ARISTOTELE

ETICA A NICOMACO

 

LIBRO III

 

 

 

1. [Gli atti umani sono volontari o involontari?].

[30] Giacché, dunque, la virtù ha a che vedere sia con passioni sia con azioni, e giacché per le passioni e le azioni volontarie ci sono la lode e il biasimo, mentre per le involontarie c’è il perdono, e talora anche la pietà, definire il volontario e l’involontario è indubbiamente necessario per coloro che studiano la virtù, e utile anche ai legislatori per stabilire [35] le ricompense onorifiche e le punizioni.

Si ammette, dunque, comunemente, che sono involontari gli atti [1110a] compiuti per forza o per ignoranza. Forzato è l’atto il cui principio è esterno, tale cioè che chi agisce, ovvero subisce, non vi concorre per nulla: per esempio, se si è trascinati da qualche parte da un vento o da uomini che ci tengono in loro potere. Le azioni che si compiono per paura di mali più grandi oppure per [5] qualcosa di bello (per esempio, nel caso in cui un tiranno ci ordinasse di compiere qualche brutta azione tenendo in suo potere i nostri genitori e i nostri figli, sì che se noi la compiamo essi si salveranno, se no, morranno) è discutibile se siano involontarie o volontarie. Qualcosa di simile accade anche quando si gettano fuori bordo i propri averi durante le tempeste, giacché in generale nessuno butta via [10] volontariamente, ma chiunque abbia senno lo fa per salvare se stesso e tutti gli altri. Simili azioni, dunque, sono miste, ma assomigliano di più a quelle volontarie, giacché sono fatte oggetto di scelta nel momento determinato in cui sono compiute e il fine dell’azione dipende dalle circostanze. Per conseguenza, anche il volontario e l’involontario devono essere determinati in riferimento al momento in cui si agisce. [15] In questo caso si agisce volontariamente, giacché il principio che muove come strumenti le parti del corpo in simili azioni è nell’uomo stesso: e le cose di cui ha in se stesso il principio, dipende da lui farle o non farle. Tali azioni, dunque, sono volontarie, anche se in assoluto forse sono involontarie, giacché nessuno sceglierebbe alcuna delle azioni di tal genere per se stessa. Per [20] azioni simili talora si è anche lodati, quando si sopporta qualcosa di brutto o di doloroso in cambio di cose grandi e belle; in caso contrario si è biasimati, giacché sopportare le cose più vergognose per niente di bello o di proporzionato è da uomo miserabile. In alcuni casi, poi, non si dà lode, ma perdono: quando uno compie [25] un’azione che non deve, ma per evitare mali che oltrepassano l’umana natura e che nessuno potrebbe sopportare. Ma ad alcuni atti, senza dubbio, non è possibile lasciarsi costringere, ma piuttosto bisogna morire pur tra terribili sofferenze: infatti, i motivi che hanno costretto l’Alcmeone di Euripide53 ad uccidere la propria madre sono manifestamente risibili. È difficile, talvolta, discernere [30] che cosa ed a quale costo si deve scegliere e che cosa e per qual vantaggio si deve sopportare, ma ancor più difficile perseverare nelle decisioni prese: come, infatti, per lo più, ciò che ci aspetta è doloroso, ciò cui si è costretti è vergognoso, ragion per cui si meriterà lode o biasimo a seconda che ci si sia lasciati costringere oppure no. [1110b] Quali azioni, dunque, si devono chiamare forzate? Non dovremo dire che in senso assoluto lo sono quando la causa risiede in circostanze esterne e quando chi agisce non vi concorre per niente? Le azioni che per se stesse sono involontarie, ma che in un determinato momento ed in cambio di determinati vantaggi sono fatte oggetto di scelta, ed il cui principio è interno a chi agisce, [5] per se stesse sono, sì, involontarie, ma, in quel determinato momento e per quei determinati vantaggi, sono volontarie. E assomigliano di più a quelle volontarie, poiché le azioni fanno parte delle cose particolari, e queste sono volontarie. D’altra parte, quali cose bisogna scegliere ed in cambio di quali altre non è facile stabilire, giacché nei casi particolari ci sono molte differenze. Se si dicesse che le cose piacevoli e le cose belle [10] sono costrittive (in quanto costringono dall’esterno), tutte le azioni sarebbero, da quel punto di vista, forzate, giacché è in vista del piacevole e del bello che tutti gli uomini fanno tutto quello che fanno. E quelli che agiscono per forza e contro voglia agiscono con sofferenza, mentre quelli che agiscono per il piacevole ed il bello lo fanno con piacere. D’altra parte, è ridicolo accusare le circostanze esterne e non se stessi se si è facile preda di cose di tale natura, e anzi considerare causa [15] delle belle azioni se stessi, delle brutte, invece, l’attrattiva dei piaceri. Dunque, sembra che l’atto forzato sia quello il cui principio è esterno, senza alcun concorso di colui che viene forzato.

Ciò che si compie per ignoranza è tutto non volontario, ma è involontario quando provoca dispiacere e rincrescimento. Infatti, l’uomo che ha fatto [20] una cosa qualsiasi per ignoranza, senza provare alcun disagio per la sua azione, non ha agito volontariamente, in quanto, almeno, non sapeva quello che faceva, ma neppure involontariamente, in quanto, almeno, non prova dispiacere. Dunque, di coloro che agiscono per ignoranza, quello che non prova rincrescimento può essere chiamato, poiché è diverso, agente non volontario; infatti, poiché il secondo differisce dal primo, è meglio che abbia un suo nome proprio. D’altra parte [25] sembra che vi sia differenza anche tra agire per ignoranza e agire ignorando: infatti, chi è ubriaco o adirato non si ritiene che agisca per ignoranza ma per ubriachezza o per ira, tuttavia senza sapere ciò che fa, ma ignorandolo. Dunque, ogni uomo malvagio ignora quel che deve fare e ciò da cui si deve astenere, ed è per questo errore che si diventa ingiusti e, in generale, [30] viziosi. Ma il termine "involontario" non vuole essere usato nel caso in cui uno ignora ciò che gli conviene: infatti, l’ignoranza nella scelta non è causa dell’involontarietà dell’atto, ma della sua perversità, e neppure l’ignoranza dell’universale (per questa, anzi, si è biasimati); ma causa dell’involontarietà dell’atto è l’ignoranza delle circostanze particolari [1111a] nelle quali e in relazione alle quali si compie l’azione: in questi casi, infatti, si trovano pietà e perdono, perché è ignorando qualcuno di questi particolari che si agisce involontariamente. Dunque, non sarà certo male definire la natura ed il numero di questi particolari: chi è che agisce, che cosa fa, qual è l’oggetto o l’ambito dell’azione, e talora anche [5] con quale mezzo (per esempio, con quale strumento) agisce, in vista di qual risultato (per esempio, per salvare qualcuno), e in che modo (per esempio, pacatamente oppure violentemente). Tutte queste cose, dunque, nessuno, se non è pazzo, potrebbe ignorarle; ed è chiaro che non si può ignorare l’agente: infatti, come si può ignorare, se non altro, se stessi? Uno potrebbe ignorare ciò che sta facendo: per esempio, quando dicono che qualcosa è loro scappato di bocca parlando, oppure che non sapevano che erano dei segreti, [10] come disse Eschilo dei misteri54, oppure che, volendo solo fare una dimostrazione, hanno lasciato andare lo strumento, come diceva quello che aveva lasciato scattare la catapulta. Potrebbe anche capitare che uno scambi il proprio figlio per un nemico, come Merope55, e che prenda per smussata una lancia appuntita, oppure per pietra pomice la pietra dura; e che facendo bere qualcuno per salvarlo lo faccia morire; e che volendo afferrare la mano dell’avversario, [15] come coloro che lottano con le sole mani56, lo ferisca. Per conseguenza, poiché l’ignoranza può riguardare tutte queste circostanze di fatto in cui si attua l’azione, si ritiene comunemente che chi ne ignora qualcuna agisca involontariamente, e soprattutto se ne ignora le più importanti; e si ritiene che le più importanti circostanze di fatto in cui si attua l’azione siano il ciò che si fa ed il risultato in vista di cui lo si fa. Tale è, dunque, l’ignoranza per cui un atto si chiama involontario; [20] ma bisogna, inoltre, che l’atto sia spiacevole ed increscioso. Poiché è involontario ciò che si fa per forza e per ignoranza, si dovrà ritenere che il volontario è quello il cui principio sta in colui stesso che agisce, conoscendo le circostanze particolari in cui si attua l’azione. Infatti, senza dubbio, non è giusto dire che [25] sono involontari gli atti compiuti per impulsività o per desiderio. In tal caso, infatti, ne deriverebbe innanzi tutto che nessuno degli altri animali agirebbe spontaneamente57, né lo potrebbero i fanciulli; in secondo luogo, non facciamo volontariamente nessuna delle azioni che hanno come causa impulsività e desiderio, oppure quelle belle le facciamo volontariamente e quelle brutte involontariamente? O non è ridicolo, dal momento che una sola è la causa di tutte? Ma è certo assurdo [30] dire involontarie quelle azioni che dobbiamo appetire: e noi abbiamo il dovere di adirarci per certe cose e di desiderare certe altre, per esempio salute e istruzione. D’altra parte, si riconosce anche che gli atti involontari sono penosi, mentre quelli compiuti per assecondare un desiderio sono piacevoli. Inoltre, che differenza c’è, quanto alla involontarietà, tra gli errori commessi per calcolo e quelli commessi per impulsività? Si devono, infatti, evitare sia gli uni sia gli altri; [1111b] d’altra parte si riconosce che le passioni irrazionali non sono meno umane, sicché sono proprie dell’uomo anche le azioni che derivano da impulsività e da desiderio. È, dunque, assurdo porle come involontarie.

 

2. [La scelta].

Definiti e il volontario e l’involontario, [5] si va avanti con la trattazione della scelta58, giacché si ritiene che essa sia molto intimamente connessa con la virtù e che permetta di giudicare il carattere meglio che non le azioni. La scelta, dunque, è manifestamente qualcosa di volontario, ma non si identifica con esso, perché il volontario ha un’estensione maggiore: infatti, anche i bambini e gli altri animali hanno in comune con gli uomini la possibilità di agire volontariamente, ma non quella di scegliere, e degli atti repentini [10] diciamo che sono volontari, ma non che derivano da una scelta. Coloro che sostengono che la scelta è desiderio o impulsività o volontà o una specie di opinione, non sembra che parlino correttamente. Infatti, la scelta non è comune anche agli esseri irrazionali, mentre desiderio ed impulsività sì. E l’incontinente agisce perché appetisce, ma non perché sceglie; l’uomo continente, al contrario, agisce [15] per una scelta e non per desiderio. Inoltre, un desiderio può essere contrario ad una scelta, ma non ad un altro desiderio. E il desiderio ha per oggetto il piacevole ed il doloroso, mentre la scelta non ha per oggetto né il doloroso né il piacevole. Ancor meno è impulsività: infatti, le azioni compiute per impulsività, è ammesso comunemente, non derivano proprio per niente da una scelta. Ma, certo, non è neppure volontà, [20] benché le sia manifestamente affine. Infatti non ci può essere scelta dell’impossibile, e se uno dicesse che lo fa oggetto della propria scelta farebbe la figura dell’insensato. Invece c’è volontà anche dell’impossibile, per esempio dell’immortalità. Inoltre, la volontà riguarda anche quelle cose che non possono essere fatte dallo stesso che le vuole, per esempio che un certo attore o un certo atleta riescano vincitori; [25] invece nessuno sceglie simili cose, ma solo quelle che si pensa di poter fare personalmente. Inoltre, la volontà ha come oggetto piuttosto il fine, la scelta, invece, i mezzi: per esempio, noi vogliamo star bene di salute e scegliamo i mezzi per star bene; vogliamo essere felici e diciamo appunto che lo vogliamo, ma è stonato dire che lo scegliamo. In generale, infatti, [30] sembra che la scelta riguardi solo le cose che dipendono da noi. Dunque, non può essere neppure un’opinione, poiché si ammette che l’opinione riguardi ogni specie di oggetto, quelli eterni ed impossibili non meno di quelli che dipendono da noi: ed essa si distingue secondo il falso ed il vero, non secondo il bene ed il male, mentre la scelta si distingue piuttosto secondo questi ultimi. Dunque, [1112a] nessuno, certo, può dire che si identifica con l’opinione in generale. Ma neppure con un certo tipo di opinione: infatti, è con lo scegliere il bene o il male che determiniamo la nostra qualità morale, e non con l’averne una certa opinione. E noi scegliamo di conseguire o di evitare qualcosa di bene o di male, mentre un’opinione l’abbiamo su che cos’è una cosa o a chi giova o in che modo: [5] non abbiamo certo l’opinione di conseguirla o di evitarla. E poi la scelta è lodata, per il fatto di avere l’oggetto che si deve piuttosto che per il fatto di essere retta, mentre l’opinione è lodata per l’essere conforme al vero. Inoltre, scegliamo le cose che noi sappiamo molto bene che sono buone, mentre abbiamo opinione su quelle che non conosciamo perfettamente. Comunemente, poi, si ritiene che non sono gli stessi a compiere le scelte migliori, ma che [10] alcuni hanno opinioni piuttosto buone, ma poi, per vizio, scelgono quello che non si deve. Che, poi, un’opinione preceda o segua la scelta non ha alcuna importanza. Non è questo, infatti, che stiamo esaminando, ma se la scelta si identifichi con un determinato tipo di opinione. Che cosa è, dunque, o che tipo di cosa è la scelta, dal momento che non è nessuna delle cose precedentemente dette? È manifestamente un che di volontario, ma non ogni volontario è possibile oggetto di scelta. [15] Ma non sarà forse quel volontario che è preceduto da una deliberazione? Infatti, la scelta è accompagnata da ragione, cioè da pensiero. Ed anche il nome sembra suggerire che è ciò che viene scelto prima di altre cose.

 

3. [La deliberazione].

Ma si delibera di tutto, cioè ogni cosa è un possibile oggetto di deliberazione, oppure di alcune cose non è possibile deliberazione? Senza dubbio bisogna dire che è oggetto di deliberazione [20] non ciò su cui delibererebbe uno stupido o un pazzo, ma ciò su cui delibererebbe un uomo che ha senno. Nessuno, certo, delibera sulle cose eterne, per esempio sul cosmo o sull’incommensurabilità della diagonale col lato del quadrato. Ma neppure su quelle che sono, sì, in movimento, ma sempre secondo le stesse modalità, sia per necessità, sia [25] per natura, o per qualche altra causa (per esempio sul rivolgimento e sul sorgere degli astri). Né su ciò che avviene ora in una maniera ora in un’altra, come siccità e piogge. Né su ciò che accade per caso, come il rinvenimento di un tesoro. Ma neppure su tutte le cose umane, come, per esempio, nessuno Spartano delibera sulla migliore forma di governo per gli Sciti. [30] Infatti, nessuna di queste cose può dipendere da noi. Invece deliberiamo sulle cose che dipendono da noi, cioè su quelle che possono essere compiute da noi: e queste sono tutto quello che resta. Infatti, si ammette che cause siano natura necessità e caso, e inoltre l’intelletto e tutto ciò che è causato dall’uomo. E i singoli uomini deliberano su ciò che può essere fatto da loro stessi. E per quanto riguarda [1112b] le scienze esatte e per sé sufficienti, non è possibile deliberazione: per esempio, per quanto riguarda le lettere dell’alfabeto (giacché non abbiamo dubbi su come vadano scritte). Ma su tutto quanto dipende da noi, ma non sempre allo stesso modo, su questo noi deliberiamo: per esempio, su questioni di medicina e di affari, [5] e tanto più sull’arte del pilota che non sulla ginnastica, quanto meno quella è precisa, ed inoltre in maniera simile su tutte le altre cose, e più sulle arti che non sulle scienze, giacché sulle prime siamo più incerti. La deliberazione ha luogo a proposito di quelle cose che per lo più si verificano in un certo modo, ma che non è chiaro come andranno a finire, cioè quelle in cui c’è indeterminatezza. [10] Per le cose importanti prendiamo dei consiglieri, perché non ci fidiamo di noi stessi, ritenendo di non essere all’altezza di conoscerle adeguatamente. Deliberiamo non sui fini, ma sui mezzi per raggiungerli. Infatti, un medico non delibera se debba guarire, né un oratore se debba persuadere, né un politico se debba stabilire un buon governo, né alcun altro delibera [15] sul fine. Ma, una volta posto il fine, esaminano in che modo e con quali mezzi questo potrà essere raggiunto: e quando il fine può manifestamente essere raggiunto con più mezzi, esaminano con quale sarà raggiunto nella maniera più facile e più bella; se invece il fine può essere raggiunto con un mezzo solo, esaminano in che modo potrà essere raggiunto con questo mezzo, e con quale altro mezzo si raggiungerà a sua volta il mezzo, finché non giungano alla causa prima, che, nell’ordine della scoperta, è l’ultima. [20] Colui che delibera sembra che compia una ricerca ed una analisi nel modo suddetto, come per costruire una figura geometrica (ma è manifesto che non ogni ricerca è una deliberazione, per esempio quelle matematiche, mentre ogni deliberazione è una ricerca), è ciò che è ultimo nell’analisi è primo nella costruzione. E se ci si imbatte in qualcosa di impossibile, [25] ci si rinuncia: per esempio, se occorre denaro ed è impossibile procurarselo. Se, invece, la cosa si rivela possibile, ci si accinge ad agire. Possibili sono le cose che dipendono da noi, giacché quelle che dipendono dai nostri amici in certo qual modo dipendono da noi: il loro principio infatti è in noi. Oggetto della ricerca sono a volte gli strumenti a volte il loro uso: [30] similmente anche in tutti gli altri casi, talora si ricerca lo strumento, talora il modo di usarlo, talora il mezzo per ottenere tale strumento. Sembra, dunque, come si è detto, che l’uomo sia principio delle proprie azioni: la deliberazione riguarda ciò che può essere fatto da colui stesso che delibera, e le azioni hanno come fine qualcosa di diverso da loro stesse. Dunque59, l’oggetto della deliberazione non può essere il fine bensì i mezzi. Né, certamente, possono esserlo i singoli dati di fatto [1113a], per esempio se questo è pane o se è stato cotto come si deve, poiché i singoli dati di fatto sono oggetto della sensazione. Se, poi, si dovesse sempre deliberare, si andrebbe all’infinito. L’oggetto della deliberazione e quello della scelta sono la medesima cosa, tranne per il fatto che l’oggetto della scelta è già stato determinato: infatti, è ciò che è stato precedentemente60 giudicato dalla deliberazione ciò che viene scelto. [5] Infatti, ciascuno smette di cercare come agirà quando ha ricondotto il principio dell’azione a se stesso, e, precisamente, a quella parte di sé che è dominante, giacché è questa che sceglie. E questo risulta chiaro anche dalle antiche costituzioni, quelle che rappresentò Omero: i re, infatti, facevano annunciare al popolo quello che essi avevano scelto. Poiché, dunque, [10] l’oggetto della scelta è una cosa che dipende da noi, desiderata in base ad una deliberazione, anche la scelta sarà un desiderio deliberato di cose che dipendono da noi: infatti, quando, in base ad una deliberazione, arriviamo ad un giudizio, proviamo un desiderio conforme alla deliberazione. Si consideri conclusa la trattazione schematica della scelta, della natura dei suoi oggetti e del fatto che riguarda i mezzi relativi ai fini.

 

4. [La volontà].

[15] Abbiamo già detto61 che la volontà ha per oggetto il fine, ma alcuni pensano che esso sia il bene, altri ciò che appare bene. Ma a coloro che affermano che l’oggetto della volontà è il bene succede di dover affermare che non è oggetto di volontà ciò che vuole colui che non sceglie rettamente (se infatti fosse oggetto di volontà sarebbe anche un bene; ma nel caso ipotizzato era un male). D’altra parte, [20] a coloro che affermano che oggetto di volontà è ciò che appare bene succede di dover affermare che non c’è un oggetto di volontà per natura, ma che lo è ciò che sembra bene a ciascuno: ad uno sembra una cosa, ad un altro un’altra, e, se fosse così, oggetto della volontà sarebbero le cose contrarie. Ma se queste conseguenze non piacciono, non bisogna allora dire che in senso assoluto e secondo verità oggetto di volontà è il bene, ma per ciascuno in particolare è ciò che appare tale? [25] Per l’uomo di valore ciò che è veramente bene, per il miserabile, invece, una cosa qualsiasi, come anche nel caso dei corpi: per quelli che sono in buone condizioni sono salutari le cose che sono veramente tali, per quelli malaticci altre cose; e similmente per l’amaro, il dolce, il caldo, il pesante e così via. Infatti, l’uomo di valore [30] giudica rettamente di ogni cosa, ed in ognuna a lui appare il vero. Per ciascuna disposizione, infatti, ci sono cose belle e piacevoli ad essa proprie, e forse l’uomo di valore si distingue soprattutto per il fatto che vede il vero in ogni cosa, in quanto ne è regola e misura. Nella maggior parte degli uomini, invece, l’inganno sembra avere origine dal piacere: esso appare un bene, ma non lo è. [1113b] Essi scelgono, pertanto, il piacere come se fosse un bene, e fuggono il dolore come se fosse un male.

 

5. [Le virtù e i vizi sono volontari, e perciò implicano responsabilità].

Poiché, dunque, oggetto di volontà è il fine, e oggetti di deliberazione e di scelta sono i mezzi, le azioni concernenti i mezzi [5] saranno compiute in base ad una scelta, cioè saranno volontarie. Ma le attività delle virtù hanno per oggetto i mezzi. Dunque, la virtù dipende da noi, e così pure il vizio. Infatti, nei casi in cui dipende da noi l’agire, dipende da noi anche il non agire, e in quelli in cui dipende da noi il non agire, dipende da noi anche l’agire. Cosicché, se l’agire, quando l’azione è bella, dipende da noi, anche il non agire dipenderà da noi, [10] quando l’azione è brutta; e se il non agire, quando l’azione è bella, dipende da noi, anche l’agire, quando l’azione è brutta, dipende da noi. Se dipende da noi compiere le azioni belle e quelle brutte, e analogamente anche il non compierle, e se è questo, come dicevamo, l’essere buoni o cattivi, allora dipende da noi l’essere virtuosi o viziosi. Il dire che "nessuno è volontariamente [15] malvagio, né involontariamente felice"62 sembra essere in parte falso e in parte vero: infatti nessuno è felice involontariamente, ma la malvagità è volontaria. Diversamente, bisogna rimettere in discussione quanto abbiamo ora detto, e bisogna negare che l’uomo sia principio e padre delle proprie azioni come lo è dei figli. Ma se è manifesto che è così e se non possiamo [20] ricondurre le nostre azioni ad altri principi se non a quelli che sono in noi, le azioni i cui principi sono in noi dipendono da noi e sono volontarie. Di ciò sembrano rendere testimonianza sia i singoli uomini nella condotta privata, sia gli stessi legislatori; questi, infatti, puniscono e infliggono pene a coloro che compiono azioni malvagie: a quelli, però, che non le compiono per costrizione o per un’ignoranza di cui non sono essi stessi causa, [25] mentre conferiscono onori a coloro che compiono azioni belle, con l’intenzione di incitare questi e di tenere a freno quelli. Ma le azioni che non dipendono da noi e che non sono volontarie, nessuno incita a compierle, così come non ha alcun effetto l’essere persuasi a non provare caldo o dolore o fame o altra affezione simile, giacché non soffriamo di meno [30] quelle affezioni. E, infatti, puniscono per l’ignoranza stessa quando ritengono che uno sia causa della propria ignoranza; per esempio, per gli ubriachi le pene sono doppie, giacché il principio dell’azione è in colui stesso che la compie: infatti è padrone di non ubriacarsi, ma l’ubriachezza, poi, è causa della sua ignoranza. E puniscono coloro che ignorano qualcuna delle prescrizioni legali, prescrizioni che bisogna conoscere e che non sono difficili, [1114a] e similmente anche negli altri casi, in cui ritengono che l’ignoranza sia causata da trascuratezza, in quanto dipende dagli interessati il non essere ignoranti: essi sono, infatti, padroni di prendersi la cura di uscire dall’ignoranza. E certo qualcuno è tale da non prendersene cura. Ma dell’essere divenuti tali gli uomini stessi sono causa, [5] in quanto vivono con trascuratezza, e dell’essere ingiusti e intemperanti sono causa, nel primo caso, coloro che agiscono malvagiamente, nel secondo coloro che passano la vita dediti al bere e a cose simili: infatti, sono le attività relative ai singoli ambiti di comportamento che li rendono appunto ingiusti e intemperanti. Questo risulta chiaro da coloro che si preoccupano di riuscire in una competizione o in un’azione qualsiasi: passano, infatti, tutto il loro tempo ad esercitarsi. L’ignorare, dunque, [10] che le disposizioni63 del carattere si generano dal fatto di esercitarsi nei singoli campi è proprio di chi è affatto insensato. Inoltre, è assurdo dire che chi commette ingiustizia non vuole essere ingiusto o che chi si comporta con intemperanza non vuole essere intemperante. E se uno compie delle azioni in conseguenza delle quali sarà ingiusto, e lo sa, sarà ingiusto volontariamente; né certamente basterà volerlo, per cessare di essere ingiusto e per essere giusto. Infatti, neppure [15] il malato può diventar sano solo volendolo. E se questo è il caso, è volontariamente che si trova in stato di malattia, in quanto vive da incontinente e non dà retta ai medici. All’inizio, sì, gli era possibile non ammalarsi, ma, una volta lasciatosi andare, non più, come uno che ha scagliato una pietra non può più riprenderla: tuttavia, dipende da lui lo scagliarla, giacché il principio dell’azione è in lui. Così anche all’ingiusto [20] ed all’intemperante all’inizio era possibile non diventare tali, ragion per cui lo sono volontariamente: una volta divenuti tali, non è loro più possibile non esserlo. Non solo i vizi dell’anima sono volontari, ma per alcuni anche quelli del corpo, ed a loro li rinfacciamo. Infatti, nessuno biasima quelli che sono brutti per natura, ma quelli che lo sono per mancanza di ginnastica [25] e per trascuratezza. E similmente anche nel caso di debolezza e di mutilazione: nessuno, infatti, rimprovererebbe uno che è cieco per natura o per malattia o per ferita, ma piuttosto ne avrebbe compassione; ognuno, invece, biasimerebbe chi fosse cieco per abuso di vino o per qualche altra intemperanza. Dunque, dei vizi del corpo quelli che dipendono da noi vengono biasimati, ma quelli che non dipendono da noi, no. Se è [30] così, anche negli altri casi i vizi che ricevono biasimo dipenderanno da noi. Se, poi, si dicesse che tutti tendono a ciò che a loro appare bene, senza però essere padroni di quell’apparire, ma il fine appare a ciascuno, [1114b] caso per caso, tale quale ciascuno anche è, risponderemmo che, se dunque ciascuno per sé è in qualche modo causa della sua disposizione, sarà in qualche modo causa anche di quell’apparire. E se no, nessuno è per sé causa del suo cattivo comportamento, ma compie queste cattive azioni per ignoranza del fine, [5] credendo che da esse gli deriverà il massimo bene, e la tensione verso il fine non è frutto di una scelta personale, ma esige che uno sia nato, per così dire, con una capacità visiva che gli permetterà di giudicare rettamente e di scegliere ciò che è veramente bene; ed è ben dotato chi ha ricevuto buona dalla natura questa capacità visiva: essa, infatti, è la cosa più grande e più bella, e cosa che non è possibile [10] prendere o imparare da altri, ma che uno possederà tale e quale l’ha ricevuta dalla nascita, e l’essere questa dalla nascita buona e bella costituirà la perfetta e vera "buona natura". Se, dunque, questo è vero, perché mai la virtù dovrà essere volontaria più che non il vizio? Ad entrambi infatti, sia al buono sia al cattivo, il fine appare allo stesso modo [15] e si trova posto per entrambi per natura o come che sia, ed essi, poi, tutto il resto compiono riferendosi a quello in un modo o nell’altro. Dunque, sia nel caso che il fine non si riveli per natura a ciascuno nella sua determinatezza, ma che qualcosa dipenda anche dall’uomo stesso, sia nel caso che il fine sia fornito dalla natura, per il fatto che l’uomo di valore compie tutti gli altri atti volontariamente, la virtù è volontaria, ed anche il vizio [20] non sarà meno volontario: in modo simile, infatti, anche al vizioso compete il determinarsi per se stesso nelle azioni anche se non nel fine. Se dunque, come si dice, le virtù sono volontarie (ed infatti noi stessi siamo in qualche modo concausa delle nostre disposizioni, e per il fatto di avere certe qualità poniamo un certo fine corrispondente), anche i vizi saranno volontari: la situazione, [25] infatti, è la stessa.

Dunque, delle virtù in generale abbiamo detto in abbozzo quale è il loro genere, cioè che sono delle medietà e delle disposizioni, che per se stesse ci fanno compiere le azioni da cui esse appunto derivano, che dipendono da noi e sono volontarie, e che ci fanno agire così come ordina la retta ragione. [30] Ma le azioni e le disposizioni non sono volontarie allo stesso modo: infatti, siamo padroni delle azioni dal principio alla fine, in quanto ne conosciamo le singole circostanze; delle disposizioni, invece, siamo padroni solo dell’inizio, [1115a] in quanto non ci è noto il loro graduale accrescimento, come nel caso delle malattie. Ma poiché dipende da noi farne questo o quest’altro uso, per questa ragione sono volontarie.

Riprendendo il discorso su ciascuna virtù, diciamo quale è la loro natura, [5] quali oggetti riguardano e in qual modo: ed insieme sarà chiaro anche quante sono. E innanzi tutto trattiamo del coraggio.

 

6. [II coraggio].

Che, dunque, il coraggio sia una medietà tra paura e temerarietà, è già risultato chiaro. Ed è evidente che noi abbiamo paura delle cose temibili e che queste sono, per dirla semplicemente, dei mali: perciò si definisce la paura come aspettativa di un male. [10] Orbene, noi temiamo tutti i mali, come, per esempio, disonore, povertà, malattia, mancanza di amici, morte, ma non si ritiene che l’uomo coraggioso sia tale in rapporto a tutti i mali. Ci sono alcuni mali, infatti, che bisogna temere, e che è bello temere, e brutto il non temere, come il disonore, giacché chi lo teme è un uomo per bene e riservato, chi non lo teme, invece, è impudente. [15] L’impudente è da alcuni chiamato coraggioso, ma per metafora, perché ha qualcosa di simile al coraggioso: anche il coraggioso, infatti, è uno che non ha paura. La povertà, certo, non bisogna temerla, né la malattia, né, in genere, tutto quanto non deriva dal vizio, né è causato da chi agisce. Ma neppure chi non ha paura di fronte a queste cose è coraggioso. Tuttavia, noi chiamiamo così anche questo per somiglianza: [20] alcuni, infatti, pur essendo vili nei pericoli della guerra, sono tuttavia liberali e affrontano coraggiosamente la perdita della loro ricchezza. Certamente neppure chi tema un oltraggio ai propri figli od alla moglie, o chi tema l’invidia o qualche cosa di questo genere, è un vile; né è coraggioso, se ha ardire mentre sta per essere fustigato. Dunque, in relazione a quali oggetti, tra quelli temibili, si determina [25] l’uomo coraggioso? Non è, forse, di fronte a quelli più grandi? Nessuno, infatti, più di lui, è in grado di sopportare ciò che ispira timore. Ma la cosa che suscita la paura più grande è la morte: essa è, infatti, un termine, e si ritiene che per chi è morto non vi sia più nulla di bene né di male. Ma neppure in ogni circostanza in cui si presenti la morte, come, per esempio, in mare o nelle malattie, l’uomo si determina come coraggioso. In quali circostanze allora? Non sarà [30] nelle circostanze più belle? Tali sono le circostanze della morte in guerra, cioè nel pericolo più grande e più bello. E corrispondenti ad esse sono anche gli onori per ciò concessi nelle città ed alla corte dei monarchi. In conclusione, si chiamerà propriamente coraggioso colui che sta senza paura di fronte ad una morte bella, e di fronte a tutte le circostanze che costituiscono rischio immediato che conduce ad una tale morte: di questo tipo sono [35] soprattutto le situazioni di guerra. Tuttavia, l’uomo coraggioso resta senza paura anche in mare [1115b] e nelle malattie, ma non allo stesso modo degli uomini di mare: gli uomini coraggiosi, infatti, non sperano nella salvezza e disprezzano una simile morte, mentre gli uomini di mare sono pieni di speranza, sulla base della loro esperienza. Nello stesso tempo, poi, si mostrano coraggiosi anche nelle circostanze in cui c’è bisogno di vigore, [5] oppure in cui è bello morire: ma, in tali tipi di morte, non c’è né una cosa né l’altra.

 

7. [Bellezza morale del coraggio].

Ciò che suscita paura non è la stessa cosa per tutti gli uomini; ma noi diciamo che c’è qualcosa che suscita paura anche al di sopra delle forze umane. Questo, dunque, fa paura a chiunque: a chiunque, almeno, abbia senno. Ma le cose a misura d’uomo differiscono per grandezza, cioè per il fatto di essere [10] più grandi o più piccole; allo stesso modo anche le cose che ispirano ardire. L’uomo coraggioso è impavido quanto può esserlo un uomo. Temerà, dunque, anche le cose a misura d’uomo, ma vi farà fronte come si deve e come vuole la ragione, in vista del bello, perché questo è il fine della virtù. È possibile temere queste cose di più e di meno, ed inoltre temere le cose non temibili come se lo fossero. [15] L’errore si produce o perché si teme ciò che non si deve, o perché si teme nel modo in cui non si deve, o perché non è il momento, o per qualche motivo simile: lo stesso vale anche per le cose che ispirano ardire. Orbene, colui che affronta, pur temendole, le cose che si deve, e che corrispondentemente ha ardire come e quando si deve, è coraggioso: infatti, [20] il coraggioso patisce e agisce secondo il valore delle circostanze e come prescrive la ragione. Il fine di ogni attività è quello che è conforme alla disposizione da cui essa procede: dunque, anche per il coraggioso. Il coraggio, poi, è una cosa bella: tale, quindi, sarà anche il suo fine, giacché ogni cosa si definisce in base al suo fine. Dunque, è in vista del bello morale che il coraggioso affronta le situazioni temibili e compie le azioni che derivano dal coraggio. Di coloro che peccano per eccesso, colui che pecca per mancanza di paura [25] non ha nome (abbiamo detto in precedenza che molte qualità non hanno nome) ma sarebbe un uomo folle o un insensibile se non temesse nulla, né terremoto né flutti, come dicono dei Celti: colui invece che eccede nell’ardire di fronte a cose temibili è temerario. Si ritiene comunemente che il temerario sia anche un millantatore, [30] cioè uno che simula coraggio: come il coraggioso è realmente di fronte alle cose temibili, così il temerario vuole apparire: in ciò che può, quindi, lo imita. Perciò i più di loro sono una mescolanza di viltà e temerarietà, giacché in queste situazioni si mostrano coraggiosi, ma non sanno affrontare quelle realmente temibili. Chi eccede nel temere è vile, perché teme ciò che non si deve [35] e come non si deve, e tutte le caratteristiche di questo genere gli competono di conseguenza. [1116a] Difetta anche nell’ardire, ma ciò che è più evidente è che eccede nel temere nelle situazioni dolorose. Certo il vile è una specie di uomo senza speranza, giacché ha paura di tutto. Il coraggioso, invece, è tutto il contrario: l’avere ardire, infatti, è proprio dell’uomo ricco di speranza. Il vile, dunque, [5] il temerario e il coraggioso hanno rapporto coi medesimi oggetti, ma vi si rapportano in modo differente: i primi, infatti, peccano per eccesso e per difetto, quest’ultimo invece si tiene nel mezzo e si comporta come si deve. I temerari, inoltre, sono precipitosi, e, mentre prima che i pericoli si presentino, li vogliono, quando i pericoli sono attuali si tirano indietro: i coraggiosi, invece, sono risoluti nei fatti e calmi prima. [10] Dunque, come abbiamo detto, il coraggio è una medietà che ha per oggetto cose che suscitano ardire e cose che suscitano paura, nelle circostanze che abbiamo indicato, e le sceglie e le affronta perché è bello il farlo, o perché è brutto il non farlo. Il morire per fuggire la povertà o l’amore o una sofferenza qualsiasi non è da uomo coraggioso, ma piuttosto da vile: infatti, è una debolezza quella di fuggire i travagli, e chi in tal caso affronta la morte [15] non lo fa perché è bello, ma per fuggire un male.

 

8. [Cinque disposizioni impropriamente denominate coraggio].

II coraggio, dunque, ha queste caratteristiche; ma si chiamano coraggio anche altre disposizioni, distinte in cinque specie.

(1) Innanzi tutto il coraggio civile, giacché è quello che assomiglia di più al coraggio vero e proprio. Infatti, si ritiene comunemente che i cittadini affrontino i pericoli a causa delle pene e dei biasimi stabiliti dalle leggi, ed a causa degli onori: [20] per questo si ritiene che i più coraggiosi siano quelli presso i quali i vili sono infamati ed i coraggiosi onorati. Uomini di questo tipo rappresenta anche Omero, per esempio un Diomede e un Ettore:

"Polidamante per primo mi coprirà d’infamia"64

e

[25] "Dirà Ettore un giorno, parlando fra i Teucri:

"Da me travolto il Titide...""65.

Questa specie di coraggio è quella che assomiglia di più a quella descritta precedentemente, perché nasce da virtù: nasce, infatti, da pudore e da desiderio di bello (cioè d’onore), e dal desiderio di evitare il biasimo, che è brutto. Si potrebbero porre nella medesima specie [30] anche coloro che sono forzati dai loro capi al medesimo comportamento; ma sono di qualità inferiore perché lo fanno non per pudore ma per paura, e per fuggire non ciò che è brutto ma ciò che è doloroso: li forzano infatti i loro signori, come Ettore

"Ma chi scoprirò che vuole lungi dalla battaglia

starsene [...], questi

[35] non potrà più sfuggire i cani... "66.

E i capi che assegnano loro i posti, e che li battono se indietreggiano, [1116b] fanno la stessa cosa, e così pure coloro che li schierano davanti ai fossati o cose simili, giacché tutti costoro li forzano. Invece bisogna essere coraggiosi non per forza, ma perché è bello.

(2) Anche l’esperienza di simili categorie di pericoli si pensa comunemente che sia coraggio: di qui anche Socrate giunse a pensare [5] che il coraggio è una scienza67. E coraggiosi alcuni si mostrano in certe cose, altri in altre: nei pericoli della guerra i soldati di professione, giacché si ritiene che in guerra vi siano molti falsi allarmi, che soprattutto i soldati di professione sanno cogliere a colpo d’occhio. Appaiono, quindi, coraggiosi, perché gli altri non conoscono la natura dei fatti. Inoltre, in base all’esperienza sono capaci, più di ogni altro, di infliggere colpi senza riceverne, [10] perché sono abili nell’uso delle armi e ne possiedono di tali, quali sono probabilmente le più adatte sia per infliggere colpi sia per non riceverne; combattono, quindi, come uomini armati contro uomini inermi e come atleti allenati contro dilettanti: in effetti, nelle competizioni atletiche non sono i più coraggiosi ad essere i migliori combattenti, ma [15] quelli che hanno la forza più grande e che si trovano nelle migliori condizioni fisiche. I soldati di professione diventano vili, invece, quando il pericolo avanza e quando sono inferiori per numero e per armamento: sono i primi, infatti, a fuggire, mentre le truppe formate da cittadini muoiono sul posto, come accadde anche presso il tempio di Hermes68. Per questi uomini, infatti, è brutto fuggire, [20] e la morte è preferibile ad un simile mezzo di salvezza; quelli, invece, anche all’inizio dell’azione affrontano il pericolo solo perché credono di essere più forti; ma quando si rendono conto della realtà fuggono, perché temono la morte più dell’onta. L’uomo coraggioso, invece, non è di tal fatta.

(3) Anche l’impulsività viene ricondotta al coraggio: si ritiene, infatti, che siano coraggiosi anche quelli che agiscono per impulsività, [25] come le bestie quando si gettano contro coloro che le hanno ferite, per il fatto che anche gli uomini coraggiosi sono impulsivi. L’impulsività è lo slancio più impetuoso contro i pericoli; di qui anche Omero: "egli infuse forza alla loro impulsività"69, e "destò ardore e impulsività"70, e "un aspro ardore salì alle narici"71, e "il sangue gli ribollì"72. Tutte queste espressioni sembrano infatti significare [30] il risveglio dell’impulsività e l’impeto. Orbene, i coraggiosi agiscono per amore del bello, e l’impulsività coopera con loro; le bestie invece, agiscono per il dolore, per il fatto di essere state colpite o spaventate, dal momento che, quando sono nella foresta, non aggrediscono. Non è, dunque, coraggio il loro, [35] quando si slanciano verso il pericolo, spinte dalla sofferenza o dall’impulsività, senza prevedere nessuno dei rischi, poiché in questo modo, allora, sarebbero coraggiosi anche gli asini quando hanno fame: anche se vengono percossi [1117a] non si allontanano dal pascolo. Anche gli adulteri, sotto la spinta del desiderio, compiono molte azioni audaci. Il più naturale, poi, sembra essere il coraggio che nasce dall’impulsività; [5] e, se all’impulsività si aggiunge una scelta e la consapevolezza del fine, sembra essere il coraggio propriamente detto. Anche gli uomini, dunque, quando sono adirati, soffrono, e quando si vendicano provano piacere; ma coloro che combattono per questi motivi sono, sì, battaglieri, ma non propriamente coraggiosi, giacché non combattono per il bello né come prescrive la ragione, bensì sotto la spinta della passione; tuttavia, hanno qualcosa che è molto vicino al vero coraggio.

(4) Certo, neppure gli uomini fiduciosi [10] sono coraggiosi; infatti, per il fatto di aver vinto spesso e molti nemici, hanno ardire nei pericoli: hanno una certa somiglianza con i coraggiosi, perché entrambi sono ardimentosi, ma, mentre i coraggiosi sono ardimentosi per le ragioni sopra esposte, questi lo sono per il fatto che credono di essere i più forti e di non poter subire alcun danno. (Nello stesso modo si comportano anche gli ubriachi, [15] perché diventano fiduciosi. Quando, invece, le cose non vanno in questo modo, essi fuggono.) Al contrario, proprio dell’uomo coraggioso è, come abbiamo detto, affrontare ciò che è o appare temibile all’uomo, perché è bello farlo ed è brutto il non farlo. Perciò si ritiene che sia proprio di un uomo anche più coraggioso restare senza paura e senza turbamento nei pericoli improvvisi più che non in quelli previsti, [20] giacché ciò che dipende di meno dalla preparazione deriva di più dalla disposizione. Infatti, i pericoli prevedibili uno può anche farli oggetto di una scelta in base ad un calcolo e ad un ragionamento, ma quelli improvvisi si affrontano secondo la propria disposizione.

(5) Appaiono coraggiosi anche coloro che non riconoscono il pericolo, e non sono lontani dagli uomini fiduciosi, pur essendo inferiori in quanto non hanno la stima di sé che invece quelli possiedono. Perciò resistono [25] per un certo tempo: ma quelli che si sono ingannati, quando vengono a sapere o sospettano che le cose stanno diversamente, fuggono. Cosa che capitò agli Argivi quando si imbatterono nei Laconi scambiati per Sicioni73. Si è detto, dunque, quale è la natura dei coraggiosi, e di quelli che comunemente passano per coraggiosi.

 

9. [Il coraggio: osservazioni conclusive].

Se il coraggio è in rapporto con temerarietà e paura, il rapporto [30] non è lo stesso nei due casi, ma riguarda soprattutto le cose che fanno paura. Infatti, è coraggioso chi in queste situazioni rimane imperturbabile, e di fronte ad esse si comporta come si deve, più di quanto non faccia chi si trova in situazioni che ispirano ardire. È, dunque, per il fatto di affrontare le situazioni dolorose, come si è detto, che tali uomini vengono chiamati coraggiosi. Perciò il coraggio comporta anche dolore ed è giusto che venga lodato: infatti, è più difficile [35] affrontare le situazioni dolorose che astenersi dai piaceri. [1117b] Tuttavia si riconoscerà che il fine che il coraggio permette di raggiungere è piacevole, ma che è oscurato dalle circostanze, come avviene anche nelle gare ginniche. Per i pugilatori il fine per cui combattono è piacevole (ciò per cui combattono è la corona e gli onori), ma il ricevere colpi è doloroso, dal momento che sono [5] di carne, e penoso è tutto l’allenamento. E poiché le cose dolorose sono molte, mentre il fine è piccola cosa, esso sembra non avere niente di piacevole. Se, dunque, la situazione è tale anche nel caso del coraggio, la morte e le ferite saranno dolorose per l’uomo coraggioso, che le subirà contro voglia, ma le affronterà perché è bello affrontarle, ovvero perché è brutto non farlo. E [10] quanto più completa sarà la virtù che possiede e quanto più sarà felice, tanto più soffrirà di fronte alla morte: è per un uomo simile, soprattutto, che la vita è degna di essere vissuta, ed è lui che sarà privato dalla morte dei beni più grandi, e lo sa; e ciò è doloroso. Ma non è affatto meno coraggioso, anzi, forse lo è anche di più, perché [15] sceglie, in cambio di quei beni, ciò che in guerra è bello. Dunque, non a tutte le virtù appartiene la proprietà di essere esercitate piacevolmente, se non nella misura in cui con esse si raggiunge il fine. Se si tratta poi di soldati, niente, certo, impedisce che, di fatto, i migliori non siano i soldati di questo tipo, bensì quelli meno coraggiosi, ma che non hanno alcun altro bene: questi ultimi infatti sono pronti di fronte ai pericoli, e [20] barattano la loro vita in cambio di piccoli guadagni. Orbene, per quanto riguarda il coraggio basti quanto si è fin qui detto: non è difficile, in base a quanto abbiamo detto, comprendere che cos’è, almeno sommariamente.

 

10. [La temperanza e l’intemperanza].

Dopo aver parlato del coraggio parliamo della temperanza, perché si ritiene che queste due siano le virtù delle parti irrazionali dell’anima74. Che, [25] dunque, la temperanza è una medietà relativa ai piaceri, l’abbiamo già detto; essa, infatti, riguarda i dolori in misura minore ed in maniera diversa; nel medesimo campo si manifesta anche l’intemperanza. Quali piaceri, dunque, esse riguardino, lo determineremo ora. Distinguiamo, dunque, i piaceri dell’anima da quelli del corpo. Esempio dei primi, l’amore degli onori e l’amore del sapere: in ciascuno di questi casi, infatti, [30] si gode di ciò che si ama, senza che il corpo provi nulla, ma è piuttosto la mente che prova piacere. Ma gli uomini che ricercano tali piaceri non sono chiamati né temperanti né intemperanti. Similmente non sono chiamati così neppure quelli che ricercano i piaceri che non sono del corpo: infatti quelli che amano ascoltare o raccontare favole e [35] che passano le loro giornate a parlare di quel che capita, non li chiamiamo intemperanti, ma chiacchieroni; neppure chiamiamo intemperanti coloro che soffrono per questioni di denaro o di amicizia. [1118a] La temperanza dovrebbe, dunque, riguardare i piaceri del corpo, e neppure tutti questi: coloro, infatti, che godono di ciò che percepiamo mediante la vista (per esempio, dei colori e dei disegni, cioè della pittura), non vengono chiamati né temperanti né intemperanti. [5] Eppure si riconoscerà che anche di queste cose si può godere come si deve, ma anche in eccesso e in difetto. Lo stesso avviene anche nel campo dell’udito: quelli che esagerano nel godere della musica o del teatro nessuno li chiama intemperanti, né si chiamano temperanti quelli che godono come si deve. Né si danno questi nomi a chi ama i piaceri dell’odorato, se non [10] per accidente: non chiamiamo intemperanti coloro che godono degli odori delle mele o delle rose o dei profumi, ma piuttosto coloro che si dilettano degli odori degli unguenti o dei cibi raffinati. Gli intemperanti, infatti, godono di questi odori, perché fanno loro ricordare gli oggetti desiderati. Si può osservare che anche gli altri uomini, quando hanno fame, godono [15] degli odori dei cibi; ma godere proprio degli odori è tipico dell’intemperante, giacché per lui questi sono per se stessi oggetti di desiderio. Ma neppure gli altri animali possono, se non per accidente, ricavare un piacere da queste sensazioni. Infatti, ai cani non è l’odore delle lepri che piace, bensì il mangiarle, e l’odorato gliene produce la sensazione. [20] Né al leone piace il muggito del bue, ma gli piace divorarlo: sembra che goda, invece, del muggito, perché è attraverso il muggito che ha percepito che il bue è vicino. Similmente non gode perché vede "un cervo o una capra selvatica"75, ma perché l’avrà come pasto. La temperanza e l’intemperanza riguardano, dunque, i piaceri di natura tale che anche gli altri [25] animali ne partecipano, ragion per cui si rivelano piaceri servili e bestiali. E questi sono il tatto e il gusto.

Ma anche del gusto, manifestamente, essi fanno poco o nessun uso, giacché compito del gusto è quello di discernere i sapori, cosa che fanno gli assaggiatori di vini e quelli che condiscono cibi raffinati: ma non è assaggiare e condire che a loro piace, [30] almeno non agli intemperanti, bensì ricavarne il godimento che deriva loro dal tatto, sia nei cibi sia nelle bevande, sia nei rapporti cosiddetti afrodisiaci. Perciò un tale, che era un ghiottone, pregava che la sua gola divenisse più lunga di quella di una gru, mostrando che il godimento gli derivava dal tatto. [1118b] Dunque, è il più comune dei sensi quello con cui è connessa l’intemperanza: ed essa sarà giustamente ritenuta il più biasimevole dei vizi, perché ci riguarda non in quanto siamo uomini, ma in quanto animali. Godere dunque di simili sensazioni ed amarle al di sopra di tutto è bestiale. [5] E infatti ne restano esclusi, tra i piaceri derivati dal tatto, quelli più degni di uomini liberi, come, per esempio, quelli che nei ginnasi vengono prodotti dal massaggio e dal conseguente riscaldamento, perché il piacere tattile dell’intemperante non riguarda l’intero corpo, ma solo alcune parti di esso.

 

11. [Temperanza, intemperanza e insensibilità].

Si ritiene comunemente che alcuni dei desideri siano comuni a tutti, e che altri, invece, siano propri dell’individuo e avventizi. Per esempio, il desiderio del nutrimento è naturale: [10] chiunque ne abbia bisogno, infatti, desidera nutrimento solido o liquido, e talora entrambi, e chi è giovane e nel pieno delle forze, come dice Omero76, desidera i piaceri del letto. Però, desiderare questo o quel piacere determinato non è più cosa di tutti, né ciascuno desidera sempre le stesse cose. Perciò è qualcosa di soggettivo. Tuttavia la preferenza individuale ha almeno qualcosa anche di naturale: infatti, per alcuni sono piacevoli certe cose, per altri altre, ed alcune cose sono per tutti più piacevoli [15] di altre cose qualsiasi. Nei desideri naturali, dunque, sono pochi gli uomini che errano e in una sola direzione, in quella dell’eccesso: infatti, mangiare o bere tutto quello che capita fino ad essere troppo pieni significa superare in quantità la soddisfazione richiesta dalla natura, giacché il desiderio naturale è il mezzo per riempire il vuoto del bisogno. Perciò costoro sono chiamati golosi, [20] perché riempiono il ventre più del conveniente: e tali diventano quelli che hanno un temperamento troppo da schiavi. Invece, riguardo ai piaceri particolari all’individuo molti, e spesso, errano. Gli amatori di questa o quella cosa determinata sono così chiamati per il fatto che godono delle cose di cui non devono godere, o perché ne provano piacere più di quanto generalmente si faccia, o perché non lo fanno come si deve. Gli intemperanti, invece, eccedono in tutti questi modi insieme: [25] godono, infatti, di alcune cose delle quali non si deve (perché sono odiose), e se godono di alcune di quelle di cui si deve godere, lo fanno più di quanto si deve e di quanto non faccia la maggior parte della gente. È dunque evidente che l’eccesso nei piaceri è intemperanza e cosa biasimevole. Quanto ai dolori, d’altra parte, non è come nel caso del coraggio che si è chiamati temperanti [30] per il fatto di sopportarli o intemperanti per il fatto di non sopportarli, ma l’intemperante è chiamato così perché si addolora più del dovuto per il fatto di non riuscire ad ottenere i piaceri desiderati (così è il piacere che all’intemperante causa dolore), mentre il temperante viene chiamato così per il fatto che non soffre per l’assenza di ciò che è piacevole e per il doversene astenere. [1119a] L’intemperante, dunque, desidera le cose piacevoli, tutte, o quelle che lo sono in massimo grado, ed è trascinato dal desiderio a scegliere queste in cambio di tutte le altre: perciò soffre sia quando non le ottiene, sia quando le desidera (il desiderio, infatti, è accompagnato dal dolore, benché [5] sembri assurdo provar dolore a causa del piacere). Di uomini che peccano per difetto in ciò che riguarda i piaceri o che godono meno di quanto non sia conveniente, non ce ne sono molti: non è umana una simile insensibilità. Anche tutti gli altri animali, infatti, distinguono i cibi, e di alcuni godono e di altri no. Se per un uomo non ci fosse nulla di piacevole né alcuna differenza tra una cosa e l’altra, quell’uomo [10] sarebbe molto lontano dall’essere veramente uomo: un tipo simile non ha neppure ricevuto un nome, per il fatto che non capita quasi mai. L’uomo temperante, invece, in queste cose si tiene nel mezzo. Infatti, non gode delle cose di cui soprattutto gode l’intemperante, ma piuttosto le detesta, né in genere di quelle di cui non si deve; non gode eccessivamente di alcunché di simile, e quando queste cose non ci sono non prova dolore o desiderio, oppure lo fa con misura; non gode [15] più di quanto si deve, né quando non si deve, né, in generale, fa niente di simile. Tutto ciò che è piacevole e favorevole alla salute ed al benessere fisico, egli lo desidera con misura e come si deve; e così le altre cose piacevoli, purché non siano d’ostacolo alle prime, o contrarie al bello, o superiori ai suoi mezzi economici. Chi si comporta così, infatti, ama simili piaceri più di [20] quanto meritino. L’uomo temperante, invece, non è di questo tipo, ma si comporta come prescrive la retta ragione.

 

12. [Diverso grado di volontarietà dell’intemperanza e della viltà].

L’intemperanza è simile ad un atto volontario più che non la viltà. L’una, infatti, è causata dal piacere, l’altra dal dolore, sentimenti dei quali l’uno è da preferire, l’altro da evitare; e mentre il dolore sconvolge e corrompe la natura di chi lo prova, il piacere non fa niente di simile. [25] Per conseguenza, l’intemperanza è più volontaria, e perciò più riprovevole. Infatti è più facile abituarvisi, giacché molte sono le situazioni di questo genere nella vita, e chi vi si abitua non corre rischi, ma nel caso delle cose che suscitano paura è tutto il contrario. Si riterrà che la viltà non sia volontaria allo stesso modo nei singoli casi particolari: essa, infatti, di per sé non fa soffrire, ma i casi particolari, a causa del dolore, sconvolgono, tanto [30] da far gettare le armi e da far compiere tutte le altre azioni vergognose: perciò si ritiene che siano atti forzati. Per l’intemperante invece, gli atti particolari sono volontari (poiché egli li desidera e li brama), ma il suo vizio in generale è meno volontario, perché nessuno desidera essere intemperante. Il nome di "intemperanza" l’attribuiamo, per metafora, anche agli errori infantili, poiché hanno una certa somiglianza con quelli degli adulti. [1119b] Quale delle due cose prenda il nome dall’altra non ha alcuna importanza per il problema presente, ma è chiaro che la seconda l’ha preso dalla prima. E non sembra una cattiva metafora. Infatti, deve essere disciplinato l’essere che desidera cose brutte e che ha grandi capacità di sviluppo; [5] e di tal natura sono soprattutto il desiderio e il fanciullo: infatti, anche i fanciulli vivono assecondando il desiderio, e soprattutto in essi vi è il desiderio di ciò che è piacevole. Se, dunque, il fanciullo non sarà docile e sottomesso all’autorità, il suo desiderio avanzerà di molto, giacché nell’essere irragionevole il desiderio del piacere è insaziabile e riceve stimoli da tutte le parti, e l’esercizio del desiderio ne accresce la forza naturale, [10] e se i desideri sono grandi ed intensi giungono a cacciar via la capacità di ragionare. Perciò essi devono essere misurati e pochi, e non devono essere affatto in contraddizione con la ragione, ed è questo che chiamiamo essere "docile" e "disciplinato". Come bisogna che il fanciullo viva conformandosi ai precetti del suo pedagogo, così anche la facoltà del desiderio deve conformarsi alla ragione. [15] Perciò bisogna che la facoltà del desiderio dell’uomo temperante sia in armonia con la ragione: infatti, lo scopo di entrambe è il bello, e l’uomo temperante desidera ciò che si deve e come e quando si deve. Così ordina anche la ragione. Questa, dunque, è la nostra dottrina della temperanza.