto odono. Quanto ai reprobi, san Paolo dichiara che la dottrina non è inutile perché per loro essa è odore di morte a morte, pur essendo odor soave dinanzi Dio (2 Co. 2.16).

6. Si affannano a raccogliere valide testimonianze nella Scrittura e sperano di poterci confutare almeno con la quantità delle citazioni non potendo farlo ricorrendo a testi validi e pertinenti. Agiscono come un capitano che, radunando un grande esercito di uomini inadatti alla guerra, si illuda di spaventare il nemico. Bel colpo d'occhio per una parata! Tutti in fuga al primo scontro.

Ci sarà facile rovesciare tutte le obbiezioni di questi avversari non essendo altro che vuota apparenza. I passi che essi citano possono essere raccolti e classificati in alcuni gruppi, li disporremo in ordine e successivamente affronteremo ogni gruppo con una sola risposta, evitando di esaminarli tutti ad uno ad uno.

Il primo grande argomento è dato dai comandamenti di Dio che essi considerano proporzionati alle nostre forze sì che potremmo metterli in pratica. Ne elencano un gran numero e misurano così le forze umane. Ragionano in questi termini: ovvero Dio si beffa di noi quando ci ordina santità, pietà, obbedienza, castità, amore e mansuetudine e ci proibisce impudicizia, idolatria, inverecondia, ira, rapacità, orgoglio e via dicendo, ovvero ci chiede di attuare solo quanto è in nostro potere.

Tutti i comandamenti, cui essi alludono, possono essere raccolti in tre categorie: gli uni prescrivono che l'uomo si converta a Dio, gli altri semplicemente raccomandano l'osservanza della Legge, gli altri ancora prescrivono di perseverare nella grazia di Dio già ricevuta. Esaminiamoli prima tutti in generale, poi dettagliatamente secondo questi tre tipi.

Riconosco che oramai da molto tempo si accetta correntemente di misurare le facoltà dell'uomo sulla base dei comandamenti di Dio e questo ha una parvenza di ragionevolezza. Tuttavia, affermo che questo è frutto di grande ignoranza. Quanti vogliono dimostrare che sarebbe assurdo parlare in questo modo se l'osservanza dei comandamenti fosse impossibile all'uomo, si basano su un ragionamento invalido pretendendo che altrimenti la Legge sarebbe stata data invano. Quasi san Paolo non avesse mai parlato di questo: che significano le affermazioni seguenti: la Legge è stata data per aumentare le trasgressioni (Ga 3.19); dalla Legge viene la conoscenza del peccato (Ro 3.20); la Legge genera il peccato (Ro 7.7); è sopravvenuta per moltiplicare il peccato (Ro 5.20). Intendeva dire che essa doveva corrispondere alle nostre forze per non essere inutile? Al contrario san Paolo mostra in tutti questi passi che Dio ci ha ordinato qualcosa al di sopra della nostra capacità per convincerci della nostra impotenza. Certo lo scopo e il coronamento della Legge è la carità, secondo la definizione che egli stesso ne dà (1 Ti. 1.5); e prega Dio di riempirne il cuore dei Tessalonicesi (1 Ts. 3.12). Con questo significa che la Legge colpirebbe le nostre orecchie invano e senza frutto se Dio non ispirasse nei nostri cuori quanto essa insegna.

7. Se la Scrittura insegnasse che la Legge è solo norma di vita cui devono essere misurate le nostre opere, accetterei volentieri l'opinione dei miei avversari, essa però ce ne rivela molteplici aspetti. È dunque opportuno prestare attenzione a questi piuttosto che alle nostre fantasie.

Per quanto riguarda l'argomento in discussione, non appena la Legge ci ha prescritto quel che dobbiamo fare, immediatamente aggiunge che la capacità di obbedire proviene dalla grazia di Dio. Di conseguenza ci insegna a domandarla in preghiera. Se ravvisiamo nella Legge solo comandamenti, senza promessa alcuna, allora dovremmo mettere alla prova le nostre forze per vedere se sono sufficienti ad adempierli; ma ai comandamenti sono congiunte le promesse ed esse manifestano che abbiamo bisogno dell'aiuto di Dio e che tutta la nostra forza è nella sua grazia. Esse mostrano dunque che non solo siamo insufficienti ma anche assolutamente incapaci di osservare la Legge.

Non ci si fermi dunque a questa correlazione tra le nostre forze e i comandamenti di Dio; come se egli avesse commisurato la norma di quella giustizia, che voleva stabilire, con la nostra debolezza e la nostra piccolezza! Consideriamo piuttosto alla luce delle promesse di Dio quanto siamo impreparati, dato che in tutto e per tutto abbiamo tanto bisogno della sua grazia. Dio ha forse rivolto la sua legge a dei pezzi di legno o a delle pietre? Nessuno li vuol convincere di questo.

I malvagi non sono né pietre né tronchi quando, resi consapevoli dalla Legge che le loro concupiscenze dispiacciono a Dio, si rendono colpevoli di fronte alle loro stesse coscienze: né i credenti quando, coscienti della propria debolezza, ricorrono alla grazia di Dio. In questo senso sant'Agostino afferma: "Dio comanda quel che non sappiamo fare, onde sappiamo quel che dobbiamo chiedergli", e: "L'utilità dei precetti è grande se si valuta il libero arbitrio in modo che la grazia di Dio ne sia maggiormente onorata", ancora: "La fede chiede quel che la Legge comanda"; infatti la Legge comanda onde la fede chieda quel che la Legge ha comandato. "Dio richiede anche la fede da noi; e non trova quello che chiede fino a quando non l'abbia dato per poterlo trovare": "Dio conceda quel che ordina e ordini quello che vuole,".

8. Questo risulterà più chiaro considerando i tre tipi di comandamenti a cui abbiamo accennato. Spesso il Signore richiede, nella Legge come nei Profeti, che ci convertiamo a luì (Gl. 2.12). Ma il Profeta d'altra parte risponde: "Convertimi, Signore, e sarò convertito. Dopo che mi hai convertito, ho fatto penitenza ecc." (Gr. 31.18). Ci ordina anche di circoncidere il nostro cuore (De 10.16); ma per bocca di Mosè dichiara che questa circoncisione è operata dalla sua mano (De 30.6). Più volte richiede agli uomini un cuor nuovo, ma afferma di essere il solo a poterlo rinnovare (Ez. 36.26). Ora, come dice sant'Agostino, quello che Dio promette, non lo facciamo per natura né per libera scelta, ma egli lo fa con la sua grazia. La quinta regola della dottrina cristiana da lui enunciata consiste nel distinguere chiaramente nella Scrittura tra Legge e promesse, tra comandamenti e grazia. Che diranno ora quanti si richiamano ai comandamenti di Dio per glorificare la potenza umana e sminuire quella grazia di Dio, per mezzo della quale invece i precetti sono osservati?

Il secondo tipo di comandamenti che abbiamo menzionato è semplice: onorare Dio, servire ed accettare la sua volontà, osservare le sue prescrizioni, seguire la sua dottrina. Ma vi sono infinite testimonianze secondo cui tutta la giustizia, santità, pietà, purezza che possediamo sono dono gratuito proveniente da lui.

Quanto al terzo tipo, un esempio ci è dato nell'esortazione di Paolo e Barnaba ai credenti di perseverare nella grazia di Dio (At. 13.43). Ma in un altro passo san Paolo mostra donde provenga questa forza: "State saldi" dice "fratelli miei, mediante la potenza del Signore," (Ef. 6.10). D'altra parte vieta di contristare lo Spirito di Dio, dal quale siamo suggellati in attesa della nostra redenzione (Ef. 4.30). Quanto è qui prescritto, altrove è domandato al Signore in preghiera, non fa dunque parte delle possibilità umane: infatti l'Apostolo supplica il Signore di rendere i Tessalonicesi degni della propria vocazione, di compiere in essi quanto aveva determinato nella sua bontà e di condurre al compimento l'opera della fede (2 Ts. 1.2). Similmente nella seconda ai Corinzi, trattando delle elemosine, loda molte volte la buona volontà dei destinatari; ma successivamente rende grazie a Dio perché ha incoraggiato Tito nel compito di esortarli (2 Co. 8.11- 16). Se Tito non ha neanche potuto aprire la bocca per esortare gli altri senza che Dio glielo abbia suggerito, come gli uditori sarebbero stati indotti ad agire bene se Dio non avesse toccato loro il cuore?

9. I più abili e smaliziati mettono in dubbio queste testimonianze sostenendo che esse non escludono l'unione delle nostre forze con la grazia di Dio, che sovviene così alla nostra debolezza. Menzionano alcuni passi dei profeti in cui il merito della nostra conversione sembra suddiviso fra noi e Dio; ad esempio: "Convertitevi a me e io mi convertirò a voi" (Za. 1.3).

Abbiamo indicato precedentemente in che consista l'aiuto di Dio e non c'è bisogno di ripeterci. Si tratta di mostrare qui che erroneamente i nostri avversari attribuiscono all'uomo la capacità di adempiere la Legge basandosi sul fatto che Dio ci comanda di obbedirvi; è infatti evidente che la grazia di Dio è necessaria per adempiere il comandamento divino ed essa ci è promessa a questo fine. Ne deriva che siamo impegnati a fare più di quanto possiamo. E nessun cavillo permette ai disputatori di sfuggire all'affermazione di Geremia secondo cui il patto di Dio con il popolo antico non ha avuto forza ed è decaduto perché si basava solamente sulla lettera; ed essa non può avere forza che quando lo Spirito venga aggiunto alla dottrina, per farci obbedire ad essa (Gr. 31.32).

Per quanto concerne la frase: "Convertitevi a me e mi convertirò a voi", essa non convalida affatto il loro errore. Per conversione di Dio non bisogna intendere la grazia con cui rinnova i nostri cuori in vista di una vita santa, ma quella con cui manifesta la sua volontà buona e il suo amore verso noi facendoci prosperare; inversamente è detto che si allontana da noi allorché ci punisce. Poiché dunque il popolo d'Israele che aveva à lungo sofferto si lamentava che Dio si fosse allontanato, il Signore risponde che il suo favore e la sua generosità non mancheranno loro se si convertiranno alla dirittura di vita e si avvicineranno a colui che è la sorgente di ogni giustizia. Intendere il passo come se spartisse il merito della nostra conversione tra Dio e noi, significa distorcerlo.

Abbiamo trattato rapidamente la questione perché bisognerà riprenderla affrontando il problema della Legge.

10. Il secondo ordine delle loro considerazioni non differisce molto dal primo. Menzionano le promesse secondo le quali Dio sembra associarsi alla nostra volontà. Per esempio: "Cercate la rettitudine e non il male, e voi vivrete!" (Am 5.14) : "Se mi ascolterete, vi darò il benessere: ma se non lo farete, vi farò perire per la spada" (Is. 1.19-20) : "Se toglierai le tue abominazioni, non sarai cacciato". "Se ascolti la voce del Signore il tuo Dio per eseguire e mantenere i suoi comandamenti, farò di te il popolo più eccellente della terra" e altri consimili (Gr. 4.1; De 28.1; Le 26.3).

Pensano che Dio si farebbe beffe di noi affidando alla nostra volontà queste cose che non ci è possibile compiere. Umanamente questa considerazione ha qualche peso. Se ne potrebbe dedurre che Dio agisce crudelmente fingendo che dipenda interamente da noi il ricevere la sua grazia e ogni bene, mentre non abbiamo invece alcun potere in merito; che sarebbe ridicolo mostrarci con tanta insistenza la sua liberalità senza che ne possiamo fruire. In breve, si può obbiettare che le promesse di Dio non avrebbero alcuna certezza se dipendessero da una impossibilità di esecuzione.

Parleremo altrove delle promesse che dipendono da una condizione impossibile e risulterà chiaro non esservi nulla di assurdo nonostante l'impossibilità di realizzazione.

Quanto al problema in discussione, io nego che il Signore sia crudele o inumano verso di noi quando ci esorta a meritare le sue grazie e i suoi benefici pur sapendoci impotenti a farlo. Le promesse sono rivolte ai credenti e ai malvagi; sono pertanto utili tanto nei riguardi degli uni che degli altri. Il Signore con questi precetti punge e sveglia la coscienza degli iniqui onde non si trastullino nei loro peccati, incuranti del suo giudizio: nello stesso tempo con le sue promesse attesta loro quanto siano indegni della sua benignità. Chi vorrà negare a Dio il diritto di beneficare chi l'onora e di vendicarsi rigorosamente di chi sprezza la sua maestà? Il nostro Signore rettamente dunque propone agli iniqui, tenuti prigionieri sotto il giogo del peccato, questa condizione: se abbandoneranno la malvagità, egli invierà loro ogni bene; e da questo possano intendere che a buon diritto sono esclusi dai beni dovuti ai servitori di Dio.

D'altra parte non bisogna stupirsi perché, volendo stimolare i credenti a implorare la sua grazia, Dio agisce con le sue promesse come agisce con i suoi comandamenti, come abbiamo già visto. Facendoci conoscere la sua volontà per mezzo dei suoi comandamenti, egli ci rende consapevoli della nostra miseria mostrandoci che siamo contrari ad ogni bene: insieme ci spinge a invocare il suo Spirito per esserne indirizzati sul buon cammino. Ma dato che la nostra pigrizia non è abbastanza smossa dai suoi precetti, vi aggiunge le promesse con la cui dolcezza ci induce ad amare quanto ci comanda. Quanto più amiamo la giustizia, tanto più siamo zelanti nella ricerca della grazia di Dio. In questo modo Dio, nelle dichiarazioni summenzionate, non ci attribuisce la facoltà di mettere in pratica le sue richieste, e tuttavia non si beffa della nostra debolezza; al contrario agisce per il bene dei suoi servitori e rende gli iniqui più condannabili.

2. La terza serie di testi ha qualche affinità con le precedenti. I miei contraddittori citano i passi in cui Dio rimprovera al popolo d'Israele di non aver saputo vivere in obbedienza. Ad esempio: "Amalec e i Cananei sono davanti a voi, sarete uccisi dalla loro spada perché non avete voluto obbedire al Signore" (Nu. 14.43);"Perché vi ho chiamato e non avete risposto, vi distruggerò come ho fatto con Silo" (Gr. 7.13);"Questo popolo non ha ascoltato la voce del suo Dio e non ha accettato la sua dottrina: per questo è rigettato" (Gr. 7.28);"Poiché avete indurito il vostro cuore e non avete voluto obbedire al Signore, tutti questi mali vi sono venuti addosso" (Gr. 32.23). Che significato avrebbero questi rimproveri se gli interessati sono in grado di ribattere, immediatamente: Non chiedevamo altro che prosperare, e temevamo la sventura; se non abbiamo obbedito al Signore, non abbiamo ascoltato la sua voce per evitare il male e avere sorte migliore, è unicamente perché, essendo detenuti nella prigionia del peccato, non siamo liberi. A torto dunque Dio ci rimprovera il male cui siamo sottomessi e che non era in nostro potere evitare.

 Lasciando da parte la frivola e infondata scusa della necessità chiedo loro se possono dimostrare di non essere colpevoli. Se sono convinti di aver mancato, allora non senza ragione Dio afferma che è da imputarsi alla loro perversità il fatto che egli non li abbia benedetti. Possono forse negare che la causa della loro ostinazione sia stata una volontà perversa? Se la sorgente del male è in loro stessi, a che pro cercare cause esterne per far credere di non essere i responsabili della propria rovina?

Se è dunque vero che i peccatori sono per colpa loro privi dei benefici di Dio e ricevono la punizione della sua mano, a buon diritto egli li rimprovera; e se persistono nel male, imparino a deprecare la propria iniquità quale causa della propria miseria, anziché biasimare l'eccessiva severità di Dio. Se non sono completamente induriti e possono essere addolciti, concepiscano dispiacere e odio per i propri peccati, a causa dei quali si vedono in distretta, e così ritornino sulla buona strada e riconoscano la fondatezza dei rimproveri di Dio. Dalla preghiera di Daniele (Da 9) appare che questi rimproveri sono riusciti utili per i credenti. Ne vediamo un esempio negli Ebrei a cui Geremia indica per ordine di Dio le cause delle loro sventure; sebbene sia accaduto solo quanto Dio aveva predetto, vale a dire che non ascolterebbero le divine parole, e che non risponderebbero ai divini appelli (Gr. 7.27).

A che scopo parlare ai sordi? dirà qualcuno. Perché loro malgrado comprendano la verità di quanto odono: è sacrilegio abominevole imputare a Dio la causa delle calamità che risiedono in loro stessi.

Con queste tre risposte tutti potranno facilmente orientarsi tra le infinite testimonianze collezionate dai nemici della grazia di Dio, tanto dei comandamenti che delle promesse della Legge e dei rimproveri di Dio ai peccatori, i quali vogliono garantire all'uomo un libero arbitrio che non esiste.

Il Salmo afferma, per confondere gli Ebrei, che essi sono una nazione perversa, dal cuore ribelle (Sl. 78.8). In un altro passo il Profeta esorta gli uomini del suo tempo a non indurire i loro cuori (Sl. 95.8). Questo è ben detto, dato che tutta la colpa della ribellione risiede nella perversità umana. Ma è sciocco dire che il cuore dell'uomo, preparato da Dio, si volge di per se in un senso o nell'altro. Il Profeta dice: "Ho inclinato il mio cuore a osservare i tuoi comandamenti" (Sl. 119.112) perché si era dato a Dio con coraggio franco e gioioso; ma non si vanta di essere l'autore di questa inclinazione che nello stesso salmo riconosce essere un dono di Dio.

Dobbiamo di conseguenza ricordare l'ammonimento di san Paolo: egli ordina ai credenti di compiere la loro salvezza con timore e tremore, poiché Dio opera in loro il volere e il fare (Fl. 2.13). Attribuisce loro il compito di mettere mano all'opera, affinché non si lascino andare all'incuria; ma aggiungendo che questo deve avvenire, con timore e tremore, li umilia e ricorda che quanto ordina loro è l'opera propria di Dio. Con questo mezzo esprime la necessità che i credenti operino "passivamente", se posso esprimermi in questo modo: vale a dire agiscano in quanto sono spinti, e la facoltà è data loro dal cielo.

Per questa ragione san Pietro esortandoci ad aggiungere alla fede la virtù (2 Pi. 1.5) non ci attribuisce una parte dell'azione, quasi facessimo qualcosa separatamente e per conto nostro: ma risveglia solamente la pigrizia della nostra carne, che spesso soffoca la fede. Simile suona la frase di san Paolo: "Non spegnete lo Spirito!" (1 Ts. 5.19). La pigrizia qualora non sia repressa s'insinua in continuità in noi.

Se qualcuno replica ancora che è dunque in potere dei credenti custodire la purezza data loro, si può facilmente rispondere che questa perseveranza, richiesta da san Paolo (2 Co. 7.1) proviene solo da Dio. Ci è spesso richiesto infatti di purgarci di ogni macchia: e tuttavia lo Spirito Santo si riserva il vanto di consacrarci nella purezza.

Risulterà chiaro dalle parole di san Giovanni che quanto appartiene a Dio solamente ci è dato sotto forma di concessione: "Chi è da Dio"egli dice"stia in guardia!" (1 Gv. 5.18). I predicatori del libero arbitrio prendono alla leggera questo avvertimento, come se fossimo salvati in parte dalla virtù di Dio e in parte dalla nostra, quasi lo stare in guardia non ci venisse dal cielo. Ecco perché Gesù Cristo prega il Padre di guardarci dal male o dal maligno (Gv. 17.15). E sappiamo che i credenti combattendo contro Satana sono vittoriosi solo con le armi che Dio fornisce loro. Per questo san Pietro dopo aver ordinato di purificare le anime nell'obbedienza alla verità, aggiunge subito a modo di correzione: "in virtù dello Spirito", (1 Pi. 1.22).

Per concludere, san Giovanni mostra in breve come tutte le forze umane non siano che vento o fumo nella lotta spirituale, affermando che chi è generato da Dio non può peccare perché la semenza di Dio dimora in lui (1 Gv. 3.9). E in un altro passo ne precIs. la ragione: perché la nostra fede è la vittoria che vince il mondo (1 Gv. 5.4).

12. Essi citano però una testimonianza della Legge di Mosè che sembra del tutto contraria alla nostra interpretazione. Dopo aver fatto conoscere la Legge, Mosè affermò davanti al popolo quanto segue: "Il comandamento che ti do oggi non è nascosto, non è lontano da te, non s'innalza nel cielo, ma è presso di te, nella tua bocca e nel tuo cuore, affinché tu lo pratichi" (De 30.11- 14).

Riconosco che sarebbe molto difficile rispondere se questo fosse detto dei soli comandamenti. Si potrebbe certo intendere l'affermazione nel senso che qui si parla della facilità di intendere i comandamenti più che di metterli in pratica: ma qualche dubbio rimarrebbe. Abbiamo però un commentatore che ci toglie ogni dubbio: è san Paolo il quale afferma che Mosè parlava della dottrina dell'Evangelo (Ro 10.8). Se qualche ostinato replicasse che san Paolo ha travisato il significato naturale del passo per riferirlo all'Evangelo, difendere l'esegesi dell'Apostolo è possibile, anche se si deve respingere una simile calunnia. Se Mosè avesse parlato solamente dei comandamenti, avrebbe ingannato il popolo. Non avrebbe infatti potuto fare altro che cadere in rovina, avendo la pretesa di osservare la Legge con le proprie forze, quasi fosse cosa facile! Dov'è questa facilità, visto che la nostra natura soccombe a questo compito e nessuno può camminare senza inciampare?

È dunque certo che con queste parole Mosè ha inteso il Patto di misericordia che aveva reso manifesto nella Legge. Infatti aveva dichiarato poco prima che i nostri cuori devono essere circoncisi da Dio affinché lo amiamo (De 30.6). Non vede dunque questa "facilità" nelle forze dell'uomo ma nell'aiuto e nel soccorso dello Spirito Santo, il quale agisce con potenza nella nostra infermità.

 Non bisogna dunque riferire il passo solamente ai comandamenti ma piuttosto alle promesse evangeliche che, lungi dall'attribuirci il potere di procurarci la giustizia, mostrano al contrario che ne siamo del tutto privi. La salvezza ci è presentata nell'Evangelo non nella forma dura e difficile, addirittura impossibile, usata dalla Legge: in base cioè all'adempimento di tutti i comandamenti, ma in forma facile ed agevole: in base a questa convinzione san Paolo applica la testimonianza di cui stiamo parlando per confermare che la misericordia di Dio ci è generosamente messa in mano. Questa testimonianza non serve dunque affatto a garantire una libertà della volontà umana.

13. Sono soliti menzionare alcuni altri passi in cui è mostrato che talvolta Dio ritrae la sua grazia dagli uomini, per vedere da che parte si volgeranno. i: detto per esempio in Osea: "Mi tirerò da parte fino a quando delibereranno nei loro cuori di seguirmi" (OS 5.15). Sarebbe ridicolo, essi dicono, che il Signore stesse a vedere quale sarà la loro via se essi non avessero la possibilità di volgersi dall'una o dall'altra parte con le proprie forze. Dio non ha forse l'abitudine di dire costantemente, per mezzo dei suoi profeti, che rigetterà il popolo e lo abbandonerà finché questo non si corregga?

Vediamo quali conclusioni ne vogliono trarre. Se dicono che il popolo, lasciato a se stesso, può convertirsi da solo, tutta la Scrittura li contraddice. Se riconoscono che la grazia di Dio è necessaria alla conversione dell'uomo, questi passi non li aiutano a combattere contro di noi.

Ma essi diranno che la riconoscono necessaria in modo tale però che le forze dell'uomo vi abbiano parte in qualche misura. Donde lo deducono? Certo non da questo passo né da altri simili: infatti è ben diverso che Dio tolga la sua grazia all'uomo per vedere che cosa questi faccia, oppure che sovvenga alla sua infermità e ne confermi le deboli forze.

Ma domanderanno: che significano allora queste espressioni? Rispondo che esse suonano come se Dio dicesse: Siccome non riesco a nulla con questo popolo ribelle, né con le esortazioni, né con le ammonizioni, né con le riprensioni, mi tirerò da parte per un tempo e tacendo sopporterò che sia afflitto. Così vedrò se dopo lungo patimento si ricorderà di me e mi cercherà. Quando è detto che Dio si ritirerà, si intende che ritirerà la sua parola. Quando è detto che osserverà quanto faranno gli uomini in sua assenza, si vuol dire che senza mostrarsi li affliggerà per qualche tempo. Una cosa e l'altra fa per umiliarci. Potrebbe spezzarci mille volte con i castighi e le punizioni senza poterci correggere; per questo è necessario che ci renda docili con il suo Spirito.

Stando così le cose è erroneo dedurre che l'uomo abbia qualche merito nel convertirsi a Dio. È detto al contrario che Dio, offeso dalla nostra durezza ed ostinazione, ritira da noi la sua parola (attraverso la quale ci comunica la sua presenza) ed esamina quel che faremo da soli. Lo scopo di tutto questo è di farci riconoscere che da soli non siamo nulla e non possiamo nulla.

14. Prendono lo spunto anche da una espressione corrente non solo tra gli uomini, ma anche nella Scrittura: le buone opere sono dette"nostre", ed è affermato che facciamo il bene come il male. Ora, se i peccati ci sono giustamente imputati, in quanto provengono da noi, per la stessa ragione ci dovrebbero essere attribuite le buone opere. Non sarebbe infatti ragionevole dire che facciamo le cose, cui Dio ci spinge, come pietre, non potendole fare per nostra propria volontà. In séguito ne concludono che, sebbene la grazia di Dio abbia il merito principale, tuttavia queste locuzioni indicano che abbiamo qualche capacità naturale di fare il bene.

Se ci fosse solo la prima obbiezione, vale a dire che le buone opere sono chiamate "nostre", risponderei che chiamiamo nostro il pane quotidiano che pure chiediamo a Dio di concederci. Questa parola indica dunque quel che non ci era in alcun modo dovuto ma che diventa nostro in virtù della infinita generosità di Dio. Dovrebbero dunque rimproverare al Signore questo modo di esprimersi: oppure non considerare strano che siano dette "nostre" buone opere in cui non c'è nulla di nostro, se non in quanto ci è dato dalla generosità di Dio.

La seconda obiezione ha maggior peso: la Scrittura afferma spesso che i credenti servono Dio, conservano la sua giustizia, obbediscono alla sua Legge e applicano la loro diligenza a compiere il bene. Se questi sono i compiti propri della mente e della volontà umana, come potrebbero essere attribuiti contemporaneamente allo Spirito di Dio e a noi, se non vi fosse un qualche legame tra le nostre facoltà e la grazia di Dio?

Sarà facile risolvere questi dubbi considerando rettamente il modo in cui Dio agisce nei suoi servi.

In primo luogo, la similitudine con cui vogliono metterci in difficoltà non è pertinente. Chi infatti è così insensato da pensare che l'uomo sia sospinto da Dio nello stesso modo che una pietra è gettata? Nulla di simile deriva dalla nostra dottrina. Noi diciamo esservi una facoltà umana naturale di approvare, respingere, volere, non volere, sforzarsi, resistere; vale a dire lodare la vanità, respingere il vero bene, volere il male, non volere il bene, sforzarsi di peccare, resistere alla dirittura. Qual è la parte del Signore in tutto questo? Se vuole adoperare la perversità umana come uno strumento della sua ira, la volge e la in dirizza dove meglio gli pare per realizzare le sue opere giuste e buone attraverso una mano cattiva. Quando dunque vedremo un malvagio servire Dio in questo modo mentre obbedisce alla propria malvagità, lo paragoneremo ad una pietra che è mossa da una forza esterna senza alcun movimento proprio, né sentimento, né volontà? Vediamo che c'è una bella differenza!

Che diremo dei buoni, di cui trattiamo particolarmente qui? Quando il Signore vuol edificare in loro il suo Regno, frena e modera la loro volontà perché non sia travolta dalla concupiscenza disordinata, secondo la sua tendenza naturale. D'altra parte la piega, la forma, la dirige e la riconduce alla regola della sua giustizia, per farle desiderare santità ed innocenza. Infine la conferma e la fortifica con la forza del suo Spirito perché non vacilli né cada.

Per questo motivo sant'Agostino scrive: "Mi dirai: Siamo dunque condotti dall'esterno e non facciamo nulla per conto nostro?". Le due cose sono vere: sei condotto e ti conduci: e ti conduci bene se ti fai condurre da colui che è buono. Lo Spirito di Dio che opera in te è quello che aiuta chi opera. Questa parola "aiutare" mostra che anche tu fai qualcosa". Ecco le sue parole.

 Riguardo al primo punto egli indica che l'operare dell'uomo non è eliminato dalla guida e dalla direzione dello Spirito Santo, perché la volontà, che è guidata all'aspirazione del bene, è naturale. Riguardo all'aggiunta della parola"aiutare"si può dedurre che facciamo anche qualcosa, ma non bisogna intenderla come se egli ci attribuisse qualcosa indipendentemente e senza la grazia di Dio; piuttosto, per non favorire la nostra pigrizia, concilia l'opera di Dio con la nostra di modo che il volere sia per natura e il voler bene per grazia. D'altronde aveva detto poco prima: "Se Dio non ci aiuta, non solo non potremo vincere ma neanche combattere".

15. Da questo risulta che la grazia di Dio, nel significato attribuito alla parola quando si parla della rigenerazione, è come la regola e la briglia dello Spirito per dirigere la volontà dell'uomo. Ora non può dirigerla senza correggerla, riformarla e rinnovarla: per questo motivo diciamo che il principio della nostra rigenerazione sta nell'abolizione di quanto è nostro. Similmente non può correggerla senza smuoverla, spingerla, condurla, trattenerla. Per questo diciamo che tutte le buone azioni che ne derivano, dipendono da lui.

Non neghiamo tuttavia la verità di quanto afferma sant'Agostino: la nostra volontà non è annullata dalla grazia di Dio ma piuttosto è riparata. Non vi è contraddizione tra il dire che la volontà dell'uomo è riparata quando, corretta la perversità, essa è indirizzata alla giustizia; e il dire che nel processo una nuova volontà è creata nell'uomo. Infatti la volontà naturale è talmente corrotta e pervertita da dover essere totalmente rinnovata.

Nulla impedisce, a questo punto, di dire che compiamo le opere che lo Spirito Santo compie in noi, sebbene la nostra volontà non apporti nulla di proprio che sia indipendente dalla grazia. Ricordiamoci dunque della citazione già menzionata di Agostino: molti si adoperano invano a trovare nella volontà dell'uomo qualche bene che gli sia proprio, qualsiasi elemento si pretenda aggiungere alla grazia di Dio per rivendicarne il libero arbitrio, non è che corruzione; come se si allungasse del buon vino con acqua sporca e amara. Tutti i sentimenti buoni provengono dal solo impulso dello Spirito; tuttavia, dato che il volere è naturalmente radicato nell'uomo, è detto a buon diritto che facciamo le cose di cui Dio si riserva il merito. In primo luogo perché tutto quanto Dio compie in noi Egli vuole sia nostro, a condizione che comprendiamo che non ha origine in noi; in secondo luogo, perché abbiamo nella nostra natura l'intelletto, la volontà e la perseveranza che egli dirige al bene per farne uscire qualcosa di buono.

16. Le altre argomentazioni che i miei avversari raccolgono qua e là non sono tali da turbare molto le persone di intelligenza che abbiano ben assimilato le risposte sin qui esposte.

Menzionano quanto è scritto nella Ge : "Il tuo desiderio sarà sotto di te e tu lo dominerai", (Ge 4.7) , intendendolo detto del peccato, come se Dio promettesse a Caino che il peccato non potrà dominare nel suo cuore se vorrà adoperarsi a vincerlo! Al contrario questo deve essere piuttosto riferito ad Abele. Nel passo l'intenzione di Dio è infatti di rimproverare l'invidia che Caino aveva concepito verso suo fratello. Questo per due ragioni. In primo luogo si sbagliava pensando di primeggiare sul fratello davanti a quel Dio che apprezza solamente la giustizia e l'integrità. In secondo luogo si dimostrava ingrato nei riguardi del dono ricevuto da Dio, non potendo sopportare il fratello che era più giovane e che doveva curare.

 Ammettiamo pure che Dio parli del peccato, affinché non si creda che scegliamo questa interpretazione perché l'altra ci è contraria. Se è così, o Dio gli promette che sarà superiore, oppure gli ordina di esserlo. Se glielo ordina, abbiamo visto che su questo non si può fondare il libero arbitrio. Se si tratta di una promessa, dove ne è l'adempimento visto che Caino è stato vinto dal peccato, che avrebbe dovuto dominare?

Forse diranno che la promessa aveva una condizione implicita, come se Dio avesse detto: "Se combatti riporterai la vittoria "Ma chi potrà tollerare questi sotterfugi? Se si riferisce questa dominazione al peccato non v'è dubbio trattarsi di una esortazione rivolta da Dio, nella quale non si illustra quali siano le facoltà dell'uomo, ma quale sia il suo dovere, anche se non può compierlo.

La realtà di fatto e la grammatica postulano un paragone tra Caino e suo fratello Abele: questi, il primogenito, non sarebbe stato umiliato nel sottomettersi al fratello minore, ma ha rovinato la situazione con il suo delitto.

17. Ricorrono anche alla testimonianza dell'Apostolo, il quale afferma che la salvezza non è in mano di chi vuole o di chi corre, ma risiede nella misericordia di Dio (Ro 9.16). Ne deducono esservi nella volontà e nel comportamento dell'uomo qualche parte di per se debole, a cui la misericordia di Dio supplisce affinché raggiunga un felice risultato.

Ma se si considera attentamente il problema affrontato dall'Apostolo in quel testo, non ci si può ingannare così sconsideratamente sulla sua intenzione. È: vero che possono citare Ori gene e san Girolamo per difendere la loro spiegazione, Io potrei, al contrario, contraddirli con l'autorità di sant'Agostino. Ma non dobbiamo preoccuparci di quello che costoro ne hanno pensato, quanto piuttosto di intendere quel che san Paolo voleva dire; vale a dire che otterrà salvezza solo colui al quale Dio farà misericordia, mentre rovina e confusione sono preparate per tutti coloro che non avrà eletto. Con l'esempio di Faraone aveva indicato la condizione dei reprobi. Aveva dimostrato l'elezione gratuita dei credenti con la testimonianza di Mosè, laddove è detto: "Avrò pietà di chi avrò accolto misericordiosamente". Conclude che non dipende da chi vuole o da chi corre, ma da Dio che fa misericordia. È una sciocchezza arguire da queste parole l'esistenza nell'uomo di una qualche forma di volontà e di capacità ad agire, come se san Paolo dicesse che la volontà e l'attività umana da sole non bastano. Bisogna dunque respingere questa argomentazione priva di fondamento.

Che senso infatti avrebbe il dire: la salvezza non è nelle possibilità di chi vuole o di chi corre, come se vi fosse una forma di volontà o di corsa! La frase dell'Apostolo è più semplice: non vi è né volontà né corsa per condurci alla salvezza, ma in questo campo solamente la misericordia regna. Non parla qui diversamente dall'altro passo, in cui afferma: la bontà e la benevolenza di Dio verso gli uomini sono apparse, non attraverso le opere di giustizia che abbiamo fatte, ma attraverso la infinita misericordia divina (Tt 3.5). Se volessi dedurre che abbiamo compiuto alcune buone opere, dal momento che san Paolo nega che abbiamo ottenuto la grazia di Dio con le opere della giustizia da noi compiute, loro stessi mi deriderebbero. E tuttavia la loro argomentazione è di questo tipo. Riflettano a quello che dicono per non basarsi su argomenti così inconsistenti.

 Infatti l'argomentazione di sant'Agostino è pienamente valida: se fosse detto che non dipende da chi vuole né da chi corre perché il volere e il correre da soli non bastano, si potrebbe rovesciare completamente il ragionamento e affermare che non dipende dalla misericordia, perché neanch'essa opera da sola. È chiaro come questo sia irragionevole. Perciò sant'Agostino conclude che san Paolo lo ha detto perché non vi è nell'uomo alcuna buona volontà che non sia preparata da Dio. Non che non dobbiamo volere e correre, ma Dio opera l'una e l'altra cosa in noi.

Non è meno sciocco il ragionamento di quanti affermano che san Paolo definisce gli uomini: cooperatori di Dio (1 Co. 3.9). È evidente che si riferisce ai Dottori della Chiesa, di cui Dio si serve e che mette all'opera per costruire l'edificio spirituale, che è opera sua in modo esclusivo. E difatti i ministri non sono chiamati suoi compagni, come se avessero qualche facoltà di per se stessi; Dio opera per loro mezzo dopo averli resi idonei a farlo.

18. Inoltre menzionano la testimonianza dell'Ecclesiastico, libro notoriamente privo di autorità sicura. Ma anche se non la rifiutassimo, e potremmo farlo a buon diritto, che aiuto reca alla loro tesi? Afferma che l'uomo, dopo essere stato creato, è stato lasciato alla propria volontà e Dio gli ha dato dei comandamenti, osservando i quali, ne sarà protetto, che la vita e la morte, il bene e il male sono stati messi dinanzi all'uomo affinché scegliesse quanto preferisce (Ecclesiaste 15.14).

Ammettiamo che l'uomo all'atto della creazione abbia ricevuto la facoltà di scegliere la vita o la morte. Ma che ne sarà se rispondiamo che l'ha perduta? Non voglio certo contraddire Salomone, il quale afferma che l'uomo è stato creato buono dal principio ed ha prodotto da solo invenzioni malvagie (Ecclesiaste 7.29). Dato dunque che l'uomo degenerando ed allontanandosi da Dio ha perduto se stesso con tutti i suoi beni, quanto è detto della sua prima creazione non può essere esteso alla sua natura viziosa e corrotta. Rispondo dunque non solo ai miei oppositori, ma anche all'Ecclesiastico, chiunque esso sia, in questo modo: Se vuoi spingere l'uomo a cercare in se la capacità di acquistare la salvezza, la tua autorità non ha sufficiente forza da poter portare pregiudizio alla parola di Dio, la quale evidentemente vi si oppone. Se vuoi solamente far tacere la bestemmia della carne che cerca di giustificarsi attribuendo a Dio i propri vizi, e a questo fine insegni che l'uomo ha ricevuto una natura buona da Dio ed è stato causa della propria rovina, te lo concedo volentieri purché ci accordiamo insieme su questo punto, di riconoscere che attualmente egli è spoglio degli ornamenti della grazia ricevuti originariamente da Dio; così insieme riconosciamo che ora ha bisogno non di avvocato, ma di medico.

19. I nostri avversari citano con maggior frequenza la parabola di Cristo in cui si parla dell'uomo lasciato mezzo morto per strada dai briganti (Lu 10.30). So bene che comunemente si ravvisa. in quest'uomo l'immagine della sventura del genere umano. Ne prendono lo spunto per dire che l'uomo non è stato mutilato dal peccato e dal Diavolo al punto di non avere ancora un qualche soffio di vita: infatti è detto essere mezzo morto. In che consiste questa mezza vita, essi dicono, se non nel fatto che gli è rimasto un residuo di retta intelligenza e volontà?

 In primo luogo, che faranno se rifiuto la loro allegoria? Non v'è alcun dubbio infatti che essa è stata escogitata dai padri antichi, oltre il significato letterale e naturale del testo. Le allegorie devono essere accettate solo se fondate sulla Scrittura: da sole esse non possono fondare alcuna dottrina.

Per di più non ci mancano le ragioni per refutare le loro dichiarazioni. La parola di Dio infatti non lascia una mezza vita all'uomo ma lo considera del tutto morto per quanto concerne la vita beata. Quando san Paolo parla della nostra redenzione, non dice affatto che siamo stati guariti da una mezza morte, ma che siamo stati risuscitati dalla morte (Ef. 2.5; 5.14). L'invito a ricevere la grazia di Cristo non è rivolto a quanti sono semi viventi, ma a quanti sono morti e sepolti (Ef. 5.14). Con questo concorda l'affermazione del Signore che l'ora è venuta per i morti di risuscitare alla sua voce (Gv. 5.25). Hanno il coraggio di contrapporre questa vacua allegoria a testimonianze così esplicite?

Ma quand'anche la loro allegoria fosse valida, cosa possono concluderne che risulti contro di noi? L'uomo, diranno, è vivo a metà; dunque ha una qualche traccia di vita. Riconosco certo che ha un'anima capace di intelligenza, sebbene incapace di penetrare fino alla sapienza celeste di Dio, ha in qualche misura la percezione del bene e del male, ha qualche intuizione dell'esistenza di un Dio, sebbene non ne abbia la retta conoscenza; ma dove conducono tutte queste cose? Esse non possono inficiare l'affermazione di sant'Agostino: i doni gratuiti relativi alla salvezza sono stati tolti all'uomo dopo la sua caduta; i doni naturali, incapaci di condurlo a salvezza, sono stati corrotti e macchiati.

Questa affermazione irrefutabile rimanga dunque ferma e certa: l'intelletto dell'uomo è completamente estraneo alla giustizia di Dio, al punto di non poter immaginare, né concepire, né comprendere null'altro che cattiveria, iniquità e corruzione. Similmente il suo cuore è avvelenato dal peccato al punto di non poter produrre che perversità. E se accade che ne esca qualcosa di buona apparenza, tuttavia l'intelletto rimane sempre mascherato dall'ipocrisia e dalla vanità e il cuore dedito ad ogni malvagità.

 

 

CAPITOLO VI

L'UOMO PERDUTO DEVE CERCARE LA REDENZIONE IN GESÙ CRISTO

 

1. Essendo l'intero genere umano perito in Adamo, la dignità e nobiltà nostre, come già abbiamo detto, risulterebbero prive di valore alcuno, anzi risulterebbero a nostra vergogna, se Dio non si manifestasse quale redentore nella persona del figlio suo unigenito. Egli infatti non riconosce quale opera sua l'umanità viziata ed imbastardita. Essendo decaduti dalla vita alla morte, quanto possiamo conoscere di Dio, come nostro Creatore, sarebbe inutile se non intervenisse la fede che ci rivela Dio, quale padre e salvatore, in Gesù Cristo.

Era bensì nell'ordine naturale che la costruzione del mondo fosse come una scuola per insegnarci la pietà e con questo mezzo condurci alla vita eterna e alla perfetta felicità per la quale siamo stati creati. Ma dopo la caduta e la rivolta di Adamo, dovunque volgiamo gli occhi, in alto e in basso, non ci appare altro che maledizione sparsa su tutte le creature, avvolgendo cielo e terra, tale da agghiacciare le anime nostre di orribile disperazione. Sebbene infatti Dio manifesti ancora, in molti modi, il suo paterno favore, tuttavia la semplice considerazione del mondo non ci può assicurare della sua paternità, perché la coscienza ci convince interiormente e ci fa sentire che a causa del peccato meritiamo di essere da lui respinti e di non essere considerati suoi figli.

C'è altresì la rozzezza e l'ingratitudine dei nostri spiriti che, accecati, non vedono la verità; e a causa della perversione dei sensi frodiamo Dio della sua gloria, ingiustamente.

Siamo dunque condotti all'affermazione di san Paolo: dato che il mondo non ha conosciuto Dio nella sapienza di Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti mediante la follia della predicazione (1 Co. 1.21). Definisce "sapienza di Dio "lo spettacolo del cielo e della terra, così eccellente, ricco di infiniti miracoli, e la cui contemplazione avrebbe dovuto condurci a conoscere Dio. Ma dato che ne abbiamo tratto così poco frutto, ci chiama alla fede in Gesù Cristo, che avendo apparenza di follia è sprezzata dagli increduli. Così, sebbene la predicazione della croce non piaccia allo spirito umano, se desideriamo ritornare al nostro Creatore, dal quale siamo lontani, perché ricominci ad esserci padre, dobbiamo accettare questa follia in tutta umiltà.

Infatti, dopo la caduta di Adamo nessuna conoscenza di Dio ha potuto produrre salvezza senza mediatore. Quando Gesù Cristo dice: la vita eterna consiste nel riconoscere il Padre quale vero Dio e quegli che è mandato quale Cristo (Gv. 17.3) , non si riferisce solamente al proprio tempo, ma a tutte le età. Tanto più grave è la stupidità di quanti aprono le porte del paradiso agli increduli e agli infedeli senza la grazia di Gesù Cristo, mentre la Scrittura lo presenta quale unica porta per farci accedere alla salvezza.

Se qualcuno volesse limitare questa affermazione di Gesù Cristo al tempo in cui l'Evangelo è stato manifestato, sarà facilmente refutato: in tutti i secoli e in tutte le nazioni coloro che sono separati da Dio non possono piacergli prima di essere riconciliati, e sono dichiarati maledetti e figli dell'ira. Vi è anche la risposta del Signore Gesù alla Samaritana: "Voi non conoscete quel che adorate; noi conosciamo quel che adoriamo, perché la salvezza viene dai Giudei " (Gv. 4.22). Con queste parole condanna ogni genere di religione praticata dai pagani tacciandola di errore e di falsità e ne indica il motivo: il Redentore era stato promesso sotto la Legge al solo popolo eletto. Ne consegue che nessun culto è mai stato gradito a Dio se non orientato verso Gesù Cristo. Di conseguenza, san Paolo afferma che tutti i pagani sono stati senza Dio ed esclusi dalla speranza della vita (Ef. 2.12).

Inoltre, visto che san Giovanni insegna che la vita è stata fin dal principio in Cristo e che tutti ne sono stati privati, è necessario ritornare a questa sorgente. Gesù Cristo definisce se stesso come "vita "in quanto è il propiziatore che rappacifica Dio nei nostri confronti.

D'altra parte l'eredità celeste appartiene solo ai figli di Dio. Non v'è dunque ragione che siano ammessi in questa categoria quanti non sono incorporati al Figlio unigenito: san Giovanni testimonia che quanti credono in Gesù Cristo hanno il privilegio di essere fatti figli di Dio (Gv. 1.12).

Ma la mia intenzione qui non è di trattare ex professo della fede, sarà dunque sufficiente questo accenno all'argomento.

2. Comunque sia, Dio non si è mai mostrato propizio ai Padri antichi e non ha mai dato loro speranza di grazia senza proporre loro un mediatore. Tralascio di parlare dei sacrifici, mediante i quali i credenti furono chiaramente edotti di dover cercare salvezza esclusivamente nella espiazione compiuta da Gesù Cristo; dico esclusivamente nel senso che la beatitudine promessa da sempre alla Chiesa da Dio è stata fondata sulla persona di Gesù Cristo.

Sebbene infatti Dio abbia incluso tutta la stirpe di Abramo nel suo patto, tuttavia san Paolo afferma giustamente che questo seme, nel quale tutte le genti dovevano essere benedette, propriamente parlando era Gesù Cristo (Ga 3.16; sappiamo infatti che molti sono stati generati carnalmente da Abramo ma non sono considerati sua discendenza. Anche se tralasciamo Ismaele e molti altri, perché i gemelli di Isacco, vale a dire Esaù e Giacobbe, sono stati uno respinto e l'altro eletto quando erano ancora uniti nel ventre della madre? Perché il primogenito è stato ripudiato e il secondo ne ha preso il posto? Infine, perché la maggior parte del popolo è stata tagliata fuori come bastarda?

È dunque chiaro che la razza di Abramo deve la sua condizione al suo Capo e che la salvezza promessa non si attua fino a che non si sia arrivati a Cristo, il cui ufficio è di raccogliere quello che era disperso. Ne segue che l'adozione del popolo eletto dipendeva, alla origine, dalla grazia del mediatore.

Sebbene questo non sia così chiaramente esposto in Mosè, tuttavia è stato certamente conosciuto in generale da tutti i credenti. Infatti, ancor prima che vi fosse un re creato dal popolo, già Anna, madre di Samuele, dice nel suo cantico, parlando della beatitudine della Chiesa: "Il Signore darà forza al suo re ed esalterà il corno del suo Cristo " (1 Re 2.10). Con queste parole vuol significare che Dio benedirà la sua Chiesa. Con questo concorda la profezia data a Eli, citata poco dopo: "Il sacerdote che stabilirò camminerà davanti al mio Cristo ". E non v'è dubbio che il Padre celeste abbia voluto raffigurare una immagine viva di Gesù Cristo nella persona di Davide e dei suoi successori. Ecco perché, volendo esortare i credenti al timore di Dio, ordina di baciare il Figlio per rendergli omaggio (Sl. 2.12). Nello stesso senso si esprime questa frase dell'Evangelo: "Chi non onora il Figlio, non onora il Padre " (Gv. 5.23).

 Così, sebbene il regno di Davide sia stato distrutto dalla rivolta delle dieci tribù, tuttavia il patto che Dio aveva fatto con lui e con i suoi successori è rimasto, come aveva detto mediante i Profeti: "Io non distruggerò completamente questo regno a motivo di Davide, mio servitore e di Gerusalemme che ho eletta: ma a tuo figlio resterà una tribù " (2 Re 11.12-34). Il proposito è reiterato due o tre volte e questa parola viene aggiunta: "Affliggerò la semenza di Davide, ma non per sempre ". Successivamente è detto che Dio aveva lasciato una lampada in Gerusalemme per amore di Davide suo servitore, per procurargli una discendenza e proteggere Gerusalemme (2 Re 15.4). E mentre tutto cadeva in rovina ed in confusione estrema, daccapo fu detto che Dio non aveva voluto disperdere la tribù di Giuda a motivo di Davide suo servitore, promettendo di dare una lampada perpetua a lui e ai suoi figli.

Il sunto di tutto questo è il fatto che Dio ha eletto solo Davide per fare riposare su lui il suo favore e il suo amore, come è detto in un altro passo: "Ha abbandonato il tabernacolo di Silo e di Giuseppe, non ha eletto la tribù di Efraim, ma quella di Giuda e il monte di Sion che ha amato. Ha eletto il suo servitore Davide, per pascere il popolo e l'eredità di Israele " (Sl. 78.60.67).

Dio ha voluto insomma sostenere la sua Chiesa facendone dipendere la situazione, la felicità e la salvezza da questo capo. Perciò Davide esclama: "L'Eterno è la forza del suo popolo e la potenza di salvezza del suo Cristo " (Sl. 28.8). Poi aggiunge una preghiera: "Salva il tuo popolo e benedici la tua eredità! "; volendo significare con questo che tutto il bene della Chiesa è inseparabilmente legato alla superiorità e alla sovranità di Gesù Cristo. Altrove dice, sempre in questo senso: "o Dio, salva! Il re ci esaudisca nel giorno in cui lo pregheremo " (Sl. 20.10). Insegna chiaramente che i credenti hanno sempre fatto ricorso all'aiuto di Dio nella fiducia di essere coperti dalla protezione del re. Possiamo dedurlo dall'altro Salmo: "o Dio, salva! Benedetto sia colui che viene nel nome dell'Eterno! " (Sl. 118.25-26) , dove si vede che i credenti si sono rivolti a Gesù Cristo sperando di essere difesi dalla mano di Dio. A questo fine tende anche la preghiera con cui tutta la Chiesa implora la misericordia di Dio: "o Dio, la tua mano sia sull'uomo alla tua destra, sul figlio dell'uomo che hai preparato per il tuo servizio! " (Sl. 80.18). Sebbene l'autore del Salmo si lamenti della dispersione di tutto il popolo, ne domanda tuttavia la restaurazione per mezzo del solo capo.

E quando Geremia, dopo la deportazione del popolo in terra straniera, la rovina ed il saccheggio del paese, piange e geme sulla distretta della Chiesa, menziona soprattutto la desolazione del regno, perché veniva così spezzata la speranza dei credenti: "Il Cristo "dice "che era lo spirito della nostra bocca, è stato preso a causa dei nostri peccati; colui al quale dicevamo: Vivremo tra i popoli, coperti dalla tua ombra ".

Con questo è chiaro che Dio non può essere propizio al genere umano senza un mediatore; che ai Padri, sotto la Legge, ha costantemente proposto Gesù Cristo onde fosse oggetto della loro fede.

3. Quando promette la fine delle afflizioni, soprattutto quando annunzia la liberazione della Chiesa, innalza la bandiera della fiducia e della speranza in Gesù Cristo. "Dio è uscito "dice Habacuc "per la salvezza del suo popolo con il suo Cristo " (Abacuc 3.13). Quando menziona ai Profeti la restaurazione della Chiesa, il popolo è richiamato alla promessa fatta a Davide relativamente alla perpetuità del trono reale. Né c'è da meravigliarsene, ché altrimenti non vi sarebbe stata alcuna stabilità nel patto su cui si appoggiavano.

A questo si riferisce una importante dichiarazione di Isaia; vedendo il re incredulo Achaz respingere l'annuncio del soccorso che Dio voleva offrire alla città di Gerusalemme, egli, saltando da un soggetto all'altro, per così dire, se ne viene a parlare del Messia: "Ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio " (Is. 7.14) , intendendo dire con parole velate che sebbene il re e il popolo rigettassero, a causa della loro malvagità, la promessa che era loro offerta e si sforzassero, con deliberato proposito, di annullare la verità di Dio, tuttavia l'alleanza non sarebbe stata distrutta ed a suo tempo sarebbe venuto il Redentore.

Per questo motivo i profeti, volendo rassicurare il popolo con l'affermazione del favore e della benevolenza di Dio, hanno costantemente additato il regno di Davide, dal quale avrebbero dovuto venire la redenzione e la salvezza eterna. Così Isaia dice: "Stabilirò il mio patto con voi, le grazie stabili promesse a Davide. Ecco, l'ho dato come testimone ai popoli " (Is. 55.3); tanto più che i credenti, vedendo le cose confuse e disperate, non potevano sperare, senza ricevere una testimonianza come questa, che Dio fosse loro propizio e disposto alla magnanimità.

Similmente Geremia per incoraggiare quanti erano disperati dice: "Ecco, viene il giorno in cui farò sorgere a Davide un germoglio giusto, e allora Giuda e Israele abiteranno al sicuro" (Gr. 23.5-6). Ed Ezechiele da parte sua: "Susciterò sulle mie pecore un pastore, vale a dire il mio servitore Davide. Io, l'Eterno, sarò il loro Dio e il mio servitore Davide sarà il loro pastore. Stabilirò con essi una alleanza di pace " (Ez. 34.23). In un altro passo, dopo aver parlato del rinnovamento che sembrava incredibile dice: "Il mio servitore Davide sarà il loro re e lui solo sarà pastore su tutti; e ratificherò una alleanza permanente di pace con loro " (Ez. 37.25-26).

Scelgo alcune tra molte testimonianze, perché desidero solo far notare ai lettori che la speranza dei credenti non ha mai riposato altrove che in Gesù Cristo.

Tutti gli altri profeti usano lo stesso linguaggio; come dice Osea: "I figli di Giuda e i figli di Israele saranno raccolti insieme e stabiliranno su di se un capo " (Ho 1.2). Questo è espresso ancor meglio dopo: "I figli d'Israele ritorneranno e cercheranno l'Eterno, loro Dio e Davide, loro re " (Ho 3.5). Similmente Michea parlando del ritorno del popolo specifica che davanti a loro camminerà il re e l'Eterno sarà il loro capo (Mi. 2.13). Amos volendo promettere il ristabilimento della Chiesa dice: "Innalzerò la tenda di Davide che è caduta; riparerò tutte le brecce e rialzerò tutte le rovine ", (Am. 9.2). Con questo mostra non esservi altro segno di salvezza che il ristabilimento della gloria e della maestà reale nella casa di Davide: il che si è realizzato in Cristo.

Per questo motivo Zaccaria, il cui tempo era più vicino alla manifestazione di Cristo, esclama più chiaramente: "Rallegrati, figlia di Sion! Gioisci, figlia di Gerusalemme! Ecco il tuo re viene a te, giusto e salvatore " (Za. 9.9). Abbiamo già citato un passo simile nel Salmo: "L'Eterno è la forza di salvezza del suo Cristo. O Dio, salva! " (Sl. 28.8-9). Queste parole mostrano che la salvezza si estende dal capo a tutto il corpo.

 4. Dio ha voluto nutrire i Giudei con queste profezie, onde si abituassero a guardare a Gesù Cristo ogni volta che domanda vano di essere liberati. E infatti, sebbene si siano gravemente corrotti, non hanno mai perso la coscienza di questa verità fondamentale: vale a dire che Dio, secondo la promessa fatta a Davide, sarebbe il redentore della sua Chiesa per mezzo di Gesù Cristo. E con questo mezzo rimarrebbe fermo il patto gratuito con cui Dio aveva adottato i suoi eletti.

In conseguenza di questo, durante l'entrata di Gesù Cristo in Gerusalemme, poco prima della sua morte, risuonava come cosa nota sulla bocca dei bambini questo cantico: "Osanna al figlio di Davide! " (Mt. 21.9). Non v'è alcun dubbio infatti, che esso aveva origine in un concetto accettato da tutto il popolo e ripetuto quotidianamente: vale a dire che non restava loro altro pegno della misericordia di Dio che la venuta del Redentore.

Per questo motivo Cristo ordina ai suoi discepoli di credere in lui per credere in modo autentico e pieno in Dio (Gv. 14.1). Sebbene infatti la fede si rivolga al Padre mediante Gesù Cristo, tuttavia egli vuole ricordare che essa svanirebbe, quand'anche radicata in Dio, se egli stesso non intervenisse per mantenerla saldamente. Del resto la maestà di Dio è troppo alta perché gli uomini mortali possano giungere ad essa; essi non fanno altro che strisciare sulla terra come vermiciattoli. Accetto dunque l'affermazione corrente che Dio è l'oggetto della fede purché si aggiunga che non a caso Gesù Cristo è detto immagine dell'Iddio invisibile (Cl. 1.15). Con questa espressione ci viene reso manifesto che se il Padre non si presenta a noi per mezzo del Figlio non può essere conosciuto sotto il profilo della salvezza.

Sebbene gli scribi avessero confuso ed oscurato con le loro false glosse tutto quello che i profeti avevano insegnato sul Redentore, tuttavia Gesù Cristo ha considerato come certo e universalmente accettato il principio che non vi fosse altro rimedio allo smarrimento in cui erano caduti gli Ebrei, né altro modo di liberare la Chiesa se non nella venuta del Redentore promesso. Il popolo non ha compreso con la necessaria chiarezza l'insegnamento di san Paolo che Gesù Cristo è il fine della Legge (Ro 10.4). Risulta però chiaramente dalla Legge e dai Profeti quanto sia vera e certa questa affermazione.

Non trattiamo ancora dettagliatamente della fede, perché sarà più opportuno farlo altrove. Questo solo deve essere chiaro: se l'elemento primario della pietà consiste nel conoscere Dio quale Padre che ci mantiene, ci governa e ci nutre fino a quando non ci accoglierà nella sua eredità eterna, ne deriva immancabilmente quanto abbiamo or ora affermato, vale a dire che la vera conoscenza di Dio non può sussistere senza Gesù Cristo, e che fin dall'inizio del mondo egli è stato presentato ai credenti onde guardassero a lui e la loro fiducia si riposasse in lui.

In questo senso Ireneo scrive che il Padre, essendo in se infinito si è reso finito nel Figlio, conformandosi alla nostra piccolezza affinché le nostre facoltà non fossero annullate dalla sua gloria. Affermazione fraintesa da alcuni stravaganti che se ne sono serviti per mascherare le loro diaboliche speculazioni dicendo che solo una parte della divinità era stata infusa dalla perfezione del Padre nel Figlio. Questo buon Dottore intende invece dire che Dio si scopre in Gesù Cristo e non altrove. : È eternamente vera l'affermazione: "Chi non ha il Figlio, non ha il Padre " (1 Gv. 2.23). Sebbene molti si siano vantati di adorare il sovrano Creatore del cielo e della terra, tuttavia non avendo mediatore erano nell'impossibilità di gustare realmente la misericordia di Dio e conseguentemente di essere rettamente persuasi della sua paternità. Dato che non avevano il capo, cioè Cristo, hanno avuto solo una conoscenza nebulosa di Dio e senza fondamento. Di conseguenza sono caduti in superstizioni enormi e grossolane, rivelando la propria ignoranza: come oggi i Turchi i quali si vantano con convinzione che il loro Dio è il sovrano Creatore e tuttavia lo sostituiscono con un idolo, in quanto rifiutano Gesù Cristo.

 

 

CAPITOLO VII

LA LEGGE NON È STATA DATA PER VINCOLARE IL POPOLO ANTICO, MA PER NUTRIRNE LA SPERANZA DI SALVEZZA IN GESÙ CRISTO, FINO AL MOMENTO DELLA SUA VENUTA

 

1. È facile dedurre da quanto detto sin qui, che la Legge non è stata data, circa 400 anni dopo la morte di Abramo, per allontanare da Gesù Cristo il popolo eletto, ma anzi mantenerne viva l'attesa e incitarlo a nutrire un ardente desiderio della sua venuta, e, inoltre, per confermarlo in questa attesa onde non perdesse coraggio per il suo prolungarsi.

Con questo termine "Legge "non intendo solo indicare i dieci comandamenti che ci presentano la norma di una vita giusta e santa, ma i diversi aspetti della religione che Dio ha rivelato per mezzo di Mosè. La funzione di Mosè come legislatore, non è stata l'abolizione della benedizione promessa alla razza di Abramo; vediamo anzi che ripetutamente egli richiama i Giudei a questo patto gratuito stabilito da Dio con i loro padri e di cui erano eredi, quasi fosse stato mandato per rinnovarlo.

Questo fatto risulta chiaramente dalle cerimonie. Nulla infatti è più sciocco e futile dell'offrire grasso delle visceri di animali e fumo puzzolente per riconciliarsi con Dio; o trovare conforto nell'aspersione di sangue e acque per cancellare le macchie dell'anima. Insomma, il culto celebrato sotto la Legge, considerato in se stesso, ci sembra gioco infantile, qualora cioè non se ne considerino gli aspetti di simbolo e prefigurazione, cui corrispondono verità spirituali. Non senza motivo dunque, sia nell'ultimo discorso di santo Stefano (At. 7.44) che nell'epistola agli Ebrei (Eb. 8.5) , è ricordato con tanta cura il testo in cui Dio ordina a Mosè di costruire il tabernacolo e gli altri accessori cultuali secondo il modello che gli era stato mostrato sul Monte (Es. 25.4o). Se tutto questo non avesse avuto uno scopo spirituale gli Ebrei vi avrebbero sprecato fatica, come i pagani nelle loro ciarlatanerie. La gente profana e beffarda che non ha mai applicato i suoi sforzi ad una retta pietà, se l'ha a male con la moltitudine dei riti della Legge e non solo si stupisce del fatto che Dio abbia messo in così grandi difficoltà il popolo antico, caricandolo di tanti pesi, ma si fa beffe di molte cerimonie, quasi fossero solo futili giochetti da bambini. Essi non considerano il fine: scisso dal quale le rappresentazioni della legge appaiono naturalmente vane e inutili.

Il termine di riferimento, di cui si parla, mostra chiaramente che Dio non ha stabilito i sacrifici per impegnare in cose terrene coloro che lo volevano servire, ma piuttosto per innalzare il loro spirito più in alto. Ne è dimostrazione la sua natura stessa che, essendo spirituale, non può prendere piacere che in un culto spirituale. Molte testimonianze dei profeti lo confermano: quando rimproveravano agli Ebrei la loro insipienza perché pensavano che Dio apprezzasse i sacrifici in se stessi. La loro intenzione non era affatto lo sminuire in qualche modo la Legge, ma essendone veraci e retti commentatori volevano ricondurre il popolo ebraico al punto dal quale si era allontanato.

Dobbiamo dedurre che la Legge non era senza Cristo dal solo fatto che la grazia di Dio è stata offerta agli Ebrei. Mosè infatti ha additato loro il fine della loro adozione: essere il regno sacerdotale di Dio (Es. 19.6). E questo non potevano ottenerlo se non fosse esistita riconciliazione più degna e preziosa che quella ottenuta mediante il sangue di animali. Per quale ragione i figli di Adamo, nati schiavi del peccato per contagio ereditario, dovrebbero essere innalzati improvvIs.mente alla dignità reale e in questo modo fatti partecipi della gloria di Dio? Questo bene eccelso ed eccellente può venire loro solo quale dono. Come avrebbero potuto godere del diritto di offrire sacrifici, abominevoli a Dio quali erano a motivo dei loro vizi, se non fossero stati consacrati a questo ufficio dalla santità del Capo?

San Pietro riferendosi alle parole di Mosè si è espresso con notevole sensibilità e pertinenza: alludendo al fatto che la grazia goduta dagli Ebrei sotto la Legge è stata pienamente rivelata in Gesù Cristo, dice: "Siete una razza eletta, un real sacerdozio " (1 Pi. 2.9).

Questo mutamento di termini vuol far rilevare che coloro ai quali Gesù Cristo è apparso attraverso l'Evangelo, hanno ricevuto maggiori beni dei loro padri, dato che sono tutti rivestiti dell'onore sacerdotale e reale, onde avere la libertà di presentarsi liberamente a Dio per mezzo del loro Mediatore.

2. Notiamo qui, per inciso, che il regno stabilito nella dinastia davidica rappresentava una parte dell'incarico attribuito a Mosè e della dottrina di cui era stato fatto ministro. Ne consegue che, sia nella tribù di Levi, che nei successori di Davide, Gesù Cristo è stato presentato agli Ebrei come in un duplice specchio: come ho detto, non avrebbero potuto essere sacerdoti di Dio altrimenti, dato che erano servi del peccato e della morte e macchiati dalla corruzione.

È anche evidente la verità dell'affermazione di san Paolo che gli Ebrei sono stati tenuti sotto la Legge come sotto la direzione di un pedagogo (Ga 3.24) finché spuntasse il seme per il quale la grazia doveva essere data. Non essendo Gesù Cristo rivelato loro, erano, in quel tempo, simili a fanciulli, la loro ignoranza e la loro debolezza non potevano condurre ad una conoscenza piena delle cose celesti.

Questa guida a Gesù per mezzo dell'aspetto cerimoniale della legge è già stato esposto, e lo si può comprendere ancor meglio in base alle molte testimonianze dei profeti. Infatti sebbene fossero obbligati ad offrire, quotidianamente, sempre nuovi sacrifici per soddisfare Dio, tuttavia Isaia promette loro che tutti i peccati saranno cancellati di colpo da un sacrificio unico e perpetuo (Is. 53). Anche Daniele lo conferma (Da 9). I sacerdoti, scelti nella tribù di Levi, entravano nel santuario; tuttavia nel Salmo era detto che Dio ne aveva eletto uno solo, stabilendolo con giuramento solenne ed immutabile perché fosse sacerdote secondo l'ordine di Melchisedec (Sl. 110.4). Era allora praticata l'unzione con olio, ma Daniele, in séguito ad una visione, dichiara che ve ne sarà un'altra.

Non insisterò ulteriormente su questo punto, tanto più che l'autore dell'epistola agli Ebrei, dal capo 4all'11, ne tratta ampiamente e mostra chiaramente che tutte le cerimonie della Legge sono prive di valore e di utilità alcuna fin quando non si giunga a Gesù Cristo.

San Paolo si riferisce anche ai dieci comandamenti quando dice che Gesù Cristo è il fine della Legge per la salvezza di tutti i credenti (Ro 10.4) , e quando afferma che Gesù Cristo è l'anima o lo spirito che vivifica la lettera, che in se sarebbe mortale (2 Co. 3.6). Nel primo passo vuol dire che non serve conoscere la vera giustizia, se Gesù Cristo non ce la concede per imputazione gratuita, oppure rigenerandoci con il suo Spirito. Giustamente quindi definisce Gesù Cristo l'adempimento o il fine della Legge; infatti non servirebbe a nulla conoscere quel che Dio ci richiede se Gesù Cristo non ci soccorresse alleggerendo il giogo e l'insopportabile fardello sotto il quale soffriamo e da cui siamo schiacciati.

In un altro passo dice che la Legge è stata formulata per le trasgressioni (Ga 3.19) , allo scopo di umiliare gli uomini, convincendoli della loro dannazione. Questa è la preparazione autentica ed unica per giungere a Cristo; quanto vien detto a questo proposito con parole diverse, si armonizza molto bene. Dovendo polemizzare con seduttori, secondo cui la possibilità di giustificarsi e meritare salvezza esisteva unicamente nell'adempimento delle opere della Legge, e dovendo distruggere le loro argomentazioni, è stato talvolta costretto ad assumere la Legge in una accezione più limitata, come se essa si limitasse ad ordinare di vivere bene, sebbene non ne debba essere eliminato il patto di adozione, quando la si considera nella sua totalità.

3. È utile vedere in breve come siamo resi più inescusabili dal fatto di aver conosciuto la legge morale, essendo così sollecitati a chiedere perdono.

Se è vero che nella Legge è rivelata la perfezione della giustizia, ne consegue che l'osservanza completa della Legge costituisce giustizia perfetta nel cospetto di Dio, mediante la quale l'uomo può essere ritenuto giusto davanti al tribunale celeste. Per questo Mosè, dopo aver fatto conoscere la Legge, non esita a invocare il cielo e la terra quali testimoni del fatto che ha posto dinanzi al popolo di Israele la vita e la morte' il bene e il male (De 30.19). E non possiamo negare che l'osservanza perfetta della Legge sia ricompensata con la vita eterna, come il Signore ha promesso

Dobbiamo d'altra parte considerare se siamo in grado di realizzare una obbedienza tale da poter nutrire qualche speranza di salvezza. A che serve infatti comprendere che, obbedendo alla Legge, possiamo meritarci la vita eterna, se nello stesso tempo non conosciamo il mezzo per pervenire alla salvezza? Qui appare la debolezza della Legge: questa obbedienza non può infatti essere riscontrata in alcun uomo; di conseguenza siamo esclusi dalle promesse di vita e cadiamo nella eterna maledizione. Non parlo solo di quello che avviene di fatto, ma di quello che necessariamente deve accadere. Dato che l'insegnamento della Legge supera di molto le facoltà umane, possiamo contemplare da lontano le promesse in essa formulate, ma non possiamo trarne alcun giovamento.

Non otteniamo dunque altro se non prendere ancor meglio coscienza della nostra miseria, dato che ci è tolta ogni speranza di salvezza e la morte viene rivelata. D'altra parte vi sono le minacce formulate, che non si riferiscono a qualcuno di noi in particolare ma genericamente a tutti. Esse ci incalzano e ci perseguitano con rigore inesorabile, di sorta che la Legge si offre a noi come una maledizione ineluttabile.

4. Così dunque se ci raffrontiamo solo con la Legge non possiamo che perdere coraggio in modo assoluto, rimanere confusi e disperarci, dato che in essa siamo tutti maledetti e condannati e ciascuno di noi è escluso dalla beatitudine promessa a chi l'osserva.

Qualcuno domanderà se Dio prende piacere nell'ingannarci. Infatti sembra un inganno quello di far balenare una qualche speranza di felicità all'uomo, di chiamarvelo ed esortarvelo, promettergli che è pronta e poi impedirgliene l'accesso.

 Rispondo che le promesse della Legge non sono state date invano, essendo però in forma condizionale non possono realizzarsi se non per coloro che avranno attuata tutta la giustizia, il che non si verifica tra gli uomini. Quando avremo compreso che esse hanno efficacia per noi a condizione che Dio, per sua bontà gratuita, ci accolga senza considerare le nostre opere; e quando avremo accolto per fede questa bontà, offertaci nell'Evangelo, allora queste stesse promesse, con le loro condizioni, non risulteranno vane. Perché allora il Signore ci darà gratuitamente ogni cosa, in modo che la sua liberalità giunga al punto di non respingere la nostra obbedienza imperfetta; ma perdonandoci le sue lacune, l'accetti come se fosse valida e assoluta e ci consenta così di ricevere i frutti delle promesse della Legge, come se le condizioni preliminari fossero state osservate.

Il problema sarà più compiutamente trattato quando parleremo della giustificazione per fede; non voglio perciò svilupparlo oltre.

5. Dobbiamo ora brevemente spiegare, confermando quanto abbiamo già detto, perché l'osservanza della Legge sia impossibile. Sembra un'affermazione completamente assurda, tanto che san Girolamo non ha esitato a condannarla come perversa. Non ci interessano le ragioni che lo hanno spinto ad assumere questa posizione; ci basti di comprendere la verità.

Non farò distinzione tra vari tipi di possibilità. Definisco "impossibile "quello che mai si è verificato e Dio ha esplicitamente dichiarato non si verificherà mai. Affermo che, dall'inizio del mondo, nessuno fra tutti i santi, chiuso nel carcere di questo corpo mortale, ha manifestato tale perfezione di senti menti da amare Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze. Aggiungo che non ce n'è uno solo che non sia stato contaminato da qualche concupiscenza. Chi potrà contraddirmi? Conosco il tipo di santi inventati dalla superstizione popolare: di una tale purezza che a stento gli angeli del cielo possono essere loro paragonati; ma questo è in contrasto con la Scrittura e con l'esperienza. Dico di più: non ci sarà mai nessuno che raggiunga questo livello di perfezione prima di essere liberato dal corpo. Molti testi della Scrittura lo dimostrano esplicitamente.

Dedicando il Tempio, Salomone diceva che non c'è sulla terra uomo che non pecchi (2 Re 8.46). Davide dichiara che nessun essere vivente sarà giustificato nel cospetto di Dio (Sl. 143.2). Questo è spesso ripetuto anche nel libro di Giobbe. San Paolo lo afferma più chiaramente di tutti: "La carne ha desideri contrari allo Spirito, e lo Spirito ha desideri contrari alla carne " (Ga 5.17). Per dimostrare che quanti sono sotto la Legge sono maledetti si limita a questa sola spiegazione: è scritto che quanti non obbediranno ai comandamenti saranno maledetti (Ga 3.10; De 27.26). Con questo presuppone, anzi è per lui cosa certa, che nessuno è in grado di obbedire. Ora tutto ciò che viene predetto nella Scrittura deve essere considerato eterno, anzi necessario.

I Pelagiani pungolavano sant'Agostino con questa sottigliezza: sarebbe recare ingiuria a Dio pensare che egli ordini più di quel che i credenti siano in grado di fare, con l'aiuto della sua grazia. Per rispondere alle loro calunnie egli ammetteva che il Signore potrebbe esaltare un mortale fino alla perfezione angelica, qualora lo volesse; ma aggiungeva che non l'ha fatto mai né lo farebbe in avvenire avendo affermato il contrario. Non ho nulla da obbiettare a questa affermazione; aggiungo solo che è privo di senso contrapporre la potenza e la verità di Dio. Affermo dunque che il problema della possibilità o impossibilità che si verifichino cose che il Signore ha dichiarato non si verificheranno, è fuori discussione.

La disputa sorge anche intorno al termine. Interrogato dai suoi discepoli su chi potesse essere salvato, Gesù Cristo risponde che questo è impossibile agli uomini ma che a Dio ogni cosa è possibile (Mt. 19.25). Sant'Agostino fa notare, con validi argomenti, che nella vita presente non rendiamo mai a Dio l'amore che gli dobbiamo: "L'amore "egli dice "deriva dalla conoscenza, nessuno può dunque amare Dio perfettamente senza aver prima conosciuto la sua bontà. Durante il nostro pellegrinaggio terreno, non la vediamo che oscuramente e come in uno specchio; di conseguenza l'amore che le portiamo è imperfetto ".

Sia dunque chiaro che ci è impossibile adempiere la Legge fin quando siamo in questo mondo, come san Paolo dimostra in altro testo (Ro 8.3).

6. Per illustrare più chiaramente l'insieme del problema, riassumiamo quale siano la funzione e il compito della Legge che vien definita morale: in esso, a mio giudizio, vi sono tre elementi.

In primo luogo, mostrando la giustizia di Dio, la Legge fa prendere coscienza a ognuno della propria ingiustizia, convincendolo e condannandolo. È necessario che l'uomo, altrimenti accecato e ubriacato dall'amore di se, sia costretto a riconoscere e confessare la propria debolezza e la propria impurità. Se la sua vanità non è messa a nudo, egli si gonfia di folle tracotanza e non può giungere a riconoscere la piccolezza e la debolezza delle proprie forze, in quanto le commisura alla propria fantasia. Quando invece le mette alla prova nell'adempimento della legge di Dio, si vede costretto a umiliare il proprio orgoglio a causa delle difficoltà che incontra. Se infatti nutriva in precedenza una grande opinione di se, sente poi quale peso gravi sulle sue forze fino a farlo inciampare, vacillare, cadere ed infine venir meno. In questo modo la conoscenza della dottrina di Dio sottrae l'uomo alla naturale presunzione.

Anche da un altro vizio deve essere liberato: l'arroganza, di cui già abbiamo parlato. Fin quando si attiene al giudizio che può dare di se, anziché considerare la vera giustizia, si pone in una situazione ipocrita, di cui si compiace, inorgogliendosi nei riguardi della grazia di Dio e giustificandosi con invenzioni costruite di testa propria. Quando però è costretto ad esaminare la propria vita al metro della Legge di Dio, lasciando da parte l'immagine della propria giustizia, frutto della sua fantasia e perciò falsa, scopre di essere incredibilmente lontano dalla vera santità, e al contrario, di essere pieno di vizi, di cui, prima, si considerava esente. Le concupiscenze sono così nascoste e sottili da ingannare facilmente il giudizio dell'uomo. Non senza motivo l'Apostolo dice di non aver saputo che cosa fosse la concupiscenza fino a quando la Legge non gli disse: "Non concupire! " (Ro 7.7). Se essa non è denunciata dalla Legge e tratta fuori dal suo nascondiglio, essa uccide l'infelice uomo, senza che se ne accorga.

7. La Legge è dunque come uno specchio in cui contempliamo in primo luogo la nostra debolezza, poi l'iniquità che ne deriva, e infine la maledizione che le colpisce ambedue, così come in uno specchio percepiamo le macchie del nostro viso. Colui infatti che è privo di ogni capacità a vivere rettamente, non può che rimanere nel fango del peccato. Al peccato fa séguito la maledizione. Perciò quanto più la Legge ci convince della nostra colpa tanto più ci rivela che siamo meritevoli di condanna e di gravi pene.

Questo intende l'Apostolo allorché dice che, mediante la Legge, sorge la coscienza del peccato (Ro 3.20). Ne sottolinea così la prima funzione che concerne i peccatori non rigenerati. Nello stesso senso sono da intendersi queste affermazioni: la Legge è sopravvenuta per aumentare il peccato (Ro 5.20) , essa quindi è ministra di morte (2 Co. 3.7) , produce l'ira di Dio (Ro 4.15) e ci uccide. Senza dubbio quanto più la coscienza è toccata sul vivo dalla conoscenza del suo peccato, tanto più aumenta l'iniquità, perché allora la ribellione verso il legislatore si aggiunge alla trasgressione. Ne consegue dunque che essa fornisce argomenti alla vendetta di Dio nei riguardi del peccatore, perché non può che accusare, condannare e condurre a perdizione.

Dice sant'Agostino: "Se si toglie lo Spirito di grazia, la Legge non serve ad altro che ad accusare e ad uccidere ". Esprimendosi in questi termini non condanna la Legge, né toglie alcunché alla sua eccellenza. Se la nostra volontà fosse interamente fondata sull'obbedienza e radicata in essa, allora sarebbe sufficiente conoscere l'insegnamento per essere salvi. Dato però che la nostra natura, corrotta e carnale, si oppone con ostilità alla Legge spirituale di Dio e non può esserne corretta, ne consegue che la Legge data in vista della salvezza, si trasforma in occasione di peccato e di morte. Ogniqualvolta ci pone di fronte alle nostre trasgressioni, ci rivela anche la giustizia di Dio e d'altra parte scopre la nostra iniquità. Quanto più ci conferma il premio preparato per la giustizia, tanto più ci assicura della confusione preparata per gli iniqui. Lungi dunque dal voler sminuire la Legge!

Non potremmo lodare maggiormente la bontà di Dio! È evidente che la nostra perversità soltanto ci impedisce di ottenere la beatitudine eterna che ci era offerta nella Legge. Vedendo come Dio non si stanca di beneficarci e di aggiungere benevolenza a benevolenza, abbiamo motivo di gustare maggiormente la sua grazia che ci soccorre in ciò che manca all'adempimento della Legge, e di mirare più a fondo la sua misericordia che ci conferisce questa grazia.

8. La nostra condanna è decretata dalla Legge non in vista di farci cadere nella disperazione, o perché perdiamo coraggio. Questo non avverrà se sapremo trarne profitto. È vero che i malvagi si abbandonano in questo modo allo sconforto, ma ciò avviene per l'ostinazione del loro cuore.

I figli di Dio devono pervenire ad altre conclusioni. San Paolo dichiara infatti che siamo tutti condannati dalla Legge, onde ogni bocca sia chiusa e tutti prendano coscienza del loro debito verso Dio (Ro 3.19) : tuttavia, in un altro passo insegna che Dio ha racchiuso ogni cosa nell'incredulità, non per perdere, né per lasciar perire, ma per fare misericordia a tutti (Ro 11.32) , vale a dire, affinché rinunciando ad una falsa presunzione della propria virtù, gli uomini riconoscano di essere sostenuti solamente dalla sua mano. Affinché, svuotatisi e spogliatisi, ricorrano alla sua misericordia, affidandosi solamente ad essa, nascondendosi sotto la sua ombra, considerandola giustizia valida unicamente nella forma in cui è offerta in Gesù Cristo a tutti quelli che la cercano, la desiderano e la aspettano con vera fede. Nei comandamenti della Legge il Signore ci si presenta come colui che retribuisce solo una giustizia perfetta, della quale tutti siamo sprovvisti, e colui che, al contrario, attua con severità le pene dovute a nostri errori. Ma in Cristo il suo volto riluce pieno di grazia e di dolcezza, sebbene noi siamo poveri e indegni peccatori.

9. Sant'Agostino parla sovente della spinta che riceviamo dalla Legge, ad implorare l'aiuto di Dio. Dice ad esempio: "La Legge ordina affinché, dopo esserci sforzati di adempiere i comandamenti ed aver fallito a causa della nostra infermità, impariamo ad implorare l'aiuto di Dio, ": "L'utilità della Legge è di convincere l'uomo della sua infermità e costringerlo a chiedere la medicina della grazia, che è in Cristo " "La legge comanda; la grazia dà la forza di far bene " "Dio comanda quel che non possiamo fare, onde sappiamo quel che gli dobbiamo domandare ", "La Legge è stata data per renderci colpevoli, onde essendo colpevoli temessimo, e temendo domandassimo perdono e non presumessimo nulla dalle nostre forze " "La Legge è stata data per farci sentire piccoli, anziché grandi, per mostrarci che da soli non abbiamo la forza di ottener giustizia; onde, sentendoci poveri ed indigenti, ricorressimo alla grazia di Dio ". Di conseguenza aggiunge una preghiera: "O Signore, comandaci quello che non possiamo realizzare, o piuttosto comandaci quello che non possiamo realizzare senza la tua grazia, affinché quando gli uomini non potranno realizzare quel che Tu dici, ogni bocca sia chiusa e nessuno si stimi grande; tutti siano piccoli e tutti siano resi colpevoli di fronte a Dio ".

È superfluo che io mi metta a raccogliere le affermazioni di sant'Agostino, dato che egli ha scritto un libro apposta, intitolato: Dello spirito e della lettera. Egli non si occupa espressamente del secondo aspetto della Legge: forse perché pensava che lo si sarebbe potuto dedurre dal primo, o perché non lo vedeva così chiaramente o non riusciva a trattarne come avrebbe voluto.

Sebbene il primo ufficio della Legge, del quale abbiamo ora trattato, si riferisca propriamente ai figli di Dio, tuttavia esso concerne anche i reprobi. Essi non giungono al punto di essere umiliati secondo la carne per ricevere forza spirituale nello spirito, come i credenti, ma vengono meno cadendo in disperazione; tuttavia è bene che le loro coscienze siano messe in crisi, per manifestare l'equità del giudizio di Dio. Fin quando possono, cercano di sfuggire al giudizio di Dio. Sebbene il giudizio non sia ora manifestato, tuttavia la testimonianza della Legge e la loro propria coscienza li gettano nella disperazione talché risulta evidente ciò che hanno meritato.

10. La seconda funzione della Legge consiste nel ricorrere alle sanzioni per mettere un freno alla malvagità di quanti si curano di fare il bene solo quando siano costretti, in quanto li inquieta con le terribili minacce che contiene. Questo avviene non perché il loro cuore sia interiormente toccato o mosso, ma perché sono come imbrigliati ed impediti di dar corso ai loro malvagi propositi, che altrimenti attuerebbero con sfrenata licenza. Non risultano, per questo, più giusti e migliori di fronte a Dio. Sebbene siano trattenuti dal timore o dalla vergogna, per cui non osano eseguire quello che concepiscono in fondo al cuore e non danno libero corso alla furia della loro intemperanza, tuttavia il loro cuore non è mosso dal timore e dall'obbedienza a Dio; anzi più si trattengono, più sono infiammati dalle loro concupiscenze, pronti a commettere ogni azione vile o turpe, se il timore della Legge non li trattenesse. E non solo il cuore rimane sempre malvagio, ma anche nutrono un odio radicale contro la Legge di Dio e dato che Dio ne è l'autore, odiano lui. Se fosse loro possibile, lo toglierebbero volentieri di mezzo perché non possono tollerare che ordini quel che è buono, santo e retto, facendo giustizia di quanti sprezzano la sua maestà.

Questo atteggiamento risulta più evidente in alcuni, più nascosto in altri; ma è presente in tutti quelli che non sono rigenerati, i quali sono costretti, bene o male, a sottomettersi alla Legge, non per libera scelta ma per costrizione e con grande riluttanza; e null'altro ve li costringe se non il timore della severità di Dio.

Tuttavia questa giustizia imposta risulta necessaria alla comunità umana, la cui tranquillità il Signore garantisce, impedendo che ogni cosa sia rovesciata disordinatamente; e questo avverrebbe se ciascuno ritenesse lecita ogni cosa.

Per di più, non è inutile per i figli di Dio essere governati da questa pedagogia nel tempo in cui non hanno ancora lo spirito di Dio ma si smarriscono nelle intemperanze della carne.

Talvolta avviene che il Signore non si riveli immediatamente ai credenti ma li lasci camminare per qualche tempo nell'ignoranza prima di chiamarli. Grazie a questo timore servile sono trattenuti dal diventare dissoluti e sebbene il loro cuore, non essendo ancora domato e soggiogato, non ne tragga molto vantaggio tuttavia si abituano a poco a poco a portare il giogo del nostro Signore; sicché non saranno indocili del tutto, quando egli li chiamerà a sottomettersi ai suoi comandamenti, quasi fosse cosa nuova e sconosciuta.

È probabile che l'Apostolo intendesse accennare a questa funzione della Legge quando diceva che essa non è data per i giusti, ma per gli ingiusti ed i ribelli, gli increduli e i peccatori, i malvagi e gli scellerati, gli assassini dei genitori, gli omicidi, i fornicatori, i ladroni, i mentitori e gli spergiuri e tutti quelli macchiati dai vizi contrari alla sana dottrina (1 Ti. 1.9-10). Egli mostra che la Legge è come una briglia per frenare le concupiscenze della carne che altrimenti dilagherebbero senza limite.

2. Quanto dice in un altro passo può essere inteso in questi due sensi: la Legge è stata un pedagogo per gli Ebrei, per condurli a Cristo (Ga 3.24). Vi sono infatti due tipi di uomini che essa conduce a Cristo con la sua pedagogia.

I primi, di cui abbiamo già parlato, sono quelli che ripieni di fiducia nelle proprie forze e nella propria giustizia, devono esserne privati per diventare capaci di ricevere la grazia di Cristo. La Legge rendendone evidente la miseria, li conduce all'umiltà e li prepara così a desiderare quello di cui non credevano di mancare.

I secondi hanno bisogno di briglia per essere trattenuti e impediti dall'andar vagando secondo le concupiscenze della carne. Dove lo Spirito di Dio non governa ancora, le concupiscenze sono talvolta così enormi e smodate da far sì che l'anima rischi di sprofondare nel disprezzo e nella ribellione contro Dio. Così avverrebbe se Dio non provvedesse con questo mezzo, trattenendo con la briglia della sua Legge quanti sono ancora dominati dalla carne. Di conseguenza, se non rigenera immediatamente un uomo eletto in vista della salvezza, fino al momento della sua visitazione lo mantiene nel timore, per mezzo della Legge; timore non autentico e libero come dovrebbe essere nei suoi figli, ma tuttavia utile, in quel momento, a chi deve essere condotto per mano, pazientemente, fino ad una conoscenza più perfetta.

Tante sono le esperienze che abbiamo di questo fatto da rendere superflui gli esempi. Quanti sono rimasti temporaneamente nell'ignoranza di Dio, riconosceranno di essere stati mantenuti in quel modo nel timore di Dio fino a quando non furono rigenerati dallo Spirito per incominciare ad amarlo con slancio e affetto.

12. La terza funzione della Legge, la principale, pertinente al fine per cui essa e stata data, si esplica fra i credenti nel cui cuore già regna ed agisce lo spirito di Dio. Sebbene abbiano la Legge scritta nei toro cuori dal dito di Dio; sebbene ricevano dallo Spirito Santo il desiderio di obbedire a Dio, tuttavia traggono ancora doppio frutto dalla Legge. Essa è un ottimo strumento per far loro sempre meglio e più sicuramente comprendere quale sia la volontà di Dio, alla quale aspirano, e confermarne in loro la conoscenza. Come un servo, pur desideroso di servir bene e compiacere in tutto al suo padrone, ha bisogno di conoscere con grande famigliarità le sue abitudini e le sue condizioni per potercisi adattare. E nessuno tra noi può esentarsi da questa necessità. Nessuno ancora, infatti, ha raggiunto un sapienza tale da non poter progredire ulteriormente, giorno per giorno, mediante il quotidiano approfondimento della Legge, assimilando la volontà di Dio con sempre più chiara comprensione.

Non abbiamo solamente bisogno di insegnamenti ma anche di esortazioni: il servitore di Dio trarrà dunque dalla Legge e dalla frequente meditazione di essa anche questo giovamento: sarà stimolato all'obbedienza a Dio, vi sarà confermato e sarà liberato dai suoi errori. Bisogna che in questo modo i santi esortino se stessi dato che, per quanto pronti a fare il bene, sono sempre trattenuti dalla pigrizia e dalla pesantezza della carne, per cui non compiono mai appieno il loro dovere. Riguardo alla loro carne la Legge sarà come una frusta che la spinge all'opera: un asino non vuol tirare se non lo si frusta. Per parlar più chiaramente: dato che l'uomo spirituale non è ancora liberato dal fardello della carne, la Legge gli sarà di pungolo perpetuo per non lasciarlo addormentare né rallentare il passo.

A questa funzione si riferiva Davide quando celebrava con grandi lodi la Legge di Dio: "La legge di Dio è immacolata e converte le anime; i comandamenti di Dio sono retti e rallegrano i cuori " (Sl. 19.8) : "La tua parola è una lampada al mio piede, una luce sui miei passi " (Sl. 119.105) e tutto quello che segue nello stesso Salmo. E tutto questo non contrasta con le frasi precedentemente riportate di san Paolo, che non mostrano l'utilità della Legge per l'uomo fedele e già rigenerato, ma quello che essa può da sola offrire all'uomo. Il Profeta mostra al contrario il risultato del fatto che il Signore istruisce i suoi servitori nella dottrina della sua Legge, ispirando interiormente la determinazione di seguirla. E non si limita ai precetti ma vi aggiunge la promessa della grazia, che per i credenti non deve essere tralasciata e che addolcisce quel che sarebbe amaro. Nulla sarebbe meno amabile di una legge che esigesse solamente l'adempimento del proprio dovere, con minacce, e spingesse le nostre anime al timore e alla paura. Davide mostra soprattutto di aver conosciuto in essa ed accolto il Mediatore, senza il quale non esisterebbero dolcezze o piacere alcuno.

13. Alcuni ignoranti, incapaci di percepire questa differenza, respingono in modo assoluto e senza eccezione Mosè e vogliono mettere da parte le due tavole della Legge perché non ritengono convenevole ai cristiani di mantenersi vincolati da una dottrina che contiene in se la dispensazione della morte.

 Respingiamo questa opinione: infatti Mosè ha chiaramente dichiarato che sebbene la Legge possa solo generare la morte nell'uomo peccatore, tuttavia reca frutto molto diverso per i credenti. Prossimo alla fine, egli dichiarò al popolo: "Ritenete bene nella vostra memoria e nel vostro cuore le parole che oggi vi comunico, per insegnarle ai vostri figli e istruirli a conservare e mettere in pratica tutte le cose scritte in questo libro. Non vi sono ordinate invano, ma perché per mezzo di esse possiate vivere " (De 32.46-47).

Nessuno può negare vi sia nella Legge l'immagine completa di una perfetta giustizia, oppure bisogna dire che non occorre avere alcuna regola per vivere rettamente, né siamo tenuti ad osservarla. Non vi sono infatti molte norme per vivere rettamente ma una sola, perpetua ed immutabile. Quanto dice Davide: il giusto medita la Legge giorno e notte (Sl. 1.2) , non deve dunque essere riferito ad un'epoca determinata, ma si riferisce a tutti i tempi, fino alla fine del mondo.

Né, stupiti del fatto che essa richiede una santità maggiore di quella che possiamo raggiungere mentre siamo nella prigione del nostro corpo, dobbiamo tralasciare il suo insegnamento. Quando siamo sotto la grazia di Dio essa non esercita il suo rigore sì da spingerci all'estremo, come se non fosse soddisfatta qualora non compiamo tutto quello che essa prescrive. Ma esortandoci a seguire la perfezione cui ci chiama, ci mostra la meta cui è utile e convenevole che tutta la nostra vita tenda, e se non cessiamo di fare questo, il suo scopo è raggiunto. La vita intera è infatti una corsa e quando saremo giunti al termine, il Signore ci darà di toccare quella meta che ora perseguiamo, anche se ne siamo ancora lontani.

14. La Legge dunque agisce come esortazione per i credenti, non per incatenare le loro coscienze alla maledizione, ma per risvegliarle dalla pigrizia, sollecitandole a punire la propria imperfezione. Alcuni, volendo esprimere la liberazione della maledizione, affermano che la Legge è abrogata e annullata per i credenti (parlo sempre della legge morale) , non nel senso che essa non debba ordinare sempre quello che è buono e santo, ma nel senso che non ha più il significato di prima: vale a dire che non umilia le loro coscienze con terrore mortale. E infatti san Paolo insegna chiaramente che la Legge è stata abrogata.

Ma Gesù Cristo stesso ha predicato affermando di non voler affatto distruggere o annullare la Legge (Mt. 5.17); non lo avrebbe detto se non lo si fosse accusato di farlo. Queste accuse non erano state formulate senza una qualche giustificazione: è verosimile che fossero originate da una esposizione erronea del suo insegnamento (gli errori prendono spesso lo spunto da una verità). Per non cadere in questo errore dobbiamo distinguere diligentemente ciò che nella Legge è stato abrogato da ciò che permane valido.

Il Signore Gesù afferma di non essere venuto per abolire la Legge ma per adempierla, che non ne passerà una sola lettera fino a che il cielo e la terra sussisteranno; che quanto vi è scritto deve realizzarsi: con questo dimostra che la sua venuta non ha per nulla diminuito il rispetto e l'obbedienza dovuti alla Legge. E a ragione, dato che è venuto per trovar rimedio alle trasgressioni contro di essa. L'insegnamento della Legge non è dunque scalfito da Gesù Cristo: essa ci istruisce in vista di ogni opera buona, ci ammonisce, ci rimprovera, ci castiga.

 15. Le affermazioni di san Paolo relative alla maledizione, non hanno la funzione di istruire ma quella di vincolare, impressionare ed avvincere le coscienze. Per sua natura la Legge non solo insegna, ma pretende anche rigorosamente quel che ordina. Se non la si adempie fino in fondo, essa emette senz'altro la sentenza di orribile maledizione. Per questo motivo l'Apostolo dice: Quanti sono sotto la Legge sono maledetti, come è scritto: "Maledetti saranno tutti quelli che non compiranno quanto è prescritto " (Ga 3.10; De 27.26). Di conseguenza egli afferma che permangono sotto la Legge coloro che non fondano la propria giustizia sulla remissione dei peccati, che ci libera dai rigori della Legge. Bisogna dunque essere liberati dai vincoli della Legge, se non vogliamo morire miserevolmente in cattività.

In che consistono tali legami? Nell'inflessibile rivendicazione con cui ci persegue senza tregua, e senza lasciare un solo errore impunito. Per riscattarci da questa infelice situazione, Cristo è stato maledetto per noi, come è scritto: "Maledetto colui che pende dal legno ". Nel capitolo seguente san Paolo dice che Cristo è stato sottoposto alla Legge per riscattare quelli che erano sotto la servitù della medesima. Ma aggiunge subito: "Onde potessimo gioire del privilegio dell'adozione per essere figli di Dio " (Ga 3.13; 4.4; De 21.23). Vale a dire: perché non fossimo sempre stretti dalla servitù che tiene le nostre coscienze avvinte in angoscia mortale. Rimane tuttavia fermo che l'autorità della Legge non è sminuita e dobbiamo sempre continuare ad accettarla con rispetto e nell'obbedienza.

16. Le cose sono differenti riguardo alle cerimonie che sono state abolite nella prassi ma non nel significato. Il fatto che Gesù Cristo le abbia fatte cessare con la sua venuta non toglie nulla alla loro santità, anzi la rende più augusta e più preziosa. Esse non sarebbero state che una commedia o un divertimento per gli sciocchi se in esse non fosse stata manifestata la potenza della morte e della risurrezione di Gesù Cristo; inoltre se esse non avessero avuto fine, non si potrebbe comprendere oggi perché erano state istituite. Perciò san Paolo dice che sono state ombre della realtà apparsa in Gesù Cristo; intende mostrare che la loro osservanza è superflua ed anzi nociva (Cl. 2.17).

Vediamo dunque che la loro abolizione fa sì che la verità brilli meglio che se ci fosse ancora un velo steso e Gesù Cristo, che si è manifestato direttamente, vi fosse ancora raffigurato indirettamente. Ecco perché, alla morte di Gesù Cristo, il velo del tempio si è rotto in due parti ed è caduto a terra (Mt. 27.51); perché risultava manifestata nella sua pienezza l'immagine viva ed esplicita dei beni celesti di cui le cerimonie antiche avevano solo poche ed oscure tracce, come dice l'autore dell'epistola agli Ebrei (10.1). In questo senso Cristo dice che la Legge e i Profeti hanno avuto validità fino a Giovanni e da allora il regno di Dio ha incominciato ad essere annunciato (Lu 16.16) , non che i santi padri fossero privati della predicazione, che contiene in se la speranza della salvezza, ma avevano percepito solo da lontano e velatamente quello che oggi vediamo in piena luce.

San Giovanni Battista spiega alla Chiesa di Dio perché abbia dovuto iniziare da questi rudimenti per salire più in alto: la Legge è data da Mosè, la grazia e la verità sono state recate da Gesù Cristo (Gv. 1.17). Sebbene l'annullamento e il perdono dei peccati fossero promessi agli antichi sacrifici e l'arca del Patto fosse pegno sicuro del favore paterno di Dio, tutto questo non sarebbe stato che un'ombra se non fosse stato fondato su Gesù Cristo, in cui si trova stabilità e sicurezza permanente.

 Questo fatto deve comunque essere chiaro: l'abolizione delle cerimonie della Legge, che hanno avuto termine e non sono più in uso, ne mette in luce l'utilità fino alla venuta di Gesù Cristo, il quale abolendone l'osservanza, ne ha garantito la forza e la validità con la sua morte.

17. Più difficile appare la questione sollevata da san Paolo. Egli dice: "Quando eravate morti nei vostri peccati e nella incirconcisione della vostra carne, Dio vi ha vivificati con Cristo, perdonandovi le colpe, cancellando l'atto accusatore dei precetti, che vi era contrario, inchiodandolo alla croce, ecc. " (Cl. 2.13-14). Sembra che voglia estendere l'abrogazione della Legge al punto che i decreti di essa non ci concernano del tutto. Sbagliano però quanti pensano che questo debba essere riferito semplicemente alla legge morale di cui non considerano però abolito l'insegnamento ma l'eccessiva severità.

Altri, esaminando più da vicino le parole di san Paolo, notano che esse si riferiscono propriamente alla legge cerimoniale e rilevano che san Paolo ha l'abitudine di adoperare questo termine "precetti "quando ne parla. Dice infatti agli Efesini: "Gesù Cristo è la nostra pace: egli ci ha uniti insieme, abolendo la Legge fatta di comandamenti in forma di precetti, ecc. " (Ef. 2.14). Non v'è alcun dubbio che questo si riferisca alle cerimonie, perché dice che questa Legge era come un muro per separare gli Ebrei dai Gentili. Riconosco dunque che la prima interpretazione è giustamente raccolta dai secondi; tuttavia essi stessi non mi sembrano spiegare ancora perfettamente la frase dell'Apostolo; i due passi non possono essere confusi come se fossero del tutto simili. Quello nell'epistola agli Efesini ha questo significato: san Paolo volendo rendere gli Efesini certi del fatto che erano entrati nella comunione del popolo di Israele, dice che è tolto l'impedimento che li separava da quello: si tratta delle cerimonie, in quanto le abluzioni e i sacrifici con cui gli Ebrei si consacravano a Dio li distinguevano dai pagani.

Nell'epistola ai Colossesi è evidente che accenna ad un mistero più profondo. Si tratta in questo caso dell'osservanza delle pratiche mosaiche, cui i seduttori volevano costringere il popolo cristiano. Ma qui, come nell'epistola ai Galati, dove si tratta lo stesso problema, egli va più a fondo e risale alla sorgente.

Se si considera nelle cerimonie solamente la loro celebrazione, perché le definirebbero un "atto accusatore "contro di noi? E perché far consistere la somma della nostra salvezza nell'annullarle e sopprimerle? : È evidente dunque che bisogna qui considerare altro che l'esteriorità delle cerimonie.

Sono certo di aver trovato il vero significato del passo purché si riconosca vera l'affermazione, giustissima, di sant'Agostino, anzi, il pensiero che ha tratto dalle parole evidenti dell'Apostolo: nelle cerimonie giudaiche vi era confessione di peccato più che espiazione (Eb. 7.9-10). Cosa significava infatti il sacrificio, se non riconoscimento di colpevolezza mortale? Offrivano un animale per essere ucciso in vece loro. Cosa facevano con le loro abluzioni, se non riconoscersi immondi e contaminati? Con questo confessavano il debito rappresentato dalla loro impurità e dalla loro offesa. Ma in questo riconoscimento non avveniva alcun pagamento. Per questo motivo l'Apostolo dice: per mezzo della morte di Cristo è stata compiuta la redenzione delle offese che sotto l'antico Patto sussistevano e non erano eliminate (Eb. 9.15). A buon diritto dunque, san Paolo definisce le cerimonie "precetti "contrari a chi li praticava, perché per mezzo loro si riconosceva e firmava la propria condanna. Questo non impediva agli antichi padri di partecipare alla stessa grazia cui noi partecipiamo; infatti lo hanno ottenuto attraverso Cristo, non attraverso le cerimonie; e san Paolo in questo passo le distingue da Cristo perché esse oscuravano la sua gloria dopo la rivelazione dell'Evangelo.

Le cerimonie, dunque, se considerate in se sono giustamente dette "atti accusatori ", contrari alla salvezza dell'uomo, in quanto sono strumenti per costringere le coscienze a confessare i propri debiti. Dato che i seduttori volevano costringere la Chiesa cristiana ad osservarle, san Paolo, considerandone l'origine, ha ragione di far osservare ai Colossesi il pericolo in cui sarebbero caduti lasciandosi soggiogare da tali pratiche, perché in questo modo la grazia di Dio sarebbe stata loro sottratta. Con la purificazione operata dalla sua morte, una volta per tutte, egli ha infatti abolito tutte quelle pratiche esteriori con cui gli uomini si confessano debitori di Dio senza poter essere scaricati dei loro debiti.

 

 

CAPITOLO VIII

ESPOSIZIONE DELLA LEGGE MORALE

 

1. Non sarà fuori luogo inserire a questo punto i dieci comandamenti della Legge con un breve commento che chiarirà meglio quanto già è stato detto, vale a dire che il servizio stabilito da Dio un tempo rimane in vigore per sempre, e gli Ebrei non sono stati solo istruiti riguardo al giusto modo di servire Dio, ma, avendo constatato la propria incapacità ad osservare i comandamenti ricevuti, sono stati anche umiliati e spaventati dal pensiero del giudice, essendo così condotti, come per necessità, al Mediatore.

Esponendo, in breve, in che consiste una vera conoscenza di Dio abbiamo mostrato come sia impossibile concepirlo nella sua grandezza senza che la sua maestà ci afferri obbligandoci a servirlo. Nella conoscenza di noi stessi, abbiamo detto, il punto principale consiste nell'essere vuotati da ogni illusione sulle nostre capacità, spogliati di ogni fiducia nella nostra giustizia, abbattuti dalla considerazione della nostra povertà: sì che impariamo l'umiltà perfetta onde abbassarci e rinunciare ad ogni vanto. Entrambi gli aspetti sono messi in evidenza dalla Legge di Dio, nella quale il Signore attribuitosi il potere di comandare, ci insegna ad avere il dovuto rispetto per la sua divinità, indicando in cosa consista questo rispetto. Successivamente, avendo stabilito la norma della giustizia ci rimprovera sia la nostra debolezza che la nostra ingiustizia; la nostra natura, corrotta e perversa, è infatti riluttante ad osservare questa norma e, deboli ed incapaci, non siamo in grado di adeguarci alla sua perfezione.

Ora tutto ciò che bisogna imparare dalle due Tavole, ci è insegnato in una certa misura dalla legge interiore che, abbiamo detto, è scritta e quasi scolpita nel cuore di tutti. La nostra coscienza, infatti, non ci lascia riposare in uno stato di perenne sonnolenza, priva di reazioni, anzi ci rende una testimonianza interiore e ci ricorda quel che dobbiamo a Dio, e mostra la differenza tra il bene e il male; e ci accusa, in tal modo, quando non facciamo il nostro dovere.

L'uomo però è avvolto nell'oscurità dell'ignoranza a tal punto da poter appena intuire, per mezzo di quella legge naturale quale sia il servizio accetto a Dio, ed è ben lungi dall'averne retta conoscenza. È inoltre talmente gonfio di ambizione e di orgoglio, talmente accecato dall'amore di se, da non essere in grado di esaminarsi e scendere in se, per così dire, per imparare ad umiliarsi e a confessare la propria miseria.

Di conseguenza il Signore ha dato la sua Legge scritta, necessaria alla rozzezza del nostro spirito e alla nostra presunzione, per darci una testimonianza più chiara riguardo a ciò che era oscuro nella legge naturale, correggendo la nostra indifferenza e colpire maggiormente il nostro spirito e la nostra attenzione.

È ora facile comprendere cosa occorra imparare dalla Legge: Dio essendo nostro Creatore, è per noi sovrano e padre, e perciò dobbiamo rendergli gloria, venerazione, amore e timore. Inoltre non siamo liberi di seguire le concupiscenze del nostro spirito ove ci spinga, ma dipendiamo interamente da Dio e dobbiamo rivolgere la nostra attenzione unicamente alle cose che egli gradisce. Egli gradisce la giustizia e la dirittura, gli è invece odiosa l'iniquità.

 Se non vogliamo allontanarci dal nostro Creatore con ingratitudine abominevole, dobbiamo amare la giustizia per tutta la vita e impegnarci in essa con assiduità. Se infatti gli tributiamo l'onore dovutogli, sostituendo la sua volontà alla nostra, non possiamo far questo nel modo dovuto se non osservando giustizia, santità e purezza.

L'uomo non può giustificarsi affermando di non avere la forza e di non essere altro che un debitore insolvente. La gloria di Dio non si può infatti commisurare alle nostre capacità, dato che, quali possiamo essere, egli permane sempre uguale a se stesso: amico della giustizia, nemico dell'iniquità; qualsiasi cosa ci chieda, dato che non può chiedere se non giustamente, siamo tenuti ad obbedire per obbligazione naturale. Se non lo facciamo, la colpa è nostra.

Il fatto di essere imprigionati dalla nostra cupidità, determinata dal peccato, e perciò privi della libertà di obbedire al Padre, non costituisce giustificazione; il male infatti è dentro di noi ed a noi deve imputarsi.

3. Giunti a questo punto, grazie all'insegnamento della Legge, dovremo, sotto la sua guida, scendere in noi stessi, ne trarremo queste due conclusioni. In primo luogo, paragonando la giustizia della Legge con la nostra vita, constateremo di non soddisfare la volontà di Dio e dunque di essere indegni di conservare il nostro posto tra le sue creature, ancor meno di essere considerati suoi figli. Poi, valutando le nostre forze, le dovremo ritenere non solo insufficienti all'adempimento della Legge, ma anzi, del tutto inesistenti.

Ne deriva sfiducia nelle nostre proprie forze, poi angoscia e trepidazione dell'animo. La coscienza non può affrontare il peso del peccato senza che immediatamente si profili il giudizio di Dio; e non si può percepire il giudizio di Dio senza essere presi dall'orrore della morte. Analogamente la coscienza, vincolata dall'esperienza della propria debolezza non può fare a meno di cadere nella sfiducia di se stessa. Entrambi questi sentimenti causano scoraggiamento ed umiliazione.

È così che l'uomo, atterrito dal pensiero della morte eterna che vede prossima a causa della propria ingiustizia, si volge infine alla misericordia di Dio come unico porto di salvezza; e sentendo di non poter pagare quanto deve alla Legge, disperando di se, prende fiato per domandare ed aspettare un aiuto esterno.

4. Ma il Signore non si limita ad additare la sua giustizia al rispetto, ma aggiunge promesse e minacce per condurre i nostri cuori ad amarla e ad odiare l'iniquità. La sola bellezza della virtù è insufficiente a smuovere il nostro intelletto incerto; il Padre pieno di bontà ha voluto condurci con la sua benignità ad amarlo e desiderarlo per la dolcezza del premio offertoci.

Egli dichiara dunque di voler premiare la virtù e ci assicura che non invano obbediremo ai suoi comandamenti. Ci comunica, d'altra parte, che l'ingiustizia gli è odiosa e non potrà sfuggire alla punizione, perché Egli ha deciso di tutelare la propria maestà disprezzata. E per incitarci in tutti i modi promette le benedizioni della vita presente e la beatitudine eterna a chi osserverà i suoi comandamenti; e d'altro lato minaccia i trasgressori di calamità attuali e di eterni tormenti mortali. La promessa: "Chi farà queste cose vivrà per esse ", (Le 18.5) e la corrispondente minaccia: "L'anima che avrà peccato, morirà " (Ez. 18.4.20) si riferiscono indubbiamente alla morte o all'immortalità futura, che mai avrà fine. Del resto, dovunque si menzionano la benevolenza o la collera del Signore si intende con la prima eternità di vita, con la seconda eterna perdizione.

Nella Legge è enumerata una lunga lista di benedizioni e maledizione presenti (Le 26.4; De 28.1). Le pene elencate sottolineano la purezza di Dio, che non può tollerare l'iniquità. D'altra parte le promesse dimostrano come egli ami la giustizia, dato che non la vuol lasciare senza premio. Vi è parimenti mostrata una straordinaria benignità; dato che noi, e tutto quanto ci appartiene, siamo in debito nei confronti della sua maestà, egli giustamente considera come debito quello che gli dobbiamo. Ora il pagamento di un tale debito non merita alcuna rimunerazione. Perciò offrendosi una ricompensa per quell'obbedienza che consideriamo come non dovuta e che tributiamo contro voglia, egli rinuncia, in realtà, ad un suo diritto.

Abbiamo già detto, almeno in parte e in parte diremo a suo tempo, quale vantaggio ci possano arrecare le promesse. Limitiamoci per ora a comprendere che nelle promesse della Legge è contenuto un singolare incoraggiamento alla giustizia, di modo che è impossibile vedere come Dio si compiaccia della nostra sottomissione. D'altra parte le sanzioni sottolineano la massima esecrazione dell'ingiustizia, onde il peccatore non si lasci blandire dalla dolcezza del peccato fino a dimenticare che la giustizia del legislatore è preparata per lui.

5. Il Signore, volendo fornire la norma della perfetta giustizia, ne ha ricondotto tutti gli elementi alla propria volontà; mostrando così di gradire massimamente l'obbedienza. Bisogna diligentemente notarlo, perché l'audacia e l'intemperanza dell'intelletto umano sono troppo inclini a escogitare nuovi onori e nuovi culti da rendergli per ottenerne la grazia. In tutto il genere umano si è sempre manifestata e si manifesta anche al presente una folle affettazione di sfrenata religiosità, radicata naturalmente nel nostro spirito. Gli uomini desiderano sempre elaborare qualche mezzo per ottenere giustizia senza ricorrere alla parola di Dio. Di conseguenza i comandamenti della Legge occupano il posto più basso tra quelle buone opere che godono della stima universale: mentre una moltitudine infinita di precetti umani occupa il primo posto e si trova in primo piano.

Mosè voleva frenare questa tendenza quando diceva al popolo, dopo la proclamazione della Legge: "Ascolta e prendi nota di quel che ti ordino affinché tu possa prosperare e i tuoi figliuoli dopo di te, se farete quel che è buono e ben accetto al tuo Dio " (De 12.28) , "Fai quello che ti ordino, senza aggiungervi né togliervi nulla,'. E in precedenza, dopo aver riconosciuto come saggezza ed intelligenza del popolo israelita, in confronto alle altre nazioni della terra, l'aver ricevuto dal Signore le leggi, la giustizia e le cerimonie, dice loro: "Custodisci con diligenza la tua anima e te stesso; non dimenticare le parole che i tuoi occhi hanno visto ed esse non cadano mai dal tuo cuore " (De 4.9).

Dio afferma che nella sua parola è contenuta la perfetta giustizia perché prevedeva che gli Israeliti, dopo aver ricevuto la Legge, non si sarebbero trattenuti dall'inventare nuovi culti, qualora non li avesse tenuti fermamente in pugno. Eppure non hanno saputo sottomettersi a questa tendenza così esplicitamente condannata. E noi? Siamo indubbiamente vincolati dalla stessa parola. È indubbio infatti che il Signore ha voluto attribuire per sempre alla Legge il valore di un perfetto insegnamento di giustizia. E tuttavia non siamo contenti e ci diamo attivamente da fare per rintracciare e inventare buone opere, le une appresso alle altre.

Il miglior rimedio contro questo vizio è di serbare nel cuore questo pensiero: la Legge ci è stata data dal Signore per insegnarci la giustizia perfetta e in essa non è proposta altra giustizia se non il conformarci e adeguarci alla volontà divina; invano dunque Inventiamo nuove opere per meritare la grazia di Dio. Il vero culto a Dio consiste nell'obbedienza; al contrario, l'applicarsi a buone opere all'infuori della Legge costituisce una intollerabile corruzione della vera e divina giustizia. Sant'Agostino ha ben ragione di definire l'obbedienza resa a Dio "madre e custode di ogni virtù "e talvolta "sorgente e radice di ogni bene ".

6. Quanto ho precedentemente insegnato sulla funzione della Legge, sarà confermato quando l'avremo spiegata. Ma prima di trattare ogni singolo articolo sarà meglio valutare il suo significato generale. Sia chiaro, in primo luogo, che la vita dell'uomo deve essere regolata dalla Legge non solo per quanto riguarda l'onesta esteriore ma anche la giustizia interiore e spirituale. Questo non si può certo negare, ma è tenuto in ben poca considerazione. E ciò avviene perché non si considera il legislatore, alla cui natura la Legge deve essere correlata.

Se qualche sovrano proibisse con un editto di vivere immoralmente, di rapinare o assassinare, chi si limitasse a desiderare di vivere immoralmente, rapinare od uccidere senza giungere a compiere il fatto o senza tentare di giungervi, non sarebbe considerato colpevole. Le provvidenze del legislatore terreno concernono solo l'onestà esteriore; i suoi ordinamenti sono dunque violati solo quando il male sia realmente compiuto.

Ma Dio, il cui occhio vede ogni cosa, non si limita all'apparenza esteriore del bene ma considera piuttosto la purezza del cuore; proibendo l'immoralità, l'omicidio e il furto, vieta ogni concupiscenza carnale, odio e desiderio dei beni altrui, come ogni inganno e tutto quel che vi assomiglia. Essendo legislatore spirituale non parla meno all'anima che al corpo. Per quanto concerne l'anima, l'ira e l'odio sono assassinio, la concupiscenza è furto, l'amore sregolato è immoralità.

Qualcuno potrebbe obiettare che anche le leggi umane concernono gli intendimenti e la volontà umana e non solo gli avvenimenti esterni. Lo riconosco: ma sempre sotto la luce della volontà che ne emerge. Le leggi considerano l'intenzione di ogni opera compiuta, ma non considerano i pensieri segreti. Chi dunque si astiene dalle trasgressioni esplicite avrà soddisfatto le leggi civili. Al contrario, essendo la Legge di Dio data per le nostre anime, se vogliamo osservarla sono le nostre anime che per prime devono esservi vincolate.

Ora la maggior parte degli uomini, anche quando non vuol lasciar trapelare la propria ribellione alla Legge, conforma in qualche modo i propri occhi, i propri piedi e le proprie mani e le altre parti del corpo all'osservanza dei suoi precetti; il cuore però rimane completamente estraneo all'obbedienza. Credono di essere a posto quando hanno nascosto agli uomini quel che è evidente a Dio. Sentono dire: "Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare ". Di conseguenza non sguainano la spada per uccidere, non frequentano prostitute, non mettono la mano sui beni altrui. Tutto questo va bene. Ma il loro cuore è pieno di omicidio e brucia di concupiscenza carnale, non sanno guardare i beni altrui se non con occhio torvo, divorandoli di invidia. Viene così a mancare loro ciò che è essenziale nella Legge. Donde nasce una tale stupidità, vi domando, se non dal fatto che dimenticano il Legislatore, e torcono la giustizia conformandola ai propri intendimenti.

Contro questa tesi san Paolo protesta chiaramente affermando: la Legge è spirituale (Ro 7.14). Con questo vuol dire che essa richiede non solo l'obbedienza dell'anima, dell'intelletto e della volontà ma anche una purezza angelica che, priva di ogni macchia carnale, sia interamente spirituale.

7. Interpretando in questo modo la Legge, non offriamo una interpretazione frutto di fantasia, ma seguiamo Cristo che ne è il miglior interprete. I Farisei avevano sparso tra il popolo una convinzione perversa, vale a dire che chi non commette una violazione esterna della Legge può essere considerato osservatore lodevole di questa. Cristo combatte questo errore affermando che lo sguardo impudico rivolto ad una donna è adulterio e tutti quelli che odiano il fratello sono omicidi (Mt. 5.27). Considera degni di condanna quanti abbiano semplicemente concepita l'ira nel proprio cuore, colpevoli di fronte il Concistoro quelli che manifestano il proprio risentimento; colpevoli della geenna infuocata quelli che avranno rivelato esplicitamente, con offese, il loro malanimo.

Coloro che non hanno capito questo, hanno visto in Gesù un "secondo Mosè "che reca la "Legge evangelica "per supplire ai difetti della "Legge mosaica ". È divenuta corrente l'affermazione che la perfezione della Legge evangelica è di gran lunga maggiore di quella dell'antica Legge : Si tratta di un errore gravissimo. Quando riassumeremo i comandamenti di Mosè, vedremo dalle sue stesse parole che questa interpretazione reca ingiuria alla Legge di Dio. Inoltre da questa affermazione conseguirebbe che la santità degli antichi Padri è solo ipocrisia. Infine questo ci distrarrebbe dalla regola unica e perpetua della giustizia che in quella occasione Dio ha dato.

L'errore è facilmente refutato, queste persone hanno pensato che Cristo aggiungesse alla Legge, laddove invece la ricostituiva nella sua integrità, purgandola cioè delle menzogne e del lievito dei Farisei, da cui essa era stata sporcata e oscurata.

8. In secondo luogo dobbiamo osservare che i comandamenti di Dio hanno un contenuto che va oltre la formulazione letterale. Bisogna però guardarci dall'attribuire loro un significato che a noi sembri giusto ma torcendoli qua e là a nostro piacimento. Alcuni si prendono questa libertà e recano offesa all'autorità della Legge, quasi fosse incerta e si dovesse disperare di raggiungere una retta comprensione. Bisogna dunque trovare una via che ci conduca, se è possibile, in modo sicuro e senza incertezza alla volontà di Dio; vale a dire, occorre essere vigili nell'estendere la spiegazione oltre la lettera, evitando che diventi una aggiunta alla Legge di Dio, una glossa umana, ma ci si attenga al significato genuino voluto dal legislatore, esponendolo fedelmente.

È noto certamente che in tutti i comandamenti una parte è presa per il tutto; chi dunque si volesse limitare al significato letterale, dovrebbe essere deriso. La spiegazione della Legge, anche la più sobria, va al di là delle parole; ma non è chiaro fin dove possa andare se non si stabilisce una norma precisa.

Considero questa la migliore: ricercare le motivazioni della norma stessa; vale a dire considerare il fine per cui ogni singolo comandamento ci è stato dato da Dio. Esempio: ogni comandamento e dato per ordinare o per proibire. Avremo piena comprensione dell'uno e dell'altro aspetto considerando la motivazione o il fine cui tende. Il fine del quinto comandamento è che si onori quanti Dio ha voluti rivestire di onore: la sostanza sarà che Dio desidera che onoriamo quelli cui ha dato una qualche dignità; e che il disprezzo e l'insolenza nei loro riguardi gli è sgradita. La motivazione del primo comandamento è che Dio sia onorato: la sostanza sarà che la vera pietà è gradita a Dio, vale a dire l'onore che rendiamo alla sua maestà; al contrario l'empietà gli è abominevole. Bisogna così considerare il problema affrontato da ogni comandamento; indi cercarne il fine, per scoprire quel che il legislatore considera essergli gradito o sgradito.

Successivamente bisogna dedurre una motivazione inversa a quella espressa dal comandamento stesso, in questo modo: Se questo piace a Dio, il contrario gli dispiace. Se quello gli dispiace, questo gli piace. Se ordina questo, vieta il contrario. Se vieta questo, ordina il contrario.

9. Quanto stiamo dicendo ora, brevemente, può apparire oscuro, ma risulterà più chiaro nell'applicazione pratica quando illustreremo i comandamenti. Sia sufficiente l'aver fatto questo cenno iniziale, dobbiamo però sottolineare l'ultimo punto esposto, che rischierebbe di non essere compreso e di sembrare irragionevole.

Similmente l'opinione corrente riconosce senz'altro che quando si vieta il male, si ordina il bene corrispondente. È cosa normale che quando si condannano i vizi si raccomandino le virtù. Io però postulo qualcosa di più di quanto si intende comune mente con questo riconoscimento. Per virtù contraria al vizio essi intendono l'astenersi dal vizio: noi andiamo più in là affermando che si tratta di fare il contrario del vizio. Lo si vedrà meglio facendo un esempio. Nel comandamento: non uccidere, gli uomini vedono comunemente la richiesta di astenersi da ogni azione malvagia e da ogni desiderio di malfare; affermo che bisogna vedere di più, bisogna includervi anche l'aiuto per conservare la vita del nostro prossimo con tutti i mezzi a noi possibili

Affinché questo non sembri ingiustificato, dimostrerò la mia affermazione. Il Signore ci proibisce di ferire ed oltraggiare il nostro prossimo perché vuole che la sua vita ci sia cara e preziosa; egli richiede dunque anche i servizi della carità che possono conservarla. Si può così vedere come il fine del comandamento ci insegni quel che ci è comandato o proibito di fare.

10. Qualora si domandi perché il Signore abbia voluto esprimere solo a metà la sua volontà, senza esporla chiaramente, vi sono parecchie risposte. Una mi pare soddisfacente più di tutte: dato che la carne si sforza sempre di mascherare e nascondere con futili pretesti la turpitudine del proprio peccato che sarebbe altrimenti evidente, Dio ha voluto indicare come esempio la forma più grossolana ed estrema di ogni singolo peccato, onde il nostro stesso udito ne avesse orrore e ci facesse detestare il peccato con slancio. A falsare la nostra valutazione dei vizi è infatti spesso il fatto che noi li sminuiamo quando non sono del tutto evidenti. Il Signore ci libera da questo inganno e ci abitua a ricondurre ogni peccato ad un tipo preciso, per poter meglio intendere l'orrore che dobbiamo averne.

 Esempio: l'odio o la collera non sembrano essere peccati così esecrabili, se li si indica con il loro nome. Ma quando il Signore li proibisce definendoli "omicidio ", comprendiamo meglio quanto li aborra, dato che li definisce con un nome così orribile. Essendo messi così in guardia dal giudizio di Dio, impariamo a valutare meglio la gravità di colpe che prima ci sembravano leggere.

11. In terzo luogo dobbiamo considerare il significato della divisione della Legge in due tavole: ogni persona di buon senso può giudicare che non senza motivo se ne fa così spesso menzione nella Scrittura. La ragione è molto chiara e non dà adito a dubbi. Il Signore, proponendosi di insegnare tutta la giustizia nella sua Legge, l'ha divisa in modo da attribuire la prima parte ai doveri di cui gli siamo debitori, al fine di onorare la sua maestà; la seconda ai doveri verso il prossimo, secondo carità.

Il fondamento della giustizia è costituito indubbiamente dall'onorare Dio; se questo vien meno, tutti gli altri elementi sono dislocati come macerie di un edificio crollato. Quale giustizia sarebbe, infatti, il non nuocere al prossimo con ladrocini e rapine e intanto strappare in modo sacrilego a Dio la maestà della sua gloria? Il non macchiare il nostro corpo con l'impurità e l'insozzare il nome di Dio con bestemmie? Il non colpire gli uomini e cercare di spegnere il ricordo di Dio? Invano pretenderemmo giustizia senza religione: sarebbe come ammirare un bel corpo senza testa! A dire il vero, anzi, la religione non è solo il capo della giustizia e della virtù, ma ne è per così dire l'anima che le dà forza. Mai gli uomini rispetteranno la giustizia e l'amore tra di loro, senza il timore di Dio.

Definiamo dunque il servire Dio: "principio e fondamento della giustizia ", senza di esso infatti tutto quello che gli uomini possono escogitare per vivere rettamente, nella continenza e nella temperanza, è vano e futile di fronte a Dio. Lo definiamo anche: "sorgente e spirito della giustizia "perché gli uomini temendo Dio, giudice del bene e del male, sono istruiti a vivere puramente e rettamente.

Il Signore dunque nella prima Tavola ci educa alla pietà e alla religione, in vista di rendere onore alla sua maestà. Nella seconda stabilisce come dobbiamo comportarci tra di noi, considerando il timore che gli portiamo. Per questa ragione il Signore Gesù ha riassunto tutta la Legge, secondo quanto riportano gli evangelisti, in due articoli, cioè: Amiamo Dio con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze; amiamo il nostro prossimo come noi stessi (Mt. 22.37 ; Lu 10.27). Le due parti, che riassumono tutta la Legge, hanno secondo lui l'una per oggetto Dio e l'altra gli uomini.

12. Quantunque la Legge sia pienamente espressa in questi due punti, tuttavia il Signore, allo scopo di eliminare ogni equivoco, ha voluto esporre in modo più ampio e semplice, in dieci espressioni, quanto si riferisce al timore, all'amore ed all'onore che sono dovuti alla sua divinità e alla carità che ci chiede di avere, per amor suo, nei confronti del nostro prossimo. Non è dunque inutile puntualizzare la divisione dei comandamenti purché ci si ricordi che in questa materia ognuno è libero di giudicare liberamente e non solleviamo, pertanto, polemiche se qualcuno non concorda con le nostre tesi. Dico questo perché non ci si stupisca della suddivisione che adotterò considerandola una novità.

 Riguardo al numero dei comandamenti, non sussiste alcun dubbio dato che il Signore ha eliminato ogni possibile contestazione con la sua parola. La questione sorge riguardo alla loro suddivisione. C'è chi li divide in modo che vi siano tre comandamenti nella prima Tavola e sette nella seconda, cancellando dal numero dei comandamenti quello relativo alle immagini o includendolo nel primo, mentre il Signore lo ha posto come comandamento a se stante. In questo modo viene, inoltre, diviso in modo sconsiderato il decimo comandamento che vieta di concupire i beni del prossimo. Si aggiunga inoltre che questa divisione, come vedremo appresso, era sconosciuta alla Chiesa primitiva.

Altri invece mettono quattro articoli nella prima Tavola, come facciamo noi, ma considerano il primo comandamento solo una promessa, priva del carattere di comandamento. Per parte mia non posso prendere le dieci parole dette da Mosè altrimenti che come dieci comandamenti, a meno di essere convinto del contrario da ragioni evidenti, mi sembra inoltre che li possiamo indicare con il dito nel loro ordine. Lasciando dunque agli altri la libertà di pensare quel che vogliono, mi atterrò a quanto mi sembra più probabile: vale a dire che la frase da loro considerata come primo comandamento, serve da proemio a tutta la Legge; i dieci comandamenti seguono, quattro nella prima Tavola e sei nella seconda, secondo l'ordine che si vorrà scegliere.

Questa divisione è accolta da Origene senza difficoltà, come cosa comunemente accettata nel suo tempo. Anche sant'Agostino la accetta, scrivendo a Bonifacio. È vero che in un altro passo preferisce la prima divisione, ma in questo caso la sua argomentazione è debole: se si mettessero tre comandamenti nella prima Tavola, essa rappresenterebbe la Trinità. In quello stesso passo però non nasconde la sua preferenza per la divisione da noi seguita. Vi è anche un altro Padre antico che concorda con la nostra opinione, cioè l'autore degli incompiuti Commentari su san Matteo.

Giuseppe attribuisce cinque comandamenti ad ogni Tavola, senza dubbio rispecchiando l'opinione corrente del suo tempo. Questo è contraddetto dalla ragione, dato che sarebbe annullata la differenza tra l'onore di Dio e la carità verso il prossimo; inoltre Gesù Cristo si esprime altrimenti: egli infatti include il precetto dell'onore da rivolgere al padre e alla madre nella seconda Tavola (Mt. 19.19).

Ascoltiamo ora Dio stesso che parla.

IL PRIMO COMANDAMENTO.

Io sono l'Eterno, il tuo Dio, che ti ha tratto dalla terra d'Egitto, dalla casa di servitù. Non avrai dèi stranieri nel mio cospetto.

13. POCO importa se si considera la prima frase parte del primo comandamento o a se stante: purché comprendiamo trattarsi di un proemio a tutta la Legge.

In primo luogo quando si promulga una legge bisogna provvedere a che non sia abrogata per disprezzo o disinteresse. Perciò il Signore, fin dal principio, pone rimedio a questo pericolo, preoccupandosi di tutelare la maestà della Legge. Lo fa sulla base di tre motivi. Attribuisce a se il diritto e la forza di comandare, costringendo così il popolo eletto alla necessità di obbedire. In seguito promette la sua grazia per condurre i suoi credenti con dolcezza all'obbedienza della sua volontà. Infine ricorda il bene che aveva fatto agli Ebrei per rimproverarli d'ingratitudine se non risponderanno alla liberalità esercitata nei loro riguardi.

Con il nome Eterno è indicato l'imperio e la sovranità legittima che ha su di noi. Se tutte le cose vengono da lui e sussistono in lui, è giusto che vengano riferite a lui, come dice san Paolo (Ro 11.36). Con questa parola dunque ci è mostrata la necessita di sottometterci al gioco del Signore, dato che sarebbe mostruoso sottrarci al governo di colui senza il quale non possiamo esistere.

14. Dopo aver indicato il diritto che ha di comandare e di pretendere l'obbedienza, ci conduce anche con la dolcezza dichiarando di essere l'Iddio della sua Chiesa; onde non si creda che vuole costringerci solo con la forza. In questa locuzione vi è una corrispondenza reciproca espressa nella promessa: "Io sarò loro Dio ed essi saranno il mio popolo" (Gr. 31.33). In base a questa affermazione Gesù Cristo dimostra che Abramo, Isacco e Giacobbe hanno ottenuto salvezza e vita eterna: infatti Dio aveva loro promesso di essere loro Dio (Mt. 22.32). Questa parola dunque equivale a: Io vi ho eletto come mio popolo, non solo per beneficarvi nella vita presente ma per condurvi all'eterna beatitudine del mio regno.

Quale sia il fine di questa grazia, è esposto in molti passi. Quando il nostro Signore ci chiama nella comunità del suo popolo, ci elegge, come dice Mosè, per santificarci alla sua gloria e affinché osserviamo i suoi comandamenti (De 7.6; 14.2; 26.18). Di qui l'esortazione del Signore al suo popolo: Siate santi perché io sono santo (Le 19.2). Di qui il rimprovero, per bocca del Profeta: "Il figlio onora suo padre, il servitore il suo padrone. Se sono vostro padrone, dov'è il timore? Se sono vostro padre, dov'è l'amore? " (Ma.1.6).

15. Successivamente espone il bene con cui ha beneficiato i suoi servitori; questo fatto deve commuoverli ancor più, l'ingratitudine è infatti il crimine più odioso di tutti. Ricorda al popolo di Israele l'atto benefico compiuto in suo favore, così generoso e mirabile da dover essere oggetto di perenne ricordo. La menzione ne era opportuna al momento della proclamazione della Legge. Il Signore vuole così indicare di averli liberati, perché lo riconoscano autore della loro libertà, tributandogli onore e obbedienza.

Quando similmente vuole chiamarci al suo servizio, usa attribuirsi alcuni titoli con cui si distingue dagli idoli pagani. Come ho già detto noi siamo così portati all'errore e insieme così temerari, che appena ci si parla di Dio la nostra mente non può trattenersi dallo scivolare in qualche assurda speculazione. Per rimediarvi, il Signore esprime la propria divinità con alcuni titoli e in questo modo ci rinchiude entro dei limiti, per così dire, onde non andiamo vagando qua e là e non costruiamo temerariamente qualche nuovo dio, abbandonando colui che è il solo Dio vivente.

Per questo motivo i profeti, per descriverlo e farlo conoscere adeguatamente, presentano sempre i segni e le note caratteristiche con cui egli si era manifestato al popolo d'Israele. Quando è chiamato l'Iddio d'Abramo o d'Israele (Es. 3.6) e quando è seduto nel suo tempio di Gerusalemme in mezzo ai cherubini (Am 1.2; Abacuc 2.28; Sl. 80.2; 99.1; Is. 37.16) , queste espressioni non intendono vincolarlo ad un luogo o ad un popolo, ma servono ad orientare il pensiero dei credenti verso quel Dio unico che ha espresso se stesso nell'alleanza fatta con il popolo d'Israele, di sorta che non è lecito volgere altrove la mente per cercarlo. Tuttavia è chiaro che la specifica menzione della redenzione ha lo scopo di invitare gli Ebrei a darsi più alacremente al servizio di Dio, dato che egli li ha riscattati e li tiene giustamente in suo potere.

Non si pensi che questo non ci concerne: la servitù d'Egitto del popolo d'Israele deve essere considerata una immagine della servitù spirituale in cui tutti siamo detenuti fin quando il Signore non ci liberi con la sua mano potente e ci trasferisca nel regno della libertà. Così come anticamente ha voluto risollevare la sua Chiesa in Israele ed ha liberato il popolo dalla crudele schiavitù di Faraone che lo opprimeva, nello stesso modo oggi libera i suoi dalla triste schiavitù del Diavolo, simboleggiata dalla cattività fisica di Israele.

Non v'è dunque creatura che non debba sentirsi condotta a prestare ascolto a questa Legge in quanto procede dal sovrano Signore, dal quale hanno origine tutte le cose e al quale necessariamente tendono tutti i fini. Anzi tutti devono essere stimolati ad accogliere questo legislatore, sapendosi eletti da lui per osservare i suoi comandamenti, aspettandosi dalla sua grazia non solo tutti i beni temporali ma anche la gloria della vita immortale.

Infine dobbiamo essere spinti ad obbedire al nostro Dio dal pensiero che la sua misericordia e forza ci hanno liberato dal baratro infernale.

16. Dopo aver fondato e stabilito l'autorità della sua Legge, formula il primo comandamento: Non avere dèi stranieri nel mio cospetto.

La sua intenzione è questa: lasciare solo a Dio la preminenza, perché egli vuole essere il solo ad esercitare il suo diritto sul popolo. Quindi vuole che ogni empietà e superstizione, che sminuiscono ed oscurano la gloria della sua divinità, siano evitate da noi. E per lo stesso motivo vuol essere onorato da noi con sentimento di pietà autentico. La semplicità stessa delle parole lo indica. Non possiamo averlo quale nostro Dio senza attribuirgli quanto gli è proprio. Perciò se ci vieta di avere dèi stranieri, vuole significare che non dobbiamo trasferire altrove quel che gli appartiene.

 Quel che dobbiamo a Dio, è illimitato; tuttavia possiamo suddividerlo in quattro punti, vale a dire: l'adorazione, che comporta il servizio spirituale della coscienza, la fiducia, l'invocazione e l'azione di grazie.

Definisco adorazione la venerazione che rende a Dio la creatura sottomettendosi alla sua grandezza. Non è dunque senza motivo che considero come parte dell'adorazione l'onore che gli rendiamo sottomettendoci alla Legge: è un omaggio spirituale resogli come re sovrano, dominatore delle nostre anime.

La fiducia è la sicurezza interiore che ci viene dal fatto di conoscerlo rettamente: attribuendogli ogni sapienza, giustizia, bontà, virtù e verità sappiamo che la nostra felicità consiste nell'essere in relazione con lui.

Invocazione è il ricorso dell'anima nostra a lui come alla speranza unica quando le necessità urgono. Azione di grazie è la riconoscenza con cui gli rendiamo lode per tutti i beni.

Dio non può sopportare che tutto questo sia attribuito ad altri e vuole gli sia reso interamente. Non è sufficiente il non venerare un altro dio; dobbiamo fondarci unicamente su lui. Esistono uomini malvagi che preferiscono deridere tutte le religioni. Se al contrario vogliamo osservare scrupolosamente questo comandamento, bisogna che la vera religione abbia il sopravvento e guidi le nostre anime a dedicarsi completamente a Dio e, dopo averlo conosciuto, le induca a onorarne la maestà, porre in lui la propria speranza, richiedere il suo aiuto, riconoscere tutte le sue grazie e magnificare tutte le sue opere; infine, a tendere a lui come al loro unico fine.

Asteniamoci oltre a questo da ogni malvagia superstizione, onde le nostre anime non siano trasportate qua e là verso altri dèi. Se attenendoci ad un solo Dio troviamo in lui l'appagamento, ricordiamoci, come abbiamo già detto, che dobbiamo eliminare tutti gli dèi inventati: non è lecito spartire il culto riservato al solo Dio perché la sua gloria deve restargli intera, onde quel che gli è proprio non gli sia sottratto.

Aggiunge che "non si devono avere altri dèi nel suo cospetto ", per sottolineare la gravità del crimine. Non è infatti cosa da poco mettere al suo posto gli idoli da noi fabbricati, quasi per disprezzarlo e muoverlo alla gelosia; come una donna impudica che, per tormentare il cuore del marito, fa le moine all'amante davanti agli occhi di lui. Dio, con la grazia dimostrata, ha offerto ampie garanzie di voler proteggere il popolo eletto, stornandolo da ogni errore; quindi dichiara che non gli possono sfuggire idolatria e superstizione qualora si manifestino tra loro, dato che vive in mezzo a quelli che ha preso sotto la sua protezione. L'empietà trabocca con sempre maggior audacia, pensando poter ingannare Dio mascherandosi con sotterfugi, ma il Signore dichiara che gli è noto tutto quello che noi macchiniamo e meditiamo.

Se dunque vogliamo mostrare la purezza della nostra fede in Dio, la nostra coscienza deve essere pura da ogni malvagio pensiero e non accogliere neppure l'impulso a lasciarsi andare alla superstizione e all'idolatria. Il Signore non pretende solo che la sua gloria sia garantita da un riconoscimento esteriore; ma lo sia anche davanti ai suoi occhi, occhi che tutto vedono e tutto scoprono.

IL SECONDO COMANDAMENTO.

Non ti farai immagine scolpita né effige alcuna delle cose che sono nell'alto dei cieli né qui sulla terra né nelle acque sotto la terra. Non tributerai loro né adorazione né onore.

17. Mentre nel precedente comandamento Dio ha dichiarato di essere l'unico vero Dio, all'infuori del quale non se ne debbono immaginare altri, ora mostra più chiaramente come deve essere onorato, onde non ci fabbrichiamo di lui una immagine carnale.

L'intenzione del comandamento è mostrare che Dio vuole che il legittimo onore dovutogli non sia profanato da pratiche superstiziose. Vuole insomma trattenerci e preservarci da prassi carnali che la nostra mente inventa, quando concepisce Dio secondo la propria ignoranza, e di conseguenza ci educa al culto legittimo che gli è dovuto, vale a dire al culto spirituale da lui istituito. Denuncia l'errore più evidente in questo campo: l'idolatria esteriore.

Tuttavia il comandamento si compone di due parti. La prima reprime la nostra presunzione che vorrebbe assoggettare ai nostri sentimenti quel Dio incomprensibile e raffigurarlo con qualche immagine. La seconda parte vieta di fare dell'adorazione delle immagini un elemento della religione. Accenna brevemente ai tipi dell'idolatria pagana. Dicendo "Le cose che sono nei cieli ", indica il sole, la luna e tutte le stelle, fors'anche gli uccelli, come si deduce dal quarto capitolo del (De 4.17-19) dove il pensiero è esplicato. Tralascerei questo dettaglio, non dovesse correggersi l'errore di alcuni ignoranti che riferiscono questo passo agli angeli.

Tralascio di illustrare le parole che seguono immediatamente, dato che sono sufficientemente evidenti. Già nel primo libro abbiamo chiaramente insegnato che tutte le forme visibili di Dio che l'uomo costruisce, sono in radicale contraddizione con la sua natura: di sorta che non appena si propone un idolo, la vera religione è corrotta e imbastardita.

18. La minaccia che segue deve correggere la nostra durezza di cuore. Egli dice: Sono l'Eterno vostro Dio, Dio forte e geloso, che punisce l'iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione d'i quelli che odiano il mio nome, e che ha misericordia per mille generazioni di coloro che mi amano ed osservano i miei comandamenti.

È come se dicesse che dobbiamo affidarci a lui solo. E per indurci a farlo, ci mostra la sua potenza che non può essere sprezzata o sminuita. È adoperata qui la parola El che significa Dio; ma è chiamato così a causa della sua forza, perciò non ho esitato ad adoperare il termine "forte "o almeno ad aggiungerlo al primo, per meglio esprimere il significato.

Poi si definisce "geloso "per indicare che non può tollerare di essere posto accanto ad altri.

In terzo luogo dichiara che vendicherà la propria maestà e la propria gloria, se qualcuno vorrà trasferirle alle creature o agli idoli, e non sarà vendetta da prendere alla leggera ma si estenderà sui figli, nipoti e pronipoti che avranno seguito l'iniquità dei loro predecessori; come d'altra parte promette la sua misericordia e generosità a mille generazioni di quelli che l'ameranno e osserveranno la sua Legge.

 Non è fatto nuovo che il Signore assuma nella relazione con noi l'atteggiamento di un marito: l'unione con cui ci unisce a se ricevendoci in seno alla Chiesa, è come un matrimonio spirituale che richiede reciproca fedeltà. Svolgendo in tutto e per tutto la funzione di un marito fedele, chiede che da parte nostra gli serbiamo amore e castità matrimoniale, vale a dire che le nostre anime non siano abbandonate al Diavolo e alle concupiscenze della carne, il che sarebbe una specie di adulterio.

Per questo motivo, quando rimprovera gli Ebrei, si lamenta che con le loro infedeltà hanno violato la legge matrimoniale (Gr. 3; Ho 2). Come un buon marito, fedele e leale, si adira qualora veda la propria moglie volgersi verso un amante, così il Signore, che ci ha sposato nella verità, dichiara di provare una violentissima gelosia ogniqualvolta, disprezzando la castità del matrimonio, ci contaminiamo con malvage concupiscenze e trasferiamo ad altri la gloria, che doveva essergli riservata intera mente, oppure la macchiamo con qualche superstizione. Così facendo, noi rompiamo la fede datagli nel matrimonio e insieme macchiamo la nostra anima di adulterio.

19. Bisogna considerare ora cosa intenda dire minacciando di "punire l'iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione ". Punire un innocente per il peccato altrui non è compatibile con l'equità della giustizia divina: e il Signore stesso dichiara altrove di non volere che il figlio sia punito per l'iniquità del padre (Ez. 18.20). Tuttavia ripete spesso che i peccati dei padri saranno puniti nei figli. Mosè dice spesso: "Signore, Signore che paghi il salario dell'iniquità dei padri ai figli! " (Nu. 14.18). Così Geremia: "Signore che fai misericordia per mille generazioni e colpisci l'iniquità dei padri sui figli " (Gr. 32.18).

Alcuni, incapaci di risolvere questa difficoltà, vedono in queste minacce una allusione a pene temporali dicendo che non è male che i figli soffrano per i loro padri e spesso questo è salutare. Questo è vero. Isaia, infatti, dichiarava al re Ezechia che a causa dei peccati commessi il regno sarebbe stato strappato ai suoi figli, che sarebbero stati deportati in un paese straniero (Is. 39.17). Similmente le famiglie di Faraone e di Abimelec sono state afflitte a causa dell'ingiuria recata ad Abramo (Ge 12.17; 20.3); e non mancano altri esempi del genere. Ma non si risolve in questo modo il problema; si tratta di una scappatoia, non di un'esegesi del passo.

In realtà il Signore annuncia qui una punizione sì grave da non poter essere limitata alla vita presente. Bisogna intendere la frase come una dichiarazione che la maledizione di Dio cade non solo sull'iniquo ma si estende a tutta la sua discendenza. Se così è, ci si può aspettare solo che il padre, privato dello Spirito di Dio, viva malamente, il figlio, ugualmente abbandonato da Dio per il peccato del padre, segua la stessa via di perdizione, che il nipote e gli altri successori, esecrabile discendenza di uno stesso malvagio seme, si precipitino in rovina dietro a loro.

20. Domandiamoci in primo luogo se queste vendette sono in contrasto con la giustizia divina. Dato che tutta la natura umana è condannabile, è certo che la rovina è preparata per coloro ai quali il Signore non comunica la sua grazia: essi periscono per la propria iniquità e non a causa di un odio malvagio da parte di Dio né possono lamentarsi di non essere aiutati da Dio a raggiungere la salvezza come gli altri. Se dunque questa punizione colpisce i malvagi per la loro iniquità e le loro case sono lungamente private della grazia di Dio, chi potrebbe rimproverarne Dio?

Qualcuno però dirà: Il Signore, al contrario, afferma che il figlio non porterà la pena per il peccato del padre (Ez. 18.20). Esaminiamo attentamente quel testo. Gli Israeliti, oppressi lungamente da molte sventure, avevano un proverbio comune: "I padri hanno mangiato l'uva acerba e ai figli s'allegano i denti ". Con questo intendevano dire che i loro genitori avevano commesso le mancanze per cui essi sopportavano tanti mali, senza averli meritati; consideravano che Dio fosse mosso da collera eccessiva più che da giusta severità. Il Profeta replica che non è vero: essi scontano le mancanze proprie perché non è compatibile con la giustizio divina che il figlio innocente e giusto sia punito per gli errori del padre; ne questo è detto dal comandamento. Quando il Signore sottrae alla casa degli iniqui la propria grazia, la luce della sua verità e tutti gli aiuti per la salvezza, di modo che i figli, abbandonati alla cecità, seguono la strada dei loro predecessori, in questo caso si può dire che essi sopportano la maledizione di Dio per i misfatti dei loro padri. L'essere puniti con calamità temporali o morte eterna, non avviene però a causa dei peccati altrui, ma dei propri.

21. D'altra parte è offerta la promessa che "Dio estenderà la sua misericordia su mille generazioni di quelli che l'amano ". Essa è ripetuta spesso nella Scrittura ed è inserita nel patto solenne che Dio stringe con la sua Chiesa: "Sarò il tuo Dio e il Dio della tua discendenza dopo di te " (Ge 17.7). Di conseguenza Salomone dice che dopo la morte dei giusti i loro figli saranno beati (Pr 20.7) non solo a causa del buon nutrimento e dell'educazione, che per parte sua aiuta molto il benessere dell'uomo, ma anche per questa benedizione promessa da Dio ai suoi servitori di spargere la sua grazia in perpetuo sulle loro famiglie. Questo reca una straordinaria consolazione ai credenti e deve spaventare gli iniqui. Se il ricordo tanto della giustizia quanto dell'iniquità ha una tale forza presso Dio, dopo la morte dell'uomo, da estendere la benedizione o la maledizione fino alla posterità, a maggior ragione chi avrà vissuto rettamente sarà benedetto senza limiti da Dio e chi avrà vissuto malamente sarà maledetto.

Questo non è smentito dal fatto che talvolta da una stirpe di malvagi escano dei buoni; e al contrario che da una stirpe di credenti escano dei malvagi. Il legislatore celeste non ha qui voluto stabilire una norma assoluta che deroghi alla sua elezione. È infatti sufficiente a consolare il giusto e spaventare il peccatore che questa dichiarazione non sia vana né futile, anche se non sempre si verifica. Come le pene temporali che Dio infligge ad alcuni sono testimonianze della sua collera contro il peccato e segni del giudizio futuro che cadrà su tutti i peccatori, sebbene molti nella vita presente rimangano impuniti, così il Signore, dando un esempio di questa benedizione nel continuare a effondere la sua bontà sui figli dei credenti a motivo dei loro padri, offre una testimonianza della permanenza della sua misericordia sui suoi servitori. Quando al contrario persegue l'iniquità dal padre al figlio, mostra quale rigore di giudizio attende gli iniqui con i loro peccati: questo e specialmente sottolineato qui in questa frase.

Inoltre ha voluto additare, come per inciso, la grandezza della sua misericordia, estendendola a mille generazioni e limitando a quattro generazioni la sua vendetta.

IL TERZO COMANDAMENTO.

Non usare invano il nome dell'Eterno il tuo Dio.

22. L'intenzione del comandamento è questa: il Signore vuole che la maestà del suo nome sia per noi santa. La sostanza è questa: tale maestà non deve essere profanata da noi con di sprezzo o irriverenza. A questo divieto corrisponde l'aspetto affermativo del comandamento che ci invita a tenere questa maestà in onore eccezionale. Dobbiamo dunque essere istruiti a pensare e parlare, col cuore o con la bocca, in modo sobrio e rispettoso di Dio e dei suoi misteri, e considerando le sue opere, non concepire nulla se non ne esalti la gloria.

Bisogna attentamente osservare questi tre punti. Tutto quel che il nostro spirito concepisce di Dio e tutto quel che la nostra lingua ne dice deve essere adeguato alla sua eccellenza e alla santità del suo nome e deve tendere ad esaltarne la grandezza.

In secondo luogo non dobbiamo temerariamente approfittare della sua santa parola né adoperare i suoi misteri per servire la nostra avarizia, la nostra ambizione o le nostre follie, Poiché la dignità del suo nome è impressa nella sua parola e nei suoi misteri, dobbiamo sempre onorarli e rispettarli.

Infine non dobbiamo criticare ne calunniare le sue opere, a somiglianza di certi malvagi che ne parlano in modo offensivo: dobbiamo riconoscere sapienza, giustizia e virtù in tutto quello che sappiamo essere opera sua.

Questo significa «santificare il nome di Dio». Quando si agisce altrimenti, lo si macchia indegnamente perché lo si adopera illegittimamente: e quand'anche non vi fosse altro male, se ne sminuisce la dignità e lo si rende spregevole.

Se è male servirsi con leggerezza del nome di Dio, ancor più grave sarà il farne un uso completamente malvagio utilizzandolo in sortilegi, negromanzia, invocazioni illecite e in questo genere di cose.

Tuttavia qui si parla in modo specifico del giuramento, nel quale è particolarmente detestabile l'abuso del nome di Dio; si vuole cioè suscitare un orrore ancor maggiore per tutte le altre forme di profanazione. Dio si riferisce qui all'onore e alla sottomissione che gli dobbiamo e non alla lealtà nel giurare tra noi per non ingannare nessuno; infatti successivamente, nella seconda Tavola, condannerà gli spergiuri e le false testimonianze con cui gli uomini si ingannano vicendevolmente, Sarebbe una finzione superflua quindi se qui parlasse del dovere di carità. Bisogna distinguere, perché, come abbiamo detto, Dio di proposito ha distribuito la sua Legge in due Tavole. In questo passo: tratta dei propri diritti e vuole che sia rispettata la santità cui - il suo nome ha diritto, e non affronta ancora il problema della relazione che gli uomini hanno reciprocamente con i giuramenti.

23. Bisogna prima di tutto intendere cosa sia un "giuramento". Giuramento è un riferimento a Dio in vista di confermare la verità della nostra parola. Le bestemmie esplicite che hanno lo scopo di insultare Dio, non son degne di essere chiamate giuramenti.

In numerosi passi della Scrittura ci vien mostrato che questo attestato, quando è correttamente pronunciato, è un modo di glorificare Dio. Così quando Isaia dice che gli Assiri e gli Egiziani saranno ricevuti nella Chiesa di Dio: "Parleranno la lingua di Canaan" egli dice "giureranno nel nome del Signore" (Is. 19:18), vale a dire: giurando nel nome del Signore, manifesteranno di considerarlo il proprio Dio. Analogamente quando descrive il propagarsi del regno di Dio dice: "Chiunque domanderà prosperità, la domanderà nel nome di Dio, e chi giurerà, giurerà per il vero Dio"(Is. 65:16). Così Geremia: "Se i Dottori insegnano al mio popolo a giurare nel mio nome, come gli hanno insegnato a giurare per Baal, li farò prosperare nella mia casa (Ge. 12:16).

Giustamente si dice che invocando, nella nostra testimonianza il nome di Dio, manifestiamo la nostra fede in lui. Lo riconosciamo infatti quale verità eterna ed immutabile, visto che non solo lo invochiamo come testimone autentico della verità ma quale unico custode di essa, capace di mettere in luce le cose nascoste e unico conoscitore dei cuori. Prendiamo Dio a testimonio quando le testimonianze umane vengono meno oppure quando si tratta di affermare ciò che è nascosto nella coscienza.

Per questo motivo il Signore si adira profondamente nei riguardi di quanti giurano per gli dèi stranieri e considera questa forma di giuramento come un segno di defezione nei suoi con fronti. Dice infatti: "I tuoi figli mi hanno abbandonato e giurano per coloro che non sono dèi  (Gr. 5:7). Inoltre rende evidente con la gravità della pena quanto esecrabile sia questo peccato: infatti dice di voler distruggere tutti quelli che giurano nel nome di Dio e nel nome del proprio idolo (So. 1:5).

24. Poiché il Signore vuole che l'onore del suo nome sia esaltato nei nostri giuramenti, dobbiamo vigilare su noi stessi per non sprezzarlo o sminuirlo anziché onorarlo. Spergiurare nel suo nome è orribile insulto, definito "profanazione" (Le. 19:12) nella Legge (Le 19.12). Che rimane infatti a Dio se viene spogliato della sua verità? Non sarà più Dio. E questo si verifica quando egli viene fatto testimone e consenziente dell'inganno.

Per questo motivo, quando Giosuè vuole costringere Acan a confessare la verità, gli dice: "Figlio mio, dà gloria all'Iddio d'Israele!" (Gs. 7:19) sottintendendo che Dio è gravemente disonorato se si spergiura nel suo nome. E non c'è da meravigliarsene perché dipende  solo da noi che Dio venga diffamato con la menzogna.

Da una espressione analoga dei Farisei, nell'evangelo di san Giovanni (Gv. 9:24) risulta che ci si serviva correntemente di questa formula volendo ascoltare una persona sotto giura mento.

I testi della Scrittura mettono in evidenza lo scrupolo che dobbiamo avere nel fare uso del giuramento. E' detto: "Il Signore è vivente! (1 Re 14:39,45), «Il Signore mi mandi questo o quest'altro male» (4 Re 6:31): «Che Dio ne ma testimone sulla mia anima! » (2 Co. 1:23). Queste formule mostrano che non si può chiamare Dio a testimone delle nostre parole senza che egli punisca lo spergiuro, qualora dica il falso.

25. Il nome di l)io, anche se non c profanato, c' reso sprege vole e il suo onore e sminuito allorche' lo usiamo per un giura mento veritiero, ma superfluo. fl questo il secondo tipo di giura mento in cui lo si nomina invano. Non basta astenerci dallo sper giurare; dobbiamo anche ricordarci che il giuramento non è stato istituito per divertire gli uomini, ma esclusivamente in casi necessari e non e altrimenti lecito. Ne segue che quanti lo usano per fatti senza importanza, ne fanno uso ingiustificate. Non si può invocare altra circostanza necessaria all'infuori del servizio della religione e della carità.

Oggi si pecca smodatamente in questa materia, tanto più che l'uso è invalso di considerare queste cose alla leggera; non è invece cosa di poto conto di fronte al giudizio di Dio. Con indifferenza si fa uso del nome di Dio per futili sciocchezze e non si vede nulla di male in questo perché gli uomini si sono abituati da tempo a farlo in modo sregolato Ma il comandamento di Dio sussiste, la minaccia aggiuntavi rimane inviolabile e un giorno avrà effetto; una vendetta particolare è prevista su tutti coloro che avranno adoperato invano il nome di Dio.

Vi è un altro tipo di errore assai grave, quello di adoperare nei giuramenti il nome dei santi invece di quello di Dio, invocando San Giacomo o sant'Antonio; questa è una manifesta empietà, dato che cosi' vien loro attribuita la gloria appartenente a Dio. Non è senza motivo che Dio ha ordinato esplicitamente di giurare nel suo nome e con divieto speciale ha proibito di giura re per gli dèi stranieri  (De. 6:13; 10:20; Es. 23:13). Questo afferma anche l'Apostolo, scrivendo che gli uomini nei loro giuramenti si appellano a Dio come a un superiore, ma Dio giura per se stesso perché non v'è nessuno maggiore di lui  (Eb. 6:13,16).

26. Gli Anabattisti non si accontentano di tale moderazione nei giuramento ma ne condannano categoricamente ogni forma, in base alla proibizione generale di Cristo: "Vi proibisco del tutto di giurare, ma il vostro sì sia sì; il vostro no, sia no: il di più vien dal male » (Mt. 5:34; Gm. 5:12).

Così facendo recano offesa a Cristo, opponendolo a suo Padre; quasi fosse venuto in terra per annullare i comandamenti di lui. L'Iddio eterno non solo permette il giuramento, considerandolo legittimo nella sua Legge, e questo dovrebbe bastare, ma ordina di adoperano in caso di necessità (Es. 22:11). D'altra parte Cristo testimonia di essere uno con il Padre, di non recare nulla senza il consenso del Padre, di avere una dottrina che non gli appartiene, ecc. (Gv. 10:30: 10:18; 7:16). Che rispondono? Forse che Dio può contraddire se stesso col proibire e condannare quello che una volta ha approvato ordinandolo? Non possiamo dunque accettare la loro tesi.

Queste parole di Cristo presentano pero' qualche difficoltà e dobbiamo esaininarle più da vicino. Non le potremo comprendere se non considerando lo scopo e il senso del passo. E' un fatto che Cristo non vuole qui ampliare o limitare la Legge ma solo ridurla al suo significato naturale, che era stato molto corrotto dalle glosse erronee degli scribi e dei Farisei. Se teniamo presente questo. fatto non dobbiamo pensare che Cristo abbia voluto condannare genericamente tutti i giuramenti, ma solo quelli che trasgrediscono la norma della Legge. Risulta dalle sue parole che il popolo non si tratteneva dallo spergiurare, sebbene la Legge vietasse non solo gli spergiuri ma anche i giuramenti superflui. Perciò il Signore Gesù, da commentatore autentico della Legge, ricorda essere mal fatto non solo lo spergiurare ma anche il giurare (Mt. 5:34). Il giurare in assoluto? No, il giurare invano. Ma lascia completamente liberi e validi i giuramenti approvati. dalla Legge.

Essi si fermano a questa espressione. «del tutto» che però non si riferisce al verbo giurare, ma alle forme di giuramento che seguono. Infatti l'errore consisteva nel credere che giurando per il cielo e per la terra il nome di Dio non fosse toccato. Il Signore, dopo aver denunciato la trasgressione fondamentale, sottrae loro il sotterfugio a cui usano ricorrere, sostituendo nel loro giuramento il cielo e la terra al nome di Dio.

Bisogna notare qui, per inciso, che anche se il nome di Dio non e menzionato, si può giurare per lui in modo indiretto. Così si giura per il sole che ci rischiara, per il pane che si mangia, per il battesimo o gli altri doni di Dio che sono come pegni della sua bontà. Cristo non vieta qui di giurare per il cielo, per la terra né per Gerusalemme perché voglia correggere la superstizione, come alcuni affermano, ma per eliminare la futile giustificazione di quanti non davano alcuna importanza all'aver sempre in bocca dei giuramenti mascherati ed equivoci, pensando evitare il nome di Dio, che è invece impresso in tutti i beni di cui ci fa godere.

Talvolta viene sostituito a Dio un uomo mortale o già de funto oppure un angelo:  i pagani si sono abituati con le loro adulazioni a giurare per la vita o la buona fortuna del loro re. In questo caso deificando glt uomini si oscura e si sminuisce la gloria dell'unico Dio.

Quando non si è mossi da altro scopo o intenzione che quello di confermare il proprio dire con il sacro nome di Dio, la sua maestà è ferita da ogni invocazione facile e gratuita, anche se indiretta. Gesù Cristo, proibendo di giurare del tutto, toglie que sta maschera, questa vana finzione con cui gli uomini credono di giustificarsi. San Giacomo tende allo stesso fine quando ripete le parole del suo Maestro (Gm .5:12): in ogni tempo è stata infatti eccessivamente diffusa questa licenza di abusare liberamente del nome di Dio, abuso che pure diventa profanazione' vera e propria. Se questa parola «del tutto » si dovesse riferire - che significato avrebbe l'aggiunta fatta subito dopo di non do versi invocare né il cielo né la terra? Evidentemente questo de ve servire a chiudere ogni scappatoia a cui gli Ebrei avrebbero potuto ricorrere.

27. Di conseguenza non vi può essere dubbio per le persone di retto intendimento che il Signore in questo passo condanna solamente i giuramenti proibiti dalla Legge. Egli stesso, che ha attuato in tutta la sua vita la perfezione che ordinava, non esita a giurare quando ciò sia necessario, e i suoi discepoli, che senza dubbio hanno osservato la sua regola, hanno seguito il suo esempio. Chi oserebbe sostenere che san Paolo avrebbe voluto giurare se il giuramento fosse del tutto vietato? Orbene, quando l'argomento lo richiede egli giura senza alcun scrupolo, aggiungendo talvolta l'imprecazione.

Tuttavia il problema non è ancora risolto perché alcuni pensano che solo i giuramenti pubblici siano leciti: per esempio quelli che il magistrato ci richiede o che il popolo presta alle sue autorità o le autorità al popolo; i soldati al loro capitano, i principi tra di loro per stipulare qualche alleanza. In questo gruppo includono, giustamente, tutti i giuramenti di san Paolo, dato che gli apostoli nel svolgere il loro compito non erano persone private ma ministri di Dio.

Io non nego che i giuramenti pubblici siano prioritari nella questione essendo confermati dalle più ferme testimonianze del la Scrittura. t ordinato al magistrato di costringere un testimone a giurare quando l'argomento sia dubbio, e il testimone è tenuto ad ottemperare. Similmente l'Apostolo dice che con questo mezzo si decidono le controversie umane (Eb. 6:16). Quindi i due tipi di giuramento sono validi. Si può osservare che antica mente i pagani tenevano in grande considerazione i. giuramenti pubblici e solenni; mentre non valutavano molto quelli fatti in privato, come se Dio non ne tenesse conto. Tuttavia è eccessivo condannare i giuramenti personali formulati sobriamente per questioni che li richiedano: essi sono infatti garantiti da motivazioni valide e da esempi della Scrittura.

Se è lecito ad un privato invocare Dio quale giudice dei suoi propositi, tanto più gli sarà lecito invocarlo quale testimone. Esempio: il tuo prossimo ti accusa di una slealtà? Cercherai di giustificarti per dovere di carità. Non sarà soddisfatto in nessun modo? La tua reputazione è messa in pericolo per l'ostinarsi del la sua infondata accusa? Potrai appellarti senza peccare al giudizio di Dio perché manifesti la tua innocenza. Valutando i termini non c'è grande differenza nel chiamare Dio testimone oppure giudice. Non vedo dunque perché dovremmo respingere una forma di giuramento che chiami Dio quale testimone.

Lo confermano numerosi esempi. Si può obbiettare che quando Abramo e Isacco hanno giurato ad Abimelec (Ge. 21:24, 26, 31) si trattava di giuramenti pubblici, ma Giacobbe e Labano erano privati e tuttavia hanno confermato con un giuramento la loro alleanza (Ge. 31:53). Boaz era un privato ed ha ratificato con un giuramento la promessa di matrimonio con Ruth (Ruth 3:13). Abdia, uomo giusto e timorato di Dio, come dice la Scrittura, si serve di un giuramento per persuadere Elia (3 Re 18:10).

L'atteggiamento migliore mi sembra dunque quello di limitare i nostri giuramenti evitando di farne in modo temerario o superficiale, o quando abbiano motivazioni frivole o siano mossi da risentimenti; ma si limitino all'indispensabile, quando è cioè questione di mantenere integra la gloria di Dio o promuovere la comprensione tra gli uomini; tale è infatti lo scopo del comandamento.

IL QUARTO COMANDAMENTO.

Ricordati di santificare il giorno del riposo. Lavorerai sei giorni e farai tutta l'opera tua. Il settimo è il riposo del Signore tuo Dio. Non farai opera alcuna né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero ch'è dentro le tue porte. Perché in sei giorni ecc.

28. L'intenzione del comandamento è questa: condurci a meditare sul regno di Dio, sapendoci morti ai nostri propri sentimenti ed alle nostre proprie opere; ed esercitarci a questa meditazione con i mezzi efficaci che Dio ha stabiliti. Esso tuttavia ha un significato peculiare e diverso dagli altri per cui richiede una spiegazione leggermente differente.

Gli antichi dottori usano chiamarlo umbratile perché si riferisce all'osservanza esteriore di un giorno che è stato abolito con la venuta di Cristo, come le altre prefigurazioni di lui. Questo è giusto. Ma essi considerano un aspetto del problema; bisogna dunque affrontarlo più a fondo e considerare tre motivazioni contenute in questo comandamento.

Il legislatore celeste ha voluto, nel riposo del settimo giorno, simboleggiare al popolo d'Israele il riposo spirituale i credenti devono riposarsi delle opere proprie per lasciare Dio operare in se stessi.

In secondo luogo ha voluto ci fosse un giorno fisso per radunarsi ed ascoltare la Legge e praticarne le cerimonie; e in questo modo ci si dedicasse specialmente a considerare le sue opere per esserne stimolati a meglio onorarlo.

In terzo luogo ha voluto dare un giorno di riposo ai servi e a quelli che lavorano alle dipendenze di altri, perché avessero una pausa nel loro lavoro.

29. Molti passi tuttavia ci mostrano che l'immagine del riposo spirituale è l'elemento più importante del comandamento. Dio non ha richiesto infatti una osservanza così rigorosa riguardo a nessun altro comandamento. Quando vuol far notare, mediante i suoi profeti, che la religione è stata interamente sovvertita, si lamenta del fatto che il suo Sabbath sia stato corrotto e profanato o che non sia stato osservato né santificato, quasi egli non potesse, caduto questo elemento, essere onorato in alcun modo (Nu. 15.32 ; Ez. 20.12; 22.8.23.38; Gr. 17.21.22.27; Is. 56.2).

D'altra parte ne loda grandemente l'osservanza, cosicché i credenti possono considerare sommo beneficio la rivelazione del Sabbath.

Così parlano i leviti in Nehemia: "Hai mostrato ai nostri padri il tuo santo Sabbath, i tuoi comandamenti e cerimonie e hai dato loro la Legge per mano di Mosè " (Ne 9.14). Tengono in singolare considerazione questo comandamento, più di tutti gli altri; il che ci mostra la dignità e l'eccellenza del Sabbath. Ne parlano anche Mosè ed Ezechiele. Nell'Esodo leggiamo: "Osservate il mio Sabbath perché esso è un segno tra me e voi per tutte le generazioni, per farvi conoscere che io sono l'Iddio che vi santifica. Osservate il mio Sabbath dunque perché deve esservi santo. I figli d'Israele lo osservino e lo celebrino nei secoli perché costituisce un'alleanza perpetua, un segno per tutta l'eternità " (Es. 31.12 35.2). Questo è detto ancor più esplicitamente in Ezechiele: il sunto del suo discorso indica, però, trattarsi di un segno da cui Israele doveva conoscere che Dio è colui che santifica (Ez. 20.12).

Se la nostra santificazione consiste dunque nella rinuncia alla nostra propria volontà, risulta evidente la similitudine tra il segno esterno e la sostanza. Bisogna riposare completamente, affinché Dio operi in noi, bisogna recedere dalla nostra volontà, sottomettere il nostro cuore, rinunciare a tutte le cupidigie della nostra carne; in breve dobbiamo far tacere tutto quel che procede da noi stessi, onde Dio operi in noi e noi riposiamo in lui, come anche l'Apostolo insegna (Eb. 3.13; 4.6).

30. Questo era raffigurato in Israele dal riposo del settimo giorno. Perché lo si osservasse con maggior religiosità, il nostro Signore ha confermato quest'ordine con il suo esempio. Non deve essere cosa che lascia indifferente l'uomo, il fatto che gli si presenti il proprio Creatore come esempio.

Se qualcuno cerca un significato nascosto nel numero "sette ", dato che nella Scrittura esso indica la perfezione, può darsi che sia stato scelto di proposito per indicare la totalità. Questo si accorderebbe con il fatto che Mosè, dopo aver detto che il Signore si è riposato il settimo giorno, mette fine alla descrizione della successione dei giorni.

Si potrebbe anche congetturare che il Signore abbia voluto significare con questo numero che il Sabbath dei credenti non sarà pienamente realizzato, fino all'ultimo giorno. Lo incominciamo qui e lo perseguiamo quotidianamente; ma, dato che abbiamo ancora un combattimento continuo con la nostra carne, non sarà terminato fin quando non sia realizzata l'affermazione di Isaia secondo cui nel Regno di Dio vi è un Sabbath perenne ed eterno (Is. 66.23); vale a dire quando Dio sarà ogni cosa in tutti (1 Co. 15.28).

Si può dunque ritenere che con il settimo giorno il Signore abbia voluto raffigurare al suo popolo la perfezione del Sabbath che avrà luogo all'ultimo giorno, onde stimolarlo a desiderare quella perfezione durante questa vita, con meditazione continua.

31. Se questa interpretazione sembra troppo ricercata e qualcuno non vuole accettarla, non mi oppongo a che ci si accontenti di una più semplice: il Signore ha stabilito un giorno in cui il popolo fosse guidato, dalla pedagogia della Legge, a meditare sul riposo spirituale che è eterno; ha stabilito il settimo giorno giudicandolo sufficiente, oppure proponendo il proprio esempio per meglio incitare il popolo ad osservare questa cerimonia, o piuttosto per mostrargli che il Sabbath tendeva al solo fine di renderlo simile al suo Creatore. Si tratta di problemi senza importanza, purché rimanga chiaro il significato spirituale: il popolo è incitato a rinunciare alle proprie opere.

A questa considerazione i profeti riconducevano costantemente gli Ebrei affinché non credessero di essere a posto con l'astenersi solo dal lavoro manuale. Oltre al passo citato è detto in Isaia: "Se tu ti trattieni dal violare il Sabbath e non fai la tua volontà nel mio santo giorno e celebri un Sabbath santo e accetto al Signore della gloria, e lo glorifichi non compiendo le tue opere, e la tua volontà non è esercitata, allora prospererai in Dio" (Is. 58.13).

 Non c'è dubbio che le cerimonie connesse con l'osservanza di questo comandamento siano state abolite dalla venuta di Cristo. Egli è la verità che con la propria presenza dissolve tutti i simboli, è il corpo di fronte al quale le prefigurazioni decadono. È la realizzazione autentica del Sabbath. Infatti: "Seppelliti con lui mediante il battesimo, siamo innestati nella sua morte, onde, fatti partecipi della sua risurrezione, camminiamo in novità di vita ", (Ro 6.4). Per questo l'Apostolo dice che il Sabbath è stato prefigurazione di ciò che doveva venire, ma la realtà è in Cristo (Cl. 2.16-17) : vale a dire la vera sostanza, la pienezza della verità, come illustra chiaramente in quel passo. Essa non si accontenta di un giorno ma impegna l'intero corso della nostra esistenza fin quando, completamente morti a noi stessi, siamo ripieni della vita di Dio. Ne consegue che i cristiani devono astenersi dall'osservare dei giorni, in modo superstizioso.

32. Le altre due motivazioni del comandamento non devono essere incluse fra i simboli del passato ma valgono per i secoli. Di conseguenza, sebbene il Sabbath sia stato abrogato, non è tuttavia abrogata fra noi l'abitudine di avere un giorno fissato per radunarci ad ascoltare la predicazione, tenere assemblee pubbliche e celebrare i sacramenti; in secondo luogo per dare qualche riposo ai servi e agli operai. Non c'è dubbio che il Signore avesse in mente entrambi questi elementi nello stabilire il Sabbath.

Il primo è confermato dall'uso degli Ebrei. Il secondo è stato rilevato da Mosè nel De con queste parole: "Perché il tuo servo e la tua domestica si riposino come te, ricordati di essere stato servo in Egitto " (De 5.14-15). Così nell'Esodo : "Perché si riposino il tuo bue, il tuo asino e il figlio della tua serva " (Es. 22.12).

Chi potrà negare che queste due esigenze si addicano a noi quanto agli Ebrei? Le assemblee ecclesiastiche ci sono ordinate dalla parola di Dio e la stessa esperienza ci mostra quanto ci siano necessarie. Se non vi sono giorni stabiliti, come ci si potrà radunare? L'Apostolo insegna che ogni cosa deve essere fatta tra noi con ordine e decoro (1 Co. 14.40). L'ordine e il decoro non possono essere osservati senza questa disposizione dei giorni e se essa non ci fosse vedremmo sorgere subito disordini straordinari e confusione nella Chiesa. Se dunque sussiste per noi la stessa necessità, cui il Signore ha voluto provvedere stabilendo il Sabbath per i Giudei, non si potrà dire che questa disposizione non ci tocca. Certamente il nostro buon padre non ha voluto provvedere alla nostra necessità meno che a quella degli Ebrei.

Perché non radunarsi tutti i giorni, qualcuno dirà, al fin di eliminare questa differenza di giorni? Per conto mio, sarei d'accordo, e in realtà la sapienza spirituale di Dio meriterebbe che le si dedicasse qualche ora al giorno.

Ma se non è possibile ottenere di riunirsi quotidianamente per la debolezza di molti, e la carità non permette di costringerli, perché non seguire la regola che Dio ci ha mostrato?

33. Occorre, a questo punto, dilungarci un pochino, perché alcuni spiriti irrequieti. Si agitano a motivo della domenica, lamentando che la cristianità sia mantenuta in una forma di pietà giudaica per il fatto che si attiene tuttora all'osservanza di giorni particolari.

 Rispondo che osserviamo la domenica senza spirito giudaico, dato che v'è una grande differenza tra noi e gli Ebrei. Non l'osserviamo come elemento di fede assoluta, come cerimonia in cui pensiamo sia contenuto un mistero spirituale, ma l'utilizziamo come un mezzo necessario per conservare il buon ordine nella Chiesa.

Ma san Paolo, replicano costoro, nega che i cristiani debbano essere giudicati dall'osservanza dei giorni: questi infatti sono solo immagini delle cose future (Cl. 2.16) e per questo motivo l'Apostolo teme di essersi affaticato invano tra i Galati che continuavano ad osservare i giorni (Ga 4.10-11). E ai Romani afferma essere superstizione se qualcuno fa distinzione fra i giorni (Ro 14.5).

Qualsiasi persona di buon senso vede però di quale genere di osservanza l'Apostolo parli! Quelli che rimprovera non miravano al fine suddetto: osservare l'ordine e il decoro nella Chiesa, ma, osservando le feste quali immagine di cose spirituali, oscuravano conseguentemente la gloria di Cristo e la luce dell'Evangelo. Non si astenevano dalle opere manuali, perché queste impedissero loro di dedicarsi alla meditazione della parola di Dio, ma per devozione assurda, immaginando di rendere servizio a Dio per il fatto di riposarsi. San Paolo protesta contro questa erronea distinzione dei giorni, e non contro la legittima regolamentazione che ha la funzione di conservare la pace in mezzo ai cristiani. Le Chiese che egli aveva fondato mantenevano questa osservanza del Sabbath; questo risulta dal fatto che egli stabilisce questo giorno per la raccolta delle offerte in Chiesa (1 Co. 16.2).

Noi paventiamo la superstizione, tuttavia riconosciamo che essa era più da temere nelle feste giudaiche che oggi nella domenica. Era utile lasciar cadere il giorno osservato dagli Ebrei per eliminare la superstizione, ma se ne è messo un altro al suo posto per conservare l'ordine, il decoro e la pace nella Chiesa.

34. Tuttavia gli antichi non hanno scelto la domenica, per sostituirla al Sabbath, senza validi motivi. Dato che l'adempimento del vero riposo raffigurato dall'antico Sabbath si è realizzato nella resurrezione del nostro Signore, i cristiani sono esortati, da questo stesso giorno che ha messo fine ai simboli, a non limitarsi alla cerimonia che era solo un simbolo.

Non mi formalizzo sul numero sette e non voglio sottoporre la Chiesa a qualche forma di servitù; non condannerei affatto le Chiese che avessero altri giorni solenni per radunarsi, purché non vi sia alcuna superstizione nella scelta del giorno: e non ve ne può essere se si mira solamente a mantenere la disciplina e il buon ordine.

La sostanza del comandamento è dunque questa: tendiamo, durante tutta la nostra vita, ad un perpetuo riposo dalle opere nostre, onde Dio operi in noi con il suo Spirito; verità questa manifestata agli Ebrei in figura ed oggi manifestata a noi in realtà.

In secondo luogo concentriamo il nostro spirito, per quanto possiamo, a riflettere sulle opere di Dio, in vista di magnificarlo; osserviamo le disposizioni ecclesiastiche legittime per quanto concerne l'ascolto della Parola, la celebrazione dei sacramenti, la convocazione delle assemblee solenni.

In terzo luogo non sfruttiamo quanti ci sono sottoposti.

Saranno così dissipate le menzogne dei falsi dottori, che nel passato hanno gabbato il popolino con una concezione giudaica: incapaci di distinguere tra la domenica e il Sabbath altrimenti che affermando il settimo giorno essere abrogato, che si osservava allora, ma essere comunque necessario conservarne uno 27. Il che significava aver cambiato il giorno per far dispetto agli Ebrei e tuttavia rimanere nella superstizione che san Paolo condanna: vale a dire conferirgli un significato interiore, come era sotto l'antico Patto. E infatti vediamo cosa ha servito questa dottrina: i suoi seguaci superano gli Ebrei nell'osservanza carnale del Sabbath, tanto che i rimproveri di Isaia (Is. 1.13; 58.13) Si addicono più a loro che a quanti il Profeta condannava ai suoi tempi.

Del resto riteniamo principalmente l'insegnamento generale: essere diligenti nel frequentare le sante assemblee, affinché la religione non decada o si raffreddi tra noi; mettere in opera tutti gli ausili utili a incrementare il servizio a Dio.

IL QUINTO COMANDAMENTO.

Onora tuo padre e tua madre affinché i tuoi giorni siano prolungati sulla terra che il Signore l'Iddio tuo ti da.

35. L'intenzione del comandamento è condurci ad osservare i gradi di preminenza così come Dio li ha stabiliti, in quanto egli vuole che l'ordine da lui fissato sia rispettato. La sostanza consiste pertanto in questo: dobbiamo rispettare quanti sono stati dal Signore stabiliti quali nostri superiori, rendendo loro onore e obbedienza, riconoscendo il bene che ci hanno fatto. Ne consegue il divieto di recare offesa alla loro dignità con atteggiamenti di ribellione o ingratitudine. La parola "onore ", nella Scrittura, ha infatti un significato ampio: l'Apostolo, ad esempio, afferma che i presbiteri che presiedono bene sono degni di doppio onore (1 Ti. 5.17) , intendendo non solo il rispetto loro dovuto ma anche la remunerazione della loro fatica.

Questo comandamento che ci sottopone ai nostri superiori e nettamente in contrasto con la perversità della nostra natura, dominata dall'ambizione e dall'orgoglio e non si sottomette volentieri: per questo ci è stata proposta come esempio l'autorità meno odiosa e più amabile, in quanto poteva meglio addolcire e piegare i nostri cuori alla sottomissione e all'obbedienza. Il Signore, servendosi della forma di sottomissione più dolce ed agevole da portare, ci abitua, a poco a poco, a ogni soggezione; in quanto tutte sussistono in base ad un'unica motivazione: Quando attribuisce una preminenza a qualcuno, gli comunica il proprio nome, in quanto è necessario per conservarla. I titoli di "Padre ", "Dio ", "Signore "gli sono propri di sorta che quando sono menzionati, il nostro cuore dev'essere toccato dal riconoscimento della sua maestà. Quando ne fa partecipi gli uomini, dà loro come una scintilla della sua luce per nobilitarli e renderli onorevoli nella loro funzione. In chi è chiamato "padre "bisogna dunque riconoscere un qualche onore divino, dato che non senza motivo porta un titolo di Dio. Parimenti chi è principe o signore in certo qual modo partecipa alla dignità di Dio.

36. Non c'è dubbio quindi che il Signore istituisca qui una regola universale: in quanto riconosciamo qualcuno esserci da lui stabilito quale superiore, dobbiamo tributargli onore, rispetto e amore e servirlo in quanto possibile. Né bisogna guardare se i superiori siano degni oppure no di questo onore; comunque siano, non sono arrivati a quella posizione senza la volontà di Dio e per questo il Signore ci ordina di onorarli.

Tuttavia ci ordina, esplicitamente, di tributare onore ai nostri genitori che ci hanno generato, cosa che la stessa natura ci dovrebbe insegnare. Quanti offendono l'autorità paterna Cl. loro disprezzo o la loro ribellione, sono mostri e non uomini. Per questo il Signore ordina di mettere a morte chi disobbedisce al padre e alla madre. A buon diritto: non essendo in grado di discernere coloro che gli hanno dato la vita non è in grado di vivere.

Risulta evidente in molti passi della Legge la verità di quanto abbiamo detto, vale a dire che l'onore di cui si parla qui ha tre aspetti: venerazione, obbedienza, amore, derivanti dal riconoscimento del bene ricevuto.

Il primo è ordinato da Dio allorché stabilisce che venga messo a morte chi abbia maledetto suo padre e sua madre (Es. 21.17; Le 20.9); si punisce così ogni forma di disprezzo e di offesa.

Il secondo quando ordina che sia messo a morte il figlio ribelle e disobbediente (Pr 20.20; De 21.18).

Il terzo è confermato dall'affermazione di Gesù Cristo nel quindicesimo capitolo di san Matteo: servire e beneficare i genitori è comandamento divino (Mt. 15.4).

Ogni volta che Paolo menziona questo comandamento, ci esorta all'obbedienza, si riferisce cioè al secondo aspetto.

37. Contemporaneamente è aggiunta la promessa, come sottolineatura, onde ricordarci quanto sia gradita a Dio tale sottomissione (Cl. 3.20). San Paolo ci stimola osservando che questo comandamento è il primo connesso con una promessa (Ef. 6.2) : infatti la promessa che precedeva, nella prima Tavola non si riferiva a un comandamento solo, ma a tutta la Legge.

Tale promessa deve essere intesa in questo senso: il Signore parlava specificatamente della terra che aveva promesso agli Israeliti in eredità. Se dunque il possesso di questa terra era un pegno della bontà di Dio e della sua generosità, non dobbiamo stupirci che abbia voluto dimostrare loro la sua bontà promettendo lunga vita per poter più lungamente godere del suo dono. È come se dicesse: Onora padre e madre onde vivendo più a lungo tu possa godere più a lungo della terra che è una prova della mia grazia verso di te.

Del resto tutta la terra essendo benedetta per i credenti, a buon diritto consideriamo la vita presente come una benedizione di Dio. Quindi, considerato che una lunga vita è prova della benevolenza di Dio nei nostri riguardi, questa promessa vale anche per noi: la vita lunga non ci è promessa, come non è promessa agli Ebrei, perché contenga in se la felicità ma in quanto costituisce per i giusti un segno della bontà di Dio.

Se dunque avviene che un fanciullo obbediente ai genitori, muoia in gioventù, come spesso avviene, Dio non vien meno alla sua promessa; l'adempie come chi dia cento iugeri di terra a qualcuno cui ne aveva promesso uno solo. In sostanza si tratta di questo: la vita lunga ci è qui promessa in quanto rappresenta una benedizione: tanto più ch'essa è benedizione di Dio e ci documenta quella grazia che egli manifesta ai suoi servi centomila volte di più nella morte.

38. Quando al contrario il Signore promette la sua benedizione nella vita presente a chi avrà obbedito a padre e madre, vuole significare che la sua maledizione colpirà quanti hanno disobbedito. E nella Legge li dichiara degni di morte, affinché il suo giudizio si realizzi, e se sfuggono in qualche modo alle mani degli uomini, ne farà vendetta. E infatti vediamo quante di queste persone muoiono in guerra o in risse o in altra maniera: al punto che si può scorgere l'opera di Dio nella loro morte sventurata. E se qualcuno riesce a sfuggire fino alla vecchiaia, in questa vita, non fa che languire essendo privo della benedizione di Dio e per l'avvenire gli è riservata anche maggiore pena: è ben lungi dunque dal partecipare alla promessa offerta ai figli obbedienti.

Per finire, dobbiamo ancora brevemente osservare che non ci è ordinato di obbedire ai genitori se non in Dio (Ef. 6.1) , il che risulta chiaro dalla motivazione che ne abbiamo data. Essi sovrintendono a noi in quanto Dio li ha eletti a farlo, comunicando loro una parte della sua dignità. Il sottometterci ad essi deve dunque essere come un gradino per condurci al rispetto di lui, Padre assoluto; se dunque i genitori ci vogliono indurre a trasgredire la sua Legge, non dobbiamo considerarli genitori ma estranei che vogliono stornarci dall'obbedienza al vero Padre.

Lo stesso atteggiamento dobbiamo avere nei riguardi dei prìncipi, dei signori e dei superiori: sarebbe indegno che la loro preminenza servisse a diminuire la sovranità di Dio, dato che dipende da quest'ultima e deve contribuire ad aumentarla anziché sminuirla, a rafforzarla anziché offenderla.

IL SESTO COMANDAMENTO.

Non uccidere.

39. L'intenzione del comandamento è che ciascuno abbia a cuore la salvezza e la conservazione di tutti, dato che Dio ha costituito il genere umano come una unità. Di conseguenza è vie tata ogni azione violenta o dannosa che possa ferire il corpo del nostro prossimo. Di qui deriva l'aspetto positivo del comandamento: se possiamo fare qualcosa per conservare la vita del nostro prossimo, dobbiamo adoperarci diligentemente sia procurando quanto necessario, sia ovviando a quanto è negativo, parimenti aiutandolo e soccorrendolo se si trova nel pericolo o nell'insicurezza.

Se ci ricordiamo che qui parla Dio il legislatore, dobbiamo concludere che egli dà questa regola alla nostra anima; sarebbe ridicolo che colui che legge i desideri del cuore e li valuta singolarmente, indirizzasse solamente il nostro corpo alla vera giustizia. È dunque vietato il sentimento omicida e ci è chiesto un desiderio intimo di conservare la vita del nostro prossimo. Sebbene sia la mano che genera l'omicidio, tuttavia a concepirlo è il cuore, quando è corrotto dall'ira e dall'odio.

Considera se ti è possibile arrabbiarti contro il fratello senza anche desiderare di nuocergli; se non puoi odiarlo senza questo sentimento neppure puoi arrabbiarti senza odio, dato che l'odio è semplicemente ira radicata. Anche se lo nascondi e cerchi di dissimulare, è certo che odio e ira non sussistono senza desiderio di nuocere. Se vuoi ancora tergiversare, lo Spirito Santo ti dichiara che chiunque odia suo fratello è un omicida nel suo cuore (1 Gv. 3.15). Gesù Cristo afferma che chi odia il fratello è degno di giudizio; chi mostra segno di corruccio è degno della condanna di tutto il Concistoro, chi lo ingiuria è degno della geenna del fuoco (Mt. 5.22).

40. La Scrittura fonda questo comandamento su due motivazioni: gli uomini sono immagine di Dio e sono compartecipi della nostra stessa carne. Se dunque non vogliamo offendere l'immagine di Dio, non dobbiamo recare offesa alcuna al nostro prossimo, e se non vogliamo rinnegare ogni umanità, dobbiamo averne cura come della nostra propria carne.

Altrove esporremo la conclusione cui si deve giungere, a questo proposito, in séguito al dono della redenzione di Cristo. Ma il Signore ha voluto che considerassimo naturalmente questi due aspetti nell'uomo, perché ci inducano ad agire bene nei suoi confronti, che veneriamo l'immagine divina impressa in ogni uomo e amiamo la nostra propria carne. Di conseguenza chi si sia astenuto dal versare il sangue non è per questo innocente del crimine di omicidio. Chi commette realmente oppure medita o macchina o concepisce nel suo cuore qualcosa contro il bene del prossimo, è considerato omicida da Dio. D'altra parte trasgrediamo il comandamento per il nostro atteggiamento di insensibilità, non adoperandoci a far del bene al prossimo, secondo le nostre possibilità e nelle occasioni che ci si presentano.

Se il Signore si preoccupa tanto della incolumità fisica di ognuno, possiamo dedurre quanto ci impegni a procurare la salvezza delle anime che sono per lui incomparabilmente più preziose.

IL SESTO COMANDAMENTO.

Non uccidere.

39. L'intenzione del comandamento è che ciascuno abbia a cuore la salvezza e la conservazione di tutti, dato che Dio ha costituito il genere umano come una unità. Di conseguenza è vie tata ogni azione violenta o dannosa che possa ferire il corpo del nostro prossimo. Di qui deriva l'aspetto positivo del comandamento: se possiamo fare qualcosa per conservare la vita del nostro prossimo, dobbiamo adoperarci diligentemente sia procurando quanto necessario, sia ovviando a quanto è negativo, parimenti aiutandolo e soccorrendolo se si trova nel pericolo o nell'insicurezza.

Se ci ricordiamo che qui parla Dio il legislatore, dobbiamo concludere che egli dà questa regola alla nostra anima; sarebbe ridicolo che colui che legge i desideri del cuore e li valuta singolarmente, indirizzasse solamente il nostro corpo alla vera giustizia. È dunque vietato il sentimento omicida e ci è chiesto un desiderio intimo di conservare la vita del nostro prossimo. Sebbene sia la mano che genera l'omicidio, tuttavia a concepirlo è il cuore, quando è corrotto dall'ira e dall'odio.

Considera se ti è possibile arrabbiarti contro il fratello senza anche desiderare di nuocergli; se non puoi odiarlo senza questo sentimento neppure puoi arrabbiarti senza odio, dato che l'odio è semplicemente ira radicata. Anche se lo nascondi e cerchi di dissimulare, è certo che odio e ira non sussistono senza desiderio di nuocere. Se vuoi ancora tergiversare, lo Spirito Santo ti dichiara che chiunque odia suo fratello è un omicida nel suo cuore (1 Gv. 3.15). Gesù Cristo afferma che chi odia il fratello è degno di giudizio; chi mostra segno di corruccio è degno della condanna di tutto il Concistoro, chi lo ingiuria è degno della geenna del fuoco (Mt. 5.22).

40. La Scrittura fonda questo comandamento su due motivazioni: gli uomini sono immagine di Dio e sono compartecipi della nostra stessa carne. Se dunque non vogliamo offendere l'immagine di Dio, non dobbiamo recare offesa alcuna al nostro prossimo, e se non vogliamo rinnegare ogni umanità, dobbiamo averne cura come della nostra propria carne.

Altrove esporremo la conclusione cui si deve giungere, a questo proposito, in séguito al dono della redenzione di Cristo. Ma il Signore ha voluto che considerassimo naturalmente questi due aspetti nell'uomo, perché ci inducano ad agire bene nei suoi confronti, che veneriamo l'immagine divina impressa in ogni uomo e amiamo la nostra propria carne. Di conseguenza chi si sia astenuto dal versare il sangue non è per questo innocente del crimine di omicidio. Chi commette realmente oppure medita o macchina o concepisce nel suo cuore qualcosa contro il bene del prossimo, è considerato omicida da Dio. D'altra parte trasgrediamo il comandamento per il nostro atteggiamento di insensibilità, non adoperandoci a far del bene al prossimo, secondo le nostre possibilità e nelle occasioni che ci si presentano.

Se il Signore si preoccupa tanto della incolumità fisica di ognuno, possiamo dedurre quanto ci impegni a procurare la salvezza delle anime che sono per lui incomparabilmente più preziose.

L'OTTAVO COMANDAMENTO.

Non rubare.

45. L'intenzione del comandamento è che rendiamo a ciascuno quel che gli appartiene, dato che ogni ingiustizia è sgradita a Dio. La sua sostanza consiste dunque nella proibizione fattaci di cercare di impadronirci dei beni altrui; e di conseguenza nell'invito ad adoperarci diligentemente a conservare a ciascuno il suo. Dobbiamo tener presente che quanto ciascuno possiede, non lo ha per caso fortuito, ma grazie al dono di colui che è padrone supremo e signore di ogni cosa, per questo motivo non si può frodare qualcuno delle sue ricchezze senza violare la dispensazione di Dio.

Vi sono molti tipi di furto. Uno è violento, allorché con la forza, in modo brigantesco, si ruba e si saccheggia il bene altrui. L'altro si serve della frode maliziosa, quando subdolamente si impoverisce il prossimo ingannandone la fiducia. Altro è l'astuzia più nascosta allorché si incamera con belle parole, o con la falsificazione di una donazione o in altro modo, quanto doveva appartenere ad un altro.

Non fermiamoci troppo ad esporre i diversi modi: notiamo sinteticamente che tutti i mezzi di cui ci serviamo per arricchirci ai danni altrui devono essere considerati furti quando si allontanano dalla sincerità cristiana, che deve essere amata, e ricorrono ad astuzie equivoche o in qualsiasi altro inganno. Chi agisce in questo modo spesso vince la propria causa davanti al giudice: Dio però lo considera semplicemente come un ladro. Egli vede le trappole a lunga scadenza che gli astuti preparano per cogliere i semplici nelle proprie reti, vede la durezza delle richieste con cui i grandi opprimono i piccoli, vede quanto velenose siano le lusinghe di chi vuole lusingare qualcuno per ingannarlo, anche se tutto questo non giunge alla conoscenza degli uomini.

Ma la trasgressione di questo comandamento non consiste solo nel far torto a qualcuno per quanto riguarda il denaro o le merci o i possedimenti: ma per quanto riguarda ogni diritto. Frodiamo il nostro prossimo se gli neghiamo i servizi di cui gli siamo debitori. Se un procuratore o un mezzadro o un contadino invece di vegliare sui beni del padrone vive nell'ozio senza preoccuparsi di procurare il bene di chi lo nutre, se dissipa malamente quel che gli è affidato o ne approfitta nello sciupio, se un servitore si beffa del suo padrone, se ne divulga i segreti, se prepara una macchinazione contro i suoi beni o la sua reputazione o la sua vita, se d'altra parte il padrone tratta in modo inumano la propria casa, si tratta di un furto davanti a Dio. Chi non compie il dovere che la sua vocazione comporta verso gli altri, si trattiene per se quanto appartiene agli altri.

46. Ottemperiamo al comandamento quando ci accontentiamo della nostra condizione, cerchiamo di guadagnare solamente in modo onesto e legittimo, non desideriamo arricchirci facendo torto al nostro prossimo, non progettiamo di distruggerlo per impadronirci dei suoi beni, non ci adoperiamo ad accumulare ricchezze ricavate dal sangue o dal sudore altrui, quando non ci affanniamo smodatamente in un modo e nell'altro, di qua e di là per soddisfare la nostra avarizia oppure scialare prodigalmente. Al contrario dobbiamo aver sempre il fine di aiutare ognuno, per quanto possiamo, con il consiglio e gli averi, a conservare il suo; e se ci accade di aver a che fare con malvagi e ingannatori, siamo pronti piuttosto a rimettere del nostro che a combatterli con analoga malizia. E quando vedremo qualcuno in povertà, aiutiamo la sua indigenza e alleviamo la sua necessità con la nostra abbondanza.

Infine ciascuno presti attenzione ai propri doveri verso gli altri, connessi con i doveri del suo ufficio, per adempierli lealmente. Il popolo onori quindi i suoi superiori, sottomettendosi ad essi di buon grado, obbedendo alle leggi ed agli ordinamenti, non rifiutando quel che può fare senza offendere Dio; d'altra parte i superiori abbiano cura e sollecitudine nel governo del popolo, nel conservare la pace dappertutto, nel difendere i buoni e punire i malvagi, nel governare come chi abbia a rendere conto del proprio ufficio a Dio, supremo giudice.

I ministri ecclesiastici amministrino fedelmente la parola di Dio, non corrompendo la parola di salvezza ma conservandone la purezza. E non istruiscano solamente il popolo con la buona dottrina, ma anche con l'esempio di vita. Presiedano insomma come buoni pastori sul gregge. D'altra parte il popolo li riceva come messaggeri ed apostoli di Dio rendendo loro l'onore che il Signore attribuisce loro e fornendo loro il necessario per vivere.

I genitori si adoperino a nutrire, istruire e dirigere i figli, affidati loro da Dio, senza trattarli con eccessiva severità al punto di scoraggiarli, ma guidandoli con dolcezza e benevolenza adatta alle loro persone; come è già stato detto, i figli devono loro rispetto e sottomissione.

Parimenti i giovani onorino i vecchi perché il Signore ha voluto rendere onore a questo stato, e i vecchi cerchino di istruire i giovani con la propria sapienza, non trattandoli con troppo rigore ma ricorrendo ad una severità temperata di dolcezza e delicatezza.

I servi siano servizievoli verso i propri padroni, diligenti nel servirli, non solo per l'apparenza ma con il cuore, come servi di Dio. I padroni non siano troppo esigenti e intrattabili verso i propri servi, opprimendoli con eccessiva severità, trattandoli ingiuriosamente, ma piuttosto li riconoscano come fratelli e compagni nel servizio di Dio, onde vivano umanamente.

Ciascuno consideri in questo modo quel che deve al prossimo a seconda della posizione e della situazione, e renda quel che deve.

Principalmente occorre che teniamo presente il legislatore, per non dimenticare che questa norma è stabilita per l'anima non meno che per il corpo: e ciascuno così dedichi la volontà a conservare e a far progredire il bene e l'interesse comune.

IL NONO COMANDAMENTO.

Non dirai falsa testimonianza contro il tuo prossimo.

47. L'intenzione del comandamento è di farci rispettare la verità senza inganni, perché Dio, che è verità, odia la menzogna. La sua sostanza consiste in questo: non dobbiamo ferire la reputazione di nessuno con calunnie o voci false né danneggiarlo con menzogne o falsità; in breve, non dobbiamo far torto a nessuno né con la maldicenza né con la beffa. A questa proibizione corrisponde l'aspetto positivo: siamo invitati ad aiutare fedelmente ognuno a mantenere la verità per conservare il proprio bene o la propria reputazione.

Il Signore ha voluto esporre il significato di questo comandamento nel ventitreesimo capitolo dell'Esodo , dove dice: "Non spargerai voce di menzogna né ti unirai all'empio per dire falsa testimonianza ": "Fuggirai ogni menzogna " (Es. 23.1.7). E in un altro passo non solo ci vieta di essere pettegoli, detrattori e maldicenti (Le 19.16) , ma anche di ingannare il nostro fratello, e mette in guardia esplicitamente contro le due cose.

Non c'è dubbio che, come ha voluto correggere nei precedenti comandamenti la crudeltà, l'impudicizia e l'avarizia, vuole ora reprimere la falsità, compresa nei due aspetti che abbiamo detto. Infatti maledicendo colpiamo la reputazione del nostro prossimo oppure con menzogne e parole subdole danneggiamo il suo interesse.

Poco importa se si intende qui la testimonianza solenne resa in giudizio o quella contenuta nella conversazione privata. La questione è sempre la stessa e il Signore ci propone per ogni genere di vizio un esempio scegliendo quello più grave a cui bisogna ricondurre tutti gli altri. Bisogna dunque intendere il comandamento in modo più generale, avendo come obbiettivo tutte le calunnie e le detrazioni che nuocciono al prossimo. D'altronde non vi è falsa testimonianza in giudizio, senza spergiuro: e la proibizione di questo e già stata presentata nel terzo comandamento della prima Tavola, in quanto profanazione del nome di Dio.

Per osservare questo comandamento dobbiamo dunque mettere la nostra bocca al servizio del prossimo nella verità, per conservargli la sua reputazione e il suo utile. Il perché è evidente: se la reputazione è più preziosa di qualsiasi tesoro, si fa altrettanto torto ad un uomo togliendogli la reputazione che spogliandolo dei suoi beni. D'altronde talvolta si fa più male al prossimo con la menzogna che con il furto.

48. Eppure fa meraviglia come non ci si preoccupi affatto di ferire, a questo riguardo! Sono pochi a non essere macchiati da questo vizio, tutti sono dediti a scoprire ed enumerare i vizi altrui. Né si pensi che il non mentire sia scusa valida. Colui che ci proibisce di diffamare il prossimo con la menzogna, vuole che ne sia conservata la reputazione, quanto è compatibile con la verità. Anche se proibisce solo di ferirlo con la menzogna, con questo dimostra di averlo a cuore. E deve bastarci il pensiero della sollecitudine del Signore per incitarci a conservare integra la reputazione altrui. È dunque condannato ogni genere di maldicenza.

Per "maldicenza "non deve intendersi il rimprovero che si fa a fine di correggere l'uomo, l'accusa giudiziaria che si fa per rimediare ai reati, le correzioni pubbliche nei riguardi di qualcuno per intimorire gli altri, l'avvertimento della malvagità di un uomo dato a quanti è utile la conoscano per non essere ingannati, ma l'ingiuria odiosa fatta con proposito malvagio o desiderio di calunniare.

Questo comandamento anzi giunge a vietarci di usare una scherzosa mordacità ed un elegante sarcasmo, deridendo gli uni e gli altri, come fanno alcuni che provano sommo piacere quando possono mettere alla berlina qualcuno. Spesso queste intemperanze lasciano un segno sull'uomo che ne è oggetto.

Se teniamo a mente chi sia il legislatore, il quale deve regolare il cuore e le orecchie oltre che la lingua, ci renderemo conto che è proibito, non meno della maldicenza, anche l'avidità di ascoltare i maligni e la prontezza a prestare l'orecchio e credere facilmente le loro malvagie chiacchiere. Sarebbe una beffa dire che Dio odia la maldicenza della lingua e non riprova la malignità del cuore.

Se dunque abbiamo timore genuino e amore di Dio, impegniamoci, per quanto possibile e convenevole, e confacente a carità, a non prestare le orecchie né la lingua a biasimare, calunniare o pettegolare: né diamo nel nostro cuore facile esca a malvagi sospetti. Interpretando equamente i fatti e i detti di ognuno, conserviamo piuttosto in ogni modo l'onore di ciascuno.

 

 

CAPITOLO IX

CRISTO FU CONOSCIUTO DAGLI EBREI SOTTO LA LEGGE, MA È STATO PIENAMENTE RIVELATO SOLAMENTE DALL'EVANGELO

 

1. Non v'è dubbio che Dio si sia dato a conoscere agli Ebrei con la stessa immagine con cui oggi appare a noi in tutta chiarezza: non invano li ha consacrati perché fossero il suo popolo eletto ed ha istituito tra loro i sacrifici e le purificazioni per dare una testimonianza efficace della propria paternità. Malachia dopo averli esortati ad osservare la Legge di Mosè ed a seguirla costantemente (dopo la sua morte vi sarebbe stata infatti una interruzione nella serie delle profezie) afferma che se perseverano, sarà loro inviato al più presto il sole della giustizia (Ma.4.2). Con queste parole vuole significare che il fine della Legge era di mantenere gli Ebrei nell'attesa di Cristo, la cui venuta era prossima: e che da lui potevano attendersi una maggior illuminazione.

Per questo motivo san Pietro dice: "i profeti hanno cercato diligentemente e hanno indagato della salvezza, oggi manifestata nell'Evangelo; ed è stato loro rivelato che non svolgevano la loro funzione per se stessi o per il loro tempo ma piuttosto per noi, ministrando i segreti che oggi ci sono rivelati dall'Evangelo " (1 Pi. 1.10-12). Non già che la loro dottrina sia stata inutile al popolo antico ed essi stessi non ne abbiano tratto profitto: ma non hanno goduto del tesoro che Dio ci ha fatto pervenire attraverso le loro mani. Oggi la grazia della quale sono stati testimoni ci è proposta direttamente davanti agli occhi e invece dell'assaggio che hanno avuto, possiamo averne una grande abbondanza.

Sebbene Cristo affermi di aver un testimone in Mosè (Gv. 5.46) , non manca di esaltare la grazia offerta in misura maggiore a noi che agli Ebrei; parlando ai suoi discepoli afferma: "Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete e le orecchie che odono ciò che voi udite. Molti re e profeti l'hanno desiderato senza ottenerlo " (Mt. 13.16-17; Lu 10.23-24). Il fatto che Dio ci abbia preferiti ai santi padri, pur così ricchi di santità e di ogni virtù, significa rendere eccezionale omaggio alla rivelazione offertaci nell'Evangelo. Né questa affermazione è contraddetta dal passo in cui è detto che Abramo ha visto il giorno di Cristo, e ne ha gioito (Gv. 8.56). Sebbene la visione di quanto era lontano fosse oscura, tuttavia non gli è venuta meno la certezza della speranza. Ne è nata la gioia che ha accompagnato questo santo patriarca fino alla morte.

Anche la frase di Giovanni Battista: "nessuno mai ha veduto Dio, ma il Figlio che è nel seno del Padre ce l'ha comunicato "non esclude quanti erano trapassati prima dalla conoscenza della realtà che risplende nella persona di Gesù Cristo. Paragonando però la loro situazione alla nostra, ci mostra che i misteri, che essi hanno osservato da lontano come ombre nell'oscurità, ci sono manifesti davanti agli occhi. Anche l'autore dell'epistola agli Ebrei lo spiega molto bene dicendo: "Dio ha parlato nel passato in molti modi attraverso i suoi profeti, ma finalmente negli ultimi tempi attraverso suo figlio " (Eb. 1.1).

Questo figlio unigenito dunque, in cui oggi splende la gloria e la viva immagine dell'ipostasi del Padre, è stato anticamente conosciuto dagli Ebrei che erano il suo popolo (abbiamo altrove ricordato che, secondo san Paolo, egli ha liberato il popolo dall'Egitto). Rimane vero tuttavia quanto dice lo stesso Apostolo: "Dio che ha ordinato alla luce di uscire dalle tenebre, ci illumina i cuori con l'Evangelo per farci contemplare la sua gloria nel volto di Gesù Cristo " (2 Co. 4.6). Manifestandosi con questa immagine, si è reso visibile, mentre precedentemente si era mostrato solo da lungi e in modo oscuro.

Tanto più grave e deplorevole è l'ingratitudine di coloro che permangono come ciechi in pieno mezzogiorno. Per questo motivo san Paolo dice che sono accecati da Satana affinché non percepiscano la gloria di Cristo che splende nell'Evangelo senza che alcun velo interposto ne impedisca la manifestazione.

2. Definisco Evangelo la manifestazione di Gesù Cristo, evidente, che era stata espressa in modo generico sino al momento della sua venuta. L'Evangelo è definito da san Paolo "dottrina della fede "e sono d'avviso che tutte le promesse di remissione dei peccati contenute nella Legge, con le quali gli uomini sono riconciliati con Dio, ne devono essere considerate parte. Infatti san Paolo contrappone la parola "fede "a tutti i tormenti, gli spaventi e le angosce da cui è oppressa la povera anima che cerca salvezza nelle proprie opere; ne consegue che nel termine "Evangelo "sono incluse tutte le prove date da Dio della sua misericordia e della sua paterna benevolenza. Tuttavia deve essere riferito con particolare dignità alla manifestazione della grazia dataci in Gesù Cristo. Questo è comunemente accettato ed è fondato sull'autorità di Gesù Cristo e degli Apostoli. Per questa ragione gli e attribuito il compito specifico di aver predicato l'Evangelo del Regno di Dio (Mt. 4.17; 9.35). E san Marco ricorre a questa introduzione: "Principio dell'Evangelo di Gesù Cristo " (Mr. 1.1). Non c'è bisogno di elencare citazioni per dimostrare cosa sì notoria.

Gesù Cristo dunque alla sua venuta ha prodotto e chiaramente messo in luce "la vita e l'immortalità per mezzo dell'Evangelo ". Sono le parole di san Paolo (2Ti 1.10); con questo non vuol dire che i padri siano stati immersi nelle tenebre della morte, fino alla manifestazione del Figlio di Dio in carne; ma riserva questo privilegio onorifico all'Evangelo, che costituisce una ambasciata nuova ed eccezionale, mediante la quale Dio adempie quanto aveva promesso e manifesta in modo palese la verità delle sue promesse. I credenti hanno sempre constatato la verità di un'altra affermazione di san Paolo: "Tutte le promesse di Dio sono sì e amen in Gesù Cristo " (2 Co. 1.20) perché esse sono suggellate nei loro cuori, tuttavia è giusto che la manifestazione vivente, nuova e singolare abbia il riconoscimento dovuto, dato che egli ha realizzato nella sua carne tutta la nostra salvezza. li quanto dice la frase di Gesù Cristo: "D'ora in poi vedrete i cieli aperti e gli angeli di Dio che salgono e scendono sul figlio dell'uomo " (Gv. 1.51). Sebbene si riferisca particolarmente alla visione del santo patriarca Giacobbe di una scala su cui Dio era seduto, tuttavia con questo segno vuol additare l'importanza e il significato della propria venuta, che ci ha aperto il regno dei cieli per introdurci nella famiglia di Dio.

3. Ci si guardi però dalla fantasia diabolica di Serveto il quale per esaltare la grandezza della grazia di Cristo, o fingendo di esaltarla, annulla completamente le promesse, come se avessero preso fine assieme ai simboli. Ricorre al cavillo di affermare che con l'Evangelo ci è dato l'adempimento delle promesse, come se non vi fosse alcuna distinzione tra Gesù Cristo e noi. Ho già detto che Cristo non ha tralasciato né dimenticato nulla di quanto era necessario alla pienezza della nostra salvezza, è sciocco però affermare che possiamo già godere dei beni che egli ci ha procurato; falsa sarebbe in tal caso l'affermazione di san Paolo secondo cui la nostra salvezza è in speranza.

 Riconosco certo che, credendo in Gesù Cristo, passiamo dalla morte alla vita. Ma dobbiamo anche ritenere la frase di san Giovanni: sebbene sappiamo di essere figli di Dio, tuttavia questo non è ancora manifesto, fino a quando saremo fatti simili a lui e lo vedremo faccia a faccia, quale egli è.

Sebbene dunque Gesù Cristo ci presenti nell'Evangelo una pienezza reale ed effettiva di tutti i beni spirituali, tuttavia il godimento ne è ancora sotto custodia e come sotto il sigillo della speranza, fino a quando, spogliati della nostra carne corruttibile, siamo trasfigurati nella gloria di colui che ci precede nell'ordine.

Nel frattempo lo Spirito Santo ci ordina di aver fiducia nelle promesse e la sua autorità sia sufficiente a far tacere i latrati di quel cane mastino. Come dice san Paolo: "Il timore di Dio ha le promesse della vita presente come di quella avvenire " (1 Ti. 4.8) : per questo si gloria di essere Apostolo di Cristo secondo la promessa di vita che è in lui (2Ti 1.1). Altrove ammonisce che abbiamo le stesse promesse rivolte anticamente ai santi padri (2 Co. 7.1). In breve, fa consistere la sostanza della nostra salvezza in questo: essere suggellati dallo Spirito della promessa; infatti non possediamo Gesù Cristo se non lo riceviamo e accettiamo, rivestiti dalle promesse dell'Evangelo. Di conseguenza, egli abita nei nostri cuori, pur essendo lontani da lui come pellegrini che camminano per fede e non per visione.

Questi due fatti si conciliano perfettamente: in Gesù Cristo possediamo quanto si riferisce alla perfezione della vita celeste e tuttavia la fede è visione di beni invisibili. Occorre solo notare che la diversità tra Legge ed Evangelo risiede nella natura o nella qualità delle promesse, perché l'Evangelo ci addita quello che anticamente è stato raffigurato in forma simbolica.

4. Nello stesso modo si denuncia l'errore di quanti oppongono la Legge all'Evangelo e considerano solo la diversità tra i meriti per le opere e la bontà gratuita di Dio, dalla quale siamo giustificati.

Riconosco che non si deve sottovalutare questo contrasto. San Paolo Cl. termine "Legge "intende spesso la regola per vivere rettamente dataci da Dio e con la quale richiede ed esige quanto gli dobbiamo, togliendoci ogni speranza di salvezza al di fuori dell'obbedienza totale: al contrario ci minaccia di maledizione se manchiamo anche di poco. L'Apostolo si esprime in questo modo per insegnarci che siamo graditi a Dio esclusivamente per la sua bontà, per cui egli ci reputa giusti e ci perdona i nostri errori, perché altrimenti l'osservanza della Legge, cui è promessa la ricompensa, non si riscontrerebbe in alcun uomo vivente. San Paolo dunque si esprime propriamente quando oppone una all'altra la giustizia della Legge e quella dell'Evangelo.

Ma l'Evangelo non si è sostituito in modo globale alla Legge al punto di recare una salvezza completamente diversa, esso ha voluto consolidare e ratificare quanto vi era promesso e unire la realtà con i simboli. Quando Gesù Cristo afferma che la Legge ed i Profeti furono in vigore fino a Giovanni non intende dire che i padri siano stati immersi nella maledizione cui sono soggetti tutti i servi della Legge, ma che erano sottoposti all'insegnamento elementare senza poter pervenire all'insegnamento più alto contenuto nell'Evangelo.

 Per questo motivo san Paolo chiama l'Evangelo "potenza di Dio per la salvezza di tutti i credenti " (Ro 1.16) , e aggiunge che di esso testimoniano la Legge ed i Profeti. Nella stessa epistola, pur dichiarando che l'Evangelo costituisce la rivelazione del mistero che era stato coperto nei tempi passati, per meglio spiegarne il significato aggiunge che questo mistero è stato manifestato dagli scritti dei profeti. Dobbiamo concluderne che quando si parla della Legge nella sua pienezza, l'Evangelo non ne è distinto se non in quanto ne rappresenta una manifestazione più ampia.

Del resto in quanto Gesù Cristo ci ha fatto oggetto di un dono eccezionale di grazia è detto, a buon diritto, che, con la sua venuta, il Regno di Dio è stato stabilito sulla terra.

5. Giovanni Battista è stato collocato tra la Legge e l'Evangelo con una funzione intermedia e affine all'una e all'altro. Definendo Gesù Cristo: l'agnello di Dio, la vittima che cancella i peccati e purifica da ogni macchia, egli esprime la sostanza dell'Evangelo. Per il fatto, tuttavia che non include nella sua predicazione la potenza e la gloria incomparabile che risplendono nella risurrezione di Cristo, è considerato, per questo, inferiore agli apostoli. Questo è il senso della dichiarazione di Gesù Cristo che fra tutti i nati di donna Giovanni Battista è il maggiore e tuttavia il minimo nel regno dei cieli è maggiore di lui (Mt. 11.2). Non si tratta qui di una valutazione personale; dopo aver anteposto Giovanni a tutti i profeti, Gesù magnifica in sommo grado l'Evangelo e lo definisce, secondo la sua abitudine, Regno dei cieli.

Non bisogna considerare come dettata da falsa umiltà la dichiarazione di Giovanni agli scribi, di non essere che una voce (Gv. 1.23) , dichiarazione che lo pone così in posizione subordinata rispetto ai profeti. Egli voleva dire di non aver ricevuto da Dio un messaggio particolare ma di svolgere la funzione di araldo per far posto al gran re e preparare il popolo a riceverlo, secondo la predizione di Malachia: "Ecco mando Elia, mio profeta prima che venga il gran giorno terribile del Signore " (Ma.4.5). Infatti Giovanni, durante tutta la sua predicazione, non ha fatto altro che predisporre discepoli a Cristo, dimostrando con gli scritti di Isaia di aver ricevuto questo compito dall'alto. Sempre in questo senso è stato definito da Gesù Cristo: "lampada ardente e lucente " (Gv. 5.35) in quanto non era ancora manifestata la piena luce del giorno.

Questo non toglie che debba essere annoverato tra i predicatori dell'Evangelo: difatti ha amministrato lo stesso battesimo poi affidato agli apostoli. Ma quello che egli aveva incominciato si è realizzato solo quando il figlio di Dio, accolto nella gloria celeste, ha conferito missione e slancio agli apostoli.

 

 

CAPITOLO X

SIMILITUDINE DELL'ANTICO E DEL NUOVO TESTAMENTO

 

1. È evidente, in base a queste premesse, che quanti Dio ha voluto includere nel suo popolo sin dalla fondazione del mondo, sono stati uniti a lui, legati dal vincolo di una dottrina identica a quella che vige tra noi. Aggiungerò ora, dopo aver fermamente stabilito tale principio, la considerazione complementare: i padri, pur essendo partecipi con noi della medesima eredità, e godendo della medesima speranza nella comune salvezza, grazie allo stesso Mediatore, ebbero però una condizione diversa dalla nostra in questa comunità.

Le testimonianze che abbiamo raccolte nella Legge e nei Profeti sono sufficienti a dimostrare che nel popolo di Dio non vi è mai stata regola di pietà e di religione diversa da quella da noi mantenuta; tuttavia i dottori antichi parlano della diversità tra l'Antico e il Nuovo Testamento in modo esplicito e radicale e questo potrebbe ingenerare perplessità in quanti non sono sufficientemente accorti. Mi è sembrato perciò opportuno affrontare questa materia in un capitolo a sé.

Inoltre, ciò che sarebbe stato utile semplicemente, diventa necessario a causa della petulanza di quel mostro di Serveto e di alcuni Anabattisti i quali considerano il popolo d'Israele come un branco di maiali: pensano infatti che il Signore non abbia voluto far altro che ingrassarli sulla terra come in una stalla senza speranza alcuna dell'immortalità celeste. Per mettere in guardia i credenti riguardo a questo errore pestilenziale e sgombrare la mente dei semplici dalle perplessità che nascono, quando odono parlare di diversità tra Antico e Nuovo Testamento, consideriamo brevemente i punti di somiglianza e le differenze tra l'alleanza stipulata dal Signore prima della venuta di Cristo con il popolo d'Israele e quella stipulata con noi, dopo la incarnazione.

2. L'una e l'altra possono essere risolte con una parola: la sostanza e la verità dell'alleanza stipulata con i padri antichi è talmente simile alla nostra da poter essere considerata una stessa cosa. Differisce solamente nella forma della dispensazione.

Ma da questo assunto nessuno potrebbe trarre una comprensione sicura: occorre dunque trattarne più a lungo se l'esposizione vuol riuscire utile. Trattando della somiglianza o meglio dell'unità sarà superfluo riparlare diffusamente delle parti già esaminate, né sarà opportuno mescolarvi le conclusioni da trarsi in altra sede. Ci limiteremo dunque a tre punti.

In primo luogo il Signore non ha proposto agli Ebrei, quale meta cui tendere, una felicità o un benessere terreni, ma li ha adottati nella speranza dell'immortalità rivelando loro e attestando questa adozione mediante visioni e con la sua Legge ed i Profeti.

In secondo luogo l'alleanza che li ha uniti a Dio non è stata fondata sui loro meriti, ma sulla sola misericordia di Dio.

In terzo luogo hanno avuto e conosciuto Cristo quale mediatore che li univa a Dio e li faceva partecipi alle sue promesse.

Parleremo a suo tempo del secondo punto che non è stato ancora sufficientemente chiarito. Per mezzo di molte testimonianze sicure dei profeti dimostreremo che tutto il bene che il Signore ha fatto o promesso al suo popolo proveniva dalla sola bontà e clemenza sua. Il terzo punto è già stato chiarito in molte occasioni, ed abbiamo anche accennato di sfuggita al primo.

3. Esso si riferisce però direttamente al problema che stiamo esaminando e suscita, d'altra parte, numerose polemiche e controversie; sarà quindi necessario considerarlo con la massima attenzione. Dobbiamo tuttavia soffermarci a parlarne in modo da risolvere, brevemente, al momento opportuno gli aspetti che ancora mancano ad una esposizione corretta degli altri due punti.

L'Apostolo elimina ogni dubbio relativo ai tre interrogativi suddetti quando afferma che il Signore aveva promesso l'Evangelo di Gesù Cristo già da molto tempo, attraverso i suoi profeti, nelle sue sante Scritture, e lo ha poi manifestato nel tempo predeterminato (Ro 1.2) , e che la giustizia per fede, insegnata nell'Evangelo, era stata affermata nella Legge e nei Profeti (Ro 3.21).

Indubbiamente, l'Evangelo non lega il cuore degli uomini ad un'amore della vita presente ma li innalza alla speranza dell'immortalità, non li vincola alle delizie terrene ma, annunciando la speranza loro preparata nel cielo, li trasporta in alto. In questa direzione ci conduce l'affermazione che troviamo altrove: "Dopo che avete creduto all'Evangelo "egli dice "siete stati segnati dallo Spirito Santo, che è arra della nostra eredità, ecc. " (Ef. 1.13); e: "Abbiamo udito della vostra fede in Cristo e della vostra carità verso i credenti, a causa della speranza che avete nel cielo, che vi è stata annunciata dall'insegnamento dell'Evangelo " (Cl. 1.4-5); e: "Il Signore mediante il suo Evangelo ci ha chiamati a partecipare alla gloria del nostro Signore Gesù Cristo " (2 Ts. 2.14). Per questo motivo è chiamato "dottrina di salvezza ", "potenza di Dio per salvare tutti i credenti "e "regno dei cieli ". Se la dottrina dell'Evangelo è spirituale e ci dà accesso alla vita incorruttibile, non pensiamo che coloro ai quali l'Evangelo è stato promesso e predicato si siano occupati, come bestie, a cercare il proprio piacere carnale senza preoccuparsi della propria anima.

Né qualcuno a questo punto obbietti che le promesse dell'Evangelo date anticamente da Dio mediante i profeti sono state destinate al popolo del Nuovo Testamento. Perché l'Apostolo, poco prima di questa affermazione, secondo cui l'Evangelo è stato promesso nella Legge, aggiunge ugualmente che quanto la Legge contiene si rivolge particolarmente a quanti sono sotto la Legge (Ro 3.19). Ammetto che lo dice in un altro contesto; ma dicendo che l'insegnamento della Legge appartiene ai Giudei, non poteva aver dimenticato l'affermazione precedente relativa all'Evangelo promesso nella Legge.

In questo passo dimostra dunque chiaramente che l'antico patto mirava essenzialmente alla vita futura, dato che includeva le promesse dell'Evangelo.

4. Ne consegue inoltre che esso era fondato sulla misericordia gratuita di Dio e trovava la propria garanzia in Gesù Cristo. La predicazione evangelica non proclama altro: i poveri peccatori sono giustificati per la paterna clemenza di Dio, senza averlo meritato. E questa predicazione trova piena espressione in Gesù Cristo.

 Chi dunque oserà privare di Cristo gli Ebrei, con i quali è stata stipulata l'alleanza dell'Evangelo, il cui unico fondamento è Cristo? Chi oserà estraniarli dalla speranza di salvezza gratuita, dato che la dottrina di fede, che procura giustizia gratuita, è stata loro comunicata?

Per non continuare a discutere di una questione così chiara, ci basti la fondamentale affermazione del Signore Gesù: "Abramo è stato animato da un grande desiderio di vedere il mio giorno; l'ha visto e se n'è rallegrato " (Gv. 8.56). L'Apostolo mostra che l'affermazione relativa ad Abramo si riferisce genericamente a tutto il popolo fedele: "Cristo è stato ieri e oggi e sarà eternamente " (Eb. 13.8). Non parla solo della divinità eterna di Cristo, ma della conoscenza della sua potenza che e stata 1n ogni tempo comunicata ai credenti.

Per questo motivo la vergine Maria e Zaccaria nei loro cantici definiscono la salvezza rivelata in Cristo un adempimento delle promesse fatte da Dio ad Abramo ed ai Patriarchi (Lu 1.54.72). Se Dio, manifestando il suo Cristo, ha adempiuto la sua promessa antica, non si può non dire che il fine dell'antico patto non sia stato Cristo e la vita eterna.

5. L'Apostolo non considera solo il popolo d'Israele simile ed eguale a noi nella grazia del Patto ma altresì nel significato dei sacramenti. Volendo ammonire i Corinzi di non cadere nelle stesse colpe, per cui Dio aveva punito gli Ebrei, ricorre a questa argomentazione: non abbiamo alcuna prerogativa o dignità particolare che ci sottragga alla vendetta divina che è caduta su di loro (1 Co. 10.1-6.2). Così dunque non solo il Signore ha esercitato la stessa benevolenza verso di loro, come verso di noi, ma ha anche raffigurato in mezzo a loro la sua grazia mediante gli stessi segni e sacramenti.

Come se dicesse: Vi sembra di essere fuori pericolo perché il battesimo da cui siete stati segnati e la Cena del Signore contengono delle promesse speciali; e intanto sprezzate la bontà di Dio e vivete in modo dissoluto. Ma dovete ricordare che gli Ebrei non erano privi degli stessi sacramenti eppure il Signore non ha mancato di esercitare verso loro la severità del suo giudizio. Sono stati battezzati nel passaggio del Mar Rosso e nella nuvola che li proteggeva dall'ardore del sole.

Chi respinge questo insegnamento afferma che si trattava di un battesimo carnale corrispondente in qualche misura al nostro spirituale. Ma se accettiamo questa interpretazione, l'argomentazione dell'Apostolo non può procedere: egli ha voluto togliere ai Corinzi la fiducia infondata basata sulla convinzione di essere migliori degli Ebrei a causa del battesimo. E anche il seguito immediato non può essere discusso: essi hanno mangiato la medesima carne spirituale e bevuto la stessa bevanda spirituale che sono date anche a noi, cioè Gesù Cristo.

6. Per contestare l'autorità di san Paolo, citano la dichiarazione di Cristo: "I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti. Chiunque mangerà la mia carne non morrà mai in eterno " (Gv. 6.49-50). La contraddizione non sussiste. Il Signore Gesù, sapendo di rivolgersi a uditori che cercavano solamente di pascere il proprio ventre senza preoccuparsi affatto del vero cibo delle anime, adatta in parte il suo discorso alle loro capacità e ricorre a questo paragone della manna con il suo corpo. Essi pretendevano che, per avere autorità, egli confermasse la sua divinità con qualche miracolo, come Mosè aveva fatto nel deserto facendo piovere dal cielo la manna. Ora nella manna vedevano unicamente un mezzo per saziare la fame corporale che tormentava il popolo nel deserto. Non salivano abbastanza in alto per considerare il mistero cui fa allusione san Paolo. Allora Cristo, per indicare che dovevano aspettarsi da lui un beneficio maggiore e più eccellente di quello che i loro padri avevano ricevuto da Mosè, pone questo paragone: Se considerate miracolo eccezionale il fatto che il Signore abbia mandato al popolo il cibo celeste per mano di Mosè, onde non perisse ma fosse sostentato, riconoscete quanto più prezioso è il cibo che reca immortalità.

Perché il Signore menziona solo l'aspetto secondario della manna e tace l'essenziale? Perché gli Ebrei gli additavano, a guisa di rimprovero, Mosè, che aveva soccorso il popolo d'Israele nelle difficoltà, nutrendolo in modo miracoloso con la manna. Risponde di essere dispensatore di una grazia assai più preziosa, al cui paragone rimaneva sminuito quanto Mosè aveva fatto per il popolo, anche se ne avevano un concetto così alto.

San Paolo considera questo argomento con molta attenzione, nella convinzione che, quando ha fatto cadere la manna del cielo, il Signore non intendeva solo mandare al suo popolo del cibo materiale ma anche comunicare un mistero spirituale, simboleggiante la vita eterna che doveva attendersi da Cristo.

Possiamo dunque concludere senza incertezze che le stesse promesse di vita eterna, che vengono oggi presentate a noi, sono state comunicate agli Ebrei e anzi sono state loro suggellate e confermate da sacramenti veramente spirituali. Questa materia è ampiamente trattata da sant'Agostino nel contro Fausto Manicheo.

7. Se tuttavia i lettori preferiscono un elenco delle testimonianze della Legge e dei Profeti da cui risulti evidente che l'alleanza spirituale posseduta da noi oggi, è stata comune ai padri secondo le dichiarazioni di Cristo e degli Apostoli, cercherò di soddisfarli, tanto più volentieri nella speranza di convincere gli oppositori i quali non potranno in seguito trovare scappatoie.

Incomincerò con una osservazione che gli Anabattisti considerano debole e quasi ridicola, ma che ha una grande importanza per tutte le persone di retto giudizio. Considero dunque indiscutibile il fatto che la Parola di Dio abbia una tale forza da essere sufficiente a vivificare le anime di tutti quelli che la ricevono. È sempre stata vera l'asserzione di san Pietro, secondo cui essa è una semenza incorruttibile che permane in eterno (1 Pi. 1.23); egli lo conferma anche citando le parole di Isaia (Is. 40.6). Dato che Dio, nel passato, ha legato a se gli Ebrei con questo legame sacro ed indissolubile, non v'è dubbio che li abbia messi da parte, per condurli a sperare nella vita eterna. Dicendo che hanno ricevuto ed accolto la Parola per essere uniti più intimamente a Dio, non intendo riferirmi a quella comunione generale che comprende cielo, terra ed ogni creatura. Sebbene Dio vivifichi tutte le cose con la sua ispirazione, ciascuna secondo le proprietà della sua natura, non le libera tuttavia dalla necessità della corruzione. Ma l'ispirazione di cui parlo è particolare e illumina, nella conoscenza di Dio, le anime dei credenti e le congiunge in una certa misura a lui.

Come dunque Abramo, Isacco, Noè, Abele, Adamo e gli altri Patriarchi sono stati in comunione con Dio grazie a questa illuminazione della sua parola, così non v'è dubbio che essa abbia costituito per loro l'entrata nel regno eterno di Dio essendo una reale partecipazione a Dio, che non poteva esistere senza la grazia della vita eterna.

8. Se questo sembra ancora un po' oscuro, esaminiamo i termini stessi del Patto: questo soddisferà gli spiriti tranquilli e convincerà di errore gli oppositori ignoranti.

Il Signore ha sempre espresso il patto con i suoi servitori in questi termini: "Sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo " (Le 26.12). Anche i profeti solevano affermare che in queste parole era compresa la vita la salvezza e la sostanza della felicità. Non senza ragione infatti Davide dichiara beato il popolo che ha il Signore per suo Dio (Sl. 144.15) e felici coloro che sono eletti quale sua eredità (Sl. 33.12). Questo non si riferisce alla felicità terrena ma al riscatto dalla morte; egli riscatta dalla morte, conserva in perpetuo e mantiene nella sua misericordia quanti ha ricevuto nel sodalizio del suo popolo. Così dicono gli altri profeti: "Tu sei il nostro Dio; non moriremo affatto ", (Abacuc 1.12) : "Il Signore è il nostro re e il nostro legislatore, egli ci salverà " (Is. 33.22) : "Beato Israele perché hai la tua salvezza in Dio " (De 33.29).

Non dilunghiamoci troppo in problemi superflui ma accontentiamoci dell'asserzione che ricorre spesso nella Scrittura: non ci manca abbondanza di ogni bene e di salvezza quando il Signore è nostro Dio. E questo a buon diritto: se la sua rivelazione costituisce una sicura garanzia di salvezza, come potrebbe rivelarsi all'uomo quale Dio, senza anche aprirgli i tesori della salvezza? Dio è nostro a condizione di abitare in mezzo a noi, come egli dichiara per bocca di Mosè (Le 26.12); e questo non si può attuare senza il possesso della vita. Quand'anche questo fatto non fosse stato espresso esplicitamente, vi erano evidenti promesse di vita spirituale in queste parole: "Sono il vostro Dio " (Es. 6.7). Non dichiarava solo di essere Dio dei loro corpi, ma anche soprattutto, delle loro anime. Ora le anime, quando non siano unite a Dio nella giustizia, gli sono estranee e rimangono nella morte; quando d'altra parte gli siano congiunte, ne ricevono vita perenne.

9. C'è di più: non solo si dichiarava loro Dio ma prometteva di rimanerlo per sempre onde la loro speranza non si limitasse alle cose presenti ma si protendesse verso l'eternità. Che l'allusione al tempo futuro avesse questo intento risulta da molte dichiarazioni dei credenti che si consolano nella certezza che Dio non li abbandonerà.

Vi era inoltre il secondo elemento del patto che li confermava maggiormente in questa fiducia: la dichiarazione che la benedizione di Dio sarebbe prolungata oltre i limiti della loro vita terrena. Era detto: "Io sarò l'Iddio della tua discendenza dopo di te " (Ge 17.7). Se il Signore intendeva manifestare la propria benevolenza verso di loro beneficando i loro successori, a maggior ragione il suo favore si doveva manifestare su loro stessi. Dio infatti non è simile agli uomini, che trasferiscono l'amore portato ai defunti sui loro figli, non avendo la possibilità di manifestare il loro affetto ai morti. La sua liberalità non è arrestata dalla morte, non priva del frutto della sua misericordia coloro che hanno fatto sì che egli estendesse la sua misericordia a mille generazioni (Es. 20, Q. Ha voluto mostrare in questo modo la ricchezza infinita della sua bontà che i suoi servitori avrebbero esperimentato anche dopo la morte, perché essa si riverserebbe su tutta la famiglia anche dopo il loro decesso. E il Signore ha suggellato la verità di questa promessa e ce ne ha mostrato l'adempimento, in certo qual modo, definendosi l'Iddio di Abramo, di Is.cco e di Giacobbe molto tempo dopo la loro morte (Es. 3.6). Questa definizione non sarebbe stata ridicola se essi fossero periti? Sarebbe equivalso a dire: Io sono Iddio di quelli che non ci sono!

 Inoltre gli evangelisti raccontano che i Sadducei furono confutati da Cristo con questo solo argomento e non poterono negare che Mosè in questo passo volesse parlare della resurrezione dei morti (Mt. 22.32; Lu 20.37). Avevano inoltre imparato da Mosè che tutti i santi sono nella mano di Dio (De 33.3); era loro facile concluderne che non sono estinti dalla morte, dato che colui che ha in suo potere la vita e la morte li ha ricevuti sotto la sua sicura protezione.

10. Veniamo ora al punto principale di questa controversia: se i credenti dell'antico Patto abbiano ricevuto da Dio una illuminazione tale da sapere che una vita migliore li aspettava fuori dalla terra, potendo così concentrarvi il pensiero e tenendo in non cale questa vita corruttibile.

Il modo di vivere loro assegnato anzitutto: una istruzione perenne per ammonirli che sarebbero stati i più miserabili di tutti gli uomini qualora si fossero limitati a cercare la loro felicità su questa terra.

Adamo, già infelice per il ricordo della sua beatitudine perduta, incontra grande difficoltà nel procurarsi il suo misero cibo lavorando con tutte le sue forze (Ge 3.17). E non è solo oppresso da questa maledizione di Dio: riceve una delusione immensa proprio nel campo dove avrebbe dovuto ricevere consolazione; dei due figli che ha, uno è malvagiamente ucciso dalla mano dell'altro (Ge 4.8). Gli rimane Caino, del quale ha giustamente orrore. Abele crudelmente ucciso nel fiore dell'età, è per noi simbolo della sventura umana.

Noè logora gran parte della propria vita a costruire l'arca in mezzo a grandi ostacoli e difficoltà (Ge 6.22) , mentre tutti se la godono in mezzo ai piaceri e alle delizie. E anche quando è salvato dalla morte, questo avviene sotto forma di una calamità peggiore che se fosse morto cento volte: non solo l'arca è per lui come un sepolcro per dieci mesi e vi è forse cosa peggiore che essere tenuto così a lungo immerso nel fetore e nello sterco degli animali, in un luogo senza aria? Dopo essere sfuggito a tante difficoltà, trova motivo di nuova tristezza: si vede deriso dal proprio figlio ed è costretto a maledire con la propria bocca colui che Dio aveva risparmiato dal diluvio per essergli di consolazione (Ge 9.20-25).

11. Abramo da solo vale come un milione di esempi. Consideriamo la sua fede, che ci è proposta come esempio eccellente tanto che dobbiamo essere considerati suoi discendenti per essere figli di Dio (Ge 12.3). Nulla ripugnerebbe alla ragione più che l'escludere dal numero dei credenti colui che è il padre di tutti i credenti, senza lasciargli neanche un angolino tra di noi. Né si può respingerlo o destituirlo dalla situazione sì onorevole in cui Dio l'ha posto, senza che tutta la Chiesa sia annientata.

Per quanto riguarda la sua situazione: non appena è chiamato da Dio viene tratto fuori dal suo paese, perde i suoi parenti ed amici, è privato delle cose più desiderabili di questo mondo, come se Dio, con deliberato proposito, avesse voluto spogliarlo di ogni gioia terrena. Non appena entra nella terra che gli era stato ingiunto di abitare, ne è cacciato dalla carestia. Per trovar tranquillità si ritira in un paese dove è costretto ad abbandonare la propria moglie per salvar la vita, e questo lo addolorava più di molte morti (Ge 12.11-15). Ritorna alla sua terra di provenienza e ne è di nuovo cacciata dalla carestia. Quale gioia poteva esserci nell'abitare una terra in cui spesso soffriva le privazioni ed addirittura la fame, al punto di doverne fuggire? È: costretto di nuovo alla necessità di abbandonare sua moglie nel paese di Abimelec.

Dopo aver vagato qua e là nell'incertezza per parecchi anni, è costretto dalle liti dei servitori a mandare fuori di casa suo nipote che gli era come un figlio. Senza dubbio questa separazione è stata per lui come se gli si strappasse una delle sue membra. Poco dopo apprende che i nemici lo hanno fatto prigioniero. Dovunque vada trova nei vicini crudele barbarie e gli viene impedito di bere ai pozzi che ha scavato se non ne riscatta l'uso. Giunto alla vecchiaia si vede privato di figli, la cosa più dura a quell'età. Infine genera Ismaele, oltre le proprie speranze. Anche questa nascita però gli costa ben cara perché sua moglie Sara lo rimprovera di essere causa delle difficoltà familiari dando motivo di orgoglio alla serva.

Nei suoi ultimi giorni gli è dato Isacco, ma con il risultato che il figlio precedente viene cacciato come un povero cane abbandonato nella foresta. Dopo che gli è rimasto il solo Isacco, ultimo sostegno della sua vecchiaia, gli è ordinato di ucciderlo. Si potrebbe immaginare situazione più infelice: un padre boia del proprio figlio? Se fosse morto di malattia, tutti avrebbero stimato infelice quel povero vecchio cui era stato dato il figlio solo per un breve tempo, come per scherzo, quasi per raddoppiargli il dolore che provava vedendosi privato di discendenza. Se fosse stato ucciso da un nemico, la calamità sarebbe stata considerata maggiore. Ma supera ogni sventura il pensarlo assassinato dalla mano di suo padre!

Insomma durante tutta la sua vita è stato tormentato ed afflitto e se qualcuno volesse rappresentare un tipo di vita miserabile, non troverebbe esempio più adatto. Si obbietterà che non è stato del tutto infelice essendo sfuggito a tanti pericoli e avendo sormontato tante tempeste, rispondo che non possiamo definire felice una vita che giunge alla vecchiaia attraverso infinite difficoltà, ma quella dell'uomo che vive tranquillamente e nel benessere.

12. Veniamo ad Isacco che non ha sopportato altrettante calamità ma ha potuto a malapena provare il gusto di qualche piacere o di qualche rilassamento: d'altra parte ha esperimentato gli sconvolgimenti che non permettono all'uomo di essere felice sulla terra. La carestia lo caccia dalla terra di Canaan, come suo padre. Sua moglie gli è strappata dalle braccia. I vicini lo molestano e lo tormentano dovunque vada, in molte maniere, tanto che deve combattere per avere l'acqua. La donne di suo figlio Esaù gli causano molte noie in casa (Ge 26.35). È afflitto dalle discordie tra suoi figli e non può porvi rimedio che cacciando quello che aveva benedetto (Ge 28.5).

Quanto a Giacobbe, è come il modello delle più grandi disgrazie che possano accadere. Mentre è a casa, durante tutta la sua infanzia, è tormentato dall'inquietudine per le minacce di suo fratello, alle quali infine è costretto a cedere fuggendo lontano dai genitori e dalla patria. Oltre all'angoscia causata dall'esilio, è trattato duramente da suo zio Labano. Non solo patisce per sei anni in servitù dura e inumana, ma alla fine è ingannato e gli si dà una donna diversa da quella che desiderava (Ge 29.20). Per averla deve di nuovo farsi schiavo e di giorno è bruciato dal calore del sole, di notte gelato e infreddolito sopportando pioggia, vento e tempesta, senza dormire né riposarsi, come lui stesso lamenta. E dopo vent'anni in questa miserevole situazione, ancora è afflitto giornalmente dagli insulti del suocero. Neanche in casa propria è tranquillo a causa degli odii, delle dispute e delle invidie delle sue donne.

 Quando Dio gli ordina di tornare al suo paese, deve fuggire in modo vergognoso. E non può sfuggire alla malvagità di suo suocero che lo perseguita e lo insegue per via (Ge 31.23). E sebbene Dio non permetta che gli succeda di peggio, pure deve ricevere molte umiliazioni da parte di quell'uomo che gli aveva già create tante difficoltà.

Subito dopo si trova in una situazione ancor più disperata: andando incontro al proprio fratello ha la prospettiva di un eccidio quale ci si può aspettare da un nemico crudele. Il suo cuore è orribilmente tormentato e dilaniato dall'angoscia mentre ne aspetta l'arrivo (Ge 32.2). Quando lo incontra si getta mezzo morto ai suoi piedi finché si accorge che questi è meglio intenzionato di quanto avesse sperato.

Entrando per la prima volta nel paese, sua moglie Rachele, che amava in modo del tutto particolare muore di parto (Ge 35.16). In seguito gli si comunica che il figlio avuto da lei, che amava più d'ogni altro, era stato sbranato dalle belve (Ge 37.32). Questa morte lo colpisce così crudelmente che piange amaramente, rifiutando ogni consolazione e vuole morire, non avendo altro desiderio che di seguire suo figlio nella tomba. Inoltre quale tristezza, quale dolore, quale sventura lo colgono vedendo la propria figlia rapita e violentata? (Ge 34.2). E quando i suoi figli, per farne vendetta, saccheggiano una città e così non solo lo rendono inviso agli abitanti ma lo mettono in pericolo di morte?

Segue l'orribile crimine di Ruben (Ge 35.22) che doveva causargli terribile angoscia. Se una delle più grandi sofferenze che l'uomo possa avere è quella di veder la propria moglie subire violenza, cosa dobbiamo dire quando una tale malvagità è commessa dal proprio figlio? Poco dopo la famiglia è ancora contaminata da un altro incesto (Ge 38.18) : queste vergogne erano tali da spezzare il cuore più saldo e paziente del mondo.

Nell'ultima vecchiaia, per sovvenire all'indigenza della propria famiglia, manda i figli a provvedersi di grano in un paese straniero (Ge 42.32). L'uno è messo in prigione, ed egli pensa sia in pericolo di morte. Per riscattarlo è costretto a mandare Beniamino, nel quale aveva posto tutto il suo affetto.

Come avere in mezzo a tale moltitudine di mali un minuto di tempo per respirare a proprio agio? Lo dichiara a Faraone, affermando che i giorni della sua vita sono stati brevi e penosi (Ge 47.9). Chi afferma di aver vissuto in continua miseria, non manifesta di aver sperimentato una prosperità quale Dio aveva promesso. Quindi o Giacobbe era ingrato verso Dio oppure aveva ragione di considerarsi sventurato. Se il suo dire era vero, ne consegue che non poneva la sua speranza nelle cose terrene.

13. Se tutti questi santi padri hanno atteso da Dio una vita felice, come è indubitabile, hanno certamente conosciuto ed atteso una felicità diversa da quella della vita terrena. L'Apostolo lo esprime molto bene: "Abramo ", egli dice "è dimorato per fede nella terra promessa, come in terra straniera, vivendo in capanne con Is.cco e Giacobbe che erano partecipi alla stessa eredità. Aspettavano una città ben fondata, il cui architetto è Dio stesso. Sono tutti morti in questa fede senza aver ricevuto le promesse ma guardandole da lontano e sapendo e riconoscendo di essere stranieri sulla terra. Con questo dimostrano di aver cercato un'altra patria. Se fossero stati mossi dal desiderio del paese naturale che avevano abbandonato, avrebbero potuto ritornarvi. Ma ne speravano uno migliore nei cieli. Per questo Dio non si vergogna di definirsi loro Dio, perché ha preparato loro una abitazione " (Eb. 11.9).

Si sarebbero dimostrati stupidi del tutto aspettando, con tanta perseveranza, l'adempimento di promesse cui non corrispondeva nessuna conferma terrena: se non ne avessero atteso l'adempimento da una fonte diversa. L'Apostolo, di conseguenza, insiste nel ricordare che si sono definiti pellegrini e stranieri in questo mondo, come anche Mosè aveva detto (Ge 47.9). Se sono stranieri in terra di Canaan, dov'è dunque la promessa di Dio che li costituisce eredi? Questo dimostra dunque che la promessa di Dio mirava più lontano della terra. Per questo motivo non hanno acquisito il possesso di un solo piede della terra di Canaan, se non per il solo loro sepolcro (At. 7.5). Con questo dimostravano che la loro speranza era di godere della promessa solo dopo la morte.

Per lo stesso motivo Giacobbe ha dato tanto peso al fatto di esservi seppellito ed ha fatto giurare al figlio Giuseppe di farvi portare il suo corpo (Ge 47.29-30). Allo stesso modo Giuseppe ordinava di portarvi le proprie ceneri, il che avveniva circa trecento anni dopo la sua morte (Ge 50.25).

14. Appare chiaro, insomma, che in tutta la loro esistenza hanno guardato a questa felicità della vita futura. A che scopo Giacobbe avrebbe ricercato la primogenitura attraverso tante difficoltà e tanti ostacoli, dato che essa non gli procurava alcun vantaggio e anzi lo cacciava dalla casa di suo padre? Egli aveva in mente una benedizione più alta. E manifesta apertamente di non aver avuto altro obbiettivo quando esclama, in un punto di morte: "Aspetterò la tua salvezza, Signore! " (Ge 49.18). Dato che sapeva di essere prossimo alla morte, quale salvezza avrebbe potuto sperare se non avesse visto nella morte l'inizio di una nuova vita?

E d'altra parte perché fermarsi ad esaminare l'atteggiamento dei figli di Dio, quando Balaam stesso, che si sforzava di combattere la verità, ha avuto la stessa convinzione e la stessa comprensione? Desiderando che la propria anima morisse della morte del giusto (Nu. 23.10) egli nutriva nel suo cuore un sentimento che Davide ha descritto in seguito: la morte dei santi è preziosa per il Signore e la morte degli iniqui è sgradita (Sl. 116.15; 34.22). Se la meta ultima degli uomini fosse la morte, in essa non si potrebbe notare alcuna differenza tra giusti e malvagi. Bisogna dunque distinguerli in base alla situazione che aspetta gli uni e gli altri nel tempo futuro.

15. Non abbiamo ancora parlato di Mosè, il quale avrebbe avuto, secondo i sognatori di cui stiamo parlando, unicamente il compito di condurre il popolo di Israele al timore ed alla venerazione di Dio con la promessa di fertili possedimenti e di abbondanza di cibo. Qualora però non si voglia spegnere la luce che ci si presenta in tutta evidenza, dobbiamo riconoscere che siamo in presenza, nel caso suo, di un patto spirituale.

Venendo ai profeti, troviamo una esplicita contemplazione della vita eterna e del regno di Cristo. Davide, in primo luogo, il quale si esprime, per il fatto di precedere gli altri, in modo più oscuro riguardo ai misteri celesti; ma riconduce tutto il suo insegnamento, con precisione e chiarezza, a questo punto. Risulta chiaro il suo pensiero riguardo alla vita celeste da una frase come questa: "Sono pellegrino e straniero, come tutti i miei padri; ogni uomo vivente è vanità; ciascuno svanisce come un'ombra. E qual è ora la mia attesa? Signore, la mia speranza si volge a te " (Sl. 39.6-8.13). Chi, dopo aver dichiarato di non aver nulla di fermo e stabile nel mondo, conserva tuttavia fermezza di speranza in Dio, evidentemente pone la propria beatitudine in qualcosa che sta al di fuori del mondo.

Per questo motivo egli suole richiamare i credenti a questa contemplazione ogniqualvolta vuole consolarli. In un altro passo, dopo aver ricordato quanto sia fragile e breve questa vita, aggiunge: "Ma la misericordia del Signore è perenne verso quelli che lo temono " (Sl. 103.17). Simile è l'affermazione di un altro passo: "Hai fondato la terra, Signore, i cieli sono opera delle tue mani. Essi periranno e tu rimani; invecchieranno come un vestito e tu li cambierai come una veste. Ma tu permani uguale e i tuoi anni non finiranno mai. I figli dei tuoi servitori avranno una dimora e la loro progenie sarà stabilita nel tuo cospetto " (Sl. 102.26-29). Se, nonostante l'annientamento del cielo e della terra, i credenti non cessano di permanere davanti a Dio, ne consegue che la loro salvezza è legata alla sua eternità.

E infatti questa speranza non può permanere se non è fondata sulla promessa esposta in Isaia: "I cieli, dice il Signore, svaniranno come un vapore, la terra si consumerà come un vestito e i suoi abitanti periranno; ma la mia salvezza rimane in eterno e la mia giustizia non verrà meno " (Is. 51.6). Qui il carattere duraturo è riferito alla salvezza e alla giustizia non in quanto risiedono in Dio ma in quanto egli le comunica agli uomini.

16. Non si possono intendere altrimenti gli accenni fatti qua e là alla beatitudine dei credenti se non riconducendoli alla manifestazione della gloria celeste. È: detto infatti: "Il Signore protegge le anime dei santi: le libererà dalla mano del peccatore. La luce si leva per il giusto e la gioia per quelli che sono retti di cuore " (Sl. 97.10-11) : "La giustizia dei buoni rimane in eterno, la loro forza sarà esaltata in gloria. I desideri dei peccatori periranno ", (Sl. 112.9-10) : "I giusti loderanno il tuo nome, gli innocenti abiteranno con te " (Sl. 140.14) : "Il giusto sarà ricordato in perpetuo " (Sl. 112.6) : "Il Signore riscatterà le anime dei suoi servi " (Sl. 34.23).

Il Signore non permette solo che i suoi servi siano tormentati dagli iniqui, ma li lascia spesso disperdere e distruggere. La scia i buoni languire nelle tenebre e nella sventura mentre gli iniqui risplendono come le stelle del cielo; e non mostra a lungo la luce del suo volto ai credenti talché ne possano ampiamente godere. Ecco perché lo stesso Davide non si nasconde che se volgiamo gli occhi alla situazione presente del mondo, saremo fortemente tentati di credere che non esista premio all'innocenza: infatti quasi sempre l'empietà prospera e fiorisce, mentre i buoni sono oppressi dall'ignominia, dalla povertà, dal disprezzo e da altre calamità!: "È: mancato poco "egli dice "che il mio piede scivolasse, che io inciampassi, vedendo il successo degli stolti e la prosperità dei malvagi ", e poi conclude: "Cercavo di comprendere queste cose ma nel mio spirito vi era perplessità, fino a che sono entrato nel santuario del Signore e ho visto la loro fine " (Sl. 73.2-3.17).

17. Da questa sola dichiarazione di Davide si può dedurre che i santi padri dell'antico Patto non hanno ignorato quanto raramente Dio realizzi in questo mondo le promesse fatte ai suoi servitori, o non le realizzi affatto; e per questo motivo hanno innalzato il loro cuore al santuario di Dio dove trovavano nascosto quanto non appariva evidente in questa vita corruttibile. Questo "santuario "era il giudizio ultimo, che aspettiamo, ed essi erano lieti di conoscerlo per fede, anche se non erano in grado di percepirlo con gli occhi. Animati da questa fiducia, qualunque cosa avvenisse nel mondo, non avevano alcun dubbio che sarebbe venuto il giorno in cui le promesse di Dio si sarebbero adempiute. Queste dichiarazioni lo dimostrano: "Contemplerò il tuo volto nella giustizia, sarò saziato dal tuo sembiante " (Sl. 17.15) : "Sarò come un olivo verde nella casa del Signore " (Sl. 52.10) : "Il giusto fiorirà come la palma, verdeggerà come il cedro del Libano. Quelli che saranno piantati nella casa del Signore, fioriranno nelle sue porte; porteranno frutto, verdeggeranno nella vecchiaia e saranno pieni di vigore " (Sl. 92.13-15)

Poco prima aveva detto: "O Signore, come sono profondi i tuoi pensieri! Quando gli iniqui fioriscono, germogliano come l'erba per poi perire per sempre " (Sl. 92.6-8). Dove si trova questa bellezza e questo vigore dei credenti se non quando la manifestazione del regno di Dio avrà sostituito questo mondo fugace? Quando contemplavano l'eternità, e tenendo in poco conto l'amarezza delle calamità presenti, che vedevano essere transitorie, traevano ardire da queste parole: "Tu non permetterai o Signore che il giusto perisca per sempre; ma sprofonderai l'iniquo nel pozzo della rovina " (Sl. 55.23-24). Dov'è pero in questo mondo il pozzo della rovina per inghiottire gli iniqui? In un altro passo è detto che essi muoiono di colpo, senza languire a lungo (Gb. 21.23). Dov'è la fermezza dei santi, che Davide stesso lamenta essere scossi e completamente abbattuti? Egli aveva dunque dinanzi agli occhi non la situazione di incertezza di questo mondo, che è come un mare agitato da molte tempeste: ma il frutto dell'opera del Signore, quando seduto in giudizio stabilirà l'ordine permanente del cielo e della terra. È detto molto bene in un altro passo: "Gli stolti si fidano della propria abbondanza e si inorgogliscono delle proprie ricchezze; e tuttavia nessuno, per grande che sia, potrà liberare dalla morte il proprio fratello né pagare a Dio il prezzo della propria redenzione " (Sl. 49.7-8). Sebbene vedano i saggi e gli stolti morire e lasciare ad altri le proprie ricchezze, immaginano di avere qui la propria dimora perpetua e cercano di acquistare fama e considerazione sulla terra. Ma l'uomo non sarà onorato, rassomiglierà piuttosto agli animali che periscono.

Questo loro pensiero è una grande follia: eppure molti lo condividono. Saranno raccolti nell'inferno come un gregge di pecore e la morte dominerà su loro. All'alba i giusti avranno il dominio su loro, la loro gloria sarà distrutta, il sepolcro sarà la loro abitazione.

Deridendo gli stolti perché si compiacciono e si confidano nei beni del mondo, che sono transitori, Davide dimostra che i saggi devono cercare una beatitudine ben diversa. Ancor più chiaramente esprime il mistero della resurrezione quando stabilisce il regno dei credenti, predicendo la rovina e la desolazione degli iniqui. L'alba del giorno, di cui parla, vuol indicare appunto una rivelazione della nuova vita, dopo la fine di quella presente.

18. I credenti di quel tempo erano soliti consolarsi e incoraggiarsi alla pazienza con il pensiero che l'ira di Dio non dura che un minuto mentre la sua misericordia dura per tutta la vita (Sl. 30.6). Quando mai vedevano sparire le proprie afflizioni in un minuto se invece erano afflitti per tutta la vita? Dove constatavano una tale durata della bontà di Dio, quando a malapena potevano assaggiarla? Sulla terra certamente non potevano trovare tutto questo, ma quando innalzavano i propri occhi al cielo si rendevano conto che le tribolazioni sopportate dai santi non sono che un soffio di vento mentre le grazie che riceveranno sono eterne. D'altra parte potevano prevedere che la rovina degli iniqui non avrebbe fine.

 Donde, se non da questa coscienza, traggono origine queste affermazioni ripetute: "La memoria del giusto sarà in benedizione, la memoria degli iniqui perirà ", (Pr 10.7) : "La morte dei santi e preziosa agli occhi dell'Eterno, la morte del peccatore gli è in abominio " (Sl. 116.15; 34.22) : "Il Signore proteggerà i passi dei santi; gli iniqui saranno precipitati nelle tenebre " (1 Re 2.9). Tutte queste parole dimostrano che i padri dell'antico Patto hanno saputo chiaramente che, per quanto numerosi siano i mali che i credenti debbono sopportare in questo mondo, raggiungeranno tuttavia alla fine vita e salvezza; e d'altra parte la felicità degli iniqui è una via bella è piacevole che conduce alla rovina. Per questo motivo definiscono la morte degli increduli: rovina degli incirconcisi (Ez. 28.10.31) volendo intendere che erano privati della speranza della risurrezione.

Di conseguenza la peggior maledizione che Davide ha potuto concepire contro i suoi nemici è stato di pregare che fossero cancellati dal libro della vita e non fossero iscritti come giusti (Sl. 69.29).

19. Fra tutte emerge questa dichiarazione di Giobbe: "Io so che il mio redentore vive, che nell'ultimo giorno risusciterò dalla terra e lo vedrò con il mio corpo. Questa speranza è nascosta nel mio cuore " (Gb. 19.25-27).

Coloro, che intendono mostrare il proprio acume, argomentano che queste espressioni non si debbono intendere riferite all'ultima risurrezione ma ad un tempo in cui il Signore sarebbe stato più favorevole e più premuroso secondo quanto Giobbe sperava. Quand'anche si accettasse tale interpretazione, almeno parzialmente, rimane tuttavia il fatto che, lo si voglia o no, Giobbe non sarebbe giunto a sì alta speranza se fosse stato unicamente fondato su realtà terrestri. Dobbiamo dunque riconoscere che egli alzava gli occhi all'immortalità futura, dato che si sentiva come nella tomba e attendeva il suo redentore. La morte infatti costituisce l'estrema disperazione per quanti pensano solo alla vita presente; e tuttavia essa non può sottrargli la sua speranza. "Anche se mi uccidesse "egli diceva "non cesserei di sperare in lui " (Gb. 13.15).

Se qualche ostinato sostiene che pochi sono in grado di condividere queste dichiarazioni, e di conseguenza non se ne può dedurre che siano state generalmente accettate da tutti gli Ebrei, risponderò subito che questo piccolo gruppo non ha voluto esporre con queste parole una qualche sapienza occulta, tale da essere compresa sola dagli spiriti raffinati; chi ha così parlato era stato costituito dottore del popolo dallo Spirito Santo. Di conseguenza, secondo le proprie funzioni, ha pubblicamente esposto la dottrina che doveva essere accettata da tutto il popolo.

Quando dunque ascoltiamo parole così evidenti dello Spirito Santo, con cui esso ha anticamente testimoniato presso i Giudei della vita spirituale e ne ha dato una speranza indubitabile, sarebbe assurdo voler concedere a questo popolo esclusivamente un'alleanza carnale, concernente solamente la terra e la felicità terrena.

20. Passando ai profeti che sono venuti dopo, troverò materia ancor più ampia ed esplicita per ribadire la mia tesi. Se la dimostrazione non è stata difficile con Davide, Giobbe e Samuele, essa sarà ancora più facile ora. Il Signore stesso ha voluto seguire questo ordine, dispensando l'alleanza della sua misericordia, ed ha voluto aumentare la chiarezza della sua dottrina man mano che il giorno della piena rivelazione si avvicinava. Per questo motivo quando al principio la prima promessa fu data ad Adamo, furono accese solo delle piccole scintille. Poi poco per volta la luce è cresciuta ed aumenta di giorno in giorno fino a quando il Signore Gesù Cristo, che è il sole di giustizia che dissolve le nubi, ha illuminato perfettamente il mondo. Se vogliamo valerci delle testimonianze dei profeti per confermare la nostra dottrina, non dobbiamo temere che ci manchino!

Questa materia è così ampia che dovremmo soffermarci più di quanto possiamo fare in questa sede, ci sarebbe di che riempire un grosso volume; penso inoltre di aver condotto tutti i lettori di media comprensione all'intelligenza del problema in modo che siano in grado di comprenderlo da soli. Eviterò dunque di mostrarmi prolisso, dato che non è il caso.

Invito però i lettori ad adoperare la chiave interpretativa che ho loro fornito, per trovare la soluzione del problema: ogniqualvolta i profeti menzionano la beatitudine dei credenti, di cui appare a malapena un barlume in questo mondo, occorre rifarsi a questa distinzione: i profeti, per meglio illustrare la bontà di Dio, l'hanno rappresentata mediante l'immagine dei suoi doni terreni; con questa immagine però hanno voluto innalzare i cuori al di sopra della terra, al di sopra degli elementi di questo mondo e di questo secolo corruttibile, per indurli a meditare la felicità della vita spirituale.

21. Ci limiteremo ad un esempio. Il popolo d'Israele, deportato a Babilonia, considerava il proprio esilio e la propria desolazione simili ad una morte e non poteva credere che tutte le profezie di Ez.chiele, relative alla restaurazione, non fossero altro che favole e menzogne. Il Signore, per provare che questa situazione non avrebbe impedito la realizzazione in loro della sua grazia, mostra in visione al profeta un campo pieno di ossa alle quali rende lo spirito e la vita in modo istantaneo, con la sola forza della sua parola (Ez. 37.4). Questa visione aveva bensì lo scopo di correggere l'incredulità del popolo, ma contemporaneamente essa mirava a renderlo attento al fatto che la potenza di Dio è tale da agire oltre la semplice restaurazione promessa; egli infatti, con una sola parola, poteva dare facilmente la vita ad ossami dispersi.

Dobbiamo accostare questo pensiero ad un'altro simile contenuto in Isaia, laddove è detto che i morti vivranno e risusciteranno con i loro corpi. Poi è rivolta questa esortazione: "Svegliatevi e levatevi in piedi, voi che abitate la polvere! La vostra rugiada è come la rugiada d'un campo verde, e la terra dei giganti sarà desolata. Va, o mio popolo, entra nei tuoi tabernacoli e chiudi la porta dietro a te. Nasconditi per un po' di tempo fino a quando il furore sia passato. Ecco il Signore uscirà fuori per visitare l'iniquità degli abitanti della terra; e la terra metterà allo scoperto il sangue che ha ricevuto e non nasconderà più i morti che vi sono stati seppelliti " (Is. 26.19).

22. Non voglio dire che si debbano ricondurre tutti i passi a questo schema. Ve ne sono alcuni che, senza simboli e esitazioni, affermano l'immortalità futura preparata per i credenti nel regno di Dio; ne abbiamo già menzionati alcuni. Ve ne sono altri e ne ricordo specialmente due. Uno in Isaia dove è detto: "Come i nuovi cieli e la nuova terra che ho creato sussisteranno stabili davanti a me, così sarà della vostra progenie. Un mese seguirà l'altro, un sabato seguirà ininterrottamente l'altro sabato. Ogni carne verrà a prostarsi dinanzi a me, dice il Signore. E i corpi di coloro che mi hanno disprezzato saranno messi alla gogna. Il loro verme non morirà e il loro fuoco non si estinguerà " (Is. 66.22-24).

L'altro è in Daniele: "In quel tempo "egli dice "l'arcangelo Michele che è incaricato di proteggere i figli di Dio, si leverà: e verrà un tempo di distretta, quale non c'era mai stato dalla creazione del mondo. Allora sarà salvato il popolo che è scritto nel libro. E quelli che riposano nella terra si leveranno, gli uni a vita eterna, gli altri a eterno obbrobrio " (Da 12.1-2).

23. Non consacrerò molto tempo a trattare i due altri punti, vale a dire che i padri antichi hanno avuto Cristo quale pegno e garanzia delle promesse loro fatte da Dio, e che hanno posto in lui la speranza di ogni benedizione. Sono facili a capire e non sollevano molte controversie.

Affermiamo dunque che l'antico patto, ovvero l'alleanza di Dio con il popolo d'Israele, non si limitava alle cose terrene ma includeva anche promesse di vita spirituale ed eterna, la cui speranza doveva essere impressa nel cuore di tutti quelli che erano congiunti veramente con questo patto. Questa conclusione non può essere distrutta da nessuna macchinazione del Diavolo.

Abbandoniamo dunque l'assurda e perniciosa opinione secondo cui Dio non avrebbe proposto altro ai Giudei, ed essi non avrebbero aspettato altro da lui, che di nutrire i loro ventri, di mantenerli nelle delizie carnali, nell'abbondante ricchezza, di esaltarli e glorificarli, dar loro lunga discendenza e altre cose del genere, quali sono desiderate dagli uomini terreni. Gesù Cristo oggi non promette ai suoi credenti un regno dei cieli diverso da quello in cui riposeranno con Abramo, Is.cco e Giacobbe (Mt. 8.2). San Pietro ricordava agli Ebrei del suo tempo che erano eredi della grazia evangelica in quanto successori dei profeti, inclusi nel patto fatto da Dio anticamente con Israele (At. 3.25).

E perché questo non fosse espresso solo con le parole, il Signore lo ha confermato con i fatti. Nel momento della sua risurrezione ne ha reso partecipi molti santi, che furono visti in Gerusalemme (Mt. 27.52). Con questo ha dato una sicura garanzia che quanto aveva fatto e sofferto per procurare la salvezza al genere umano concerneva i credenti dell'antico patto quanto noi. E infatti avevano lo stesso spirito che noi abbiamo, per mezzo del quale Dio rigenera i suoi in vista della vita eterna (At. 15.8). Se dunque vediamo abitare in loro quello spirito di Dio, che è per noi semenza di immortalità ed è chiamato pegno della nostra eredità, come oseremmo negare loro l'eredità della vita?

Un uomo saggio si meraviglierà che i Sadducei siano caduti nell'errore di negare l'immortalità delle anime e la resurrezione, dato che l'una e l'altra sono così chiaramente affermate nella Scrittura, l'ignoranza crassa che vediamo oggi tra gli Ebrei, i quali aspettano pazzamente un regno terrestre di Cristo, non deve meravigliarci meno; non fosse che questa punizione è stata prevista, perché hanno sprezzato Gesù Cristo e il suo Evangelo. Era giusto che Dio li colpisse con questo accecamento dato che hanno preferito le tenebre e hanno spento la luce che era loro offerta. Leggono Mosè e assiduamente meditano quello che ha scritto, ma un velo impedisce loro di contemplare la luce del suo volto (2 Co. 3.14-15). Esso rimarrà quindi coperto e nascosto fin quando non avranno imparato a volgersi a Cristo, dal quale ora si sforzano invece di allontanarsi.

 

 

CAPITOLO XI

DIFFERENZA TRA L'ANTICO ED IL NUOVO TESTAMENTO

 

1. Qualcuno dirà: Non c'è dunque nessuna differenza tra l'Antico ed il Nuovo Testamento? Che dire dei molti passi della Scrittura che li contrappongono come realtà molto diverse?

Accetto volentieri tutte le differenze che si trovano menzionate nella Scrittura, purché non deroghino dall'unità che vi abbiamo già riscontrato, come sarà facile vedere quando le esamineremo ordinatamente.

Dall'esame diligente della Scrittura ne ho potuto notare quattro, ma non faccio obiezioni se qualcuno volesse aggiungerne una quinta. Non esito ad affermare che esse si riferiscono non alla sostanza ma al diverso modo seguito da Dio nel dispensare il suo insegnamento. Nulla impedisce quindi che le promesse dell'Antico e del Nuovo Testamento rimangano le stesse e che Cristo sia considerato il fondamento unico delle une e delle altre.

La prima differenza è questa: sebbene Dio abbia sempre voluto volgere la mente del suo popolo alla celeste eredità, tuttavia, per meglio mantenere viva la speranza delle cose invisibili, le faceva contemplare attraverso i suoi doni terreni quasi a darne un assaggio. Ora che ha rivelato più chiaramente nell'Evangelo la grazia della vita futura, guida e conduce direttamente le nostre menti a meditarla senza ricorrere, come nel caso degli Ebrei, a strumenti pedagogici inferiori.

Chi non pone mente a questa intenzionalità divina, crede che l'antico popolo non sia mai andato oltre una speranza relativa al benessere corporale. Constatano che la terra di Canaan è spesso considerata il supremo premio per compensare chi obbedisce alla legge di Dio, e d'altra parte la più grave minaccia di Dio agli Ebrei è di cacciarli dalla terra, che aveva loro dato e disperderli tra i popoli stranieri. Constatano anche che le benedizioni e le maledizioni di Mosè si riferiscono quasi sempre a questa realtà. Ne deducono, senza esitazioni, che Dio aveva messo a parte gli Ebrei rispetto agli altri popoli non per loro vantaggio ma per il nostro affinché la Chiesa cristiana avesse un'immagine Ma questo è semplicistico ed anzi sciocco: ricordiamo che secondo la Scrittura Dio con tutte le promesse terrene voleva condurli come per mano alla speranza delle grazie celesti.

Questo è il punto che deve essere discusso con costoro: affermano che la terra di Canaan, dal popolo di Israele considerata sommo dono, ha per noi unicamente il valore di un simbolo della celeste eredità. Affermiamo invece che in questo possesso terreno, di cui godeva, anche il popolo eletto ebraico ha contemplato l'eredità futura preparatagli in cielo.

2. Questo è chiarito dal paragone esposto da san Paolo nella lettera ai Galati. Paragona il popolo ebraico ad un erede che è ancora fanciullo ed essendo incapace di governarsi è guidato da un tutore o da un pedagogo (Ga 4.1). È vero che si parla qui specialmente dei riti: ma questo non impedisce di applicare l'affermazione alla nostra questione. Vediamo dunque che è loro stata assegnata la stessa eredità che a noi, ma che non sono stati in grado di goderne pienamente. Vi fu tra loro la stessa Chiesa che vi è tra noi: ma essa era in età infantile.

 Il Signore li ha dunque guidati con questo sistema pedagogico: non presentare chiaramente le promesse spirituali, ma offrirne una qualche immagine e un simbolo per mezzo delle promesse terrene. Volendo accogliere Abramo, Is.cco e Giacobbe e tutta la loro stirpe nella speranza dell'immortalità, prometteva loro in eredità la terra di Canaan: non perché l'animo loro vi si attaccasse ma perché contemplandola fossero confermati nella certa speranza della autentica eredità ancora nascosta. E perché non si sbagliassero, aggiungeva anche una promessa più alta, per mostrar loro che non era questo il dono supremo e ultimo che voleva elargire.

Così Abramo, ricevendo questa promessa del possesso della terra di Canaan, non si ferma a ciò che vede ma è guidato verso l'alto dalla promessa che l'accompagna, vale a dire: "Abramo, io sono il tuo protettore e colui che ti premia generosamente " (Ge 15.1). Il coronamento della sua ricompensa è situato in Dio, onde non si aspetti una ricompensa provvisoria in questo mondo, bensì una incorruttibile in cielo, e il possesso della terra di Canaan gli è promesso quale segno della benevolenza di Dio e immagine dell'eredità celeste.

Le dichiarazione dei credenti dimostrano che essi hanno condiviso questa convinzione. Davide era spinto dalle benedizioni temporali di Dio a riflettere alla sua grazia sovrana e diceva: "Il mio cuore ed il mio corpo languiscono per il desiderio di vederti, o Signore. Il Signore è la mia eredità perenne " (Sl. 84.3) : "Il Signore è la mia parte di eredità e tutto il mio bene " (Sl. 16.55) : "Ho gridato al Signore dicendo: Sei la mia speranza e la mia eredità nella terra dei viventi " (Sl. 142.6). Chi osa parlare in questo modo, dimostra di guardare oltre questo mondo e tutte le cose presenti.

Anche i profeti descrivono frequentemente la felicità del secolo futuro ricorrendo a immagini e simboli tratti dalle realtà ricevute da Dio. In questo senso dobbiamo intendere le frasi in cui si dice che i giusti possederanno la terra in eredità e gli iniqui ne saranno sterminati (Sl. 37.9; Gb. 18.17; Pr 2.21-22) , Gerusalemme sarà arricchita di beni e Sion sarà sovrabbondante (vari passi di Isaia). Ovviamente questo non si riferisce alla vita mortale, che è come un pellegrinaggio, né alla città terrena di Gerusalemme; ma si riferisce più propriamente alla vera patria dei credenti, alla città celeste, in cui Dio ha preparato benedizione e vita imperitura (Sl. 133.3).

3. Per questa ragione i santi nell'Antico Testamento hanno valutato questa vita mortale più di quanto dobbiamo fare noi oggi. Pur essendo consci di non doverla considerare fine ultimo, tuttavia, sapendo che Dio raffigurava in essa la sua grazia per confermarli nella speranza, nonostante le loro indegnità, vi ponevano un interesse maggiore che se l'avessero considerata soltanto in se stessa. Come il Signore, mostrando il suo amore per i credenti, presentava loro con doni terreni la beatitudine spirituale cui dovevano tendere, così inversamente le pene corporali che impartiva ai malfattori erano segni del suo futuro giudizio contro i reprobi. Come i doni di Dio risultavano allora più evidenti nelle cose temporali, così lo erano le punizioni.

 Gli ignoranti non considerando l'analogia intercorrente tra le pene e i doni di quel tempo si stupiscono che vi sia stato un tale cambiamento di atteggiamento da parte di Dio: nel passato si dimostrava pronto a punire rigorosamente gli uomini non appena l'avessero offeso, mentre invece ora punisce più debolmente e meno frequentemente, come se avesse calmato la propria collera. E poco manca che immaginino divinità diverse nell'Antico e nel Nuovo Testamento, come appunto hanno fatto i Manichei.

Sarà facile districarci da tutte queste incertezze tenendo presente la dispensazione effettuata da Dio che abbiamo già notato: nel periodo in cui ha presentato al popolo d'Israele il patto parzialmente velato, intendeva rappresentare per mezzo dei doni terreni la felicità eterna promessa e per mezzo delle pene corporali l'orribile condanna incombente sugli iniqui.

4. La seconda differenza tra l'Antico ed il Nuovo Testamento è da cercare nelle immagini: l'Antico Testamento rappresentava la verità, ancora assente, mediante immagini; invece del corpo, aveva l'ombra. Il Nuovo invece contiene la verità e la sostanza. A questa differenza devono essere riferiti tutti i passi in cui l'Antico Testamento viene contrapposto al Nuovo.

Questo è trattato nel modo più esauriente nella epistola agli Ebrei. L'Apostolo vi polemizza contro chi riteneva che abolendo i riti di Mosè sarebbe crollata ogni religione. Per refutare questo errore, menziona in primo luogo quanto il Profeta aveva detto riguardo al sacrificio di Gesù Cristo. Se il Padre l'ha costituito eterno sacerdote ciò significa che senza dubbio è abolito il sacerdozio levitico che si tramandava da una persona all'altra. Che questo nuovo sacerdozio sia superiore all'altro è dimostrato dal fatto che è stabilito con un giuramento. Successivamente aggiunge che con questo trasferimento del sacerdozio, vi è stato anche trasferimento di patto. Insiste anzi che questo era necessario, data la impotenza della Legge a condurre alla perfezione. In seguito illustra queste limitazioni: si trattava di giustizie esterne che non potevano rendere perfetti secondo coscienza quanti le osservavano, dato che il sangue degli animali bruti non può cancellare i peccati, né produrre vera santità. Ne conclude quindi che nella Legge vi era l'ombra dei beni futuri, non la loro presenza viva che ci è data nell'Evangelo (Sl. 110.4; Eb. 7.11-19; 9.9; 10.1).

Dobbiamo considerare in che modo egli contrappone il patto della Legge e il patto dell'Evangelo, il ministero di Mosè e quello di Cristo. Se questa contrapposizione si riferisse alla sostanza delle promesse, vi sarebbe una grande divergenza tra i due Testamenti. Ma vediamo che l'Apostolo ha un altro fine e dobbiamo cogliere la sua intenzione per giungere alla verità.

Il fatto centrale da considerare è dunque il patto di Dio, fatto una volta per tutte per durare in eterno. Il suggello, per il quale è ratificato e confermato, è Gesù Cristo. Quando bisognava aspettarlo, il Signore ha prescritto, per bocca di Mosè, dei riti che ne fossero segni simbolici. La controversia verteva su questo punto: se le cerimonie prescritte dalla Legge dovessero cessare per lasciare il posto a Gesù Cristo.

Sebbene esse non siano che accidenti o accessori dell'Antico Testamento, tuttavia erano strumenti con cui Dio manteneva il popolo nella dottrina di questo Testamento e di conseguenza ne portano il nome; così come la Scrittura usa attribuire ai sacramenti il nome di quello che rappresentano. Ecco perché qui è definita "Antico Testamento "la maniera solenne in cui il patto del Signore era ribadito agli Ebrei per mezzo di sacrifici ed altre cerimonie.

 In queste cerimonie non vi è nulla di sicuro e di definitivo, occorre andare oltre, di conseguenza l'Apostolo sostiene che esse dovevano prendere fine ed essere abrogate per essere sostituite da Gesù Cristo, che è garante e mediatore di un patto migliore (Eb. 7.22); il quale ha procurato agli eletti, una volta per tutte, una eterna santificazione e ha abolito le trasgressioni che permanevano nell'Antico Testamento.

Se qualcuno preferisce, possiamo arrischiare una definizione: l'Antico Testamento è stata la dottrina data da Dio al popolo giudaico, espressa nell'osservanza di cerimonie prive di efficacia e di durevolezza. Perciò è stato limitato nel tempo, essendo provvisorio, in attesa di essere garantito dal proprio adempimento e confermato nella propria sostanza; ma è stato fatto nuovo ed eterno allorché è stato consacrato e stabilito dal sangue di Cristo.

Per questo motivo Cristo definisce il calice che offriva ai discepoli durante la Cena: "calice del nuovo patto " (Mt. 26.28) , per significare che quando il patto di Dio era suggellato dal suo sangue, la verità era adempiuta e così il Patto era rinnovato e reso eterno.

5. Siamo così in grado di comprendere in che senso san Paolo dica che gli Ebrei sono stati condotti a Cristo dalla pedagogia della Legge, prima che egli fosse manifestato nella carne (Ga 3.24; 4.1). Riconosce che sono stati figli ed eredi di Dio: ma essendo ancora nell'infanzia erano affidati ad un pedagogo. Prima che il sole di giustizia sorgesse, non poteva logicamente esservi chiarezza di rivelazione né di intelligenza. Il Signore ha dunque dato loro la luce della sua Parola in modo che la vedessero solo da lontano e in modo oscuro.

San Paolo per esprimere questa limitatezza della comprensione ha adoperato il termine "pedagogia "dicendo che il Signore, in quell'epoca, ha voluto istruirli per mezzo delle cerimonie come di strumenti adatti all'età infantile, fino a quando la manifestazione di Cristo accrescesse la loro conoscenza e li maturasse, per farli uscire dall'infanzia.

Gesù Cristo stesso ha posto questa distinzione affermando che la Legge ed i Profeti sono stati in vigore fino a Giovanni Battista (Mt. 11.13); e successivamente il regno di Dio è stato manifestato. Cos'hanno insegnato Mosè ed i profeti, nel loro tempo? Hanno fatto gustare parzialmente il sapore della sapienza che doveva un giorno essere rivelata e l'hanno indicata da lontano. Ma il regno di Dio è rivelato quando Gesù Cristo può essere mostrato a dito. In lui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza (Cl. 2.3) per farci salire quasi al punto più alto del cielo.

6. Questo non è contraddetto dal fatto che difficilmente si troverebbe qualcuno degno di essere paragonato ad Abramo nella Chiesa cristiana riguardo a fermezza di fede: o dal fatto che i profeti hanno avuto una intelligenza spirituale tale da poter illuminare ancor oggi gli altri. Noi non stiamo ora considerando le grazie conferite ad alcuni dal Signore, ma la regola generale a cui si è attenuto allora. Essa manifesta anche nell'insegnamento dei profeti, che pure avevano ricevuto dei privilegi speciali in confronto agli altri. Infatti la loro predicazione è oscura, come sfocata, ed è espressa in immagini.

 Inoltre, nonostante le rivelazioni ricevute, erano anch'essi compresi nel numero dei fanciulli, perché era necessario che anch'essi fossero sottomessi alla pedagogia comune a tutto il popolo. La conoscenza di quei tempi, per quanto viva fosse, risentiva in qualche modo l'oscurità di quel tempo di preparazione. Per questo motivo Gesù Cristo diceva: "Molti re e profeti hanno desiderato vedere le cose che voi vedete, senza poterle vedere; di udire le cose che udite, senza poterle udire. Beati i vostri occhi che le vedono e le vostre orecchie che le odono " (Mt. 13.17; Lu 10.24). La presenza di Gesù Cristo ha avuto la prerogativa di portare nel mondo una intelligenza più ampia che nel passato dei misteri celesti. A questo si riferisce anche la citazione già ricordata della prima epistola di san Pietro (1 Pi. 1.6.10-12) : è stato loro comunicato che la loro fatica era fruttuosa essenzialmente in vista del nostro tempo.

7. Veniamo adesso alla terza differenza che deduciamo dalle parole di Geremia: "Ecco il giorno viene "dice il Signore "che farò un nuovo patto con la casa d'Israele e con la casa di Giuda; non come quello che ho fatto con i vostri padri, quando li presi per mano per trarli fuori dalla terra d'Egitto; patto che essi violarono e distrussero benché io fossi il Signore. Ma questo sarà il patto che farò con la casa d'Israele: Scriverò la mia Legge nel loro intimo e la scolpirò nei loro cuori e sarò disposto a rimettere le loro offese. E non insegneranno più al proprio compagno, perché tutti mi conosceranno, dal più grande al più piccolo " (Gr. 31.31).

San Paolo ha preso lo spunto da questo passo per operare il paragone tra la Legge e l'Evangelo; definisce la Legge: dottrina letterale, predicazione di morte e di condanna scritta su tavole di pietra; l'Evangelo invece dottrina spirituale di vita e di giustizia scolpita nei cuori; afferma inoltre che la Legge deve essere abolita e che l'Evangelo permane (2 Co. 3.6).

Essendo intenzione di san Paolo commentare le parole del Profeta, basterà esaminare le affermazioni dell'uno per comprenderli ambedue, sebbene differiscano un poco l'uno dall'altro. L'Apostolo infatti considera la Legge più severamente del Profeta.

E questo non semplicemente perché consideri la natura di essa, ma perché alcuni confusionari, impegnandosi con zelo inopportuno nell'osservanza delle cerimonie si sforzano di oscurare la luce dell'Evangelo, egli è costretto a polemizzare con i loro folli errori. Bisogna dunque tener presente questa particolarità nel caso dell'Apostolo.

Per quanto riguarda la contrapposizione dell'Antico al Nuovo Testamento, comune anche a Geremia, essi considerano nella Legge solo quanto le è specifico. Esempio: la Legge contiene qua e là le promesse della misericordia di Dio; ma dato che esse hanno altrove la loro origine, non sono da prendere in considerazione quando si esamini la natura della Legge. Essi le attribuiscono solo il compito di fissare quanto è buono e giusto, proibire ogni malvagità, promettere remunerazione a chi osservi la giustizia, minacciare i peccatori della vendetta di Dio: senza che essa possa cambiare o correggere la malvagità presente nella natura di ogni uomo.

8. Esaminiamo ora punto per punto il paragone proposto dall'Apostolo. L'Antico Testamento, egli dice, è "letterale perché è stato promulgato senza l'efficacia dello Spirito Santo; il Nuovo è "spirituale "perché il Signore lo ha scolpito nel cuore dei suoi. La seconda contrapposizione ha dunque il fine di spiegare la prima: cioè che l'Antico Testamento è mortale perché non può che includere nella maledizione tutto il genere umano mentre il Nuovo è strumento di vita perché liberandoci dalla maledizione ci affida alla grazia di Dio.

Allo stesso fine tende la successiva asserzione: il primo costituisce un "ministero di condanna "perché rivela tutti i figli di Adamo essere colpevoli di iniquità; il secondo è "un ministero di giustizia "perché ci rivela la misericordia di Dio, per la quale siamo giustificati. Il secondo elemento deve essere riferito alle cerimonie, che essendo immagini di cose assenti dovevano dileguarsi con il tempo; mentre la realtà dell'Evangelo permane in eterno perché contiene la sostanza.

Anche Geremia definisce la Legge morale un patto debole e fragile, ma per un altro motivo: perché essa è stata rotta e spezzata dall'ingratitudine del popolo. Ma questa violazione trae la sua origine da un vizio esterno e non può essere attribuita alla Legge stessa. Inoltre, dato che le cerimonie sono state abrogate alla venuta di Cristo per la loro debolezza, esse contenevano in se la causa dell'abrogazione.

La differenza tra lettera e Spirito non deve essere intesa nel senso che il Signore abbia dato, nel passato, la Legge agli Ebrei senza alcun frutto né utilità, senza convertire nessuno a se; ma deve questo paragone servire a magnificare maggiormente l'abbondanza della grazia; di cui lo stesso Legislatore ha voluto arricchire la predicazione dell'Evangelo, quasi fosse divenuto un'altro, per onorare il regno del suo Cristo. Se consideriamo la moltitudine che ha raccolto da molte nazioni attraverso la predicazione dell'Evangelo e ha rigenerato con il suo Spirito, vediamo che il numero di coloro che avevano allora ricevuto con autentica convinzione interiore la dottrina della Legge era davvero esiguo: per quanto, i veri credenti siano stati molti, se si guarda al popolo d'Israele senza fare il paragone con la Chiesa cristiana.

9. La quarta differenza è una conseguenza della terza. La Scrittura definisce l'Antico Testamento un "patto di servitù ", perché genera timore e terrore nel cuore degli uomini; il Nuovo, "patto di libertà "perché li conferma nella sicurezza e nella fiducia.

In questo modo si esprime san Paolo nell'epistola ai Romani: "Non avete ricevuto di nuovo lo spirito di servitù per ricadere nella paura, ma lo spirito di adozione, per il quale gridiamo: Abbà, Padre! " (Ro 8.15). Lo stesso vuole significare l'autore dell'epistola agli Ebrei allorché dice che i credenti non sono venuti come il popolo d'Israele al monte visibile del Sinai dove si vede fuoco, tuono, tempesta, lampi (e tanto spaventevole e impressionante era lo spettacolo che Mosè stesso ne fu spaventato) e Dio non parla più a loro con voce terribile, come faceva allora: "ma sono venuti alla montagna celeste di Sion e a Gerusalemme, città dell'Iddio vivente, per essere in compagnia degli angeli " (Eb. 12.18).

Questa affermazione appena accennata nell'epistola ai Romani, viene sviluppata più ampiamente nell'epistola ai Galati, dove san Paolo utilizza la vicenda dei due figli di Abramo in forma allegorica: Agar la serva è simbolo del monte Sinai dove il popolo d'Israele ha ricevuto la Legge; Sara, la moglie è simbolo di Gerusalemme, da cui procede l'Evangelo. Mentre la discendenza di Agar è schiava e non può raccogliere l'eredità, la discendenza di Sara è libera e avrà l'eredità. La Legge dunque non può che generare servitù in noi e solo l'Evangelo ci rigenera nella libertà (Ga 4.22, ).

 Riassumendo: l'Antico Testamento ha avuto il compito di atterrire le coscienze mentre il Nuovo porta gioia e letizia; il primo ha tenuto le coscienze vincolate e sotto il giogo della servitù, il secondo le libera e le affranca nella libertà.

Se si obbietta che i padri dell'Antico Testamento, avendo il nostro stesso spirito di fede, erano partecipi della stessa libertà gioiosa, risponderò che non l'hanno avuta grazie alla Legge: ma piuttosto perché, vedendosi tenuti prigionieri da essa con la coscienza confusa, hanno fatto ricorso all'Evangelo. Ne risulta che sono stati liberi da questa miseria solo per merito speciale del Nuovo Testamento.

Contesto inoltre che essi abbiano avuto tanta libertà e sicurezza da non sentire il timore e la servitù della Legge; sebbene gioissero del privilegio ottenuto dall'Evangelo, erano tuttavia soggetti, come tutti gli altri, ai vincoli, ai pesi ed ai legami allora validi. Se dunque erano costretti ad osservare i riti, che erano strumenti di quella pedagogia che san Paolo considera simile alla servitù, vale a dire atti di condanna con cui si riconoscevano colpevoli davanti a Dio senza liberarsi dei propri debiti, a buon diritto devono essere definiti, in confronto a noi, sotto il Patto di servitù, considerando la linea di condotta tenuta allora dal Signore verso il popolo d'Israele.

10. I tre ultimi confronti che abbiamo fatti sono tra la Legge e l'Evangelo. In essi dunque sotto il nome di Antico Testamento dobbiamo intendere la Legge, così per Nuovo Testamento dobbiamo intendere l'Evangelo. Il primo confronto invece aveva una portata più vasta perché comprendeva anche la situazione dei padri antichi che vissero prima della Legge.

Sant'Agostino ha ragione di negare che le promesse di quel tempo siano da intendersi come parte dell'Antico Testamento 6. Egli intendeva dire esattamente ciò che noi insegniamo: egli teneva presenti i passi di Geremia e di san Paolo che abbiamo citato, nei quali l'Antico Testamento è contrapposto alla dottrina di grazia e di misericordia. Giustamente egli aggiunge anche che tutti i credenti rigenerati da Dio dal principio del mondo e che hanno seguito la sua volontà con fede e carità, appartengono al Nuovo Testamento e non hanno radicato la loro speranza in beni carnali, terreni e temporali, ma in quelli spirituali, celesti ed eterni. Hanno creduto nel mediatore e perciò non dubitavano che lo Spirito Santo fosse stato dato loro per vivere rettamente e che avrebbero ottenuto il perdono ogni volta che avessero peccato.

È quanto ho voluto sostenere: tutti i santi di cui leggiamo nella Scrittura che sono stati eletti fin dalla fondazione del mondo, sono stati partecipi con noi delle stesse benedizioni in vista della vita eterna. Tra la mia posizione e quella di sant'Agostino vi è una sola differenza: ho fatto la distinzione tra la luce dell'Evangelo e l'oscurità che la precedeva, attenendomi alla asserzione di Cristo, secondo cui la Legge ed i Profeti hanno operato fino a Giovanni Battista e successivamente il Regno di Dio ha incominciato ad essere predicato (Mt. 11.13). Agostino si è accontentato di distinguere tra la debolezza della Legge e la stabilità dell'Evangelo.

Bisogna anche notare che gli antichi padri hanno vissuto sotto l'Antico Testamento senza però ridursi nei suoi limiti e hanno sempre desiderato il nuovo, anzi ne sono stati partecipi Cl. cuore. Coloro che accontentandosi delle raffigurazioni esteriori non innalzarono a Cristo la loro mente, sono considerati ciechi e maledetti dall'Apostolo. Ed infatti non si potrebbe immaginare un accecamento maggiore di quello di chi pensa ottenere la purificazione dei propri peccati mediante la morte di un animale! O di chi cerca purificazione della propria anima nell'aspersione corporea di acqua! O di chi vuole placare Dio con cerimonie futili, come se egli vi prendesse molto piacere! Per non tacere di molte altre simili considerazioni. Cadono in queste assurdità tutti coloro che perdono tempo nelle pratiche esteriori della Legge senza mirare a Cristo.

11. La quinta differenza che si può aggiungere, come abbiamo detto, risiede nel fatto che fino alla venuta di Cristo, Dio aveva messo da parte un popolo cui aveva affidato il patto della sua grazia. "Quando l'Iddio onnipotente divise i popoli "dice Mosè "quando divise i figli di Adamo, il suo popolo gli è toccato nella spartizione: Giacobbe è stato la sua eredità " (De 32.8-9). In un altro passo si rivolge al popolo: "Ecco, il cielo, la terra e tutto quel che contengono appartiene al tuo Dio. E tuttavia egli pose affezione ai tuoi padri e li amò, per eleggere poi la loro progenie dopo di loro, tra tutti gli altri popoli " (De 10.14-15)

Il nostro Signore ha concesso dunque solo a questo popolo l'onore di farsi conoscere, quasi gli appartenesse più che gli altri. Gli ha concesso il suo Patto; ha manifestato nel suo seno la presenza della sua divinità e l'ha onorato con molti altri privilegi. Tralasciando gli altri doni, che gli ha concesso, accontentiamoci di quello in argomento: comunicandogli la sua parola si è unito ad esso per essere chiamato e considerato suo Dio.

Nel frattempo lasciava che tutte le altre nazioni camminassero nella futilità e nell'errore, come se non avesse relazione alcuna con esse (At. 14.16e non offriva loro il rimedio che poteva aiutarle: vale a dire la predicazione della sua parola. Per questo Israele era definito allora "figlio prediletto di Dio ", mentre gli altri erano considerati estranei. Era conosciuto da Dio e da lui protetto, mentre gli altri erano lasciati a se stessi nelle tenebre. Era consacrato a Dio, mentre gli altri erano profani. Era onorato dalla presenza di Dio mentre gli altri ne erano esclusi.

Ma quando è venuta la pienezza dei tempi in cui tutto doveva essere restaurato (Ga 4.4) : quando, dico, il mediatore tra Dio e gli uomini è stato rivelato, ha abbattuto il muro che per lungo tempo aveva limitato la misericordia di Dio ad un solo popolo ed ha fatto sì che la pace fosse annunciata a quanti erano lontani come a quanti erano vicini; onde, essendo tutti quanti riconciliati con Dio, fossero uniti in un solo corpo (Ef. 2.14). Di conseguenza non v'è più distinzione tra Ebreo o Greco, tra circoncisione o incirconcisione, ma Cristo è ogni cosa in tutti (Ga 6.15; Cl. 3.2). A lui sono stati dati in eredità tutti i popoli della terra e i confini della terra quale possesso (Sl. 2.8) affinché domini da un mare all'altro, dall'oriente all'occidente (Sl. 72.8e altrove).

12. La vocazione dei pagani di conseguenza costituisce ancora un segno di rilievo per dimostrare l'eccellenza del Nuovo Testamento rispetto all'Antico. Essa era stata preannunziata anticamente da molte profezie, ma in modo tale che l'adempimento ne era rimandato alla venuta del Messia. Neanche Gesù Cristo, all'inizio della sua predicazione, ha voluto aprire la porta ai pagani ma ha differito la loro chiamata fino a quando non avesse attuato la nostra redenzione e trascorso il periodo della sua umiliazione, avesse ricevuto dal Padre un nome che è al di sopra di ogni nome, onde ogni ginocchio si piegasse dinanzi a lui (Fl. 2.9).

 Per questo motivo egli diceva alla donna cananea di essere venuto solo per le pecore perdute della casa d'Israele (Mt. 15.24); e quando mandò i discepoli per la prima volta, vietò loro di oltrepassare questi limiti: "Non andate dai pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; andate piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele " (Mt. 10.5-6) perché non era ancora venuta l'epoca che abbiam menzionato.

Anzi, sebbene la vocazione dei pagani fosse stata prevista da tante testimonianze, tuttavia, quando si è dovuta attuare, sembrò così nuova agli Apostoli che ne ebbero paura come di cosa incredibile. Vi si sono impegnati con molte esitazioni, e non c'è da stupirsi perché sembrava irragionevole che Dio, dopo aver per lungo tempo messo da parte Israele rispetto agli altri popoli, improvvisamente annullasse questa distinzione, quasi avesse mutato parere. Questo fatto era stato bensì predetto dai Profeti, ma la loro intelligenza delle profezie non era tale da far sì che questa novità non li turbasse. Gli esempi, dati precedentemente da Dio per mostrare quanto avrebbe fatto, non erano sufficienti a liberarli dai dubbi. Aveva chiamato solo pochi pagani nella sua Chiesa, e, per di più, chiamandoli li aveva incorporati nel popolo di Israele mediante la circoncisione, talché si potevano considerare appartenenti alla famiglia di Abramo.

Ora con la vocazione pubblica dei pagani, avvenuta dopo l'Ascensione di Gesù Cristo, non solo sono stati posti sullo stesso piano degli Ebrei, ma, anzi, hanno preso il loro posto. C'è di più: gli stranieri integrati non erano mai stati eguali agli Ebrei. San Paolo, dunque, non senza ragione loda questo mistero che dice essere rimasto nascosto attraverso i secoli e lo considera motivo di stupore per gli angeli stessi (Cl. 1.26).

13. Credo di avere correttamente e fedelmente riassunto in questi quattro o cinque punti la differenza tra Antico e Nuovo Testamento, in modo da offrirne una spiegazione semplice e genuina.

Alcuni però considerano del tutto assurda l'esistenza di una diversità tra il governo della Chiesa cristiana e quello della Chiesa d'Israele, il diverso insegnamento e il cambiamento delle cerimonie. Bisogna dunque rispondere loro prima di andare avanti. Si può farlo brevemente perché le loro obbiezioni non sono fondate né ragionate al punto da causare preoccupazioni.

Non è possibile, essi dicono, che Dio, il quale deve essere sempre simile a se stesso, abbia cambiato idea in questo modo; che abbia condannato quanto aveva precedentemente ordinato.

Rispondo che non bisogna considerare Dio mutevole perché ha adattato forme diverse a tempi diversi, secondo quanto sapeva esserci utile. Se un contadino prescrive ai suoi servi dei lavori diversi d'inverno o d'estate, non lo accuseremo di incostanza e non diremo che abbia abbandonato il modo giusto di coltivare, che dipende dal perenne ordine di natura. Parimenti se un padre istruisce, educa e tratta i suoi figli durante la gioventù in modo diverso che durante la fanciullezza: e poi cambia ancora sistema quando sono giunti all'età adulta, non diremo che sia incostante o cambi facilmente opinione. Potremmo dunque accusare Dio di incostanza perché ha caratterizzato i diversi tempi con segni caratteristici che sapeva essere appropriati?

 La seconda similitudine deve soddisfarci. San Paolo considera gli Ebrei simili a piccoli fanciulli e i cristiani simili a giovanetti. Quale inconveniente c'è nel fatto che Dio abbia educato gli Ebrei con mezzi adatti al loro tempo, tempo di infanzia, e che ora ci istruisca in una dottrina più alta e più virile?

La immutabilità di Dio si manifesta quindi nel fatto che ha stabilito una identica dottrina per tutti i secoli. Il servizio che ha richiesto al principio, continua a richiederlo ora. Né si dimostra soggetto a cambiamenti per il fatto di aver cambiato le forme ed i modi esterni, perché ha voluto solamente adattarsi alla capacità degli uomini che è mutevole.

14. Replicano ancora: questa diversità non esisterebbe se Dio non l'avesse voluta. Non avrebbe forse potuto, tanto prima quanto dopo la venuta di Cristo, rivelare la vita eterna per mezzo di parole chiare e senza simboli? Non poteva istruire i suoi con sacramenti chiari? Non poteva elargire abbondantemente lo Spirito Santo? Non poteva spandere su tutti la sua grazia?

Porre queste domande è come rimproverare Dio per aver creato il mondo così tardi mentre avrebbe potuto farlo fin dall'inizio; per aver stabilito nell'anno differenti stagioni quali inverno ed estate, e il giorno e la notte.

Per conto nostro assumiamo l'atteggiamento che deve essere di ogni credente: non dubitiamo che quanto Dio fa, è fatto saggiamente, anche se non ne vediamo la causa. Sarebbe folle arroganza da parte nostra non concedere a Dio la conoscenza delle ragioni della sua opera che ci sfuggono.

Stupisce il fatto, dicono, che Dio respinga oggi quei sacrifici di animali e tutta la solennità del sacerdozio levitico che allora gradiva. Come se Dio si dilettasse di cose esterne e caduche, o come se vi avesse mai dato peso! Abbiamo già detto 7che tutto questo non lo ha stabilito per se stesso ma per la salvezza degli uomini. Se un dottore adoperasse un rimedio per guarire un giovane e poi, dovendolo curare nella sua vecchiaia ne adoperasse un altro, diremmo forse che rinnega il trattamento seguito in precedenza? Egli dirà di aver seguito sempre lo stesso metodo terapeutico ma di averlo adattato all'età. Similmente è stato utile che Gesù Cristo, ancora lontano, fosse rappresentato da molti segni che preannunciavano la sua venuta diversi dai segni che ci ricordano ora che è venuto.

Considerando poi la vocazione di Dio e la grazia che è stata elargita più ampiamente che per l'innanzi; e il patto di salvezza stipulato con tutti mentre precedentemente era riservata al popolo d'Israele, vi domando, chi potrà negare a Dio di dispensare liberamente le sue grazie secondo il suo piacimento? Di illuminare i popoli che vuole? Di far predicare la sua parola dove gli sembra bene? Di farne uscire il frutto, grande o piccolo, che gli pare opportuno? Di darsi a conoscere al mondo, quando voglia farlo, per mezzo della sua misericordia, e di ritirare la conoscenza che ne aveva dato, per colpa dell'ingratitudine umana?

Vediamo dunque che si tratta di calunnie: sono tutte obbiezioni adoperate dagli empi per turbare i semplici, allo scopo di porre in dubbio la giustizia di Dio o la verità della Scrittura.

 

 

CAPITOLO XII

PER COMPIERE L'UFFICIO DI MEDIATORE GESÙ CRISTO HA DOVUTO DIVENTARE UOMO

 

1. Colui che doveva essere il nostro mediatore doveva necessariamente essere vero Dio e vero uomo. Questa necessità non è implicita e assoluta, come si dice: se ne deve cercare la causa nel decreto eterno di Dio, dal quale dipende la salvezza umana.

Il Padre clemente e buono ha stabilito quanto sapeva esserci più utile. Le nostre iniquità avevano gettato una nube tra lui e noi impedendoci di giungere a lui, allontanandoci completamente dal regno dei cieli, non poteva esserci, di conseguenza, alcun modo di riconciliarci che non venisse da lui stesso. Chi avrebbe potuto avvicinarsi? Qualcuno dei figli di Adamo forse? Tutti avevano orrore della sua alta maestà, come il loro progenitore. Qualche angelo? Ma anch'essi avevano bisogno di un Capo per mezzo del quale potessero essere confermati nell'alleanza eterna con Dio. Non vi era dunque alcun rimedio alla situazione disperata, se la maestà stessa di Dio non fosse discesa a noi: non essendo in nostro potere salire a lui.

Per questo è stato necessario che il figlio di Dio divenisse Emanuele, vale a dire: "Dio con noi "; a condizione che la sua divinità e la natura umana fossero unite insieme, altrimenti non vi sarebbe stata unità sufficiente né affinità bastante per farci sperare che Dio abitasse con noi. La distanza era troppo grande tra il nostro peccato e la sua purezza. Quand'anche l'uomo fosse rimasto integro, la sua condizione era troppo inferiore per potersi innalzare fino a Dio; tanto meno poteva farlo dopo essersi immerso nella rovina mortale dell'inferno! Dopo essersi macchiato di tante colpe, avvelenato nella propria corruzione e sprofondato nell'abisso della maledizione!

Non è dunque senza motivo che san Paolo, volendo additare Gesù Cristo quale mediatore, lo definisce "uomo ": "Vi è un mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo, che è uomo ", (1 Ti. 2.5). Poteva chiamarlo Dio oppure omettere l'una e l'altra definizione. Ma lo Spirito Santo che parla per bocca sua, conoscendo la nostra debolezza, adopera questa definizione per porvi rimedio: ci presenta il figlio di Dio nella nostra stessa condizione per farci sentire familiari con lui. Affinché nessuno si tormenti nella ricerca di questo mediatore e si preoccupi di dove possa trovarlo, lo chiama uomo al fine di avvertirci della sua vicinanza: non potrebbe essere maggiormente vicino a noi, dato che è nostra carne.

In sostanza, l'Apostolo fa riferimento a quanto è spiegato più diffusamente altrove: abbiamo un sacerdote che può aver compassione delle nostre infermità dato che è stato tentato come gli uomini lo sono; ma non ha alcuna macchia di peccato (Eb. 4.15).

2. Questo risulterà ancor più chiaro se consideriamo l'importanza della funzione del Mediatore: egli ci riconduce alla grazia di Dio di sorta che diventiamo suoi figli ed eredi del suo regno: mentre dovremmo essere eredi del fuoco infernale come discendenti maledetti di Adamo. Chi avrebbe potuto realizzare questo, se il figlio di Dio stesso non fosse diventato uomo e non avesse accettato ciò che è nostro per poterci dare ciò che è suo, facendo nostro per grazia quanto era suo per natura?

 Con questo pegno, colui che è figlio di Dio per natura ha assunto un corpo simile al nostro ed è stato fatto carne della nostra carne ed ossa delle nostre ossa, abbiamo la sicura certezza di essere figli di Dio suo padre: egli non ha disdegnato di assumere quanto ci era proprio e in questo modo di essere insieme con noi figlio di Dio e figlio dell'uomo. Qui sta l'origine della santa fraternità che egli ci annunzia dicendo: "Io salgo al padre mio e padre vostro, all'Iddio mio e all'Iddio vostro " (Gv. 20.17). Da questo pensiero riceviamo assicurazione dell'eredità celeste: il figlio unigenito di Dio, cui appartiene l'eredità universale, ci ha adottati quali fratelli e di conseguenza ci ha fatti eredi con lui (Ro 8.17).

Inoltre era massimamente utile che il nostro futuro redentore fosse vero Dio e vero uomo, dovendo sconfiggere la morte; e chi avrebbe potuto riuscirci, se non colui che è la vita stessa? Doveva vincere il peccato; e chi avrebbe potuto farlo, se non colui che è la giustizia? Toccava a lui distruggere le potenze del mondo e dell'aria; e chi avrebbe potuto ottenere questa vittoria se non colui che è potenza superiore ad ogni autorità? Dove risiedono la vita, la giustizia e l'imperio del cielo se non in Dio? È: lui dunque che per la sua infinita clemenza si è fatto nostro redentore nella persona del suo figlio unigenito, per poterci riscattare.

3. L'altro aspetto della nostra riconciliazione con Dio è questo: l'uomo rovinato e perduto a motivo della propria disobbedienza, avrebbe dovuto, come rimedio, realizzare un'obbedienza tale da soddisfare il giudizio di Dio, pagando il dovuto per il suo peccato. Così il Signore Gesù è apparso in veste di Adamo, ne ha preso il nome mettendosi al suo posto al fine di obbedire al Padre, presentare il proprio corpo quale prezzo di soddisfazione del suo giusto giudizio e sopportare la pena che noi avevamo meritata nella carne in cui la colpa era stata commessa.

Insomma, dato che solo Dio non poteva subire la morte in se stesso e l'uomo non la poteva vincere, ha unito la natura umana a quella divina per sottomettere la debolezza della prima alla morte e così purificarci e liberarci dai nostri misfatti; e per acquistarci vittoria in virtù della seconda, sostenendo per noi la lotta con la morte.

Per questo motivo chi sottrae a Gesù Cristo la sua divinità o la sua umanità, ne sminuisce la maestà e la gloria, ne oscura la bontà e la grazia; e d'altra parte ferisce ugualmente l'uomo, distruggendone la fede, che non può mantenersi se non poggia su questo fondamento.

C'è di più: è stato necessario che i credenti aspettassero come loro redentore questo figlio di Abramo e di Davide, che Dio aveva loro promesso nella Legge e nei Profeti. Le anime fedeli ne traggono ancora un frutto: risalendo all'origine, condotti fino a Davide ed Abramo, essi hanno modo di conoscere meglio e più chiaramente che il nostro Signore Gesù è quel Cristo di cui tanto avevano parlato i profeti.

Teniamo a mente soprattutto quanto ho detto dinanzi, vale a dire che il figlio di Dio ci ha dato un pegno valido del legame che abbiamo con lui attraverso la natura che ha in comune con noi; e che, vestito della nostra carne, ha sconfitto la morte e il peccato affinché la vittoria ed il trionfo fossero nostri; ed ha offerto in sacrificio questa carne che aveva presa da noi affinché, avendo purificato i peccati, cancellasse la nostra condanna e placasse l'ira di Dio suo padre.

4. Chi esaminerà tutto questo con la dovuta attenzione non darà peso alcuno alle stravaganti speculazioni da cui si lasciano trasportare alcuni spiriti incostanti ed assetati di novità. Alcuni di essi sollevano la seguente questione: anche se il genere umano non avesse avuto alcun bisogno di essere riscattato, Gesù Cristo sarebbe egualmente divenuto uomo.

Riconosco che nella condizione originaria della creazione, nell'integrità della natura, egli già era stabilito quale capo sugli uomini e sugli angeli; per questo motivo san Paolo lo definisce primogenito di tutte le creature (Cl. 1.15). Ma la Scrittura dichiara con ogni chiarezza che è stato rivestito della nostra carne per divenire redentore: è dunque una supposizione temeraria immaginare altra causa o altro scopo della sua incarnazione.

La ragione per cui è stato promesso fin dal principio è chiara: per restaurare il mondo che era caduto in rovina e soccorrere gli uomini che erano perduti. Per questo motivo nei sacrifici sotto la Legge era raffigurata la sua immagine affinché i credenti sperassero nella misericordia di Dio e fossero riconciliati con lui mediante l'espiazione dei peccati.

Certo in tutti i secoli, anche prima della promulgazione della Legge, la promessa del mediatore è stata associata sempre al sangue: dobbiamo dedurne che era destinato dalla volontà eterna di Dio a purificare le colpe umane, dato che spargere il sangue è un segno di riparazione dell'offesa. Nello stesso modo i profeti hanno parlato di lui, promettendo che verrebbe a riconciliare Dio e gli uomini. Per ora ci basti la testimonianza di Isaia particolarmente solenne: dice che sarà colpito dalla mano di Dio per i delitti del popolo, che il castigo per cui abbiamo pace sarà su lui, che sarà sacerdote per offrirsi quale vittima, che ci guarirà con le sue piaghe, che tutti si sono smarriti come pecore erranti, che è piaciuto a Dio di affliggerlo perché portasse le iniquità di tutti (Is. 53.4-5). Ci vien detto che Gesù Cristo è stato stabilito dal decreto inviolabile del cielo per soccorrere i peccatori; ne dobbiamo concludere che chi va al di là di queste affermazioni, toglie ogni freno alla propria folle curiosità.

Egli stesso, apparso nel mondo, ha dichiarato che lo scopo della sua venuta era di trarci dalla morte alla vita riconciliandoci con Dio. Gli apostoli si sono espressi nello stesso senso. San Giovanni, prima di dire che la Parola è stata fatta carne, parla della rivolta e della caduta dell'uomo (Gv. 1.9.10.14). Ma la cosa migliore e ascoltare Gesù Cristo stesso che descrive il proprio ufficio "Dio ha tanto amato il mondo che non ha risparmiato il proprio figlio unigenito ma l'ha dato alla morte onde tutti quelli che credono in lui non periscano ma abbiano vita eterna " (Gv. 3.16; "L'ora è venuta e i morti udranno la voce del figlio di Dio e quelli che l'avranno udita vivranno " (Gv. 5.25); "Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me anche se muoia vivrà " (Gv. 11.25); "Il figlio dell'Uomo è venuto per salvare quel che era perito " (Mt. 18.2); "I sani non hanno bisogno del medico " (Mt. 9.12). Non finiremmo mai se volessimo raccogliere tutti i passi che si esprimono in questo senso. Gli apostoli sostengono unanimemente questa tesi.

Infatti, se non fosse venuto per riconciliarci con Dio, la sua dignità sacerdotale cadrebbe, dato che il sacerdote è interposto tra Dio e gli uomini per ottenere il perdono dei peccati (Eb. 5.1); non rappresenterebbe la nostra giustizia, dato che è stato fatto vittima al posto nostro onde Dio non ci imputasse i nostri errori (2 Co. 5.19); in breve, sarebbe spogliato di tutti i titoli con cui la Scrittura lo onora. Sarebbe anche contraddetta l'affermazione di san Paolo che Dio ha mandato suo figlio per compiere quanto era impossibile alla Legge, portare cioè i nostri peccati in carne simile a peccato (Ro 8.3). Né sussisterebbe quanto dice in un altro passo: la grande bontà di Dio ed il suo amore verso gli uomini sono diventati noti quando ci ha dato suo figlio quale redentore (Tt. 2.14).

Insomma la Scrittura attribuisce all'incarnazione di Cristo e alla sua venuta quale inviato di Dio, il solo fine di essere sacrificio di soddisfazione per placare la giustizia divina. Così è stato scritto e così Gesù Cristo ha dovuto soffrire perché si potesse predicare il pentimento in suo nome, dice san Luca (Lu 24.26-46). Lo stesso in san Giovanni: "Il padre mi ama perché metto la mia vita per le mie pecore. Il Padre me l'ha ordinato " (Gv. 10.17); "Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che il figlio dell'Uomo sia innalzato " (Gv. 3.14); "Padre, salvami da quest'ora! Ma è per questo che sono venuto. Padre glorifica tuo figlio " (Gv. 12.27-28). In questi passi mette in rilievo specialmente il fine per cui ha rivestito la carne umana: essere fatto sacrificio e soddisfazione per abolire i peccati. Per lo stesso motivo Zaccaria dice, nel suo cantico, che egli è venuto secondo la promessa data ai padri per illuminare quelli che si trovano nelle tenebre della morte (Lu 1.79).

Ricordiamoci che tutte queste cose sono insegnate dal figlio di Dio, nel quale, dice san Paolo, sono nascosti tutti i tesori della sapienza e dell'intelligenza (Cl. 2.3) : e l'Apostolo si vanta di non conoscere nulla all'infuori di lui (1 Co. 2.2).

5. Qualcuno può obiettare che questo non impedisce che Gesù Cristo, il quale ha riscattato i dannati, avrebbe potuto anche dimostrare il suo amore verso quanti erano rimasti sani ed integri rivestendone la natura; la risposta è semplice. Lo Spirito Santo dichiara che per volontà di Dio queste due cose sono collegate insieme: egli doveva essere nostro redentore e partecipare alla nostra natura. Non è lecito domandarsi di più. Se qualcuno, insoddisfatto dal decreto immutabile di Dio, è mosso dal desiderio di saperne di più, dimostra così facendo di non accontentarsi di Gesù Cristo, datoci quale prezzo di redenzione.

San Paolo non dice solo perché Cristo ci è stato inviato: ma trattando il grande mistero della predestinazione, mette la briglia ai desideri folli e alla tracotanza dello spirito umano affermando che il Padre ci ha eletti prima della creazione del mondo per adottarci quali suoi figli, secondo il proposito della sua volontà; e ci ha accettati nel nome del suo figlio prediletto, nel cui sangue abbiamo la redenzione (Ef. 1.4-5). Non presuppone qui che la caduta di Adamo sia stata anteriore nel tempo ma espone la determinazione presa da Dio prima di tutti i secoli per rimediare all'infermità del genere umano.

Qualcuno ancora obbietta che questa decisione di Dio è stata originata dalla caduta dell'uomo che egli prevedeva. Quanti si concedono il lusso di cercare in Cristo più di quanto Dio vi abbia predestinato nel suo segreto proposito, si arrischiano a inventare un nuovo Cristo seguendo la propria sfrenata pazzia! San Paolo, dopo aver parlato del vero ufficio di Gesù Cristo, prega giustamente perché sia dato spirito d'intelligenza ai credenti per comprendere la lunghezza, l'altezza, la larghezza e la profondità della carità di Cristo, che supera ogni conoscenza (Ef. 3.16-18) : Egli sembra, di proposito, imbrigliare la nostra mente con delle remore per impedirle di allontanarsi da una parte o dall'altra quando si fa menzione del Cristo, e per invitarla ad attenersi alla grazia della riconciliazione che egli ci ha portato. Avendo lo stesso Apostolo detto altrove essere certo e indubitabile che Gesù Cristo è venuto per salvare i peccatori (1 Ti. 1.15) , accolgo volentieri questa parola. Insegna anche che la grazia manifestataci nell'Evangelo ci è stata data in Gesù Cristo prima di tutti i tempi e di tutti i secoli (2Ti 1.9) : ne concludo che dobbiamo attenerci ad essa fino alla fine.

Osiandro non si attiene a questi limiti. Il problema era stato sollevato da alcuni nel passato ma egli ha infelicemente ripreso la questione fino a sconvolgere la Chiesa.

Egli accusa di presunzione quanti dichiarano che se Adamo non fosse caduto, il figlio di Dio non sarebbe apparso incarnato, perché, a suo giudizio, non vi sarebbero affermazioni certe della Scrittura al riguardo. E invece san Paolo ha posto un freno a questa perversa curiosità allorché, dopo aver parlato della redenzione operata da Gesù Cristo, ordina di fuggire ogni questione assurda (Tt. 3.9).

La frenesia di alcuni è giunta al punto da porsi l'interrogativo se il figlio di Dio avrebbe potuto prendere la natura di un asino, spinti com'erano dall'ossessione di essere considerati sottili ragionatori! Osiandro giustifica la domanda (che ogni persona che abbia timor di Dio sente con orrore) e la giustifica Cl. pretesto che essa non è esplicitamente condannata; io gli obbietto che san Paolo, non desiderando conoscere altro che Gesù Cristo crocifisso (1 Co. 2.2) , Si guarderebbe bene dall'accettare un asino quale autore della salvezza. Altrove l'Apostolo insegna che Gesù Cristo è stato stabilito dalla volontà eterna di Dio quale capo per raccogliere tutte le cose (Ef. 1.22) : per lo stesso motivo non riconoscerà mai un Cristo che non abbia avuto il compito di riscattare.

6. Il principio su cui Osiandro fonda la sua sicurezza è frivolo: l'uomo è stato creato ad immagine di Dio, egli dice, perché è stato formato sul modello del Cristo onde egli fosse raffigurato in quella natura umana di cui il Padre aveva decretato rivestirlo. Egli ne deduce che anche qualora Adamo non fosse mai decaduto dalla sua situazione originale, Cristo non avrebbe per questo mancato di diventar uomo. Ogni persona di buon senso vede quanto l'affermazione sia futile, contorta, tirata per i capelli, come si dice.

Quest'uomo pieno d'orgoglio crede di essere il primo ad aver capito cosa sia l'immagine di Dio ed afferma che non solo la gloria di Dio risplendeva in Adamo, nei doni eccellenti di cui era ornato, ma anche che Dio abitava sostanzialmente in lui. Riconosco che Adamo portava l'immagine di Dio in quanto era congiunto con lui, questo costituisce la vera e sovrana perfezione della sua dignità, ma affermo che l'immagine di Dio deve essere cercata nei segni della eccellenza che nobilitavano Adamo a differenza di tutti gli animali. immagine di Dio e che di conseguenza da lui proveniva quanto di eccellente vi era in Adamo, egli si avvicinava alla gloria del suo Creatore per mezzo del Figlio unigenito. L'uomo è stato creato ad immagine di colui che l'ha formato (Ge 1.27); di conseguenza è come uno specchio in cui splende la gloria di Dio. {i stato innalzato dalla gloria del Figlio a questo alto onore.

Ma bisogna aggiungere nel contempo che questo Figlio è stato capo sia degli angeli che degli uomini, tanto che la dignità data all'uomo era la stessa che apparteneva anche agli angeli. Se la scrittura li chiama "figli di Dio ", non si può negare che abbiano impressi dei segni che fan sì che rappresentano il padre loro.

 Se dunque Dio ha voluto mostrare la sua gloria negli angeli come negli uomini ed ha voluto renderla evidente in ambedue le nature, Osiandro sbaglia scioccamente dimenticando gli angeli come se non portassero l'immagine di Gesù Cristo. Se non gli fossero simili non godrebbero in continuità della sua presenza e del suo sguardo. San Paolo insegna che gli uomini sono rinnovati ad immagine di Dio per essere simili agli angeli e uniti a loro sotto lo stesso capo. Insomma, se prestiamo fede a Gesù Cristo, la nostra suprema felicità consisterà nell'essere uguali agli angeli, dopo essere stati accolti in cielo. Se si accetta la tesi di Osiandro, secondo cui il primo e principale modello dell'immagine di Dio è stato rappresentato da quella natura umana che Gesù Cristo doveva assumere, se ne potrà anche dedurre, al contrario, che egli doveva prendere anche la forma angelica, dato che anch'essa contiene impressa l'immagine di Dio.

7. Osiandro non tema dunque che Dio venga accusato di menzogna qualora non abbia avuto in mente l'immutabile e definitivo proposito di dare al figlio suo corpo umano. Anche se la condizione umana non fosse stata distrutta, Cristo non avrebbe per questo mancato di essere simile a Dio insieme agli angeli; senza che tuttavia fosse necessario per il figlio di Dio divenire uomo oppure angelo.

Ingiustificato è anche il suo timore che qualora la volontà immutabile di Dio non avesse deliberato, prima della creazione di Adamo, che Gesù Cristo doveva nascere uomo, non come redentore ma come primo uomo, il suo onore ne sarebbe stato sminuito, dato che solo per accidente sarebbe nato in vista di restaurare il genere umano perduto, e sarebbe stato così creato ad immagine di Adamo. Perché dovrebbe temere quello che la Scrittura insegna apertamente, vale a dire che Cristo è stato fatto del tutto simile a noi salvo nel peccato (Eb. 4.15) ? San Luca non ha nessuna difficoltà a chiamarlo nella sua genealogia figlio di Adamo (Lu 3.38).

Vorrei anche sapere perché san Paolo lo chiamerebbe il secondo Adamo (1 Co. 15.45) se non perché il Padre lo ha assoggettato alla situazione umana per salvare i successori di Adamo dalla rovina in cui erano precipitati. Se la volontà divina di dargli forma umana avesse preceduto la creazione, dovrebbe essere chiamato il primo Adamo. Osiandro afferma che siccome Gesù Cristo era predestinato dalla mente di Dio a divenire uomo, tutti sono stati formati su quel modello. San Paolo al contrario chiamando Gesù Cristo secondo Adamo pone, tra l'origine e la restaurazione ottenutaci da Cristo, la rovina e la confusione che sono intervenute, fondando la venuta di Gesù Cristo sulla necessità di ricostituirci nella nostra situazione. Ne deduco che questa è stata la causa dell'incarnazione del figlio di Dio.

Osiandro afferma anche scioccamente che se Adamo si fosse mantenuto nella sua integrità sarebbe stato immagine di se stesso e non di Gesù Cristo. Anche se il figlio di Dio non fosse mai divenuto carne, l'immagine di Dio non avrebbe cessato di splendere nei nostri corpi e nelle nostre anime e attraverso i raggi di questa immagine sarebbe sempre apparso che Gesù Cristo è veramente il capo, avendo la preminenza su tutti gli uomini.

In questo modo è risolto anche un altro futile cavillo: gli angeli, egli dice, sarebbero rimasti privi di questo capo se Dio non avesse determinato in se stesso di far uomo suo figlio, senza che il peccato di Adamo lo richiedesse. Egli considera evidente ciò che nessuna persona di buon senso gli concede: vale a dire che Gesù Cristo ha preminenza sugli angeli solo in quanto è uomo.

Al contrario è facile dedurre dalle parole di san Paolo che, in quanto è Parola eterna di Dio, egli è anche il primogenito di ogni creatura (Cl. 1.15); non che sia stato creato o che debba essere considerato tra le creature, ma in quanto il mondo, nella sua perfezione iniziale, non ha avuto altro principio. In quanto è stato fatto uomo, è chiamato "primogenito dai morti " (Cl. 1.18). L'Apostolo riassume l'una e l'altra affermazione quando dice che tutte le cose sono state create mediante il figlio, affinché dominasse sugli angeli, ed è stato fatto uomo onde poter svolgere la funzione di redentore.

Un'altra sciocchezza di Osiandro consiste nell'affermare che gli uomini non avrebbero avuto Gesù Cristo quale re se non fosse stato uomo. Forse non si potrebbe parlare di un regno e un dominio di Dio qualora il Figlio unico, anche senza aver rivestito la carne umana, avesse raccolto sotto di se gli uomini e gli angeli, dominandoli con la propria gloria? Si fuorvia sempre di nuovo o meglio rimane incantato nella fantasticheria che la Chiesa sarebbe stata priva di testa se Gesù Cristo non fosse apparso in carne. Come se non avesse potuto avere la preminenza sugli uomini grazie alla propria potenza divina, dando loro vigore con la forza invisibile del suo Spirito, così come si dimostra capo degli angeli!

Osiandro considera le sciocchezze sin qui refutate come oracoli infallibili, essendosi abituato a costruire i suoi trionfi inebrianti sul nulla. Alla fine si vanta di avere un argomento invincibile e definitivo nella profezia di Adamo il quale, vedendo Eva sua moglie, dice: "Ecco finalmente le ossa delle mie ossa, la carne della mia carne " (Ge 2.23). Ma come può provare trattarsi di una profezia? Risponderà forse che in san Matteo Gesù Cristo attribuisce la frase a Dio. Come se tutto quello che Dio dichiara attraverso gli uomini contenesse una profezia relativa al futuro. In questo modo ogni precetto della Legge dovrebbe contenere una profezia, dato che sono stati tutti dati da Dio! Vi sarebbe di peggio, se volessimo credere a queste fantasticherie: Gesù Cristo sarebbe stato un commentatore umano soddisfatto del senso letterale, infatti non fa riferimento all'unione mistica che lo lega alla Chiesa ma menziona il passo per mostrare quale fede e quale lealtà il marito debba alla propria moglie, dato che Dio ha dichiarato che uomo e donna sarebbero una sola creatura; e in questo modo dimostra non essere lecito rompere questo legame indissolubile con il divorzio. Se Osiandro disprezza questo significato semplice, rimproveri anche a Gesù Cristo di non aver nutrito i discepoli con questa bella allegoria, che egli propone, e di non aver quindi interpretato con sufficiente acume le parole del Padre!

Né le citazioni di san Paolo giovano alla sua tesi. San Paolo dopo aver detto che siamo carne di Cristo, esclama: "questo è un grande mistero " (Ef. 5.30). Non vuol spiegare in qual senso Adamo abbia pronunciato la frase: ma con il paragone del matrimonio vuole spingerci a considerare l'unione sacra che ci congiunge a Gesù Cristo. Anche le parole lo dimostrano: dichiarando di parlare di Cristo e della Chiesa l'Apostolo pone un avvertimento perché si distingua il matrimonio dall'unione spirituale di Gesù Cristo con la Chiesa. E così il ciarlare di Osiandro svanisce da solo.

Né sarà necessario valutare tutti questi argomenti, dato che questa breve refutazione ne ha sufficientemente sottolineato la futilità. Comunque sia, i figli di Dio si accontenteranno della sobria affermazione che quando la pienezza dei tempi è venuta, egli ha mandato il suo figliuolo, nato di donna, sottoposto alla Legge, per riscattare quanti erano sotto la Legge (Ga 4.4).

 

 

CAPITOLO XIII

GESÙ CRISTO HA ASSUNTO LA REALE SOSTANZA DELLA CARNE UMANA

 

1. Considero superflua una ulteriore trattazione della divinità di Gesù Cristo, dato anche che essa è già stata dimostrata sulla base di esplicite testimonianze scritturali. Ci rimane dunque da vedere come egli abbia svolto l'ufficio di mediatore, avendo rivestito la nostra carne.

Nel passato i Manichei ed i Marcioniti hanno cercato di annullare la realtà della sua natura umana. I secondi immagina vano che avesse preso un fantasma invece del corpo, i primi invece gli attribuivano un corpo celeste.

La Scrittura confuta molte volte questi errori. La benedizione non è stata promessa ad una forma celeste né ad una apparenza umana, ma al seme di Abramo e di Giacobbe (Ge 12.2; 17.2; 26.4). E il trono eterno non è promesso ad un uomo fatto d'aria, ma al figlio di Davide ed al frutto del suo ventre. Per questo Gesù Cristo manifestato in carne è chiamato figlio di Davide e di Abramo (Mt. 1.1); non solamente per essere stato portato nel ventre della vergine Maria o per essere stato procreato dal suo seme, ma perché, secondo san Paolo, è nato dal seme di Davide secondo la carne. Così in un altro testo dice che discende dagli Ebrei secondo la carne (Ro 1.3; 9.5). Per questo il Signore stesso non si è accontentato della qualifica di uomo o definisce se stesso figlio dell'uomo, volendo più chiaramente manifestare di essere un uomo, veramente generato dal seme umano.

Se lo Spirito Santo ha spesso e con molti mezzi esposto con tanta diligenza e semplicità un dato che di per se non era neppure molto oscuro, chi avrebbe potuto pensare che l'uomo mortale sarebbe stato così temerario da contraddirlo? E vi sono anche altre testimonianze, se si desidera averne di più: come l'affermazione di san Paolo che Dio ha mandato il suo figliuolo nato di donna (Ga 4.4) , e quando è detto, qua e là, che ha avuto fame e sete, ha sofferto il freddo ed è stato soggetto alle altre debolezze della nostra natura.

È preferibile, nella massa delle testimonianze che si potrebbero raccogliere, scegliere soprattutto quelle che servono ad edificare le nostre anime nella fede e nella certa speranza della salvezza. Quando, per esempio, è affermato che ha fatto agli angeli l'onore di prendere la loro natura ma di aver preso la nostra per poter distruggere nella carne e nel sangue, con la morte, colui che deteneva il potere della morte (Eb. 2.16) : grazie a questa comunicazione siamo considerati fratelli di lui; è stato necessario che divenisse simile ai suoi fratelli per essere un fedele intercessore, pieno di misericordia (Eb. 2.2.17); abbiamo un sacerdote ricco di compassione e di pietà per le nostre debolezze, dato che egli stesso è stato tentato (Eb. 4.15) , e altri passi simili. A questo si riferisce anche l'affermazione di san Paolo secondo cui era necessario che i peccati del mondo fossero espiati nella nostra carne (Ro 8.3).

Inoltre, tutto quello che è stato dato a Gesù Cristo dal Padre, appartiene anche a noi; egli infatti è il capo da cui tutto il corpo, collegato dalle giunture, trae vigore (Ef. 4.16). Né avrebbe senso l'affermazione che lo Spirito gli è stato dato senza limiti, onde fossimo riempiti della sua pienezza (Gv. 1.16) se egli non fosse stato vero uomo: sarebbe infatti del tutto irragionevole dire che l'essenza di Dio è stata arricchita di qualche dono nuovo. Per lo stesso motivo dice di essersi santificato per noi (Gv. 17.19).

 2. Hanno citato alcuni passi per confermare il proprio errore, ma deformandoli in modo grossolano non ne traggono alcun frutto e non riescono a sfuggire alle nostre argomentazioni.

Marcione ha pensato che il corpo di Gesù Cristo non fosse che un fantasma, basandosi sull'affermazione che egli è stato fatto a somiglianza d'uomo ed è diventato esteriormente come un uomo (Fl. 2.7). Ma ha interpretato male l'argomento di san Paolo. L'Apostolo non solleva qui il problema di quale corpo Gesù abbia preso, ma afferma che egli è apparso in forma ed in condizione di uomo sprezzato e senza valore, pur potendo mostrare la gloria della propria divinità. L'intenzione dell'Apostolo è di esortarci all'umiltà con l'esempio di Gesù Cristo il quale, essendo Dio immortale e potendosi manifestare direttamente come tale, ha tuttavia rinunciato al proprio diritto e si è volontariamente annichilito, assumendo l'aspetto e la condizione di un servo e, abbassato nell'umiltà, ha sopportato che la sua divinità fosse per un periodo nascosta sotto il velo della sua carne. L'Apostolo non vuole dunque disquisire sulla essenza propria di Gesù Cristo ma considerare come e in che modo egli abbia agito.

Dal filo del ragionamento è anzi facile dedurre che Gesù Cristo si è annichilito nella vera natura umana. Cosa vogliono dire queste parole: "essendo stato trovato come uomo quanto al sembiante "se non che per un tempo la sua natura divina non fu visibile, ma lo fu solo la forma umana e la condizione misera e umile? Anche l'affermazione di san Pietro: "È morto quanto alla carne ed è stato vivificato quanto allo spirito " (1 Pi. 3.18) non avrebbe senso se Cristo non fosse stato debole nella sua natura umana. San Paolo lo spiega più chiaramente dicendo che egli ha sofferto a causa della debolezza della carne (2 Co. 13.4). Questo è il senso della glorificazione attribuita, specialmente da san Paolo, a Gesù Cristo dopo il suo annichilimento. Non poteva essere innalzato che come uomo composto di corpo e di anima.

Mani ha pensato dovergli attribuire un corpo senza consistenza perché è chiamato il secondo Adamo celeste, venuto dal cielo (1 Co. 15.47). Ma l'Apostolo non allude qui ad una sostanza celeste della carne di Gesù Cristo bensì alla potenza spirituale che effonde su noi per vivificarci. E abbiamo già visto che san Pietro e san Paolo la distinguono dalla carne. Il passo anzi conferma la dottrina che condividiamo con tutti i cristiani relativamente alla carne di Gesù Cristo. Se non avesse avuto un corpo della stessa natura del nostro, cadrebbe nel nulla l'argomentazione di san Paolo secondo cui se Cristo è risuscitato, anche noi risusciteremo, e se noi non risuscitiamo, Gesù Cristo non è risuscitato (1 Co. 15.16). Malgrado tutti i loro cavilli i Manichei non potranno mai rifiutare questi argomenti.

Futile scappatoia è la loro asserzione che Gesù Cristo è chiamato "figlio dell'uomo "perché è stato promesso agli uomini; è noto infatti che si tratta di una espressione della lingua ebraica per cui figlio dell'uomo equivale a dire "vero uomo ", così come in tutta la Scrittura gli uomini sono chiamati "figli d'Adamo ". E per non andare a cercare più lontano, ci basterà un solo passo: gli apostoli attribuiscono a Gesù Cristo le espressioni del Salmo ottavo: "Che cos'è l'uomo che tu n'abbia memoria? e il figlio dell'uomo che tu ne prenda cura? ". In questo modo viene espressa la vera umanità di Gesù Cristo. Sebbene non sia stato generato nel modo normale da un padre mortale, tuttavia ha la sua origine in Adamo. E senza questo fatto non potrebbe sussistere l'affermazione della sua partecipazione alla carne ed al sangue per raccogliere insieme i figli di Dio (Eb. 2.14). Con queste parole egli ci mostra di essere partecipe della nostra natura.

Identico significato troviamo nel commento dell'Apostolo: l'autore della santità e coloro che sono santificati sono una stessa cosa. Che questo si debba riferire alla natura che il figlio di Dio ha in comune con noi, appare dal fatto che questi aggiunge subito di non vergognarsi a chiamarci fratelli (Eb. 2.2). Se avesse detto prima che i credenti sono da Dio, Gesù Cristo non avrebbe alcuna ragione di vergognarsi di accoglierci. È detto che non ne ha vergogna perché in virtù della sua grazia infinita si unisce a noi che siamo spregevoli ed indegni.

Invano gli avversari replicano che in questo modo gli increduli sarebbero fratelli di Gesù Cristo: sappiamo infatti che i figli di Dio non sono nati da sangue o carne ma dallo Spirito Santo, mediante la fede. E la sola carne non crea un legame di fraternità. L'Apostolo attribuisce ai soli credenti l'onore di essere una sola sostanza con Gesù Cristo: ma non ne consegue che gli increduli non abbiano la stessa origine carnale, perché dicendo che Gesù Cristo è stato fatto uomo per renderci figli di Dio, non si estende a tutti questo privilegio. La fede deve intervenire per inserirci spiritualmente nel corpo di Gesù Cristo.

Si rivelano sciocchi affermando anche che siccome Gesù Cristo è chiamato primogenito (Ro 8.29) doveva essere il figlio più anziano di Adamo e doveva esser nato fin dall'inizio del mondo per poter detenere questa primogenitura. Questa definizione non si riferisce all'età ma alla dignità ed all'eminenza della virtù che innalza Cristo su tutti.

La loro affermazione secondo cui Gesù Cristo ha preso la natura umana e non quella degli angeli (Eb. 2.16) perché ha ricevuto amichevolmente il genere umano, è priva di valore. L'Apostolo infatti per aumentare l'onore elargitoci da Gesù Cristo, ci paragona agli angeli, che a questo proposito sono stati inferiori a noi. Per risolvere tutta la controversia è sufficiente riflettere attentamente all'affermazione di Mosè che la progenie della donna schiaccerà la testa al serpente (Ge 3.15) : non si tratta qui solo di Gesù Cristo ma di tutto il genere umano. Dato che la vittoria conquistata da Gesù Cristo ci appartiene, Dio dichiara in generale che quanti discendono dal seme della donna saranno vittoriosi sul Diavolo. Se questo bene deriva da Gesù Cristo, ne consegue che è stato generato dalla razza umana. L'intenzione di Dio era di consolare Eva a cui si stava rivolgendo, affinché non fosse oppressa dalla tristezza e dalla disperazione.

3. Quei pasticcioni mostrano la propria stoltezza oltre che la propria impudenza quando allegorizzano l'asserzione che Gesù Cristo appartiene alla discendenza di Abramo ed è il frutto del ventre di Davide. Se il termine "discendenza "fosse stato adoperato in quel senso, san Paolo non l'avrebbe celato allorché dichiarava esplicitamente e senza doppi sensi non esservi molti redentori della discendenza di Abramo, ma solo Gesù Cristo (Ga 3.16).

Lo stesso ragionamento vale per la loro pretesa che egli sia chiamato figlio di Davide solo perché era stato promesso a lui, manifestandosi poi a suo tempo. San Paolo dopo averlo chiamato figlio di Davide aggiunge "secondo la carne, " (Ro 1.3) intendendo certamente specificare la sua natura umana. Ugualmente al nono capitolo dopo aver detto che egli è Dio benedetto in eterno, precisa che è disceso dagli Ebrei secondo la carne.

 Inoltre se non fosse veramente generato dalla razza di Davide, cosa significherebbe l'espressione: frutto del suo ventre? E che valore avrebbe la promessa: "Dalle tue viscere verrà un discendente che rimarrà saldo sul tuo trono " (Sl. 132.2) ?

Complicano anche con vane obiezioni la genealogia di Gesù Cristo presentata da san Matteo. Egli non menziona il padre né gli antenati di Maria ma quelli di Giuseppe perché tratta una materia allora ben nota da tutti, grandi e piccoli; gli è quindi sufficiente mostrare che Giuseppe apparteneva alla stirpe di Davide, tanto più che si conosceva l'appartenenza di Maria alla stessa famiglia.

San Luca va oltre: afferma la salvezza portata da Gesù Cristo essere comune a tutto il genere umano, dato che egli è generato da Adamo, padre di tutti quanti. Ammetto che dalla sua genealogia, così come è presentata, Si può dedurre che Gesù Cristo è figlio di Davide solo perché è nato da Maria. Ma i nuovi Marcioniti si rivelano sciocchi e presuntuosi quando, per mascherare il proprio errore, vale a dire l'affermazione che Gesù Cristo si è fatto un corpo dal nulla, dicono che le donne sono senza seme, rovesciando così i dati naturali.

Questa disputa non è affatto di natura teologica, ma piuttosto filosofica e medica e io me ne astengo. Non che sia difficile confutarli, perché le loro argomentazioni possono essere demolite in tre parole: ma non voglio scostarmi dalla linea di questo libro.

Atteniamoci ai dati scritturali quando questi pasticcioni sostengono che Aaronne e Gioiada hanno preso moglie tra le discendenti di Giuda e, se le donne avessero la possibilità di generare, la distinzione delle stirpi sarebbe andata confusa. Rispondo che nel campo civile, il seme virile ha questa prerogativa e la dignità di dare al figlio il nome del padre; ma questo non impedisce che la donna generi per parte sua.

E questo si riferisce a tutte le genealogie che la Scrittura presenta. Essa menziona sovente gli uomini: vuol forse dire che le donne non c'entrino? Anche i bambini sanno che esse sono incluse nel termine generico di "uomini ". Per questo motivo talvolta è detto che le donne generano ai loro mariti, dato che il nome di famiglia rimane sempre nei maschi. Del resto Dio ha conferito al sesso maschile questo privilegio di dare ai figli la condizione del padre, di sorta che i figli sono considerati nobili o villani a seconda del padre; e all'opposto le leggi civili stabiliscono riguardo alla servitù che il figlio segua la condizione della madre, essendo un frutto che proviene da lei. Ne deduciamo che il frutto che esse portano è procreato in parte dal loro seme. E nel linguaggio di tutti i tempi e di tutti i popoli le madri sono chiamate genitrici.

Questo concorda con la legge di Dio che non avrebbe ragione di vietare il matrimonio dello zio con la figlia di sua sorella perché non vi sarebbe alcuna consanguineità. Sarebbe inoltre lecito ad un uomo sposare la propria sorella, se fosse figlia solo di madre, non essendo parente!

Riconosco che riguardo alla generazione, le donne sono strumenti passivi; ma sostengo che quanto è detto degli uomini deve essere attribuito anche ad esse. Non è detto che Gesù Cristo sia creato "dalla donna "ma "di donna " (Ga 4.4).

 Alcuni di questi eretici sono talmente privi di pudore da domandarsi se sia cosa decente che Gesù Cristo sia stato procreato da un seme soggetto alle mestruazioni femminili; nel che si vede che hanno perduto ogni vergogna. Rispondo semplicemente: devono riconoscere, comunque sia, che Gesù Cristo è stato nutrito dal sangue della Vergine, qualunque sia l'avvilimento cui soggiacque. L'interrogativo che rivolgono si volge contro loro stessi.

Si può dunque concludere correttamente dalle parole di san Matteo che Gesù Cristo essendo stato generato da Maria, è creato e formato dal suo seme; così come è detto che Booz è generato da Rahab (Mt. 1.5.16). San Matteo non considera la Vergine solamente come un canale attraverso cui Gesù Cristo è passato; ma distingue questo modo ammirevole ed incomprensibile di generare da quello normale nella natura, per il fatto che Gesù Cristo per mezzo di una vergine è stato generato dalla stirpe di Davide. È detto che Gesù Cristo è stato generato da sua madre, nel medesimo senso in cui è detto che Is.cco fu generato da Abramo, Salomone da Davide e Giuseppe da Giacobbe. L'evangelista svolge l'argomentazione e volendo dimostrare che Cristo ha ricevuto la sua origine da Davide, si accontenta di affermare che è stato generato da Maria. Ne consegue che considerava cosa certa che Maria fosse parente di Giuseppe e di conseguenza appartenente alla stirpe di Davide.

4. Gli argomenti assurdi che inventano contro di noi sono puerili calunnie! Considerano che sarebbe un grande obbrobrio per Gesù Cristo aver avuto origine dalla razza umana perché in tal modo non potrebbe sottrarsi alla legge comune che rinchiude sotto peccato tutta la discendenza di Adamo, senza eccezioni.

Ma il paragone presentato da san Paolo risolve la difficoltà: come per mezzo di un uomo il peccato è entrato nel mondo, e attraverso il peccato la morte, così per mezzo della giustizia d'un uomo, la grazia ha abbondato (Ro 5.12). Vi corrisponde un altro passo: il primo Adamo era terrestre e mortale; il secondo è celeste e vivificante (1 Co. 15.47). Lo stesso Apostolo dicendo che Gesù Cristo è stato mandato in carne simile a carne di peccato per soddisfare la Legge (Ro 8.3) , lo distingue dagli altri e lo considera vero uomo ma senza vizio né difetto.

Infantilmente affermano anche che se Gesù Cristo è puro da qualsiasi corruzione, essendo stato generato dal seme della Vergine, in virtù dell'opera miracolosa dello Spirito Santo, questo significa che il seme della donna non è impuro ma solo quello dell'uomo. Non affermiamo che Gesù Cristo sia esente da ogni macchia e da ogni contagio originale per il fatto di essere stato generato da sua madre senza azione dell'uomo, ma perché è stato santificato dallo Spirito Santo onde la sua generazione avvenisse senza macchia, come prima della caduta di Adamo. Questo deve essere chiaro; tutte le volte che la Scrittura parla della purezza di Gesù Cristo, essa si riferisce alla sua natura umana, perché sarebbe superfluo dire che Dio è perfetto e senza macchia. Anche la santificazione di cui parla san Giovanni non ha luogo nella natura divina.

Replicano che immaginiamo un doppio seme in Adamo se Gesù Cristo, che da lui discende, non ha avuto in sé alcun contagio. Ma la generazione dell'uomo non è di per se immonda o viziosa: la corruzione vi è sopravvenuta accidentalmente a causa della caduta. Per questo motivo non bisogna stupirsi se Gesù Cristo, il quale doveva restaurare l'integrità umana, è stato messo a parte riguardo alla generalità degli uomini per non essere coinvolto nella condanna.

Fanno anche un'altra ridicola osservazione, dalla quale appare come abbiano perduto ogni timore di Dio ed ogni serietà: dicono che se il figlio di Dio ha indossato la nostra carne, sarebbe stato rinchiuso come in una stretta prigione. Ma sebbene egli abbia unito la sua essenza infinita con la nostra natura, questo è avvenuto senza limitazione e senza prigione. È sceso miracolosamente dal cielo pur senza lasciare il cielo; è stato portato miracolosamente nel ventre della Vergine, è vissuto nel mondo, è stato crocifisso e tuttavia la sua divinità riempiva contemporaneamente il mondo, come prima.

 

 

CAPITOLO XIV

LE DUE NATURE DEL MEDIATORE FORMANO UNA PERSONA UNICA

 

1. L'affermazione che la Parola è stata fatta carne (Gv. 1.14) non deve essere intesa nel senso che essa sia stata convertita in carne o confusamente mescolata alla carne, ma che ha assunto nel ventre della Vergine un corpo umano, facendosene un tempio in cui abitare. E colui che era figlio di Dio è stato fatto figlio dell'uomo non con una confusione delle sostanze ma nell'unità della persona; vale a dire ha congiunto ed unito la propria divinità con l'umanità che ha assunto, di sorta che ciascuna delle due nature ha conservato le sue caratteristiche, e tuttavia Gesù Cristo non ha due persone distinte ma una sola.

È possibile trovare nelle cose umane una similitudine a questo mistero? Il paragone con l'uomo appare adatto: lo vediamo infatti composto di due nature, ciascuna delle quali non è però confusa con l'altra al punto da perdere le proprie caratteristiche. L'anima non è il corpo, né il corpo è l'anima: si attribuisce all'anima quello che non può riferirsi al corpo; e al corpo quel che non può riferirsi all'anima; e all'uomo completo quel che non può competere né all'una né all'altra parte. Inoltre i tratti particolari all'anima sono trasferiti al corpo e dal corpo all'anima reciprocamente. Tuttavia la persona composta di queste due sostanze è un solo uomo e non parecchi. Questa formula indica l'esistenza di una natura nell'uomo composta di due nature unite e nondimeno lasciando sussistere tra esse differenza.

La Scrittura parla in questo modo di Gesù Cristo: talvolta essa gli attribuisce quanto può essere riferito solo all'umanità, talvolta quanto compete specificamente alla divinità, talvolta quanto si addice alle due nature congiunte e non ad una sola. Ed esprime anzi questa unione delle due nature in Gesù Cristo con tanta pregnanza da comunicare all'una quanto appartiene all'altra. Questo modo di esprimersi è stato definito dagli antichi dottori: "comunicazione delle proprietà"

2. Tutto questo potrebbe suonare puramente ipotetico non disponessimo di numerosi passi della Scrittura per dimostrare che nessuna delle nostre affermazioni è frutto del pensiero umano.

La dichiarazione di Gesù, secondo cui egli esiste prima di Abramo (Gv. 8.58) non può riferirsi alla sua umanità. Spiriti ingannatori travisano, è vero, questa frase interpretandola nel senso che Cristo sarebbe esistito prima di tutti i secoli in quanto era già predestinato redentore nella mente del Padre e riconosciuto come tale dai credenti. Ma dato che Cristo distingue in modo esplicito la propria essenza eterna dalla propria manifestazione temporale nella carne e vuol mostrarsi superiore ad Abramo per la propria antichità, non v'è dubbio che attribuisce a se stesso quanto è proprio della divinità.

Non si riferiscono alla natura umana di Cristo l'espressione "primogenito di ogni creatura "adoperata da san Paolo, il quale afferma che egli è esistito prima di ogni cosa e ogni cosa sussiste per mezzo di lui (Cl. 1.15); né la dichiarazione di aver avuto la sua gloria insieme al Padre prima che il mondo fosse creato (Gv. 17.5) , né di essere all'opera assieme con il Padre fin dal principio (Gv. 5.17). Queste affermazioni vanno riferite tutte alla divinità.

 Appartiene alla sola natura umana l'essere chiamato "servo del Padre " (Is. 42.1e altri passi) , l'essere cresciuto, a detta di san Luca, in statura e in sapienza davanti a Dio e davanti agli uomini (Lu 2.52) , la dichiarazione di non cercare la propria gloria (Gv. 8.50) , di ignorare la data dell'ultimo giorno (Mr. 13.32) , di non parlare da se, di non compiere la propria volontà (Gv. 14.10e 6.38); l'affermazione di Giovanni di averlo visto e toccato (1 Gv. 1.1; Lu 24.39). Infatti essendo Dio non può aumentare né diminuire, fa ogni cosa per amor del proprio nome, nulla gli è nascosto, ordina e dispone tutto a proprio piacimento, è invisibile e non può essere toccato. Tuttavia Cristo non attribuisce queste cose alla sola natura umana, ma le assume in quanto mediatore.

La comunicazione delle proprietà è dimostrata dalle affermazioni di san Paolo: Dio ha acquisito la Chiesa con il proprio sangue (At. 20.28); il Signore della gloria è stato crocifisso (1 Co. 2.8); come pure nella citazione già menzionata di san Giovanni secondo cui la Parola di vita è stata toccata. Infatti Dio non ha sangue, non può soffrire, non può essere toccato con le mani. Ma in quanto Gesù Cristo vero Dio e vero uomo, è stato crocifisso e ha sparso il proprio sangue per noi, quanto è avvenuto nella sua natura umana è riferito alla divinità, impropriamente, ma non senza ragione.

Esempio analogo è la dichiarazione di san Giovanni che Dio ha dato la vita per noi (1 Gv. 3.16; evidentemente quanto è proprio dell'umanità viene comunicato all'altra natura. Parimenti quando Gesù, ancora vivente, diceva che nessuno mai era salito al cielo se non il figlio dell'uomo che era nel cielo (Gv. 3.13) , è evidente che non era stato in cielo, secondo la natura umana con la carne che aveva rivestito; ma dato che era Dio e uomo e che le due nature erano unite, attribuiva all'una quanto apparteneva all'altra.

3. I passi in cui è fatto menzione delle due nature unite sono i più chiari ed i più adatti a mostrare quale sia la vera realtà di Gesù Cristo. L'evangelo di san Giovanni ne è pieno. Vi leggiamo che Cristo ha ricevuto dal Padre autorità di rimettere i peccati (Gv. 1.29) , di risuscitare i morti, di dare giustizia, santità e salvezza, di essere stabilito quale giudice sui vivi e sui morti ed essere onorato come il Padre (Gv. 5.21-23); definizioni quali: la luce del mondo (Gv. 9.5) , il buon pastore, la sola porta e la vera vite (Gv. 10.9-11; 15.1) non caratterizzano né la sola divinità né la sola umanità. Il figlio di Dio ha goduto questi privilegi quando fu manifestato nella carne, sebbene li possedesse Cl. Padre prima della creazione del mondo; ma tali privilegi non potevano competere ad un uomo che fosse solamente uomo.

In questo senso bisogna intendere la dichiarazione di san Paolo che Gesù Cristo, avendo adempiuto il suo compito di giudice, all'ultimo giorno renderà il potere a Dio suo Padre (1 Co. 15.24). È certo che il regno del figlio di Dio che non ha avuto principio, non avrà neanche fine. Ma siccome è stato umiliato nella carne e, prendendo figura di servo, si è annichilito e, avendo perduto la propria dignità visibile, si è assoggettato a Dio suo padre per obbedirgli (Fl. 2.8) e, dopo aver subito l'assoggettamento è stato coronato di gloria e di onore (Eb. 2.7) , esaltato alla suprema dignità onde ogni ginocchio si pieghi dinanzi a lui (Fl. 2.10) , così, parimenti, restituirà al Padre l'imperio e la corona della gloria e tutto quello che gli è stato dato in quanto mediatore, onde Dio sia ogni cosa in tutto (1 Co. 15.28). Infatti gli è stato dato questo potere perché il Padre eserciti il potere per mezzo suo. In questo senso è detto che siede alla destra del Padre: questo è limitato nel tempo fino a quando goderemo della visione diretta della divinità.

Gli antichi hanno commesso l'errore di non considerare sufficientemente la persona del mediatore, nel leggere questi passi '; san Giovanni e così ne hanno oscurato il senso vero e naturale e sono incappati in molti equivoci. Adoperiamo quale chiave per una corretta comprensione la seguente massima: tutto quello che concerne l'ufficio di mediatore non è riferito semplicemente alla natura umana o a quella divina.

Gesù Cristo, dato che ci unisce al Padre pur nella nostra limitatezza e debolezza, regnerà fin quando sia apparso per giudicare il mondo. Ma dopo che saremo stati resi partecipi della gloria celeste per contemplare il vero volto di Dio, allora, avendo adempiuto il suo ufficio di mediatore, egli non sarà più ambasciatore di Dio suo Padre e si contenterà della gloria che aveva prima della creazione del mondo.

Il nome di "Signore "si attribuisce a Gesù Cristo per il fatto che costituisce una mediazione tra Dio e noi. San Paolo lo ha espresso dicendo: "C'è un Dio a cui appartengono tutte le cose ed un Signore mediante il quale sono tutte le cose " (1 Co. 8.6). Il dominio temporale suddetto gli è stato attribuito fino a che la sua maestà divina ci sia direttamente conoscibile; ed essa non sarà per nulla sminuita quando renderà l'imperio a suo padre, anzi avrà una ancor maggiore preminenza. Allora Dio non sarà più il capo di Cristo perché la divinità di Cristo splenderà perfettamente da sola, mentre ora è ancora nascosta come sotto un velo.

4. Questa osservazione servirà a risolvere molti dubbi, purché i lettori sappiano trarne profitto. Gli ignoranti, e persino alcuni non privi di cultura, si tormentano incredibilmente per queste formule attribuite a Cristo e che non si addicono né alla sua divinità né alla sua umanità. Dimenticano che esse si riferiscono alla sua persona, nella quale è manifestato quale uomo e quale Dio, e alla sua funzione di mediatore. Tutte le cose summenzionate si accordano benissimo assieme purché consideriamo questo grande mistero con il necessario rispetto.

Ma gli spiriti agitati e irrequieti mettono tutto a soqquadro. Accettano quanto è proprio all'umanità di Gesù Cristo per distruggerne la divinità; quello che compete alla divinità per distruggerne l'umanità; e quanto è detto delle due nature congiunte per smentire l'una e l'altra. Questo significa argomentare che Cristo non è uomo, dato che è Dio; e che non è Dio, dato che è uomo; e che non è né Dio né uomo dato che ha in se ambedue le nature.

Ne concludiamo dunque che Cristo, essendo Dio e uomo, composto di due nature unite e non confuse, è il nostro Signore ed il vero figlio di Dio, anche secondo l'umanità, ma non a motivo dell'umanità.

Dobbiamo respingere l'eresia di Nestorio il quale, scindendo più che distinguendo le nature di Gesù Cristo, immaginava un doppio Cristo. Al contrario la Scrittura ci dichiara esplicitamente che colui che dovrà nascere dalla vergine Maria sarà chiamato figlio di Dio (Lu 1.32) e che la Vergine stessa è madre del nostro Signore.

Bisogna ugualmente guardarsi dalla assurda teoria di Eutiche il quale, volendo sottolineare l'unità della persona in Gesù Cristo, distruggeva ambedue le sue nature. Abbiamo già menzionato molte testimonianze della Scrittura in cui la natura divina è distinta da quella umana: e sono tante da chiudere la bocca al più contenzioso. Quanto prima ne citerò altre per demolire questo errore. Ci basti per ora ricordarne una sola: Gesù Cristo non avrebbe definito il proprio corpo un "tempio " (Gv. 2.19) se la sua divinità non vi avesse abitato così come l'anima dimora nel corpo.

Come dunque Nestorio fu giustamente condannato al concilio di Efeso, così anche Eutiche meritava la condanna che ha ricevuto al concilio di Costantinopoli come a quello di Calcedonia. Non è lecito confondere le due nature di Gesù Cristo più di quanto sia lecito separarle; bisogna distinguerle mantenendole unite.

5. È sorto nel nostro tempo un mostro, non meno pernicioso degli eretici antichi, chiamato Michele Serveto, il quale ha voluto immaginare al posto del figlio di Dio, non so qual fantasma composto dell'essenza di Dio, del suo Spirito, di carne e di tre elementi non creati.

In primo luogo egli nega che Gesù Cristo sia figlio di Dio se non in quanto è stato generato nel ventre della Vergine dallo Spirito Santo. La sua astuzia tende ad annullare la distinzione tra le due nature, in modo da vedere in Cristo una massa o mescolanza composta di una porzione di Dio e una dell'uomo, senza essere né Dio né uomo. L'assunto dei suoi discorsi è questo: prima che Gesù Cristo fosse manifestato in carne, vi erano in Dio solo ombre ed immagini la cui verità e il cui effetto hanno incominciato a realizzarsi solo quando la Parola ha incominciato ad essere figlio di Dio, al qual onore era predestinata.

Noi riconosciamo che il mediatore, nato dalla vergine Maria, è il figlio di Dio, propriamente parlando. Infatti se non lo fosse, Gesù Cristo in quanto uomo non sarebbe specchio della grazia inestimabile di Dio, avendo ricevuto la dignità di essere figlio unigenito di Dio. Tuttavia l'insegnamento della Chiesa rimane chiaro: egli deve essere riconosciuto figlio di Dio perché essendo prima di tutti i secoli Parola generata dal Padre, ha preso la nostra natura unendola alla propria divinità.

Questo è stato definito dagli Antichi unione ipostatica, intendendo dire con questa espressione che le due nature sono state congiunte in una sola persona. Questa formula è stata elaborata ed adoperata per combattere Nestorio, il quale immaginava che il figlio di Dio avesse abitato nella carne senza però essere divenuto uomo.

Serveto ci accusa di creare due figli di Dio perché affermiamo che la Parola eterna era già figlio di Dio prima di rivestire la carne. Come se noi affermassimo qualcosa di diverso da quanto la Scrittura afferma, e cioè che colui che era figlio di Dio è stato manifestato nella carne. Sebbene fosse Dio prima di essere fatto uomo, questo non significa che abbia poi ricominciato ad essere un nuovo Dio.

Neppure vi è assurdità nell'affermare: è apparso nella carne il Figlio di Dio, il quale era tale già precedentemente a causa della genitura eterna. È questo che l'angelo dice alla vergine Maria: "Il Santo che nascerà da te sarà chiamato figlio di Dio ",: intendendo dire che l'appellativo di Figlio, rimasto occulto sotto la Legge sarebbe stato da allora in poi manifestato apertamente. Con questo concorda l'asserzione di san Paolo secondo cui, essendo ora figli di Dio, possiamo invocare Dio in piena libertà e fiducia dicendogli: Abbà, padre (Ro 8.15).

I santi padri non sono forse stati inclusi nella schiera dei figli di Dio? Fondandosi su questa certezza hanno invocato Dio quale Padre; ma quando il figlio unigenito di Dio è stato manifestato nel mondo, questa paternità celeste è stata meglio conosciuta e per questo motivo san Paolo ha attribuito questo privilegio al regno di Gesù Cristo. Dobbiamo tuttavia tenere per certo il fatto che Dio è sempre stato padre degli uomini e degli angeli unicamente in relazione al suo figlio unigenito, specialmente degli uomini che giustamente odia a causa della loro iniquità, e che siamo figli per adozione mentre Gesù Cristo lo è per natura. Serveto replica che questa grazia deriva dal fatto che Dio aveva predestinato nella sua mente di avere un figlio che fosse capo di tutti gli altri. Rispondo che non è questione di prefigurazioni, come nel caso del sangue degli animali sacrificati, che simboleggiava la purificazione dei peccati; ma dato che i padri sotto la Legge non avrebbero potuto essere figli di Dio di fatto se la loro adozione non fosse stata fondata sul Capo, sarebbe privo di senso negargli quello che aveva in comune con le sue membra.

Andrò oltre: la Scrittura chiama gli angeli "figli di Dio "eppure la loro dignità non dipendeva dalla futura redenzione; bisogna dunque che Gesù Cristo li preceda nell'ordine, dato che è lui a unirli al Padre.

Riassumerò di nuovo brevemente la mia tesi, considerando gli uomini e gli angeli: essi sono stati creati all'origine del mondo avendo Dio quale Padre comune; ma secondo l'affermazione di san Paolo Gesù Cristo è stato sempre Capo e primogenito di ogni creatura per avere la preminenza su tutti (Cl. 1.15); di conseguenza se ne può concludere che il figlio di Dio esisteva prima della creazione del mondo.

6. Se la dignità di Figlio ha avuto origine allorché Cristo è apparso nella carne, ne consegue che è Figlio rispetto alla natura umana. Serveto e gli esaltati suoi pari vogliono che Gesù Cristo sia considerato figlio di Dio in quanto è apparso in carne, perché non potrebbe essere considerato tale senza la natura umana.

Vorrei sapere se lo considerano Figlio secondo tutte e due le nature? È ben questo che vanno blaterando ma san Paolo parla in modo molto diverso.

Riconosciamo che Gesù Cristo, nella sua umanità, è Figlio di Dio, non come i credenti solamente per adozione e per grazia, ma in modo reale e naturale e di conseguenza unico: e in questo modo è distinto da tutti gli altri. Dio fa l'onore, a quanti siamo rigenerati a vita nuova, di considerarci suoi figli; ma riserva a Gesù Cristo il titolo di Figlio vero e unigenito. E in qual modo sarebbe unico di fronte ad un tal numero di fratelli se non in quanto abbiamo ricevuto come dono quanto egli possiede per natura?

Questo onore lo estendiamo a tutta la persona del mediatore: colui che è nato dalla Vergine e si è offerto per noi sulla croce è veramente figlio di Dio, ma riguardo alla sua divinità, come insegna san Paolo, affermando che è stato scelto per servire l'Evangelo promesso da Dio riguardo al proprio figlio, generato dal seme di Davide secondo la carne, dichiarato figlio di Dio con potenza (Ro 1.1-4). Perché chiamandolo figlio di Davide secondo la carne aggiungerebbe poi che è stato dichiarato figlio di Dio, se non volesse indicare che questa dignità non dipende dalla natura umana ma ha un'origine diversa? Nello stesso senso l'Apostolo dice in un altro passo che Gesù Cristo ha sofferto per la debolezza della propria carne ed è riuscito per la potenza dello Spirito (2 Co. 13.4) , sottolineando la diversità tra le due nature.

Quei sognatori devono riconoscere, lo vogliano o no, che come Gesù Cristo ha ricevuto da sua madre la natura, a causa della quale è chiamato figlio di Davide, parallelamente riceve da suo Padre la natura che gli fa ottenere la qualifica di Figlio e che è distinta e diversa dalla sua umanità. La Scrittura gli attribuisce l'una e l'altra, chiamandolo ora figlio di Dio, ora figlio dell'uomo.

Per quanto riguarda questo secondo appellativo, non v'è motivo per cui non venga chiamato figlio dell'uomo secondo l'uso corrente della lingua ebraica, dato che discende dalla stirpe di Adamo. Sostengo al contrario che è chiamato figlio di Dio a causa della sua divinità e della sue eterna essenza. Non è meno corretto che sia chiamato figlio di Dio in riferimento alla natura divina, di quanto lo sia l'essere chiamato figlio dell'uomo in riferimento a quella umana.

Insomma, nel passo menzionato san Paolo vuole indicare che Gesù Cristo, generato dal seme di Davide secondo la carne, è stato dichiarato figlio di Dio; così come in un altro passo dice che sebbene sia disceso dagli Ebrei secondo la carne, è Dio benedetto in eterno (Ro 9.5). Se tutti e due i passi sottolineano la distinzione delle due nature, con quale giustificazione Serveto ed i suoi complici negheranno che Gesù Cristo, che è figlio dell'uomo secondo la carne, sia figlio di Dio rispetto alla natura divina?

7. Si danno un gran daffare per sostenere la loro tesi e citano questi passi: Dio non ha risparmiato il proprio figlio (Ro 8.32); Dio ha detto all'angelo di chiamare figlio del Signore colui che sarebbe nato dalla Vergine (Lu 1.32). Non si inorgogliscano però in una argomentazione così futile e considerino assieme a me la validità delle loro tesi.

Se vogliono dedurre che Gesù Cristo, essendo definito Figlio di Dio quando è concepito, ha incominciato ad esser tale solo dopo quel momento, ne conseguirà che la Parola, che è Dio, avrà iniziato la propria esistenza solo dopo essere stata manifestata in carne, dato che san Giovanni afferma di annunciare la Parola che ha toccato con le proprie mani (1 Gv. 1.1). Se persistono nel sostenere questa tesi, come potranno spiegare l'affermazione del Profeta: "Tu o Betleem, terra di Giudea, piccola tra i distretti di Giuda, da te nascerà il governatore che presiederà sul mio popolo Israele; le cui origini rIs.lgono ai tempi antichi, ai giorni eterni " (Mi. 5.1) ?

Le argomentazioni di Serveto contro di noi si dissolvono come fumo. Questo non significa, in alcun modo, sostenere Nestorio, che si è fabbricato un doppio Cristo: ma dico che Gesù Cristo ci ha fatti figli di Dio con se, in virtù del fraterno legame che ha con noi, perché nella carne che ha assunto da noi è veramente figlio unigenito di Dio. E sant'Agostino saggiamente ricorda che è una prova eccezionale della grazia singolare di Dio il fatto che Gesù Cristo, in quanto uomo, sia pervenuto a così alto onore, che non avrebbe potuto meritare. Gesù Cristo ha dunque avuto l'onore di essere figlio di Dio, nella sua carne, anzi fin dal ventre della madre; e tuttavia non bisogna immaginare nell'unità della sua persona una mescolanza confusa che tolga alla divinità quel che gli è proprio.

Del resto il fatto che la Parola eterna di Dio sia sempre stata suo figlio e che dopo la sua manifestazione in carne, essa sia definita come suo figlio in varie maniere e sotto diversi aspetti non è più assurdo del fatto che Gesù Cristo stesso, a seconda dei casi, sia definito talvolta figlio di Dio e talvolta figlio dell'uomo.

Vi è ancora una tesi assurda di Serveto, che però non ci preoccupa affatto. Egli afferma che nella Scrittura l'attributo di Figlio non è mai dato alla Parola, prima della venuta del Redentore, se non simbolicamente.

Rispondo. Anche se l'affermazione di questa figliolanza è più oscura sotto la Legge, tuttavia abbiamo dimostrato chiaramente che Cristo non sarebbe Dio eterno se non fosse questa Parola eternamente generata dal Padre e, nella persona assunta di mediatore, questo attributo non gli si potrebbe attribuire se non fosse Dio manifestato in carne; ancor di più, Dio non potrebbe essere chiamato Padre fin dall'inizio se non vi fosse stata fin da allora una mutua corrispondenza con il Figlio unigenito, dal quale origina ogni parentela o paternità nel cielo e sulla terra (Ef. 3.15). La conclusione inevitabile è che sotto la Legge ed i Profeti Gesù Cristo non ha cessato d'essere figlio di Dio, sebbene questo appellativo non fosse molto usato nella Chiesa.

Se la disputa fosse di natura unicamente terminologica si potrebbe ricordare che Salomone, predicando l'infinita grandezza di Dio, afferma l'incomprensibilità sua e del Figlio; ecco le sue parole: "Dimmi il suo nome, se puoi, o il nome di suo figlio " (Pr 30.4). So che questa testimonianza non avrà gran peso presso gli ostinati; né mi ci affido completamente, ma serve a mostrare che quanti affermano Gesù Cristo essere stato figlio di Dio solo dopo aver rivestito la nostra carne, non fanno che cercar cavilli malignamente.

Bisogna anche notare che i dottori più antichi hanno sempre di comune accordo insegnato in questo modo ed è detestabile e ridicola impudenza da parte dei moderni eretici farsi scudo di Ireneo e Tertulliano, visto che ambedue riconoscevano che Gesù Cristo, finalmente apparso in modo visibile, era in precedenza figlio invisibile di Dio.

8. Serveto ha accumulato molte orribili bestemmie che forse alcuni dei suoi discepoli non accetterebbero. Resta il fatto che chiunque non riconosce Gesù Cristo quale figlio di Dio nella sua carne, se messo alle strette manifesterà la sua empietà: considerare cioè Gesù Cristo quale figlio di Dio solo per il fatto che è stato concepito dallo Spirito Santo; come i Manichei hanno farneticato nel passato dicendo che l'anima di Adamo era un rampollo dell'essenza di Dio dato che leggevano: "Dio gli ha ispirato un'anima vivente " (Ge 2.7). Quei pasticcioni si fissano sul nome di Figlio al punto di non lasciare più alcuna differenza tra le due nature e blaterano confusamente che Gesù Cristo uomo è figlio di Dio perché è generato da Dio secondo la natura umana. E allora sarebbe abolita la genitura eterna di cui si parla altrove (Ecclesiaste 24.9); e quando si parlerà del mediatore la natura divina non sarà presa in considerazione oppure si immaginerà un fantasma al posto di Gesù Cristo uomo.

Sarebbe utile qui refutare tante illusioni enormi e perniciose di Serveto e di molti altri, in modo che il lettore ne fosse ammonito ad attenersi alla sobrietà ed alla modestia: ma mi sembra superfluo farlo dato che ho scritto un libro apposito.

 Il riassunto dei loro errori è questo: il Figlio di Dio fin dal principio è stato una idea o un simbolo e da allora è stato predestinato a diventare l'uomo immagine dell'essenza di Dio. Alla Parola, che secondo san Giovanni è sempre stata vero Dio, questo miserabile sostituisce una manifestazione esteriore.

Serveto interpreta in questo modo la genitura di Gesù Cristo: vi è stata una volontà generata in Dio di aver un figlio, che ha avuto effetto quando è stato formato. Così mescola e confonde lo Spirito con la Parola: afferma infatti che Dio ha dispensato la Parola invisibile e lo Spirito sulla carne e sull'anima. Insomma, al posto della genitura sostituisce dei simboli che ha immaginato a suo piacimento. E vi aggiunge che vi è stato un figlio in ombra che è stato generato dalla Parola, alla quale attribuisce la funzione di seme.

Chi segue diligentemente le sue fantasie giunge alla conclusione che i porci ed i cani sono anch'essi figli di Dio, dato che sono creati dal seme originale della sua Parola. E mentre questo pasticcione considera Gesù Cristo composto di tre elementi non creati per sostenere che è generato dall'essenza di Dio, d'altra parte ne sottolinea talmente la primogenitura tra tutte le creature, da ritenere esservi la medesima divinità essenziale anche nelle pietre, a seconda del loro grado! Perché non lo si accusi di voler spogliare Gesù Cristo della sua divinità, afferma che la sua carne è costituita della sostanza stessa di Dio e che la Parola è stata fatta carne in quanto la carne è stata convertita nella sostanza di Dio. Di sorta che può accettare Gesù Cristo come figlio di Dio solo se la sua carne è originata dall'essenza divina ed e nuovamente convertita in divinità. Rimane così annullata la seconda persona che è in Dio e svanisce il figlio di Davide, che invece era stato promesso quale redentore. Serveto ripete spesso l'affermazione che il figlio di Dio è stato generato nella prescienza o nella predestinazione e finalmente è stato fatto uomo con la materia che risplendeva in Dio al principio formata di tre elementi e che infine è apparsa al primo albeggiare del mondo nella nube e nella colonna di fuoco.

Sarebbe troppo lungo rilevare come si contraddica ad ogni passo; ma ogni lettore cristiano comprenderà da questo compendio che quel cane mastino si propone, con le sue divagazioni, di spegnere ogni speranza di salvezza. Se infatti la carne fosse essa stessa divina, non potrebbe essere tempio della divinità; né possiamo avere un redentore se non è generato realmente secondo la carne, diventando vero uomo. Serveto, facendosi scudo delle parole di san Giovanni, afferma perversamente che la Parola è stata fatta carne; ma queste parole condannano l'errore di Nestorio come anche l'eresia di Eutiche che Serveto ha rinnovato; infatti san Giovanni non ha altro scopo che di stabilire l'unità della persona nelle due nature.

 

 

CAPITOLO XV

L'UOMO QUALE È STATO CREATO: TRATTIAMO DELL'IMMAGINE DI DIO, DELLE FACOLTÀ DELL'ANIMA, DEL LIBERO ARBITRIO E DELLA ORIGINARIA INTEGRITÀ DELLA SUA NATURA

 

1. Occorre ora parlare della creazione dell'uomo, innanzitutto perché è il più nobile ed eccellente capolavoro in cui appaiono la giustizia di Dio, la sua sapienza e bontà. Inoltre, come abbiamo detto, non possiamo conoscere Dio chiaramente e con certezza se non interviene parallelamente la conoscenza di noi stessi. Vi sono due aspetti nella conoscenza di noi stessi: quali siamo stati formati nella nostra prima origine e in séguito la condizione in cui siamo precipitati dopo la caduta di Adamo. (Non servirebbe a nulla conoscere la nostra condizione primitiva se, attraverso la miserabile rovina che ha poi avuto luogo, non comprendessimo quali sono la nostra corruzione e la deformità della natura) . Per il momento limitiamoci però a esaminare l'integrità che ci fu data all'inizio.

Prima di considerare la misera condizione in cui l'uomo si trova imprigionato, bisogna intendere quale era in origine; dobbiamo infatti evitare, sottolineando troppo accentuatamente i vizi naturali dell'uomo, di sembrare imputarli all'autore della sua natura. L'empietà crede di potersi difendere con questa giustificazione: quanto essa ha di male proviene in qualche modo da Dio e quando la si accusa non esita a rimproverarlo e a rigettare su lui la colpa di cui è giustamente accusata. E quanti vogliono far credere di parlare con maggiore venerazione di Dio, non si stancano di cercare scuse ai propri peccati menzionando la propria natura viziata; non pensano che così facendo accusano Dio di una colpa, anche se indirettamente, perché se vi fosse qualche difetto nella nostra natura originaria, questo risulterebbe a suo disonore. Vedendo dunque la carne così preoccupata di cercare ogni sotterfugio con cui scaricare in qualche modo la colpa dei propri difetti, è necessario opporsi fermamente a tale malvagità. Dobbiamo trattare della sciagura del genere umano in modo di tagliar corto ad ogni scappatoia, onde la giustizia di Dio sia affermata contro ogni accusa e ogni critica. Vedremo in séguito, a suo tempo e a suo luogo, come siamo lontani dalla purezza che era stata data al padre nostro Adamo. Notiamo in primo luogo, che egli è stato tratto dalla terra per essere tenuto a freno onde non s'inorgoglisse. Non v'è nulla di più irragionevole che gloriarci della nostra dignità abitando una dimora di terra e fango, anzi essendo in parte terra e fango. Ma Dio non solamente ha dato l'anima a questo povero vaso di terra, ma anche si è degnato di farlo dimora di uno spirito immortale, di questa immensa liberalità del suo creatore Adamo aveva di che gloriarsi.

2. Il fatto che l'uomo sia costituito da due parti, vale a dire il corpo e l'anima, non deve sollevare problemi. Con questo termine "anima "intendo lo spirito immortale, ma creato, che è la parte più nobile. Talvolta la Scrittura la chiama spirito; questi due termini quando sono uniti insieme differiscono l'uno dall'altro nel significato, ma quando il termine "spirito "si trova da solo equivale ad anima. Così Salomone parlando della morte, dice che lo spirito ritorna a Dio che lo aveva dato (Ec. 7) ; e Gesù Cristo raccomanda il proprio spirito a Dio (Lu 23.46) e santo Stefano a Gesù Cristo (At. 7.59). In questi passi vuole affermare soltanto che quando l'anima sarà uscita dalla prigione del corpo, Dio ne sarà custode perpetuo.

Il grossolano errore di quelli che danno a questa parola spirito il significato di: alito o forza infusa nel corpo, priva però di realtà, è smentito dai fatti e dalla Scrittura tutta. È bensì vero che gli uomini rivolti alla terra più di quanto dovrebbero si inebetiscono e, anzi, allontanati dal Padre e dalla luce, si accecano nelle proprie tenebre fino al punto di pensare che non potranno vivere dopo la morte. Tuttavia la luce non è spenta nelle tenebre al punto che non permanga in loro un qualche sentimento della propria immortalità. La coscienza che, discernendo tra il bene e il male, risponde al giudizio di Dio, è un indice infallibile dell'immortalità dello spirito. Come potrebbe un moto senza realtà presentarsi dinnanzi al giudizio di Dio e imprimere in noi timore della condanna che abbiamo meritato? Il corpo non teme una punizione spirituale: un sentimento di questo genere compete alla sola anima, ne consegue che essa non è priva di realtà.

In secondo luogo, la conoscenza che abbiamo di Dio dimostra che le anime sono immortali, esse infatti indagano oltre il mondo e una ispirazione che svanisce non potrebbe giungere alla sorgente di vita. Insomma, le numerose qualità degne di nota di cui l'anima è adornata, mostrano chiaramente impresso in essa un non so che di divino; e sono altrettante testimonianze della sua essenza immortale. Infatti il sentimento delle bestie brute non oltrepassa il loro corpo e non si estende oltre le realtà offerte ai sensi; ma l'agilità dello spirito umano che percorre il cielo e la terra e i segreti della natura, dopo aver raccolte tante cose nella sua memoria, elaborandole e traendo dal passato le conseguenze per l'avvenire, mostra esservi nell'uomo una parte separata dal corpo. Con l'intelligenza concepiamo Dio e gli angeli che sono invisibili, cosa che il corpo non potrebbe fare; possiamo intendere quanto è diritto, giusto ed onesto, e questo non può essere fatto dai nostri sensi corporei.

Bisogna dunque che lo spirito sia sede e fondamento di questa intelligenza. Persino il sonno, che abbruttendo gli uomini sembra privarli della loro vita, è testimone verace della loro immortalità: poiché non solamente suggerisce riflessione e comprensione di realtà che non hanno mai visto la luce, ma anche le informa delle cose future con quelli che si usano chiamare presagi. Accenno brevemente a queste cose che sono esaltate con grande eloquenza persino dagli scrittori profani: ma ai lettori cristiani sarà sufficiente ricordarle semplicemente.

Inoltre, se l'anima non fosse un'essenza diversa dal corpo, la Scrittura non insegnerebbe che abitiamo una dimora di fango e che morendo usciamo da una abitazione e spogliamo quanto è corruttibile per ricevere nell'ultimo giorno la retribuzione, secondo che ciascuno si sarà comportato nel suo corpo. Certamente questi passi ed altri simili, abbastanza comuni, non solamente distinguono l'anima dal corpo ma attribuendo ad essa complessivamente l'appellativo di uomo, la indicano quale parte principale di noi stessi. Per di più san Paolo, esortando i credenti a purificarsi di ogni impurità di carne e di spirito (2 Co. 7.1) stabilisce senza dubbio due parti nelle quali risiedono le impurità del peccato. Anche san Pietro chiamando Gesù Cristo: pastore delle anime (1 Pi. 2.25) parlerebbe scioccamente se non ci fossero delle anime verso le quali egli esercita questo ufficio. E quanto dice della salvezza eterna delle anime risulterebbe privo di fondamento; ugualmente quando ci ordina di purificare le nostre anime e ricorda che le malvagie cupidigie combattono contro l'anima (1 Pi. 1.9; 2.2) . Lo stesso vale per la epistola agli Ebrei: i pastori vegliano dovendo rendere conto delle nostre anime (Eb. 13.17) ; l'affermazione non avrebbe senso se le nostre anime non avessero una esistenza propria. Con questo si accorda l'invocazione di Dio quale testimone per la propria anima, da parte di san Paolo; se essa non fosse soggetta alla punizione non potrebbe essere chiamata in giudizio davanti a Dio. Una espressione ancora più chiara è nelle parole di Gesù Cristo in cui ci comanda di temere colui che, dopo aver messo a morte il corpo, può mandare l'anima nella geenna del fuoco (Mt. 10.28; Lu 12.5) . Così l'Apostolo nella epistola agli Ebrei, affermando che gli uomini sono i nostri padri carnali ma che Dio è il solo padre degli spiriti (Eb. 12.9) , non poteva dimostrare meglio l'essenza delle anime.

Quel che è più importante, se le anime, liberate dai legami del loro corpo, non continuassero ad esistere non avrebbe alcun senso che Gesù Cristo ci presenti l'anima di Lazzaro godente del riposo e della gioia nel seno di Abramo mentre al contrario l'anima del ricco è tormentata in modo orribile (Lu 16.22) . Lo stesso è confermato da san Paolo quando dice che siamo pellegrini lontani da Dio finché abitiamo nella carne, ma gioiremo della sua presenza quando saremo usciti dal corpo (2 Co. 5.6-8) . Per non dilungarmi su un argomento affatto oscuro ricorderò solo che san Luca enumera tra gli errori dei Sadducci la loro credenza che non esistano spiriti né angeli (At. 23.8) .

3. Prova sicura e solida si può trarre anche dal fatto che l'uomo è stato creato a immagine di Dio (Ge 1.27) . Sebbene la gloria di Dio splenda anche nella parte esterna dell'uomo, non v'è dubbio tuttavia che sede di questa immagine sia l'anima. Non nego che la forma corporea che ci distingue dalle bestie brute ci congiunga a Dio e ci avvicini a lui. E se qualcuno pretende che l'immagine di Dio si esprima anche nel fatto che l'uomo ha la testa levata in alto e gli occhi alzati al cielo per contemplare la sua origine, mentre le bestie hanno la testa volta in basso, non lo contraddirò. Rimanga però sempre certo questo punto, che l'immagine di Dio visibile, o almeno modestamente riflessa in questi segni apparenti, è in realtà spirituale. Alcuni troppo fantasiosi come Osiandro, ponendo questa immagine indistintamente sia nel corpo che nell'anima, mescolano, come si dice, la terra con il cielo. Dicono che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo hanno collocato la propria immagine nell'uomo perché anche se Adamo fosse rimasto nella sua integrità, Gesù Cristo sarebbe comunque diventato uomo. Secondo la loro fantasticheria la natura corporea che doveva prendere Gesù Cristo è stato il modello del corpo umano. Ma dove troveremo che Gesù Cristo sia l'immagine dello Spirito Santo? Riconosco volentieri che nella persona del mediatore risplende la gloria di tutta la divinità: ma come potrebbe la Sapienza eterna essere considerata immagine dello Spirito se essa lo precede nell'ordine? In breve, tutta la distinzione tra Figlio e Spirito Santo è rovesciata se lo Spirito Santo definisce il Figlio come propria immagine. Vorrei anche sapere da costoro in che modo Gesù Cristo rappresenta nella sua carne lo Spirito Santo e quali sono i tratti di una tale rassomiglianza. Questa intenzione: "Facciamo l'uomo simile alla nostra immagine " (Ge 1.26) è comune alla persona del Figlio: ne seguirebbe dunque che egli stesso è la propria immagine, il che è irragionevole. E ancora: se si accetta la loro fantasticheria, Adamo non sarebbe stato formato a somiglianza di Gesù Cristo se non in quanto questi doveva essere uomo. Così il modello su cui Adamo sarebbe stato formato sarebbe Gesù Cristo sotto l'aspetto dell'umanità di cui sarebbe stato rivestito. Ora la Scrittura mostra che egli è stato creato all'immagine di Dio in un altro senso. Più giustificate le argomentazioni di alcuni altri che affermano: Adamo è stato creato a immagine di Dio perché è stato conforme a Gesù Cristo che è questa immagine. Ma anche a questo riguardo non vi è alcuna prova.

Vi è anche una disputa non piccola relativa all'immagine e somiglianza perché i commentatori cercano in queste due parole una diversità che non esiste, poiché il termine "somiglianza "è stato aggiunto come esplicativo di "immagine ". Sappiamo che era abitudine degli Ebrei di usare una ripetizione per spiegare una cosa due volte. Quanto al significato non v'è dubbio che l'uomo sia chiamato immagine di Dio perché gli rassomiglia. Quanti dunque fantasticano sottilmente si rendono ridicoli sia che attribuiscano il nome di u immagine alla sostanza dell'anima e il termine "somiglianza "alle qualità, sia che offrano qualche altra interpretazione. Dio dopo aver parlato di "immagine ", per meglio chiarire quanto era un po' oscuro, aggiunge (come abbiamo detto) la parola "somiglianza "; come se dicesse che vuole formare l'uomo e in esso rappresenterà la propria immagine per mezzo dei segni di somiglianza che scolpirà in lui. Per questo motivo Mosè, raccontando poco dopo lo stesso episodio, adopera due volte il termine "immagine "senza fare menzione della "rassomiglianza".

L'obiezione di Osiandro è sciocca; egli dice che non è chiamata immagine di Dio una parte dell'uomo, cioè l'anima con tutte le sue facoltà, ma Adamo tutto intero a cui è stato imposto il nome della terra da cui è stato preso, Ogni persona di buon senso ne riderà. Perché quando tutto l'uomo è definito mortale, questo non vuol dire che l'anima sia sottomessa alla morte; né al contrario quando è detto che egli è un animale ragionevole, che la ragione o intelligenza appartenga al corpo. L'anima non è l'uomo completo, ma non bisogna trovare assurdo che, in riferimento ad essa, l'uomo sia chiamato immagine di Dio. Tuttavia sostengo questo punto, già menzionato: l'immagine di Dio definisce l'insieme della dignità che distingue l'uomo da ogni specie di animale.

In questa parola dunque è espressa l'integrità di cui era dotato Adamo quando aveva uno spirito retto, sentimenti ben regolati, sensi ben moderati, il tutto ben ordinato in se per rappresentare con tali doti la gloria del suo Creatore. E sebbene il seggio sovrano di questa immagine di Dio sia stato posto nello spirito e nel cuore o nell'anima e nelle sue facoltà, tuttavia non vi è alcuna parte, persino del corpo, in cui non ne brilli qualche scintilla. È noto che in tutte le parti del mondo appare qualche traccia della gloria di Dio: da questo si può arguire che mettendo l'immagine di Dio nell'uomo, tacitamente lo si distingue, sollevandolo al di sopra, da tutte le altre creature. Tuttavia non bisogna credere che gli angeli non siano stati creati ugualmente a somiglianza di Dio; la nostra sovrana perfezione, Cristo ne è testimone, sarà di rassomigliare loro (Mt. 22.30) . Ma giustamente Mosè, attribuendo particolarmente agli uomini questo titolo onorevole, magnifica la grazia di Dio verso di loro specialmente perché vuole siano paragonati solamente alle creature visibili.

4. Tuttavia non sembra esserci ancora una definizione completa di questa immagine se non viene mostrato più chiaramente perché l'uomo debba essere apprezzato e per quali prerogative debba essere considerato specchio della gloria di Dio. Questo non può essere conosciuto meglio che nella restaurazione della sua natura corrotta. Non v'è dubbio che Adamo, decaduto dal suo rango con la sua apostasia, si sia allontanato da Dio. Per questa ragione, pur riconoscendo che l'immagine di Dio non è stata del tutto annientata e cancellata in lui, tuttavia è stata così fortemente corrotta che quanto ne resta è una realtà orribilmente deformata. Il fondamento della salvezza sta in questa restaurazione che otteniamo mediante Gesù Cristo, che per questo motivo è chiamato il secondo Adamo, in quanto ci ricolloca nella situazione di integrità genuina.

San Paolo, contrapponendo lo spirito vivificante portato da Gesù Cristo all'anima vivente con cui Adamo è stato creato (1 Co. 15.45) , stabilisce una misura di grazia maggiore nella rigenerazione dei credenti che nella situazione primitiva dell'uomo. Tuttavia non annulla quanto abbiamo detto: il fine cioè della nostra rigenerazione è che Gesù Cristo ci riformi ad immagine di Dio. Parimenti altrove insegna che l'uomo nuovo è restaurato ad immagine di colui che l'ha creato (Cl. 3.10) ; cui corrisponde l'altra frase: "Vestitevi dell'uomo nuovo che è creato ad immagine di Dio " (Ef. 4.24) .

Cosa intende san Paolo con questa rigenerazione? In primo luogo la conoscenza, in secondo luogo una giustizia santa e genuina. Ne deduco che nel principio l'immagine di Dio si manifestava nella limpidezza di spirito, nella dirittura di cuore e nell'integrità di tutte le parti dell'uomo. Riconosco che queste espressioni di san Paolo intendono esprimere il tutto per mezzo di una parte, tuttavia non si può negare questo fatto: l'elemento principale nel rinnovamento dell'immagine di Dio, aveva nella creazione primaria importanza. A questo si riferisce quanto è scritto in un altro passo: a viso scoperto contempliamo la gloria di Cristo per essere trasformati a sua immagine (2 Co. 3.18) . Cristo è qui l'immagine perfettissima di Dio; se siamo conformati ad essa siamo talmente restaurati da rassomigliare a Dio nella vera pietà, giustizia, purezza e intelligenza. Con questo la fantasticheria della conformità del corpo umano con quello di Gesù Cristo svanisce da sola. Quanto al fatto che il maschio solamente è chiamato immagine e gloria di Dio e la donna è esclusa da tale onore (1 Co. 11.7) appare dal contesto che questo è limitato alla economia terrestre.

Credo di avere sufficientemente dimostrato che l'immagine di Dio, di cui ora trattiamo, si riferisce alla vita spirituale e celeste. Questo è confermato da san Giovanni allorché dice: la vita esistente fin dal principio nella Parola eterna di Dio è stata la luce degli uomini (Gv. 1.4) . Sua intenzione è di esaltare la grazia singolare di Dio che innalza la dignità degli uomini sopra tutti gli animali, di sorta che l'uomo è distinto dal resto, avendo non una vita bruta ma intelligenza e ragione. Così egli mostra come l'uomo sia stato creato all'immagine di Dio. L'immagine di Dio consiste nell'eccellenza della intera natura umana quale splendeva in Adamo prima della sua caduta e che in séguito è stata sfigurata e quasi cancellata, talché quanto rimane di questa rovina è confuso, spezzato, sconvolto e infettato. Ora questa immagine appare in una certa qual misura negli eletti in quanto sono rigenerati dallo Spirito: ma raggiungerà la sua pienezza solo nel cielo.

Per meglio veder nel dettaglio quali ne siano le parti, è utile trattare delle facoltà dell'anima. È malfondata infatti la riflessione di sant'Agostino secondo cui l'anima è uno specchio della Trinità dato che essa comprende in se intelligenza, volontà e memoria. Anche l'opinione di quanti pongono l'immagine di Dio nella preminenza che è stata data all'uomo nel mondo, non ha molta giustificazione né ragion d'essere: poiché pensano che l'uomo sia conforme a Dio per la caratteristica di essere stato stabilito proprietario e possessore di ogni cosa. È invece proprio in lui, e non intorno a lui, che dobbiamo cercare questo bene interiore dell'anima.

5. Prima di continuare è necessario confutare la fantasticheria dei Manichei cui Serveto si è sforzato di ridare vita ai nostri giorni. Quando è detto che Dio ha soffiato nel volto dell'uomo lo spirito di vita (Ge 2.7) hanno pensato che l'anima fosse un rampollo della sostanza di Dio quasi una porzione della divinità infusa nell'uomo. Ora è facile mostrare quali e quanto gravi assurdità comporti questo diabolico errore. Se l'anima dell'uomo nasce dall'essenza di Dio come un pollone, ne consegue che la natura di Dio è mutevole e soggetta alle passioni, persino all'ignoranza, alle malvagie cupidigie, alle infermità e ad ogni genere di difetti. Nulla è più incostante dell'uomo perché ha sempre dei moti contrari che conducono e distraggono la sua anima qua e là: si inganna e cade in errore ad ogni momento, soccombe a ben piccole tentazioni. In breve, sappiamo che l'anima è una spelonca ripiena di immondizie e fetori che bisognerebbe attribuire alla natura di Dio qualora si accettasse che l'anima sia parte della sua essenza come un rampollo lo è della sostanza dell'albero. Chi non inorridisce di fronte a tali mostruosità? È ben vera la citazione riportata da san Paolo di un poeta pagano secondo cui siamo discendenti di Dio (At. 17.28) ; ma questo si riferisce alla qualità, non alla sostanza, vale a dire al fatto che ci ha arricchito di facoltà e virtù divine. È segno di insensatezza assoluta voler smembrare l'essenza del creatore in modo che ciascuno ne possieda una parte.

Dobbiamo anche tener per certo che sebbene l'immagine di Dio sia scolpita nelle anime, esse non sono per questo meno create degli angeli. Ora creazione non è trasfusione, come se si travasasse il vino da un vaso in una bottiglia, ma indica il dare origine ad una essenza che non esisteva. E sebbene Dio dia lo spirito e poi lo riprenda, questo non significa che lo ritagli dalla propria sostanza come il ramo da un albero. Osiandro svolazzando nelle sue speculazioni prive di senso si è cacciato in un ben cattivo errore ed ha inventato una giustizia essenziale di Dio infusa nell'uomo: quasi Dio per la potenza infinita del suo Spirito non potesse renderci conformi a se, e in Gesù Cristo non versasse la sua sostanza in noi, in modo anzi che la sostanza della sua divinità venga nelle nostre anime. Si sforzino pure di abbellire queste illusioni con varie ragioni, non riusciranno mai a incantare le persone ragionevoli, che comprenderanno come tutto questo derivi dalla setta dei Manichei. E infine quando san Paolo tratta della nostra restaurazione, è facile dedurre dalle sue parole che Adamo, nella sua origine era conforme a Dio, non per deflusso di sostanza ma per la grazia e virtù dello Spirito Santo. Egli dice infatti che contemplando la gloria di Cristo, siamo trasformati nella stessa sua immagine come attraverso lo spirito del Signore (2 Co. 3.18) , il quale opera in noi non in modo da renderci però partecipi della sostanza di Dio.

6. Sarebbe follia rivolgersi ai filosofi per avere una definizione sicura dell'anima dato che nessuno di loro, eccettuato Platone, ne ha mai affermato esplicitamente l'essenza immortale. Gli altri discepoli di Socrate ne parlano, ma in modo incerto, perché nessuno ha osato definire quello di cui non era convinto. Platone ha una concezione più esatta degli altri in quanto considera che l'immagine di Dio dimori nell'anima mentre le altre sette vincolano le virtù e le facoltà dell'anima alla vita presente al punto da non lasciare quasi sussistere realtà all'infuori del corpo. Ma abbiamo più sopra insegnato con la Scrittura che si tratta di una sostanza senza corpo. Bisogna ora aggiungere che sebbene non possa essere contenuta in un luogo, tuttavia deposta ed alloggiata come nei corpi essa vi abita come in un domicilio, non solo per dare vigore alle membra e rendere gli organi esterni adatti ed utili alle loro azioni, ma anche per avere la preminenza onde reggere e governare la vita dell'uomo; non solamente nelle deliberazioni e negli atti concernenti la vita terrestre, ma anche per svegliarlo e guidarlo a temere Dio. Sebbene quest'ultimo punto non possa essere percepito chiaramente nella nostra natura corrotta, tuttavia qualche traccia rimane impressa in mezzo ai difetti. Donde viene infatti la grande preoccupazione degli uomini per la propria reputazione se non da un sentimento di vergogna che hanno scolpito in loro? E donde viene questa vergogna se non dal fatto che sono costretti a sapere che cosa è l'onestà? La sorgente e causa si trova nel fatto che essi comprendono di essere nati per vivere giustamente; in ciò è contenuto un qualche germe di religione.

L'uomo è stato, senza dubbio, creato per aspirare alla vita celeste, ma è altresì certo che il gusto e la comprensione di essa sono stati impressi nella sua anima. Infatti l'uomo sarebbe privato del frutto principale della sua intelligenza se ignorasse la propria felicità, la cui perfezione consiste nell'essere uniti a Dio. Tendere a questo scopo è così il fatto essenziale per l'anima e ognuno conferma, nello sforzo con cui si avvicina e tende a tale unione, di essere dotato di ragione.

Quanti affermano esservi numerose anime nell'uomo, per esempio la sensitiva e la razionale, sebbene sembrino proporre qualcosa di probabile, devono tuttavia essere respinti non essendo fondati su alcuna certezza. Non prendiamo piacere a tormentarci in cose frivole ed inutili. Essi dicono esservi una grande opposizione tra i movimenti del corpo, chiamati organici, e la parte razionale dell'anima; come se la ragione stessa non fosse agitata in se da diverse lotte e le sue deliberazioni e decisioni non combattessero spesso tra loro come un esercito contro l'altro. Questi disordini procedono dalla depravazione naturale; è erroneo dunque affermare l'esistenza di due anime solo perché le facoltà non si accordano in misura e proporzione eguale, come sarebbe giusto e necessario.

Per quanto riguarda le facoltà, lascio ai filosofi di specificarle in dettaglio; ci basterà averne una semplice esposizione per edificarci nella pietà. Riconosco che quanto insegnano su questo argomento è vero e non solamente gradevole a conoscersi ma utile e ben elaborato e non vorrei affatto scoraggiare quanti hanno desiderio di imparare dall'applicarvi il loro studio. Accetto dunque in primo luogo i cinque sensi, che Platone però preferisce chiamare organi; per essi, come attraverso canali, tutti gli oggetti che si presentano alla vista, al gusto, all'olfatto o al tatto scorrono al senso comune come in una cisterna che riceve da una parte e dall'altra. In séguito l'immaginazione, che discerne quanto il senso comune ha concepito e appreso; poi la ragione, che compie il suo ufficio giudicando di tutto. Infine sopra alla ragione è l'intelligenza che contempla ogni cosa toccata dalla ragione nei suoi discorsi con sguardo posato e determinato. Così vi sono tre virtù nell'anima volte a conoscere ed intendere, e per questo sono chiamate cognitive; vale a dire la ragione, l'intelligenza e la fantasia. Ad esse corrispondono tre altre appartenenti al desiderio; vale a dire la volontà, il cui ufficio è di realizzare quanto l'intelligenza e la ragione le propongono; la collera che segue quanto le è presentato dalla ragione e dalla fantasia; la concupiscenza che si appropria di quanto le è sottoposto dalla fantasia e dai sensi.

Siano pur vere tutte queste cose, o per lo meno verosimili; tuttavia non è il caso di soffermarcisi, poiché c'è il pericolo che non ci possano affatto aiutare e ci potrebbero tormentare molto con la loro oscurità. A qualcuno sembra bene distinguere altrimenti le facoltà dell'anima: per esempio è chiamata "appetitiva" quella che, senza avere ragione in se obbedisce tuttavia alla ragione: l'altra è chiamata "intellettiva "e partecipa alla ragione. Io non farò molte obbiezioni. Non vorrei neanche contraddire quanto afferma Aristotele, che vi sono tre cose da cui procedono tutte le azioni umane: vale a dire senso, intelletto e appetito. Scegliamo piuttosto la distinzione offertaci dai filosofi che può essere compresa dai più semplici: quando vogliono parlare molto semplicemente, dopo aver diviso l'anima in appetito ed intelligenza, dividono ancora ciascuna in due parti. Affermano esservi una "intelligenza contemplativa "che non passa all'azione ma si ferma semplicemente a contemplare ed è espressa dalla parola ingegno come dice Cicerone. L'altra è "pratica "e dopo avere appreso il bene o il male, muove la volontà a seguirlo o fuggirlo: in questo è contenuta la scienza del vivere rettamente. Similmente dividono l'appetito in concupiscenza e volontà: "volontà "quando il desiderio dell'uomo segue la ragione, "concupiscenza "quando si lascia andare all'intemperanza respingendo il giogo della razionalità. In tutto questo pensano esserci nell'uomo una ragione con la quale egli può rettamente governarsi.

7. Siamo costretti ad assumere un certo distacco da questo modo di insegnare perché i filosofi non avendo mai conosciuto il peccato originale, che è la punizione per la rovina di Adamo, confondono con leggerezza due situazioni dell'uomo molto diverse l'una dall'altra. Dobbiamo dunque adoperare un'altra divisione: vi sono due parti nella nostra anima, intelligenza e volontà. L'intelligenza serve a discernere fra tutte le cose che ci vengono proposte e a giudicare quanto dobbiamo accettare o condannare. Compito della volontà è di accettare e seguire quanto l'intelletto avrà giudicato essere buono e al contrario respingere e fuggire quanto sarà stato riprovato. Non dobbiamo lasciarci fermare qui dall'obbiezione troppo sottile di Aristotele, secondo cui nell'intelligenza non vi è propriamente alcun movimento, ma è la scelta a muovere l'uomo; senza smarrirci in questioni superflue, ci basti sapere che l'intelletto è come la guida dell'anima, la volontà dipende dal suo beneplacito e non ha desideri finché abbia avuto la sua approvazione. Tuttavia Aristotele molto giustamente afferma in un altro passo che il respingere o il desiderare è per l'appetito ciò che il negare o l'approvare sono per l'intelletto. Vedremo in séguito quanto la direzione dell'intelletto sia sicura nel guidare la volontà. Non pretendiamo a questo punto far altro che mostrare come tutte le virtù dell'anima umana si riducano ad uno di questi due aspetti. In questo modo i sensi sono inclusi nell'intelletto mentre invece i filosofi li separano affermando che questi propendono al piacere e quello all'onestà e alla virtù; tanto più che invece del termine appetito adoperiamo la parola volontà, che è più usata.

8. Dio ha fornito dunque all'anima l'intelligenza con la quale poter discernere il bene dal male, il giusto dall'ingiusto e vedere ciò che debba seguire o fuggire, guidata dalla luce della ragione. Per questo motivo i filosofi hanno definito: direttrice, questa parte dell'anima. Parimenti egli vi ha aggiunto la volontà che comporta la possibilità di scelta. Queste facoltà hanno ornata e nobilitata la condizione primitiva dell'uomo affinché avesse abilità, prudenza, giudizio e discrezione non solo per quanto concerne la vita terrestre, ma per giungere fino a Dio e alla perfetta felicità. Vi è stata aggiunta la facoltà di scelta per guidare i desideri, moderando tutti i movimenti chiamati organici, in modo che la volontà si conformasse perfettamente alla regola e alla moderazione della ragione.

In questa integrità l'uomo possedeva il libero arbitrio con il quale avrebbe ottenuto la vita eterna se avesse voluto. È fuori luogo menzionare qui la predestinazione occulta di Dio perché la questione non è di sapere quel che avrebbe potuto avvenire o meno, ma quello che la natura dell'uomo è stata di per se. Adamo, se avesse voluto, avrebbe potuto rimanere in piedi, dato che e caduto per volontà propria. Ma la sua volontà era orientabile verso il bene e verso il male e non gli era data costanza di perseverare; perciò cadde subito e così facilmente. Tuttavia egli ha potuto scegliere tra il bene e il male; non solo, ma vi era una integrità perfetta tanto nella sua intelligenza quanto nella sua volontà. E anzi, tutte le parti dell'organismo erano inclini e pronte ad obbedire al bene fino a quando, perdendosi e rovinandosi, egli ha corrotto tutti i suoi beni. Su questo punto i filosofi sono stati accecati e ottenebrati cercando un edificio intero e bello un rudere e rapporti ben regolati in un caos. Si sono attenuti a questo principio: l'uomo non sarebbe un animale razionale se non potesse scegliere tra il bene e il male. Erano anche d'avviso che se l'uomo non può impostare la propria vita con decisioni proprie non esiste alcuna distinzione tra i vizi e le virtù. Avrebbero avuto ragione se non vi fosse stato alcun cambiamento nell'uomo. Essendo loro ignota la caduta di Adamo e il disordine che ne è seguito, non bisogna stupirsi se hanno mescolato cielo e terra.

Coloro però che si dichiarano cristiani e tuttavia tengono i piedi in due staffe mischiando la volontà di Dio con quanto hanno detto i filosofi e cercando ancora nell'uomo quel libero arbitrio, che è stato perso e rovinato nella sua morte spirituale, sono del tutto insensati e non stanno né in cielo né in terra, come vedremo a suo tempo. Per ora dobbiamo ritenere che Adamo nella originaria creazione era ben diverso da tutta la sua discendenza. Questa, derivando da una radice corrotta e marcia, ne ha tratto un contagio ereditario. Tutte le parti dell'anima erano preordinate ad avere ciascuna il suo posto, l'intelletto era sano ed integro, la volontà era libera di scegliere il bene. Se si obietta che essa si trovava in una posizione pericolosa perché aveva una facoltà e una possibilità inefficienti, risponderò che per togliere ogni scusa basta il fatto che Dio l'avesse posta nella situazione che abbiamo detto. Infatti non c'era ragione perché Dio fosse costretto a creare l'uomo tale da non poter o non voler in alcun modo peccare. È vero che in tal modo la sua natura sarebbe risultata più eccellente, ma è irragionevole lamentarsi e criticare Dio come se egli fosse stato tenuto a dotare l'uomo di questa virtù: se avesse voluto avrebbe potuto dargli ancora meno. Perché Dio non l'ha sostenuto affinché perseverasse, è un fatto nascosto nel suo segreto consiglio e il nostro dovere è di essere sobri. Adamo che aveva ricevuto tali virtù non è dunque scusabile per aver volontariamente causato male e confusione senza che alcuna necessità gliene fosse stata imposta da Dio, il quale gli aveva precedentemente dato una volontà neutra e che si poteva volgere al bene e al male. E sebbene essa fosse fallibile, Dio non ha mancato di trarre occasione di gloria dalla caduta.

 

 

CAPITOLO XVI

IN CHE MODO GESÙ CRISTO HA SVOLTO IL SUO UFFICIO DI MEDIATORE PER ACQUISTARCI SALVEZZA: TRATTIAMO DELLA SUA MORTE, DELLA SUA RESURREZIONE E DELLA SUA ASCENSIONE

 

1. Quanto detto sin qui del nostro Signore Gesù Cristo deve farci prender coscienza di questo fatto: dannati, morti e perduti noi dobbiamo cercare giustizia, vita e salvezza in lui; come sottolinea san Pietro dicendo che non v'è sotto il cielo alcun altro nome dato agli uomini per il quale possano essere salvati (At. 4.12). Il nome "Gesù "infatti non gli è stato attribuito a caso o per capriccio umano, ma è stato recato dal cielo dall'angelo, araldo del decreto eterno ed inviolabile, che ne ha spiegato il motivo: egli era inviato per salvare il popolo riscattandolo dai suoi peccati (Mt. 1.21; Lu 1.31). Notiamo ancora una volta qui che l'ufficio di redentore gli è stato attribuito perché fosse anche nostro salvatore.

La redenzione sarebbe solo parziale se non ci accompagnasse con progresso continuo fino al termine della nostra salvezza. Per questo motivo non possiamo allontanarci neppur minimamente da Gesù Cristo senza che la nostra salvezza venga meno. Essa dipende interamente da lui; di sorta che chi non vi si riposa e non vi trova appagamento, si priva di ogni grazia. È degno di meditazione l'ammonimento di san Bernardo, il quale dice che il nome di Gesù non è solo luce ma anche cibo, olio e condimento senza il quale ogni cibo è asciutto, sale per dare sapore e gusto ad ogni dottrina che altrimenti sarebbe insipida, in breve, che è miele per la bocca, musica per le orecchie, gioia per il cuore, medicina per l'anima, e che tutte le discussioni che se ne fanno sono insulse se il suo nome non vi risuona.

Ma bisogna attentamente considerare in che modo Cristo ci ha procurato salvezza, affinché, persuasi che egli ne è l'autore e, avendo accettato tutto quello che può confermare saldamente la nostra fede, respingiamo quanto potrebbe distrarci in un senso o nell'altro. Nessuno può rientrare in se stesso e seriamente esaminarsi senza sentire che Dio gli è nemico e di conseguenza provare il bisogno di cercare il modo di placarlo, il che non può avvenire senza l'espiazione, bisogna che su questo punto vi sia una certezza sicura ed indubitabile. La collera di Dio minaccia tutti i peccatori fin quando non siano assolti: egli, in qualità di giudice, non può tollerare che la sua Legge sia violata, senza punire vendicando l'offesa recata alla sua maestà.

2. Prima di proseguire dobbiamo considerare come possano accordarsi questi due fatti: Dio, che ci ha prevenuti con la sua misericordia, ci è stato nemico fino a quando Gesù Cristo non ci ha riconciliati con lui. Come ci avrebbe dato nel suo figlio unigenito un pegno così singolare del suo amore, se già in precedenza non ci avesse rivolto un amore gratuito? C'è in questo apparenza di contraddizione ed io scioglierò il dubbio che può esservi.

Lo Spirito Santo si esprime normalmente nella Scrittura in questi termini: Dio è stato nemico degli uomini fin quando non sono stati reintegrati nella grazia per mezzo della morte di Cristo (Ro 5.10); sono stati maledetti fino a quando la loro iniquità è stata cancellata dal suo sacrificio (Ga 3.10-13); sono stati lontani da Dio finché non sono stati ricongiunti a lui mediante il corpo di Cristo (Cl. 1.21-22). Queste espressioni sono adattate alle nostre facoltà, allo scopo di farci meglio comprendere quanto miserabile sia la condizione dell'uomo senza Cristo. Se non fosse esplicitamente dichiarato che la collera e la vendetta di Dio e la morte eterna sono su noi, non comprenderemmo abbastanza chiaramente quanto eravamo poveri e sventurati senza la misericordia di Dio e non valuteremmo al suo giusto valore il dono che ci ha fatto liberandoci.

Ad esempio si dice a qualcuno: se Dio ti avesse odiato allorché eri peccatore e ti avesse respinto come ti meritavi, avresti dovuto aspettarti una terribile condanna. Ma per la sua gratuita misericordia ti ha conservato nella sua amicizia e non ha permesso che tu fossi allontanato da lui, e ti ha liberato in questo modo dal pericolo. L'uditore ne sarà in qualche modo colpito e sentirà in parte il proprio debito verso la bontà di Dio. Ma se gli si parla come parla la Scrittura dicendogli che era lontano da Dio a causa del peccato, destinato ad una morte eterna, soggetto alla maledizione, escluso da ogni speranza di salvezza, estraneo ad ogni grazia divina, servo di Satana, prigioniero sotto il giogo del peccato, destinato ad orribile rovina e confusione; ma che Gesù Cristo è intervenuto e assumendo su di se la pena che era prevista per i peccatori dal giusto giudizio di Dio, ha cancellato ed annullato con il suo sangue i vizi che erano la causa dell'inimicizia tra Dio e gli uomini; e che con questo pagamento Dio è stato soddisfatto e la sua collera placata; e che su questo fondamento si basa l'amore di Dio verso di noi, e questo è il legame che mantiene nella sua benevolenza e nella sua grazia, tutto questo non lo colpirà forse più vivamente, dato che in queste parole è espressa molto meglio la sventura da cui Dio ci ha liberati?

Insomma non essendo il nostro spirito in grado di accogliere con il desiderio, il rispetto e la riconoscenza dovute la salvezza offertaci dalla misericordia di Dio, a meno di essere spaventato dal timore della collera divina e della morte eterna, la sacra Scrittura ci rivela un Dio in qualche modo corrucciato, con la mano pronta a colpire finché siamo privi di Gesù Cristo, e ci insegna d'altra parte non esservi alcun segno della sua bontà e della sua paterna benevolenza all'infuori di Gesù Cristo.

3. Adoperando questo linguaggio Dio si adatta alle nostre limitate capacità. D'altronde questa è la verità: egli è la giustizia sovrana e non può gradire l'iniquità che vede in noi tutti. C'è dunque in noi materia per essere odiati da Dio. Per la nostra natura corrotta e per la nostra vita malvagia siamo tutti oggetto della collera divina, colpevoli di fronte al suo giudizio, nati per la dannazione. Ma Dio non vuol perdere quello che in noi gli appartiene e grazie alla sua benignità trova in noi qualcosa da amare. Sebbene siamo peccatori per colpa nostra, rimaniamo sempre sue creature; sebbene abbiamo meritato la morte, tuttavia ci ha creati per la vita. È così condotto dall'amore puro e disinteressato a riceverci nella sua grazia.

Ma se c'è un contrasto perpetuo e insanabile tra la giustizia e l'iniquità, fin quando rimaniamo peccatori egli non può accoglierci. Dio quindi abolisce ogni inimicizia, riconciliandoci completamente a se: offrendo l'espiazione operata dalla morte di Gesù Cristo, annulla tutto il male che è in noi, di sorta che possiamo apparire giusti al suo cospetto, mentre prima eravamo impuri e macchiati. Si può dunque affermare che Dio il Padre previene con il suo amore la riconciliazione che opera con noi per mezzo di Gesù Cristo; o piuttosto, che in quanto ci ha amati in precedenza (1 Gv. 4.19) , Ci riconcilia in seguito con sé. Ma fino a quando Gesù Cristo non interviene in nostro favore con la sua morte, l'iniquità rimane in noi; ed essa merita l'indignazione di Dio ed è maledetta e condannata da lui. Non abbiamo sicura la piena riconciliazione con Dio fino a quando Gesù Cristo non ci unisce a lui.

In realtà se vogliamo avere la sicurezza che Dio ci ama e ci è propizio, dobbiamo volgere gli occhi a Gesù Cristo e attenerci a lui: e in verità è solo per merito suo che non ci sono imputati i nostri peccati meritevoli dell'ira di Dio.

4. Per questo motivo san Paolo dice che l'amore con cui Dio ci ha amato prima della creazione del mondo, è sempre stato fondato in Cristo (Ef. 1.4). Questo insegnamento è chiaro e conforme alla Scrittura, e concilia i passi, in cui si afferma che Dio ci ha mostrato il suo amore offrendo alla morte il suo Unigenito (Gv. 3.16) , con quelli in cui si dichiara che egli ci era nemico prima che Gesù Cristo morendo operasse la conciliazione (Ro 5.10).

Per rassicurare quanti desiderano sempre una conferma della Chiesa antica citerò un passo in cui sant'Agostino espone molto bene tutto questo.

"L'amore di Dio "egli dice "risulta incomprensibile e immutabile. Non ha incominciato ad amarci dopo che siamo riconciliati con lui per mezzo della morte del suo figlio; ma ci ha amati prima della creazione del mondo, onde fossimo suoi figli assieme al suo figlio unigenito, prima che esistessimo del tutto. Quanto al fatto che siamo stati riconciliati mediante il sangue di Cristo, non dobbiamo intenderlo nel senso che Gesù Cristo abbia ristabilito le relazioni tra Dio e noi affinché Dio incominciasse ad amarci (quasi in precedenza ci odiasse). Siamo invece stati riconciliati con colui che ci amava già, che tuttavia provava inimicizia nei nostri riguardi a causa delle nostre iniquità. L'Apostolo è testimone che dico la verità: Dio, egli dichiara, conferma la sua misericordia verso di noi nel fatto che Gesù Cristo è morto per noi allorché eravamo ancora peccatori (Ro 5.8). Ci amava già quando eravamo suoi nemici a causa della nostra vita malvagia.

Così dunque, in modo ammirevole e divino, ci amava e ci odiava allo stesso tempo. Ci odiava in quanto non eravamo più come ci aveva fatti; ma l'iniquità non aveva distrutto completamente in noi la sua opera ed egli odiava in noi quello che avevamo fatto, ed amava quello che aveva fatto ". Queste le parole di sant'Agostino.

5. Se ora si domanda in qual modo Gesù Cristo, cancellati i peccati, abbia abolito la frattura esistente tra Dio e noi e, procurandoci giustizia, ce l'abbia reso amico e favorevole, si può rispondere in generale, che lo ha realizzato con la piena attuazione della sua obbedienza. Questo è dimostrato dalla testimonianza di san Paolo. "Come per la trasgressione di un solo uomo "egli dice "molti sono stati resi peccatori, così per l'ubbidienza di uno solo molti sono stati resi giusti " (Ro 5.19). Ed in un altro passo estende a tutta la vita di Gesù Cristo la grazia salvifica che ci libera dalla maledizione della Legge: "Quando il tempo della pienezza è venuto "egli dice "Dio ha mandato suo figlio, nato di donna, sottoposto alla Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge " (Ga 4.4). Per questo motivo Cristo stesso al proprio battesimo ha dichiarato che con questo atto adempieva una parte della giustizia perché compiva quanto gli era stato ordinato dal Padre (Mt. 3.15). Insomma, dopo che ha rivestito la forma di servo, egli ha incominciato a pagare il prezzo della nostra liberazione per riscattarci.

Tuttavia la Scrittura, per meglio determinare lo strumento della nostra salvezza, specifica accuratamente che essa risiede nella morte di Gesù Cristo; ed egli stesso dichiara di dare l'anima propria per la redenzione di molti (Mt. 20.28). Secondo la testimonianza di san Paolo, egli è morto per i nostri peccati (Ro 4.25). Giovanni Battista predicava che egli è venuto quale agnello di Dio per togliere i peccati del mondo (Gv. 1.29). In un altro passo san Paolo dichiara che siamo giustificati gratuitamente per mezzo della redenzione che è in Cristo, dato che egli è stato dato per riconciliarci nel suo sangue (Ro 3.24-25); che siamo giustificati nel suo sangue e riconciliati mediante la sua morte (Ro 5.9-10); che colui che ignorava il peccato è stato fatto peccato per noi, onde fossimo giustizia di Dio in lui (2 Co. 5.21). Non proseguo perché la lista delle citazioni è infinita e d'altronde dovrò menzionarne altre a suo tempo.

Il sommario della fede detto Simbolo degli Apostoli osserva un ordine esatto perché dopo aver fatto menzione della nascita di Gesù Cristo, subito dopo parla della sua morte e resurrezione, per mostrare che in esse risiede e si fonda la garanzia della nostra salvezza. Ma questo non esclude l'aspetto della obbedienza che Cristo ha dimostrato in tutta la sua vita. Anche san Paolo la prende in considerazione dal principio alla fine dicendo: si è annichilito, prendendo forma di servo e rendendosi obbediente al Padre fino alla morte, e alla morte della Croce (Fl. 2.7-8).

Il carattere volontario della sottomissione di Gesù Cristo è fondamentale in vista del carattere salvifico della sua morte per la nostra salvezza: il sacrificio non avrebbe contribuito per nulla alla giustizia se non fosse stato offerto con libera spontaneità. Per questo motivo il Signore Gesù, dopo aver dichiarato di dare la sua anima per le pecore, aggiunge specificatamente che nessuna gliela toglie, ma la offre da se (Gv. 10.15-18). Nello stesso senso Isaia dice che egli è come una pecora muta davanti al tosatore (Is. 53.7). L'evangelo racconta anche che è venuto incontro ai soldati (Gv. 18.4) e, davanti a Pilato, privandosi di ogni difesa, si è sottomesso alla condanna (Mt. 27.2). Non già che non abbia esperimentato in se grandi lotte ed esitazioni, dato che aveva assunto le nostre debolezze: la sottomissione che offriva al Padre doveva essere messa alla prova in modo doloroso e duro attraverso un esame che avrebbe ben volentieri evitato. E in questo si riscontra una testimonianza ancor maggiore del suo amore per noi: ha sostenuto gli orribili assalti e i tormenti mortali e tuttavia, nonostante questa angoscia, non ha avuto riguardi per se ma ha voluto procurare il nostro bene.

Comunque sia, questo deve essere chiaro: Dio non poteva essere debitamente placato se Cristo non si fosse sottomesso alla sua volontà seguendola fino in fondo e rinunciando ai propri sentimenti. L'Apostolo applica a questa sottomissione le affermazioni del Salmo: "È scritto di me nel libro della Legge che farò la tua volontà. Lo voglio, mio Dio, la tua Legge è nel mio cuore. Allora ho detto: Ecco, vengo! " (Eb. 10.5; Sl. 40.7-9)

Lo strumento della nostra salvezza è messo in rilievo e ci è presentato come realizzatosi nella morte di Gesù Cristo, in quanto le coscienze atterrite dal giudizio di Dio trovano riposo solamente in un sacrificio che cancella i peccati. La maledizione era pronta per noi e ci teneva avvinghiati allorché eravamo considerati colpevoli davanti al trono del Giudice: ad essa viene contrapposta la condanna di Gesù Cristo, pronunciata da Ponzio Pilato governatore della Giudea, affinché prendiamo coscienza del fatto che la pena di cui eravamo debitori è stata inflitta all'innocente, perché noi ne fossimo liberati. Non potevamo sfuggire all'orribile condanna di Dio. Gesù Cristo per liberarcene ha sopportato di essere condannato da un uomo mortale, anzi malvagio e miscredente.

 Il nome di quel governatore non è riportato solo per ragioni di fedeltà storica, ma anche perché comprendessimo meglio l'affermazione di Isaia secondo cui il castigo per il quale abbiamo pace è stato scontato dal figlio di Dio e noi siamo guariti per le sue piaghe (Is. 53.5). Infatti non era sufficiente per cancellare la nostra condanna che Cristo sopportasse una morte qualsiasi: per soddisfare alle necessità della nostra redenzione è stato necessario scegliere un genere di morte per cui egli prendesse su di se quanto noi avevamo meritato, e ci liberasse dopo aver pagato il nostro debito. Se i briganti gli avessero tagliato la gola o fosse stato lapidato e ammazzato per sedizione, non vi sarebbe stato alcun elemento per soddisfare Dio. Ma nel fatto che egli sia condotto al tribunale come un criminale e nei suoi riguardi si osservi una certa formalità legale, interrogando i testimoni, e sia condannato dalla bocca di un giudice, si vede che è condannato al posto dei peccatori, per soffrire in loro vece.

Bisogna osservare, a questo proposito, due cose che erano state predette dai profeti e che recano una singolare consolazione alla nostra fede. Quando vediamo che Cristo è condotto al tribunale e alla morte e appeso tra briganti, riscontriamo l'adempimento della profezia citata dall'Evangelista: "È stato considerato alla stregua di un malfattore " (Is. 53.12; Mr. 15.28). Perché accade questo? Per pagare il debito dovuto dai peccatori e sostituirsi a loro: perché in verità non pativa la morte giustamente ma a causa del peccato. Quando al contrario vediamo che è stato assolto dalla bocca stessa che lo aveva condannato, Pilato infatti è stato costretto parecchie volte a riconoscerne pubblicamente l'innocenza, dobbiamo allora ricordare la dichiarazione di un altro profeta: ha pagato quel che non aveva rubato (Sl. 69.5).

Vediamo così raffigurata in Gesù Cristo la persona di un peccatore e malfattore; e tuttavia sappiamo che nella sua innocenza è stato caricato del peccato altrui e non del proprio. Ha sofferto sotto Ponzio Pilato, è stato condannato dalla sentenza legale del governatore del paese quale malfattore, e tuttavia mentre era condannato era anche riconosciuto giusto da costui, che affermava di non trovare in lui colpa alcuna (Gv. 18.38).

In questo consiste la nostra assoluzione: tutto ciò che poteva esserci imputato per condannarci davanti a Dio, è stato imputato a Gesù Cristo il quale ha riparato le nostre colpe (Is. 53.5-11). E dobbiamo ricordarci di questa assoluzione ogni qualvolta siamo assaliti da paure e da dubbi, tenendo presente che la vendetta di Dio è stata sopportata da Gesù Cristo e non deve più spaventarci.

6. Il tipo stesso di morte subita da Cristo non è senza significato. La croce era strumento maledetto non solo nella concezione umana ma anche per decreto della Legge di Dio (De 21.23). Quando Cristo vi è appeso, si rende soggetto alla maledizione. E doveva essere così: la maledizione che ci era dovuta fu trasferita su lui, onde ne fossimo liberati. Questo era stato già simboleggiato nella Legge. Infatti le vittime offerte per i peccati erano dette semplicemente: "peccato ": con questo si voleva indicare che ricevevano la maledizione che spettava al peccato. Quanto era dunque simboleggiato negli antichi sacrifici di Mosè, è stato adempiuto nella realtà da Gesù Cristo che è il modello e la sostanza dei simboli. Quindi per realizzare la nostra redenzione ha dato la propria anima in sacrificio di soddisfazione per il peccato, come dice il Profeta, affinché tutta la maledizione che ci era dovuta quali peccatori non ci fosse più imputata ma fosse attribuita a lui.

 L'Apostolo lo afferma ancor più chiaramente quando dice: colui che non aveva mai conosciuto peccato è stato fatto peccato per noi, affinché in lui ottenessimo giustizia davanti a Dio (2 Co. 5.21). Il figlio di Dio, puro e netto da ogni colpa, ha preso su di se la confusione e l'ignominia delle nostre iniquità e, d'altra parte, ci ha coperto con la sua purezza. Questo è sottolineato anche in un altro passo in cui san Paolo dice che il peccato è stato condannato nella carne di Gesù Cristo (Ro 8.3). Il Padre celeste ha annientato la forza del peccato quando la maledizione del peccato è stata trasferita nella carne di Gesù Cristo. Con queste parole è dunque indicato che Cristo morendo è stato offerto al Padre quale vittima propiziatoria affinché, compiuta da lui la riconciliazione, noi non siamo più tenuti sotto l'orrore del castigo divino.

Ora possiamo comprendere il significato della dichiarazione del Profeta: tutte le nostre iniquità sono state poste su lui (Is. 53.6) , vale a dire che per cancellarne le macchie, le ha in primo luogo accolte sulla propria persona perché gli fossero imputate. La croce è stata dunque un simbolo: Gesù Cristo vi è stato appeso e in tal modo ci ha liberati dall'esecrazione della Legge, come dice l'Apostolo, ed è stato fatto esecrazione per noi, poiché sta scritto: Maledetto chiunque è appeso al legno, e così la benedizione promessa ad Abramo è stata diffusa su tutti i popoli (Ga 3.13-14).

Anche san Pietro aveva in mente questo allorché scriveva che Gesù Cristo ha portato il fardello dei nostri peccati sul legno (1 Pi. 2.24) : nel segno visibile della croce infatti comprendiamo meglio che è stato sottomesso alla maledizione che avevamo meritata.

Non bisogna tuttavia pensare che abbia subìto la maledizione al punto di esserne travolto: al contrario, subendola ne ha spento la forza, l'ha spezzata e annientata. Di conseguenza la fede nella condanna di Cristo afferra l'assoluzione e nella sua maledizione trova benedizione. Ecco perché san Paolo celebra tanto il trionfo procuratoci da Gesù Cristo sulla croce, quasi la croce, che era colma di ignominia e di obbrobrio, fosse stata mutata in un cocchio regale e trionfale. Dichiara che l'atto d'accusa vi è stato appeso, che le sovranità dell'aria sono state dIs.rmate e che i diavoli sconfitti sono stati fatti pubblico spettacolo (Cl. 2.14-15). E non bisogna stupirsene: Gesù Cristo, sfigurato agli occhi del mondo, ha offerto se stesso mediante lo Spirito eterno (Eb. 9.14); donde un tale cambiamento di cose!

Siano sempre presenti alla nostra mente il sacrificio e la purificazione, affinché prendano ferma radice nei nostri cuori e vi rimangano impressi. Non potremmo avere fiducia se Gesù Cristo non fosse stato il prezzo del nostro riscatto, il redentore e propiziatore, se non fosse stato offerto in sacrificio. Per questo motivo la Scrittura, descrivendo lo strumento della nostra salvezza, menziona spesso il sangue. Il sangue di Gesù Cristo sparso non ha solamente servito di pagamento per riconciliarci con Dio, ma è stato anche un lavacro per purificare tutte le nostre impurità.

7. Il Simbolo continua dicendo che è morto e fu sepolto. Anche qui si può notare come Gesù Cristo si sia sottomesso dal principio alla fine a pagare per noi il prezzo della nostra redenzione. La morte ci teneva sotto il suo giogo: egli si è dato, con la sua potenza, per liberarcene. È questo che intende l'Apostolo quando dichiara: ha gustato la morte per tutti (Eb. 2.9). Morendo ha fatto sì che noi non dovessimo morire; oppure, per dire la stessa cosa in altri termini, con la sua morte ci ha procurato la vita.

 A differenza di noi, egli si è dato alla morte, per esserne inghiottito: non per esserne completamente divorato, però, ma per divorarla, affinché non avesse più il potere che aveva nel passato su noi. Ha accettato di esserne soggiogato, non per esserne oppresso e vinto, ma per rovesciare il potere che essa esercitava su noi. Infine è morto per distruggere colui che domina la morte, cioè il Diavolo, e per liberare quanti vivevano in servitù, durante tutta la vita, per timore della morte (Eb. 2.15). Ecco il primo frutto arrecatoci dalla sua morte.

Il secondo è questo: con la sua forza essa mortifica le nostre membra terrene, di sorta che esse non siano più attive, e uccide in noi il vecchio uomo, affinché perda la sua forza e non porti frutti.

A questo fine tende anche la menzione della "sepoltura "di Gesù Cristo. Associati ad essa, noi siamo sepolti quanto al peccato. L'Apostolo dice che siamo innestati in una morte simile a quella di Cristo e seppelliti con lui nella morte del peccato (Ro 6.4-5); per la sua croce siamo crocifissi per il mondo e il mondo per noi (Ga 2.19; 6.14); siamo morti con lui (Cl. 3.3) e ci esorta a imitare l'esempio della sua morte, dichiarando anzi che in essa è contenuta una forza che deve apparire in tutti i cristiani, se non vogliono rendere inutile ed infruttuosa la morte del loro redentore.

Di conseguenza una doppia grazia ci è offerta nella morte e nel seppellimento di Gesù Cristo: vale a dire la liberazione dalla morte e la mortificazione della nostra carne.

8. A questo punto non bisogna dimenticare la "discesa agli inferi "che molto reca alla nostra salvezza. Dagli scritti degli Antichi risulta che questo articolo non aveva diffusione generale nella Chiesa. l; necessario tuttavia riconoscergli la sua funzione per chiaramente spiegare la dottrina che stiamo esponendo, dato che contiene un mistero molto utile e da non sottovalutare. Si può pensare che l'articolo è stato aggiunto subito dopo l'epoca apostolica e che è entrato nell'uso poco per volta.

Comunque stiano le cose, non v'è dubbio che è stato desunto dalla convinzione comune a tutti i veri credenti. Tutti i Padri antichi infatti fanno menzione della discesa di Cristo agli inferi, pur interpretandola diversamente. Non ha molta importanza il sapere da chi e quando l'articolo è stato inserito nel Simbolo. Preoccupiamoci piuttosto di dare qui un riassunto completo e intero della nostra fede, a cui non manchi nulla e in cui non si inserisca nulla che non sia dedotto dalla Parola di Dio.

Alcuni tuttavia sono trattenuti dai loro scrupoli di includere l'articolo nel Simbolo; ma si vedrà dalla nostra spiegazione che ometterlo significherebbe privarsi di molti frutti della morte e della passione di Gesù Cristo.

Le interpretazioni che se ne sono date differiscono. Alcuni ad esempio pensano che non si dica qui nulla di nuovo ma semplicemente si ripeta con altre parole quanto era stato precedentemente detto della sepoltura, dato che spesso nella Scrittura la parola "inferno "indica il sepolcro. Riconosco che hanno ragione per quanto concerne il significato del termine e che spesso inferno indica sepolcro. Ma vi sono due considerazioni che si oppongono a questa opinione e mi sembrano sufficienti per refutarla.

 Sarebbe stato del tutto superfluo ripetere con parole oscure quanto era già stato dimostrato con parole chiare e semplici, e che d'altronde non presentavano alcuna difficoltà in se. Quando si uniscono due locuzioni per esprimere la stessa cosa, è opportuno che la seconda sia una spiegazione della prima. Ma dire: Cristo è stato sepolto significa che è disceso agli inferi, non spiega nulla! Inoltre non è verosimile che in un sommario comprendente gli elementi principali della nostra fede in modo riassuntivo, la Chiesa antica abbia voluto includere affermazioni così superflue e immotivate e che non avrebbero trovato posto neanche in una stesura più diffusa. Non ho dubbi che chi consideri da vicino la cosa, mi darà ragione.

9. Altri danno una interpretazione diversa: Cristo è sceso, essi dicono, presso le anime dei padri defunti per portare loro il messaggio della redenzione e liberarle dalla prigione in cui erano tenute rinchiuse.

Per rendere più accettabile il frutto della loro immaginazione, tirano per i capelli qualche testimonianza, come quella del Salmo: "Ha spezzato le porte di rame e ha rotto i chiavistelli di ferro " (Sl. 107.16. Così in Zaccaria: "Ha liberato i prigionieri dai pozzi in cui non c'era acqua " (Za. 9.2). In realtà il Salmo racconta la liberazione di quelli che viaggiando in paesi stranieri, erano stati presi prigionieri: e Zaccaria paragona l'esilio del popolo, che era come sepolto a Babilonia, ad un fosso asciutto e profondo. È come dire che la salvezza di tutta la Chiesa sarà come l'uscire dal fondo dell'inferno.

Non so perché si è immaginato trattarsi di una caverna sotterranea, a cui si è attribuito il nome di "limbo "! Questa favola è stata sostenuta da autori rinomati e ancor oggi si trova chi la difende come un articolo di fede, ma non per questo cessa di essere una favola! È puerile voler rinchiudere le anime dei trapassati in una prigione. Inoltre che bisogno c'era che Gesù Cristo scendesse per strapparvele? Ammetto senza difficoltà che Gesù Cristo le ha illuminate con la potenza del suo Spirito affinché sapessero che la grazia, da esse gustata solo in speranza, era rivelata al mondo.

Non è inopportuno riferire a questo punto l'affermazione di san Pietro secondo cui Gesù Cristo è venuto e ha predicato agli spiriti, che non erano in una prigione, a mio avviso, ma che era no all'erta come su una torre (1 Pi. 3.19). La logica del testo ci conduce ad arguire che i credenti morti prima di quel tempo erano con noi partecipi della stessa grazia: l'intenzione dell'Apostolo è infatti di estendere la portata della morte di Gesù Cristo ai morti, allorché le anime fedeli hanno goduto direttamente la visita che avevano atteso con grande preoccupazione e perplessità; mentre al contrario i reprobi hanno appreso di essere esclusi da ogni speranza. Se san Pietro non parla distintamente degli uni e degli altri, non bisogna credere che li mescoli insieme indifferentemente: vuole semplicemente mostrare che tutti hanno percepito la potenza della morte di Gesù Cristo.

10. Lasciando da parte il Simbolo, cerchiamo una interpretazione più sicura della discesa di Gesù Cristo agli inferi, che la parola di Dio ci presenta come avvenimento buono e santo e pieno di grande consolazione.

Nulla sarebbe stato ottenuto se Gesù Cristo avesse sofferto la sola morte corporale. È: stato necessario che portasse nell'anima il rigore della vendetta divina per sopportare la sua collera e soddisfare la sua giusta condanna. Di conseguenza è stato necessario che combattesse contro le forze dell'inferno e lottasse corpo a corpo contro l'orrore della morte eterna.

Abbiamo menzionato l'affermazione del Profeta secondo cui la punizione per cui abbiamo pace è stata da lui scontata: è stato percosso per i nostri peccati, ha sofferto per le nostre iniquità (Is. 53.5). Con ciò si indica che Cristo è stato come un garante o una cauzione per i nostri delitti, si è offerto come debitore principale, quale colpevole per sopportare ogni punizione prevista per noi, onde ne fossimo liberati: con questa sola eccezione, che non ha potuto essere trattenuto dai legami della morte (At. 2.24). Non bisogna quindi meravigliarsi se si afferma che è sceso agli inferi: ha infatti sopportato la morte con cui l'ira di Dio colpisce i malfattori.

Alcuni replicano, in modo fatuo e ridicolo, che così l'ordine sarebbe pervertito, non essendo ragionevole aggiungere alla sepoltura quanto dovrebbe precederla. In realtà dopo aver esposto le sofferenze sopportate da Gesù Cristo nel cospetto degli uomini, il momento è opportuno di aggiungere in conseguenza la condanna invisibile ed incomprensibile che egli ha sostenuto nel cospetto di Dio: onde fossimo avvertiti che non solo il suo corpo è stato dato quale prezzo del nostro riscatto, ma che vi è stato un altro prezzo, più degno e più prezioso, nel sopportare i tormenti spaventosi riservati ai dannati ed ai perduti.

2. In questo senso san Pietro dice che Gesù Cristo, risuscitando, è stato liberato dai dolori della morte, dai quali non poteva essere tenuto schiavo o sottomesso (At. 2, Z4). Non nomina semplicemente la morte ma dichiara che il figlio di Dio è stato colto da tristezza ed angoscia, generate dalla maledizione di Dio: questa infatti è la sorgente e il principio della morte. Che significato avrebbe avuto, se si fosse offerto alla morte senza angoscia né tormento, ma come in un gioco? La vera testimonianza della sua misericordia infinita è stata nel non fuggire quella morte di cui provava un estremo orrore.

Non v'è dubbio che l'Apostolo insegni la stessa cosa quando dice nell'epistola agli Ebrei che Gesù Cristo è stato liberato dal suo "timore " (Eb. 5.7) : altri traducono "venerazione "o "pietà "ma la grammatica e la materia quivi trattata mostrano non essere traduzione appropriata. Gesù Cristo dunque, avendo pregato con lacrime e forti grida, è stato esaudito essendo liberato dal timore: non per essere esentato dalla morte ma per non esservi inghiottito come peccatore, perché rappresentava quivi le nostre persone. E non si può immaginare abisso più spaventoso che il sentirsi abbandonato da Dio, non ricevere risposta alle invocazioni e non potersi aspettare da lui altro che perdizione e volontà di distruzione. Gesù Cristo è giunto a questo, al punto che è stato costretto a gridare, tanto era oppresso dall'angoscia: "Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? " (Mt. 27.46; Sl. 22.2). Secondo alcuni questa esclamazione sarebbe stata pronunciata piuttosto in funzione degli altri e non per sentimento personale: ma questo non è verosimile perché si vede chiaramente che essa sgorga da una profonda amarezza interiore.

Non dobbiamo tuttavia dedurre da questo che Dio sia mai stato nemico o avversario ostile del suo Cristo. Come potrebbe il Padre adirarsi con il Figlio diletto, nel quale afferma di essersi compiaciuto (Mt. 3.17) ? E come Cristo potrebbe con la sua intercessione placare il Padre nei riguardi degli uomini, se questi fosse corrucciato con lui? Diciamo invece che ha sostenuto il peso della vendetta di Dio in quanto è stato colpito e afflitto dalla sua mano e ha sperimentato tutte le manifestazioni dell'ira e della punizione di Dio contro i peccatori. Per questo sant'Ilario dice che con questa discesa abbiamo ottenuto che la morte sia ora abolita; e in altri passi non si esprime diversamente dalla nostra tesi dicendo, ad esempio che la croce, la morte e gli inferi sono la nostra vita; che il figlio di Dio è negli inferi, ma l'uomo è esaltato fino al cielo.

Perché ricorrere a testimonianze di un uomo quando lo stesso Apostolo afferma la stessa cosa, dicendo che dalla vittoria del nostro Signore Gesù otteniamo il frutto della liberazione dalla servitù cui eravamo sottomessi per il timore della morte? È stato dunque necessario che Gesù Cristo vincesse i timori che naturalmente feriscono e tormentano tutti i mortali, e questo poteva avvenire solo nella lotta. Che la tristezza di Cristo non sia stata comune, o vissuta alla leggera, sarà dimostrato successivamente.

Riassumendo: Gesù Cristo combattendo contro la potenza del Diavolo, contro l'orrore della morte, contro i dolori dell'inferno, ha vinto e trionfato, affinché non temessimo più, in morte, quelle minacce che il nostro principe ha annientato e distrutte.

12. Vi sono spiriti ribelli che si oppongono a questo insegnamento: gente ignorante, certo, ma spinta dalla malizia più che dalla stupidità, che cerca solo di abbaiare. Dicono che reco ingiuria a Gesù Cristo, non essendo ammissibile che egli abbia dubitato della salvezza della propria anima. Con la calunnia si spingono più in là e affermano che attribuisco al figlio di Dio una disperazione incompatibile con la fede.

In primo luogo, per quanto riguarda il timore e lo spavento di Gesù Cristo, esso è così chiaramente esposto dagli evangelisti che metterlo in questione da parte di queste canaglie è stolto. È detto che prima della sua morte è stato turbato nello spirito e afflitto dall'angoscia: quando è stato arrestato ha incominciato ad essere fortemente spaventato. il stolto dire che era finzione. Come dice sant'Ambrogio, deve riconoscere francamente la tristezza di Gesù Cristo chi non si vergogna della sua croce. Se infatti la sua anima non avesse partecipato al castigo che ha sopportato, sarebbe stato solamente redentore dei corpi. Egli ha combattuto per rialzare quelli che caduti a terra non potevano rialzarsi.

Questo è ben lungi dallo sminuire la sua gloria celeste. Dobbiamo anzi ammirare la sua bontà, che splende in modo ammirevole nel fatto che non ha sdegnato accogliere su di se le nostre infermità. L'Apostolo trae motivo di consolazione dal fatto che il nostro mediatore ha esperimentato le nostre debolezze per averne compassione ed essere più propenso a soccorrerle (Eb. 4.15).

Gli avversari affermano che si fa torto a Gesù Cristo attribuendogli una sofferenza che di per se è imperfetta. Vogliono essere più savi dello Spirito di Dio, che armonizza le due cose: infatti Gesù Cristo è stato tentato in tutto e per tutto come noi, senza tuttavia commettere peccato. Non dobbiamo dunque trovare strana la debolezza di Gesù Cristo. Egli l'ha accettata non perché costrettovi dalla violenza o dalla necessità, ma perché indottovi dalla sua misericordia e dal puro amore verso di noi. E tutto quello che ha sofferto spontaneamente per noi non sottrae nulla alla sua potenza.

 Questi schernitori non riconoscono che questa debolezza di Gesù Cristo è stata priva di ogni macchia o vizio perché si è mantenuta entro i limiti dell'obbedienza a Dio. Misurano il figlio di Dio con il metro della nostra natura corrotta, nella quale non si può scorgere una retta moderazione, dato che tutte le sue passioni sono smodate ed eccessive nel loro impeto. Vi è al contrario una grande diversità: Egli infatti, integro e senza macchia diimperfezione, ha nutrito sentimenti talmente moderati da non potervi trovare alcun eccesso. Ha potuto quindi essere simile a noi nel dolore, nel timore e nello stupore, e tuttavia differire per questa nota.

Messi con le spalle al muro, trovano un altro cavillo: Cristo ha temuto la morte, dicono, tuttavia non ha temuto la maledizione e la collera di Dio, riguardo alle quali si sentiva sicuro. Chiedo ai lettori quanto onorevole sarebbe per Cristo l'essere stato più timoroso e codardo di molti uomini senza fegato. Briganti e malfattori mettono il freno tra i denti per andare alla morte, molti la sprezzano al punto che sembra essere per loro un gioco, altri la sopportano placidamente. Se il figlio di Dio ne è stato agghiacciato e quasi sconvolto, dove sono andate a finire la sua perseveranza e la sua forza d'animo? Gli evangelisti raccontano di lui quello che sembra incredibile e contro natura, che cioè, per la intensità del suo spavento gocce di sangue sono cadute dal suo viso. Non si può pensare che si sia dato in spettacolo di fronte alla gente, dato che pregava segretamente il Padre in un luogo appartato. E ogni dubbio è fugato se si considera che gli angeli devono scendere dal cielo per consolarlo in modo nuovo ed inconsueto. Che vergogna sarebbe per il figlio di Dio l'esser stato così effeminato da tormentarsi in questo modo per una morte normale, fino al punto di sudare sangue e di poter essere tranquillizzato solo dagli angeli!

Consideriamo anche la preghiera che ha ripetuto tre volte: "Padre, se è possibile, allontana da me questo calice " (Mt. 26.39). Sarà facile concludere che questo nasce da una indicibile amarezza e che dunque Gesù Cristo ha sostenuto un combattimento più aspro e difficile che contro la morte comune.

Ne consegue che i pasticcioni miei avversari parlano temerariamente di cose che non conoscono, perché non hanno mai compreso o valutato quel che significhi essere riscattati dal castigo di Dio. La nostra sapienza consiste nel valutare rettamente quanto la nostra salvezza sia costata al figlio di Dio.

Qualcuno potrà domandare a questo punto se la supplica rivolta al Padre di essere liberato dalla morte, si deve interpretare, nel caso di Gesù Cristo, come la discesa agli inferi; risponderò che questo ne era un inizio. Da questo si può anche dedurre quanto orribili siano stati i tormenti che ha dovuto patire, tenendo presente che egli sapeva di rispondere alla giustizia di Dio quale colpevole dei nostri misfatti.

Sebbene per qualche tempo la potenza divina del suo spirito sia stata nascosta, per dar luogo alla debolezza della carne, fino a che avesse realizzato la nostra salvezza, tuttavia dobbiamo sapere che la tentazione sopportata a causa del timore e del dolore è stata di natura tale da non contraddire la fede. In questo si è realizzata l'affermazione già citata di san Pietro secondo la quale era impossibile che Cristo fosse tenuto prigioniero dalla morte (At. 2.24) dato che, sentendosi abbandonato da Dio, non è venuto minimamente meno alla fiducia che aveva nella bontà del Padre. Questo è dimostrato dalla preghiera in cui esclama, per la violenza del dolore: "Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? " (Mt. 27.46). Sebbene sia infinitamente angosciato, non cessa tuttavia di invocare come suo Dio, colui dal quale si lamenta di essere stato abbandonato.

Questo confuta l'errore di Apollinare, antico eretico, e di quelli che sono stati definiti i monoteliti. Apollinare ha inventato che lo Spirito eterno era al posto dell'anima di Gesù Cristo, di modo che questi era solo uomo a metà. Quasi Gesù Cristo avesse potuto cancellare i nostri peccati altrimenti che obbedendo a suo Padre! E dove si sarebbe trovato il proposito e la volontà di obbedire se non nell'anima? Quella di Gesù Cristo è stata turbata, affinché le nostre avessero pace e riposo, essendo liberate dal timore e dall'inquietudine.

Quanto alla tesi dei monoteliti che hanno voluto far credere che Gesù Cristo avesse una sola volontà, noi constatiamo che egli non ha affatto voluto con la natura umana quanto voleva con quella divina. Tralascio dal far notare che supera la paura di cui abbiamo parlato in virtù di un sentimento opposto. Apparentemente sussiste una profonda contraddizione nelle sue parole: "Padre, liberami da quest'ora! Ma è per questo che sono giunto a quest'ora. Padre, glorifica il tuo figlio " (Gv. 12.27). In questa perplessità non v'è alcuna intemperanza, né ribellione, del tipo di quelle che si verificano in noi anche quando ci sforziamo di trattenerci.

13. Segue la "risurrezione dai morti ", senza la quale quanto detto sin qui sarebbe imperfetto. Dato che nella croce, nella morte e nel seppellimento di Gesù Cristo non v'era che debolezza, bisogna che la fede vada oltre per essere appieno fortificata. Nella sua morte abbiamo certo il completo adempimento della salvezza, dato che per essa siamo riconciliati con Dio, la giusta condanna divina è stata soddisfatta, la maledizione è stata annullata e noi siamo stati liberati da tutte le pene che avremmo dovuto scontare: tuttavia non è affermato che in virtù della sua morte, ma piuttosto della sua risurrezione, siamo stati risuscitati ad una speranza viva (1 Pi. 1.3). Risuscitando si è dimostrato vincitore della morte, la vittoria della nostra fede è perciò basata sulla sua resurrezione.

Che cosa questo significhi è mostrato più chiaramente dalla asserzione di san Paolo secondo la quale egli è morto per i nostri peccati ed è risuscitato per la nostra giustificazione (Ro 4.25); il che equivale a dire che mediante la sua morte il peccato è stato tolto, mediante la sua risurrezione la giustizia è stata instaurata. Come avrebbe potuto liberarci dalla morte soccombendo ad essa? Come avrebbe potuto acquistarci la vittoria, se fosse stato sconfitto nel combattimento? Noi dunque attribuiamo la realtà della nostra salvezza in parte alla morte di Cristo ed in parte alla sua risurrezione e diciamo che, mediante la morte, è stato distrutto il peccato e la morte è stata cancellata; mediante la risurrezione la giustizia è stata stabilita e la vita ha ripreso il sopravvento; e questo in modo che la morte ha il suo significato in funzione della risurrezione.

Per questo motivo san Paolo ci insegna che Gesù Cristo è stato dichiarato figlio di Dio nella risurrezione (Ro 1.4). È allora infatti che ha manifestato la sua potenza celeste che costituisce uno specchio evidente della sua divinità e un fermo sostegno della nostra fede. In un altro passo dice che egli ha sofferto per la debolezza della carne ed è risuscitato per la potenza dello Spirito (2 Co. 13.4). Nello stesso senso, trattando il problema della perfezione dice: "Mi sforzo di conoscere Cristo

e la potenza della sua risurrezione " (Fl. 3.10). Del resto aggiunge subito dopo che si sforza di essere fatto partecipe e associato alla morte di Cristo. Con questo concorda l'affermazione di san Pietro: Dio lo ha risuscitato dai morti e lo ha glorificato onde la nostra fede e la nostra speranza fossero radicate in Dio (1 Pi. 1.21). Non vuol dire che una fede basata sulla morte di Gesù Cristo zoppichi, ma che la potenza di Dio che ci conserva nella fede, si manifesta in modo particolarmente evidente nella risurrezione.

Ricordiamoci dunque che ogniqualvolta è fatta menzione della sola morte di Cristo vi è incluso anche quanto si riferisce alla risurrezione; e che d'altra parte altrettanto avviene quando e la sola risurrezione è menzionata, perché essa implica quanto si riferisce specialmente alla morte. Gesù Cristo risuscitando ha vinto la palma della vittoria per essere la risurrezione e la vita. Di conseguenza san Paolo ha ragione di sostenere che la fede sarebbe annientata e l'Evangelo non sarebbe che inganno e menzogna se non fossimo ben persuasi nei nostri cuori della risurrezione di Gesù Cristo (1 Co. 15.17). Per il qual motivo in un altro testo, dopo essersi gloriato della morte di Gesù Cristo contro il timore della dannazione, aggiunge che colui che è morto è anche risuscitato e compare davanti a Dio quale intercessore per noi (Ro 8.34).

Abbiamo dinanzi insegnato che la mortificazione della nostra carne dipende dalla partecipazione alla croce di Cristo. Bisogna anche rilevare che un frutto corrispondente proviene dalla sua risurrezione. Come dice l'Apostolo, siamo stati innestati nella similitudine della sua morte onde, fatti partecipi della sua risurrezione, camminassimo in novità di vita (Ro 6.4). Perciò in un altro passo, riflettendo al fatto che se siamo morti con Cristo dobbiamo mortificare le nostre membra terrene, afferma che se siamo resuscitati con Cristo dobbiamo cercare le cose celesti (Cl. 3.1-5). Con queste parole ci esorta ad una nuova vita, sull'esempio di Cristo risuscitato, e insegna anche che, per la sua potenza, possiamo essere rigenerati nella giustizia.

Il terzo vantaggio che ricaviamo da questa risurrezione è questo: rappresenta una caparra che ci rende più certi della nostra; la risurrezione di Cristo è il fondamento e la sostanza della nostra, come è insegnato diffusamente nella prima ai Corinzi.

Bisogna anche notare per inciso che egli è detto essere risuscitato "dai morti ": questa espressione sottolinea la realtà della sua morte e della sua risurrezione, come se fosse detto che ha sofferto la stessa morte degli altri uomini e ha ottenuto l'immortalità nella medesima carne mortale che aveva assunto.

14. Né è superfluo l'articolo seguente: "salì al cielo "dopo essere risuscitato. Sebbene Cristo abbia incominciato a manifestare la propria gloria e la propria potenza alla risurrezione, spogliandosi della condizione servile propria della vita mortale e dell'ignominia della croce, tuttavia ha veramente manifestato il proprio dominio quando è salito al cielo. È questo che l'Apostolo intende quando dice che egli è salito per adempiere ogni cosa (Ef. 4.10) : con una apparente contraddizione di termini indica esservi un consenso tra le due affermazioni, dato che Gesù Cristo si è allontanato da noi in modo da esserci ancora più utile di quando soggiornava sulla terra, dove abitava in una sede inadeguata.

 Per questo motivo san Giovanni, dopo aver ricordato che Gesù Cristo invita chi ha sete a bere l'acqua di vita, aggiunge poi che lo Spirito Santo non era ancora stato dato perché Gesù Cristo non era ancora stato glorificato (Gv. 7.37-39). Il Signore stesso lo ha dichiarato ai suoi discepoli: "Vi è utile che io me ne vada, perché se non me ne vado il Consolatore non verrà affatto ", (Gv. 16.7). Egli consola i suoi discepoli del dolore che avrebbero potuto provare, per la sua assenza corporale, dichiarando che non li lascerà orfani ma ritornerà a loro, in modo invisibile ma migliore; allora infatti avranno la conoscenza del dominio che gli è dato e dell'autorità che eserciterà e questo sarà sufficiente per loro non solo a vivere ma anche a morire bene e felicemente. Infatti constatiamo che ha sparso le grazie del suo Spirito più largamente, ha affermato più solennemente la sua sovranità, ha manifestato più evidentemente la sua potenza, sia aiutando i suoi che abbattendo i nemici. Ricevuto nel cielo ci ha privati della sua presenza fisica (At. 1.9) ma non ha cessato dall'assistere i credenti che ancora camminano sulla terra ed anzi governa il mondo con una potenza ancor più diretta che nel passato.

La sua promessa di essere con noi fino alla fine del mondo (Mt. 28.20) ' è stata dunque realizzata per mezzo della sua ascensione: come il corpo è stato innalzato su tutti i cieli, così la sua forza effettiva si è estesa al di là di tutti i limiti del cielo e della terra.

Illustro volentieri questa affermazione con le parole di sant'Agostino, piuttosto che con le mie: "Gesù Cristo "egli dice "doveva andare mediante la morte alla destra del Padre, per giudicarvi i vivi e i morti con la sua presenza corporale. Con la sua presenza spirituale doveva essere tra i suoi discepoli, dopo l'ascensione ". In un altro passo si esprime ancor più chiaramente: "La grazia invisibile ed infinita di Gesù Cristo "egli dice "ha adempiuto la promessa fatta agli apostoli di essere con loro fino alla fine dei secoli. Ma il fatto che si è incarnato, che è nato dalla Vergine, che è stato imprigionato dagli Ebrei, che è stato appeso alla croce e poi ne è stato deposto per essere seppellito sotto terra: il fatto che si è manifestato dopo la risurrezione adempiono la sua affermazione: Non mi avrete sempre con voi (Mt. 26.2). Perché? Perché con la presenza del suo corpo ha conversato con i discepoli per quaranta giorni e alla loro presenza è salito al cielo e non è più qui (At. 1.3e 9). Ed è seduto alla destra di Dio suo Padre. Ed è ancora qui, dato che la presenza della sua maestà non si è ancora allontanata. Abbiamo quindi Gesù Cristo sempre con noi con la presenza della sua maestà. Quanto alla presenza della sua carne, egli dice ai suoi discepoli: Non sarò sempre con voi. Per alcuni pochi giorni la Chiesa lo ha avuto presente nella carne; ora essa lo possiede mediante la fede, ma non lo vede con gli occhi".

15. Per questo motivo subito viene aggiunto che è "seduto alla destra del Padre ". La similitudine è presa dalla vita dei sovrani, i cui luogotenenti sono come assessori con l'incarico di governare. Similmente Cristo, in cui il Padre vuole manifestare la sua potenza e mediante cui vuole esercitare la sua sovranità, è detto seduto alla destra del Padre.

Con questa espressione si deve intendere che è stato stabilito sovrano del cielo e della terra e che ne ha preso solennemente possesso: e non solo per una volta, ma ne mantiene il possesso fino a quando tornerà nel giorno del giudizio. L'Apostolo dichiara che il Padre lo ha costituito alla propria destra su ogni signoria e autorità e potenza e dominazione e su ogni nome nominato non solo in questo secolo ma anche nel futuro (Ef. 1.20; Fl. 2.9); e gli ha sottomesso ogni cosa e lo ha stabilito quale capo supremo nella Chiesa (Ef. 1.22).

 Ecco il significato dell'affermazione che Gesù Cristo è seduto: le creature celesti come quelle terrestri onorano la sua maestà, sono governate dalla sua mano, obbediscono al suo beneplacito e sono soggette alla sua potenza. Né gli apostoli affermano altro dicendo: ogni cosa è stata sottomessa al suo imperio (At. 2.30e 3.21; Eb. 1.8). Si ingannano quindi coloro che pensano che con questa espressione si intenda indicare semplicemente la beatitudine in cui Gesù Cristo è stato accolto.

Poco importa che santo Stefano, negli Atti, dichiari di averlo visto in piedi (At. 7.56). Si parla qui non della posizione del corpo ma della maestà del suo dominio; essere seduto non significa altro che presiedere al governo celeste.

16. La nostra fede ne ricava diversi insegnamenti. Comprendiamo che il Signore Gesù, con la sua ascensione al cielo, ci ha aperto la strada che Adamo aveva chiuso. Egli vi è infatti entrato con la nostra carne e, per così dire, a nome nostro: di conseguenza, dice l'Apostolo, siamo già in qualche modo seduti con lui nei luoghi celesti (Ef. 2.5-6). Vale a dire che non ne abbiamo solo una speranza ma attraverso il nostro capo ne abbiamo già il possesso.

Inoltre riconosciamo che il suo risiedere presso il Padre ridonda a nostro vantaggio. Essendo entrato nel santuario, che non è costruito da mano umana, vi dimora in qualità di nostro avvocato ed intercessore (Eb. 7.25e 9.2; Ro 8.34); richiama gli occhi del Padre con la propria giustizia, di sorta che li storna dalla visione del nostro peccato; ci riconcilia il suo cuore, di sorta che la sua intercessione ci permette di accedere al trono divino; ci procura grazia e clemenza facendo in modo che il Padre non ci spaventi, come deve spaventare ogni peccatore.

In terzo luogo questo articolo ci permette di comprendere la potenza di Gesù Cristo, in cui risiedono la nostra forza e il nostro vigore, il nostro aiuto e la fierezza che abbiamo di fronte all'inferno. Salendo al cielo ha condotto i suoi avversari prigionieri (Ef. 4.8) e avendoli dIs.rmati, ha arricchito il suo popolo e ogni giorno continua ad arricchirlo di grazie spirituali È: dunque seduto in alto e di là, riversando su noi la sua potenza, ci vivifica spiritualmente, ci santifica con il suo Spirito allo scopo di abbellire la sua Chiesa con doni preziosi, di conservarla con la sua protezione, di reprimere e confondere i nemici della croce e della nostra salvezza: e infine ottenere ogni potere nel cielo e sulla terra, allorché avrà vinto e distrutto tutti i suoi nemici, che sono anche i nostri, e avrà ultimato l'edificazione della sua Chiesa (Sl. 110.1).

Ecco la realtà del suo regno e la potenza che il Padre gli ha data fino a che avrà realizzato l'ultimo atto venendo a giudicare i vivi e i morti.

17. I servi di Gesù Cristo hanno fin da ora sufficienti elementi per riconoscere la presenza del suo potere. Ma il suo regno è ancora nascosto e velato dalla umiltà della carne e giustamente dunque la fede e indirizzata alla sua presenza visibile, che manifesterà all'ultimo giorno. Discenderà infatti in forma visibile, come lo si è visto salire (At. 1.2; Mt. 24.30) e apparirà a tutti nella maestà indicibile della sua sovranità, nella luce dell'immortalità, e la potenza infinita della sua divinità, in compagnia dei suoi angeli.

 Ci è ordinato quindi di attendere il nostro redentore per il giorno in cui separerà le pecore dai capri, gli eletti dai reprobi (Mt. 25.31-33) , e nessuno, vivente o morto, potrà sfuggire al suo giudizio. Il suono della tromba sarà udito in tutti gli angoli del mondo e tutti gli uomini saranno chiamati a comparire di fronte al suo trono di giudice, sia quelli che saranno allora in vita che quelli che erano precedentemente deceduti.

Alcuni intendono la frase: "i vivi e i morti ", nel senso di: "i buoni ed i malvagi ". Alcuni degli antichi erano in dubbio sul significato da dare a queste parole: ma il primo significato è da preferire, essendo più semplice, meno ricercato, e nello stile delle espressioni abituali della Scrittura.

Né esso contraddice la dichiarazione dell'Apostolo secondo la quale è stabilito che ogni uomo muoia una volta sola (Eb. 9.27). Infatti quelli che saranno in vita quando il giudizio verrà, non moriranno secondo l'ordine naturale, tuttavia subiranno un mutamento tale, al posto della morte, da potersi giustamente definire "morte ". È certo che non tutti riposeranno a lungo, quel che la Scrittura definisce dormire, ma tutti saranno mutati e cambiati (1 Co. 15.51). Che cosa vuol dire questo? Che la loro vita mortale sarà abolita in un istante e trasformata in una nuova natura. Nessuno può negare che questa abolizione della carne debba essere definita "morte ".

Rimane vero tuttavia che i vivi ed i morti saranno chiamati in giudizio. I morti che sono in Cristo risusciteranno i primi; poi i sopravvissuti compariranno davanti al Signore, nel cielo, come dice san Paolo (1 Ts. 4.16).

È probabile che questo punto sia tratto dalla predicazione di san Pietro, secondo la redazione di san Luca (At. 10.42) , e dalla solenne dichiarazione di san Paolo a Timoteo (2Ti 4.1) , in cui si parla esplicitamente dei vivi e dei morti.

18. Ricaviamo una grande consolazione dal sapere che il potere di giudicare è dato a colui che ci ha fatti partecipi della sua autorità di giudice (Mt. 19.28) : egli non salirà sul trono per condannarci! Un principe così clemente distruggerebbe il suo popolo? Il capo disperderebbe le sue membra? L'avvocato condannerebbe quelli che difende? L'Apostolo si compiace del fatto che nessuno possa condannare, quando Gesù Cristo intercede per noi (Ro 8.33); è ancor più certo che Cristo, essendo il nostro intercessore, non ci condannerà certamente, dato che ha preso in mano la nostra causa ed ha promesso di sostenerci. l: motivo di grande sicurezza il sapere che compariremo in giudizio davanti al nostro redentore, dal quale aspettiamo la salvezza.

Inoltre si afferma così che colui che ci promette ora, attraverso l'Evangelo, la beatitudine eterna, ratificherà un giorno la sua promessa pronunciando il giudizio. Il Padre ha dunque glorificato il Figlio attribuendogli autorità per giudicare, e, in tal modo, ha inteso consolare la coscienza dei suoi servi, che potrebbero vacillare per l'orrore del giudizio qualora non avessero una speranza fondata.

 Ho seguito fin qui l'ordine del Simbolo detto apostolico perché potessimo vedere, nei suoi articoli, come in un quadro, gli elementi fondamentali della nostra salvezza e, in questo modo, comprendere anche in quale direzione dobbiamo volgerci per ottenere salvezza in Gesù Cristo.

Ho già detto che non bisogna preoccuparsi troppo di conoscere l'autore di questo sommario. Gli antichi di comune accordo lo attribuivano agli Apostoli, sia che lo ritenessero messo per iscritto da loro, sia che volessero autenticare la dottrina che sapevano provenire da loro, tramandata fedelmente di mano n mano. Indubbiamente si tratta di una confessione accettata senza esitazioni fin dalla prima origine della Chiesa, anzi dal tempo degli apostoli. E anche verosimile che un sommario del genere non sia stato composto da un individuo privato, dato che fin dal principio ha ottenuto una sacra autorità tra i credenti. Il punto essenziale e fuori discussione è questo: tutta la storia della nostra fede vi è riassunta in ordine e modo tale che non c'è più bisogno di cercare altrove, e nulla vi è contenuto che non sia provato da sicure testimonianze scritturali

Sapendo questo, sarebbe inutile ricercare faticosamente chi ne sia l'autore e discutere con chi fosse in disaccordo con noi, a meno di non essere così difficili da accontentare da non accettare di essere istruiti dallo Spirito di Dio nella verità infallibile, qualora non sappiamo quale bocca l'ha proferita e quale mano l'ha scritta.

19. Vediamo quindi che la totalità ed i singoli elementi della nostra salvezza sono rinchiusi in Gesù Cristo; bisogna perciò guardarsi dal farne derivare la minima porzione da altra fonte Se cerchiamo salvezza, il nome stesso "Gesù "ci insegna a cercarla in lui. Se cerchiamo i doni dello Spirito Santo, li troveremo nella sua consacrazione. Se cerchiamo forza, è situata nella sua sovranità. Se vogliamo trovare dolcezza e benignità, la sua natività ce la presenta: in essa egli è stato reso simile a noi per imparare ad essere pietoso. Se domandiamo redenzione, la sua passione ce la dà. Nella sua condanna, troviamo la nostra assoluzione. Se desideriamo che la maledizione ci sia allontanata, lo otteniamo nella sua croce. La soddisfazione, l'abbiamo nel suo sacrificio; la purificazione, nel suo sangue; la nostra riconciliazione è avvenuta mediante la sua discesa agli inferi. La mortificazione della nostra carne si trova nel suo sepolcro; la novità di vita, nella sua risurrezione, nella quale abbiamo anche la speranza dell'immortalità. Se cerchiamo l'eredità celeste, ci è assicurata dalla sua ascensione. Se cerchiamo aiuto e conforto e abbondanza di ogni bene, l'abbiamo nel suo regno. Se vogliamo presentarci al giudizio con tranquillità, possiamo farlo poiché è il nostro giudice.

In lui insomma è il tesoro di tutti i beni e da lui dobbiamo attingere per essere saziati, non altrove. Chi non fosse soddisfatto di lui e ondeggiasse qua e là da una speranza all'altra, pur continuando a guardare soprattutto a lui, non terrebbe la strada giusta volgendo altrove una parte almeno dei propri pensieri. Del resto questa sfiducia non può penetrare nel nostro cuore, se abbiamo coscienza delle sue ricchezze.

 

 

CAPITOLO XVII

GESÙ CRISTO HA REALMENTE MERITATO PER NOI LA GRAZIA DI DIO E LA SALVEZZA

 

1. Per finire dobbiamo esaminare ancora una questione. Alcuni spiriti balzani, che si smarriscono nelle proprie divagazioni, pur riconoscendo che otteniamo salvezza mediante Gesù Cristo, non possono tollerare la parola "merito ", perché pensano che la grazia di Dio ne sia oscurata. Sostengono quindi che Gesù Cristo sia stato lo strumento oppure il ministro della nostra salvezza ma non l'autore, il capo, il responsabile, come san Pietro lo chiama (At. 3.15).

Riconosco che se si volesse sottoporre Gesù Cristo al giudizio di Dio, non si riscontrerebbe alcun motivo di merito, poiché non si troverà mai nell'uomo dignità sufficiente ad impegnare Dio o ad acquisire merito presso di lui. Al contrario sant'Agostino dice bene: "Il nostro Salvatore, in quanto uomo, costituisce una sovrana luce della predestinazione e della grazia di Dio: la natura umana che è in lui non aveva alcun merito precedente di opere o di fede per guadagnarsi la posizione che ha. Mi si dica "prosegue "come avrebbe potuto quest'uomo meritare di essere assunto dalla Parola coeterna del Padre nell'unità della persona, per essere figlio unico di Dio? La sorgente della grazia appare dunque nel nostro Capo, dal quale si diffonde sulle membra secondo la misura di ciascuno. Per questa grazia ciascuno diviene cristiano dall'inizio della fede, così come il nostro Salvatore mediante questa fede è divenuto Cristo dall'inizio della sua umanità ". E in un altro passo: "Non c'è esempio O modello più esplicito e notevole della predestinazione gratuita che il nostro mediatore. Colui che ha creato dalla stirpe di Davide un uomo giusto, che mai non sarebbe divenuto ingiusto, pur senza merito della sua volontà precedente, rende giusti anche quelli che erano ingiusti facendoli membra di quel Capo ".

Perciò parlando dei meriti di Gesù Cristo, non ne attribuiamo a lui l'origine, ma rIs.liamo al decreto e alla volontà di Dio che ne è la causa prima. Infatti lo ha stabilito come mediatore del tutto gratuitamente, per procurarci salvezza. È dunque da sconsiderati opporre il merito di Gesù Cristo alla misericordia di Dio.

Bisogna osservare la regola corrente: quando due cose concordano, ciascuna per parte sua, anche se una è accessoria all'altra, non vi è tra esse alcuna opposizione. Nulla impedisce dunque che la giustificazione dell'uomo sia dono gratuito della misericordia di Dio, e contemporaneamente vi intervenga il merito di Gesù Cristo con la funzione di strumento secondario.

È alle nostre opere che bisogna contrapporre sia la benevolenza e il favore di Dio che l'obbedienza di Cristo, ciascuno nel suo ordine. Gesù Cristo, infatti, non ha potuto guadagnare alcun merito senza il beneplacito di Dio; ma egli era stato destinato a placare l'ira di Dio con il suo sacrificio e a cancellare le nostre trasgressioni con la sua obbedienza.

Insomma, dato che il merito di Gesù Cristo dipende e procede dalla sola grazia di Dio, la quale ha stabilito questa modalità di salvezza, esso deve contrapporsi ad ogni giustizia umana altrettanto quanto la causa da cui trae origine.

 2. Questa distinzione può essere riscontrata in molti passi della Scrittura. Ad esempio: "Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo figlio unigenito affinché chiunque crede in lui non perisca " (Gv. 3.16). Vediamo menzionato in primo luogo l'amore di Dio, quale causa o fonte prima, poi segue la fede in Gesù Cristo, quale causa seconda e più prossima. Qualcuno obbietta che Gesù Cristo costituisce solo la causa formale, vale a dire che non contiene in se l'effettiva efficacia; ma le parole che abbiamo citato non autorizzano tale diminuzione del suo potere. Se siamo ritenuti giusti per la fede a lui rivolta, dobbiamo parimenti cercare in lui la sostanza della nostra salvezza.

Questo è confermato da molti passi espliciti. Dice san Giovanni: "Noi non l'abbiamo amato per primi, lui ci ha amato per primo e ha mandato il suo figlio quale propiziazione per i nostri peccati " (1 Gv. 4.10). In queste parole è affermato chiaramente che Dio ha disposto in Gesù Cristo lo strumento della propria riconciliazione con noi, onde nulla costituisse ostacolo al suo amore verso di noi. Questo termine "propiziazione "ha un grande significato: Dio ci amava ma nello stesso tempo ci era nemico in modo incomprensibile, fin quando è stato placato in Cristo. A questo si riferiscono queste affermazioni: "Gesù Cristo è l'espiazione dei nostri peccati " (1 Gv. 2.2) : "è piaciuto a Dio di riconciliare con se tutte le cose per mezzo di lui, spegnendo ogni discordia mediante il sangue della croce di lui " (Cl. 1.20) : "Dio in Cristo si riconciliava con il mondo, non imputando agli uomini i loro peccati " (2 Co. 5.19) : "Dio ci gradisce nel suo figlio diletto " (Ef. 1.6) : "Gesù Cristo ha riconciliato gli Ebrei ed i pagani con Dio per mezzo della propria croce " (Ef. 2.16).

La ragione di questo mistero può essere dedotta dal primo capitolo agli Efesini laddove san Paolo, dopo aver insegnato che siamo stati eletti m Cristo, aggiunge che in lui abbiamo ottenuto grazia. Perché Dio ha iniziato ad accogliere nel suo amore quanti aveva già amato prima della creazione del mondo quando ha manifestato il suo amore, riconciliandosi mediante il sangue del figlio suo. Se Dio è la sorgente di ogni giustizia, mentre siamo peccatori, egli e necessariamente nostro nemico e nostro giudice. Perciò la giustizia, come san Paolo la descrive, coincide con il principio del suo amore per noi. "Colui che era puro da ogni peccato è stato fatto peccato per noi, affinché diventassimo giustizia di Dio in lui " (2 Co. 5.21). L'Apostolo vuol indicare che, mediante il sacrificio di Gesù Cristo, riceviamo una giustizia gratuita che ci rende bene accetti a Dio, altrimenti saremmo allontanati da lui a motivo del peccato e figli della collera per natura.

Questa distinzione del resto è messa in luce ogni volta che la Scrittura unisce la grazia di Gesù Cristo all'amore di Dio; il nostro salvatore ci accorda quanto ha meritato per conto suo. Altrimenti non avrebbe senso che la lode gliene sia attribuita in modo speciale e che insieme la grazia sia sua e proveniente da lui.

3. Molti passi della Scrittura insegnano che Gesù Cristo con la sua obbedienza ha meritato e ci ha procurato il favore del Padre. Questo punto deve essere considerato fuori discussione: egli ha dato soddisfazione per i nostri peccati, ha sopportato la pena che spettava a noi, con la sua obbedienza ha placato la collera del Padre, infine, essendo giusto, ha sofferto per i peccatori, ci ha procurato salvezza mediante la sua giustizia. Il che equivale a dire che l'ha meritata.

 Secondo la testimonianza di san Paolo, egli ci ha riconciliati mediante la sua morte (Ro 5.10). La riconciliazione non ha ragione d'essere se non vi è stata in precedenza l'offesa, l'odio, la separazione. Il significato è dunque questo: Dio che giustamente ci odiava e ci disprezzava a causa del peccato, si è riconciliato con noi mediante la morte del suo figlio e vuol esserci favorevole.

Bisogna inoltre notare il paragone di cui san Paolo si serve: come siamo stati fatti peccatori, egli dice, per la trasgressione di un solo uomo, così siamo ricostituiti giusti per l'obbedienza di un solo uomo (Ro 5.19). Il significato è questo: come siamo stati separati da Dio per la colpa di Adamo e destinati alla perdizione, così mediante l'obbedienza di Gesù Cristo siamo stati ristabiliti nell'amore come giusti. Afferma anche che il dono cancella numerose colpe e ci giustifica (Ro 5.16)

4. Quando diciamo che la grazia ci è stata acquisita dal merito di Gesù Cristo, intendiamo dire che siamo stati purificati dal suo sangue e che la sua morte ha costituito la soddisfazione che cancellava i peccati. San Giovanni dice che il suo sangue ci purifica (1 Gv. 1.7). E il Salvatore stesso: "Ecco il mio sangue che è sparso per la remissione dei peccati " (Lu 22.20) Se il potere del sangue sparso è di non permettere che i peccati ci siano imputati, ne segue che questo prezzo ha soddisfatto il giudizio di Dio.

Con questo concorda la dichiarazione di Giovanni Battista: "Ecco l'agnello di Dio che toglie il peccato del mondo " (Gv. 1.29). Egli contrappone Gesù Cristo a tutti i sacrifici della Legge, insegnando che quanto le antiche figurazioni simboleggiavano si è realizzato in lui. Mosè ripete spesso che l'iniquità sarà riscattata e il peccato cancellato e rimesso mediante le offerte. Insomma i simboli antichi ci manifestano chiaramente quali siano la potenza e l'efficacia della morte di Gesù Cristo.

L'Apostolo spiega chiaramente il tutto nella epistola agli Ebrei sulla base del principio che il perdono non avviene senza effusione di sangue (Eb. 9.22). Ne conclude che Gesù Cristo è stato manifestato per annullare il peccato con il suo sacrificio. Aggiunge che è stato offerto per annullare il peccato di molti. Poco prima aveva detto che egli non è entrato nel Tempio con il sangue di montoni o di vitelli, ma per il proprio sangue, per procurare redenzione eterna (Eb. 9.12). Quando argomenta: se il sangue d'una giovenca santifica la carne purificandola, a maggior ragione le coscienze sono purificate dalle opere morte mediante il sangue di Cristo (lo stesso al 13e 14); ne deriva evidentemente che chi nega al sacrificio di Cristo la possibilità di cancellare i peccati, placare Dio e soddisfarlo, sminuisce la grazia che è stata simboleggiata con i simboli della Legge. Ecco perché l'Apostolo aggiunge che Gesù Cristo è il mediatore del nuovo Patto, la cui morte interviene per indennizzare ed annullare i peccati che sotto la Legge permanevano, di modo che i credenti che sono chiamati ricevono la promessa dell'eredità eterna (lo stesso, al 15).

Da notare l'analogia di cui si serve san Paolo: Cristo, egli dice, è stato fatto maledizione per noi (Ga 3.13). Sarebbe stato superfluo, e anzi assurdo, che Gesù Cristo fosse stato accusato di maledizione se non per pagare i nostri debiti, e, in questo modo, procurarci giustizia.

 Nello stesso senso si esprime Isaia: il castigo per il quale abbiamo pace è stato portato da lui, per le sue piaghe siamo guariti (Is. 53.5). Se egli non avesse operato la soddisfazione per i nostri peccati, non si affermerebbe che ci ha riconciliati con Dio sottomettendosi alla punizione cui dovevamo sottometterci. A questo corrisponde l'affermazione successiva: "L'ho colpito per l'iniquità del mio popolo ".

Aggiungiamo la dichiarazione di san Pietro che elimina ogni difficoltà: egli ha portato i nostri peccati sul legno (1 Pi. 2.24). Qui si mostra che il fardello della nostra condanna è stato messo su Gesù Cristo affinché noi ne fossimo liberati.

5. Anche gli apostoli dichiarano apertamente che Gesù Cristo ha pagato il prezzo e la cauzione per riscattarci dall'obbligazione della morte. San Paolo dice che siamo giustificati dalla sua grazia, mediante la redenzione da lui realizzata, poiché Dio l'ha stabilito quale propiziazione, mediante la fede nel suo sangue. Con queste parole esalta la grazia di Dio, perché ci ha dato il prezzo della redenzione con la morte del suo figlio (Ro 3.24-25). Poi ci esorta a trovare rifugio nel sangue sparso, onde, essendo così giustificati, potessimo sussistere di fronte al giudizio di Dio.

Questo è confermato dalla dichiarazione di san Pietro, secondo la quale siamo riscattati non con l'oro o con l'argento, ma Cl. sangue prezioso dell'Agnello senza macchia (1 Pi. 1.1819). Questa contrapposizione non avrebbe senso se il prezzo del sangue innocente non avesse procurato la soddisfazione dei peccati; per il qual motivo san Paolo dice che siamo stati riscattati a gran prezzo (1 Co. 6.20). Né avrebbe significato l'affermazione pronunciata altrove che vi è un solo Mediatore, il quale si è dato quale garante e quale prezzo di riscatto. Per farlo ha dovuto sopportare la pena che noi avevamo meritata.

Per questo motivo lo stesso Apostolo, volendo specificare in che consista la redenzione nel sangue di Cristo, la chiama remissione dei peccati (Cl. 1.14) : intendendo dire che siamo giustificati ed assolti nel cospetto di Dio, perché quel sangue realizza la soddisfazione. Nello stesso senso si esprime un altro passo: il decreto che ci era contrario è stato cancellato sulla croce (Cl. 2.14). Esso indica che vi è stato un pagamento e una compensazione che ci liberano dalla condanna.

Dobbiamo anche ben considerare l'asserzione di san Paolo secondo la quale se fossimo giustificati dalle opere della Legge, Gesù Cristo sarebbe morto invano (Ga 2.21). Indica che dobbiamo cercare in Gesù Cristo quello che la Legge ci darebbe se fosse dovutamente osservata, oppure che otteniamo mediante la grazia di Cristo quel che Dio ha promesso nella Legge alle nostre opere, vale a dire: Chi farà queste cose, vivrà per esse (Le 18.5). Lo conferma in un sermone tenuto ad Antiochia, riportato da san Luca, in cui afferma che credendo in Gesù Cristo siamo giustificati di tutto quello di cui non potevamo essere giustificati nella Legge di Mosè (At. 13.38-39). Se l'osservanza della Legge è tenuta in conto di giustizia, non si può negare che quando Gesù Cristo, assumendosi questo compito, ci riconcilia con Dio suo padre, ce ne procura il favore.

Allo stesso fine tendono le affermazioni nell'epistola ai Galati: Dio mandando il suo figlio, lo ha assoggettato alla Legge, onde riscattasse quelli che erano sotto la Legge (Ga 4.4-5). A che servirebbe questa sottomissione alla Legge se non ci procurasse giustizia, se non realizzasse quanto non potevamo realizzare e non pagasse quello che non potevamo pagare?

Da questo proviene l'imputazione di giustizia senza le opere, di cui così spesso si parla (Ro 4). Dio ci attribuisce la giustizia che si trova solamente in Cristo. E infatti la sua carne è chiamata "nutrimento " (Gv. 6.55) , perché in essa troviamo sostentamento vitale. Questa sua efficacia deriva dal fatto che egli è stato crocifisso come prezzo di tutti i nostri debiti: san Paolo afferma che egli si è offerto in sacrificio di odor soave (Ef. 5.2) , che ha sofferto per i nostri peccati ed è risuscitato per la nostra giustizia (Ro 4.25).

Ne dobbiamo concludere non solo che Gesù Cristo è stato dato per la nostra salvezza, ma altresì che per la sua grazia il Padre ci è ora propizio. Non v'è dubbio che la dichiarazione profetica contenuta in Isaia sia interamente realizzata in questo redentore: "Lo farò per amor di me stesso e per amor di Davide mio servitore " (Is. 37.35). San Giovanni lo chiarisce molto bene dicendo che i nostri peccati sono rimessi a cagione del suo nome (1 Gv. 2.12) : sebbene il nome di Cristo non sia riportato, il senso del passo è quello. E il Signore stesso si esprime nello stesso senso: "Come io vivo a cagione del Padre, così voi vivrete a cagione di me " (Gv. 6.57). Anche san Paolo dice: "Vi è stato dato, per l'amore di Cristo, non solo di credere in lui ma anche di soffrire per lui " (Fl. 1.29).

6. È curiosità assurda il chiedere se Gesù Cristo abbia meritato qualcosa per se stesso, come fanno il Maestro delle Sentenze e gli Scolastici e volervi rispondere è audacia sfrontata. Per qual motivo il Figlio di Dio avrebbe dovuto scendere sulla terra per procurarsi qualcosa di nuovo, egli che possedeva ogni cosa?

Dio spiega la ragione per cui ha inviato il suo figlio e ci toglie ogni dubbio: non ne ha ricercato il vantaggio per i meriti che poteva avere, ma lo ha dato alla morte senza risparmiarlo a causa del grande amore che nutriva per il mondo (Ro 8.32). Bisogna notare questa frase: "Un bambino ci è nato, un figlio ci è stato dato " (Is. 9.5) , e: "Rallegrati, figlia di Sion: ecco il tuo re viene a te " (Za. 9.9). Esse dimostrano che Gesù Cristo ha pensato solamente a noi ed al nostro bene. Se avesse voluto preoccuparsi del proprio vantaggio, non avrebbe senso l'affermazione di san Paolo secondo la quale Gesù Cristo ci ha dimostrato il suo amore quando è morto per i suoi nemici (Ro 5.10). Se ne può dedurre che non si è preoccupato di se stesso. D'altronde lo dichiara esplicitamente con queste parole: "Per loro io santifico me stesso " (Gv. 17.19) , dove dimostra di non cercare alcun vantaggio per se dato che trasferisce ad altri il frutto della sua santificazione. E infatti, vale la pena di rilevarlo, Gesù Cristo ha annullato se stesso per darsi completamente alla nostra salvezza.

I sorbonisti travisano il passo di san Paolo e lo intendono in questo senso: è perché Gesù Cristo si è umiliato, che Dio lo ha glorificato e gli ha dato un titolo regale (Fl. 2.9). Ma se egli era uomo, per quali meriti avrebbe potuto giungere alla dignità di giudice del mondo e di capo degli angeli ed esercitare l'imperio divino supremo, al punto che nessuna creatura né celeste né terrestre è in grado di avvicinarsi anche lontanamente alla sua maestà? Si fissano su questa parola "perciò"; ma la soluzione è facile. San Paolo non si domanda quivi per quale ragione Gesù Cristo sia stato innalzato, ma ci addita un ordine che deve servire da esempio: e cioè l'elevazione ha seguito l'annientamento. Insomma non vuole affermare nulla di diverso da quanto è espresso altrove: "è stato necessario che Gesù Cristo soffrisse e in questo modo entrasse nella gloria " (Lu 24.26).