Leon Battista Alberti DE
PICTURA(1) PROLOGUS [A
FILIPPO BRUNELLESCHI] Io
solea maravigliarmi insieme e dolermi che tante ottime e divine arti e
scienze, quali per loro opere e per le istorie veggiamo copiose erano
in que' vertuosissimi passati antiqui, ora così siano mancate e quasi
in tutto perdute: pittori, scultori, architetti, musici, ieometri, retorici,
auguri e simili nobilissimi e maravigliosi intelletti oggi si truovano
rarissimi e poco da lodarli. Onde stimai fusse, quanto da molti questo
così essere udiva, che già la natura, maestra delle cose, fatta antica
e stracca, più non producea come né giuganti così né ingegni, quali in
que' suoi quasi giovinili e più gloriosi tempi produsse, amplissimi e
maravigliosi. Ma poi che io dal lungo essilio in quale siamo noi Alberti
invecchiati, qui fui in questa nostra sopra l'altre ornatissima patria
ridutto, compresi in molti ma prima in te, Filippo, e in quel nostro amicissimo
Donato scultore e in quegli altri Nencio e Luca e Masaccio, essere a ogni
lodata cosa ingegno da non posporli a qual si sia stato antiquo e famoso
in queste arti. Pertanto m'avidi in nostra industria e diligenza non meno
che in benificio della natura e de' tempi stare il potere acquistarsi
ogni laude di qual si sia virtù. Confessoti sì a quegli antiqui, avendo
quale aveano copia da chi imparare e imitarli, meno era difficile salire
in cognizione di quelle supreme arti quali oggi a noi sono faticosissime;
ma quinci tanto più el nostro nome più debba essere maggiore, se noi sanza
precettori, senza essemplo alcuno, troviamo arti e scienze non udite e
mai vedute. Chi mai sì duro o sì invido non lodasse Pippo architetto vedendo
qui struttura sì grande, erta sopra e' cieli, ampla da coprire con sua
ombra tutti e' popoli toscani, fatta sanza alcuno aiuto di travamenti
o di copia di legname, quale artificio certo, se io ben iudico, come a
questi tempi era incredibile potersi, così forse appresso gli antichi
fu non saputo né conosciuto? Ma delle tue lodi e della virtù del nostro
Donato, insieme e degli altri quali a me sono per loro costumi gratissimi,
altro luogo sarà da recitarne. Tu tanto persevera in trovare, quanto fai
di dì in dì, cose per quali il tuo ingegno maraviglioso s'acquista perpetua
fama e nome, e se in tempo t'accade ozio, mi piacerà rivegga questa mia
operetta de pictura quale a tuo nome feci in lingua toscana. Vederai tre
libri: el primo, tutto matematico, dalle radici entro dalla natura fa
sorgere questa leggiadra e nobilissima arte. El secondo libro pone l'arte
in mano allo artefice, distinguendo sue parti e tutto dimostrando. El
terzo instituisce l'artefice quale e come possa e debba acquistare perfetta
arte e notizia di tutta la pittura. Piacciati adunque leggermi con diligenza,
e se cosa vi ti par da emendarla, correggimi. Niuno scrittore mai fu sì
dotto al quale non fussero utilissimi gli amici eruditi; e io in prima
da te desidero essere emendato per non essere morso da' detrattori. LIBRO
PRIMO 1.
Scrivendo de pictura in questi brevissimi comentari, acciò che 'l nostro
dire sia ben chiaro, piglieremo dai matematici quelle cose in prima quale
alla nostra matera apartengano; e conosciutole, quanto l'ingegno ci porgerà,
esporremo la pittura dai primi principi della natura. Ma in ogni nostro
favellare molto priego si consideri me non come matematico ma come pittore
scrivere di queste cose. Quelli col solo ingegno, separata ogni matera,
mesurano le forme delle cose. Noi, perché vogliamo le cose essere poste
da vedere, per questo useremo quanto dicono più grassa Minerva, e bene
stimeremo assai se in qualunque modo in questa certo difficile e da niuno
altro che io sappi descritta matera, chi noi leggerà intenderà. Adunque
priego i nostri detti sieno come da solo pittore interpretati. 6.
Ora investighiamo quanto ciascuno razzo s'adoperi al vedere. Prima diremo
degli estremi, poi de' mezzani, e ivi apresso del centrico. Coi razzi
estremi si misurano le quantità. Quantità si chiama ogni spazio super
la superficie qual sia da uno punto dell'orlo all'altro. E misura l'occhio
queste quantità con i razzi visivi quasi come con un paio di seste. E
sono in ogni superficie tante quantità quanti sono spazi tra punto e punto,
però che l'altezza dal basso in su, la larghezza da man destra a sinistra,
la grossezza tra presso e lunge e qualunque altra dimensione vel misurazione
si faccia guatando, a quella s'adopera questi razzi estremi. Onde si suole
dire che al vedere si fa triangolo, la base del quale sia la veduta quantità
e i lati sono questi razzi, i quali dai punti della quantità si estendono
sino all'occhio. Ed è certissimo niuna quantità potersi sanza triangolo
vedere. Gli angoli in questo triangolo visivo sono prima i due punti della
quantità; il terzo, quale sia opposto alla base, sta drento all'occhio.
Sono qui regole: quanto all'occhio l'angolo sarà acuto, tanto la veduta
quantità parrà minore. Di qui si conosce qual cagione facci una quantità
molto distante quasi parere non maggiore che uno punto. E benché così
sia, pure si truova alcuna quantità e superficia di quale, quanto più
li sia presso, meno ne vedi, e da lunge ne vegga molto più parte. Vedesi
di questo pruova nel corpo sperico. Adunque le quantità per la distanza
paiono maggiori e minori. E chi ben gusta quello che detto è, credo intenda
come mutato l'intervallo i razzi estrinsici divenghino mediani, e così
i mediani estrinsici; e intenderà, dove i mediani razzi sieno fatti estrinsici,
subito quella quantità parere minore, e contrario, quando i razzi estremi
saranno dentro all'orlo adiritti, quanto più distanti dall'orlo, tanto
parrà la veduta quantità maggiore. 7.
Qui soglio io appresso ad i miei amici dare simile regola: quanto a vedere
più razzi occupi, tanto ti pare quel che si vede maggiore, e quanto meno
razzi, tanto minore. E questi razzi estrinsici così circuendo la superficie
che l'uno tocchi l'altro, chiuggono tutta la superficie quasi come vetrici
ad una gabbia, e fanno quanto si dice quella pirramide visiva. Adunque
mi pare da dire che cosa sia pirramide, e a che modo sia da questi razzi
construtta. Noi la discriveremo a nostro modo. La pirramide sarà figura
d'uno corpo dalla cui base tutte le linee diritte tirate su terminano
ad uno solo punto. La basa di questa pirramide sarà una superficie che
si vede. I lati della pirramide sono quelli razzi i quali io chiamai estrinsici.
La cuspide, cioè la punta della pirramide, sta drento all'occhio quivi
dov'è l'angulo delle quantità. Sino a qui dicemmo dei razzi estrinsici
dai quali sia conceputa la pirramide, e parmi provato quanto differenzi
una più che un'altra distanza tra l'occhio e quello che si vegga. Seguita
a dire dei razzi mediani quali sono quella moltitudine nella pirramide
dentro ai razzi estrinsici; e questi fanno quanto si dice il cameleone,
animale che piglia d'ogni a sé prossima cosa colore, imperò che da dove
toccano le superficie perfino all'occhio, così pigliano colori e lume
qual sia alla superficie, che dovunque li rompesse, per tutto li troveresti
per uno modo luminati e colorati. E di questo si pruova che per molta
distanza indebiliscono. Credo ne sia ragione che, carichi di lume e di
colore, trapassano l'aere quale, umido di certa grassezza, stracca i carichi
razzi. Onde traemmo regola: quanto maggiore sarà la distanza, tanto la
veduta superficie parrà più fusca. 8.
Restaci a dire del razzo centrico. Sarà centrico razzo quello uno solo,
quale sì cozza la quantità che di qua e di qua ciascuno angolo sia all'altro
equale. Questo uno razzo, fra tutti gli altri gagliardissimo e vivacissimo,
fa che niuna quantità mai pare maggiore che quando la ferisce. Potrebbesi
di questo razzo dire più cose, ma basti che questo uno, stivato dagli
altri razzi, ultimo abandona la cosa veduta; onde merito si può dire prencipe
de' razzi. Parmi avere dimostrato assai che, mutato la distanza e mutato
il porre del razzo centrico, subito la superficie parrà alterata. Adunque
la distanza e la posizione del centrico razzo molto vale alla certezza
del vedere. Ecci ancora una terza qual facci parere la superficie variata.
Questo viene dal ricevere il lume. Vedesi nelle superficie speriche e
concave, sendo ad uno lume, hanno questa parte oscura e quella chiara;
e bene che sia quella medesima distanza e posizione di centrica linea,
ponendo il lume altrove vedrai quelle parti, quali prima erano chiare,
ora essere oscure, e quelle chiare quali erano oscure; e dove attorno
fussino più lumi, secondo loro numero e forza vedresti più macole di chiarore
e di oscuro. 12.
Dicemmo sino a qui delle superficie; dicemmo de' razzi; dicemmo in che
modo vedendo si facci pirramide; provammo quanto facci la distanza e posizione
del razzo centrico, insieme e ricevere de' lumi. Ora, poi che ad uno solo
guardare non solo una superficie si vede ma più, investigheremo in che
modo molte insieme giunte si veggano. Vedesti che ciascuna superficie
in sé tiene sua pirramide, colori e lumi. Ma poi che i corpi sono coperti
dalle superficie, tutte le vedute insieme superficie d'uno corpo faranno
una pirramide di tante minori pirramide gravida quanto in quello guardare
si vedranno superficie. Ma dirà qui alcuno: «Che giova al pittore cotanto
investigare?» Estimi ogni pittore ivi sé essere ottimo maestro, ove bene
intende le proporzioni e agiugnimenti delle superficie; qual cosa pochissimi
conoscono, e domandando in su quella quale e' tingono superficie che cosa
essi cercano di fare, diranti ogni altra cosa più a proposito di quello
di che tu domandi. Adunque priego gli studiosi pittori non si vergognino
d'udirci. Mai fu sozzo imparare da chi si sia cosa quale giovi sapere.
E sappiano che <quando> con sue linee circuiscono la superficie,
e quando empiono di colori e' luoghi descritti, niun'altra cosa cercarsi
se non che in questa superficia si representino le forme delle cose vedute,
non altrimenti che se essa fusse di vetro tralucente tale che la pirramide
visiva indi trapassasse, posto una certa distanza, con certi lumi e certa
posizione di centro in aere e ne' suoi luoghi altrove. Qual cosa così
essere, dimostra ciascuno pittore quando sé stessi da quello dipigne sé
pone a lunge, dutto dalla natura, quasi come ivi cerchi la punta e angolo
della pirramide, onde intende le cose dipinte meglio remirarsi. Ma ove
questa sola veggiamo essere una sola superficie, o di muro o di tavola,
nella quale il pittore studia figurare più superficie comprese nella pirramide
visiva, converralli in qualche luogo segare a traverso questa pirramide,
a ciò che simili orli e colori con sue linee il pittore possa dipignendo
espriemere. Qual cosa se così è quanto dissi, adunque chi mira una pittura
vede certa intersegazione d'una pirramide. Sarà adunque pittura non altro
che intersegazione della pirramide visiva, sicondo data distanza, posto
il centro e constituiti i lumi, in una certa superficie con linee e colori
artificiose representata. 16.
Dicemmo delle superficie proporzionali alla intercesione, cioè equedistante
dalla dipinta superficie. Ma poi che molte superficie si truovano non
equedistanti, conviensi di queste avere diligente investigazione, acciò
che tutta la ragione della intersegazione sia manifesta. Sarebbe cosa
lunga, difficile e oscura in queste intersegazione di triangoli e di pirramide
seguire ogni cosa con la regola de' matematici. Seguiremo dicendo pure
come pittore. 17.
Recitiamo delle quantità non equedistanti brevissime, quali conosciute,
facile conosceremo le superficie non equedistante. Delle quantità non
equedistante alcune sono ad i razzi visivi collineari, altre sono ad alcuni
razzi visivi equedistanti. Le quantità ad i razzi visivi collineari, perché
non fanno triangolo né occupano numero di razzi, adunque niuno luogo hanno
alla intersegazione. Ma le quantità ad i razzi visivi equedistanti, quanto
l'angolo quale è maggiore nel triangolo alla base sarà più ottuso, tanto
quella quantità meno occuperà dei razzi e per questo alla intersegazione
meno spazio. Dicemmo a torno coprirsi la superficie dalle quantità; ma
ove non raro avviene che in una superficie sarà qualche quantità equedistante
dalla intersegazione, quella così fatta quantità certo nella pittura farà
niuna alterazione. Quelle vero quantità non equedistante, quanto aranno
l'angolo alla base maggiore, tanto più faranno alterazione. 18.
E conviensi a queste dette cose agiugnere quella oppinione de' filosafi,
e' quali affermano, se il cielo, le stelle, il mare e i monti, e tutti
gli animali e tutti i corpi divenissono, così volendo Iddio, la metà minori,
sarebbe che a noi nulla parrebbe da parte alcuna diminuta. Imperò che
grande, picciolo, lungo, brieve, alto, basso, largo, stretto, chiaro,
oscuro, luminoso, tenebroso, e ogni simile cosa, quale perché può essere
e non essere agiunta alle cose, però quelle sogliono i filosafi appellarle
accidenti, sono sì fatte che ogni loro cognizione si fa per comperazione.
Disse Virgilio Enea vedersi sopra gli uomini tutte le spalle, quale posto
presso a Polifemo parrebbe uno piccinacolo. Niso e Eurialo furono bellissimi,
quali comparati a Ganimede ratto dagli iddii, forse parrebbono sozzi.
Appresso degl'Ispani molte fanciulle paiono biancose, che appresso a'
Germani sarebbono fusche e brune. L'avorio e l'argento sono bianchi, quali
posti presso al cigno o alla neve parrebbono palidi. Per questa ragione
nella pittura paiono cose splendidissime ove sia quivi buona proporzione
di bianco a nero, simile a quella sia nelle cose dal luminoso all'ombroso.
Così queste cose tutte si conoscono per comperazione. In sé tiene questa
forza la comperazione, che subito dimostra in le cose qual sia più, qual
meno o equale. Onde si dice grande quello che sia maggiore che questo
picciolo, e grandissimo quello che sia maggiore che questo grande; lucido
qual sia più chiaro che questo oscuro, lucidissimo quale sia più chiaro
che questo chiaro. E fassi comperazione in prima alle cose molto notissime.
E dove a noi sia l'uomo fra tutte le cose notissimo, forse Protagora,
dicendo che l'uomo era modo e misura di tutte le cose, intendea che tutti
gli accidenti delle cose, comparati fra gli accidenti dell'uomo si conoscessero.
Questo che io dico appartiene a dare ad intendere che, quanto bene i piccioli
corpi sieno dipinti nella pittura, questi parranno grandi e piccioli a
comparazione di quale ivi sia dipinto uomo. E parmi che Timantes pittore
fra gli altri antiqui gustasse questa forza di comparazione, il quale
in una picciola tavoletta dipingendo uno Ciclope gigante adormentato,
fece ivi alcuni satiri iddii quali a lui misuravano il dito grosso, tale
che comparando colui che giacea a questi satiri parea grandissimo. 19.
Persino a qui dicemmo tutto quanto apartenga alla forza del vedere, e
quanto s'apartenga alla intersegazione. Ma poi che non solo giova sapere
che cosa sia intersegazione, ma conviene al pittore sapere intersegare,
di ciò diremo. Qui solo, lassato l'altre cose, dirò quello fo io quando
dipingo. Principio, dove io debbo dipingere scrivo uno quadrangolo di
retti angoli quanto grande io voglio, el quale reputo essere una finestra
aperta per donde io miri quello che quivi sarà dipinto; e quivi ditermino
quanto mi piaccino nella mia pittura uomini grandi; e divido la lunghezza
di questo uomo in tre parti, quali a me ciascuna sia proporzionale a quella
misura si chiama braccio, però che commisurando uno comune uomo si vede
essere quasi braccia tre; e con queste braccia segno la linea di sotto
qual giace nel quadrangolo in tante parti quanto ne riceva; ed èmmi questa
linea medesima proporzionale a quella ultima quantità quale prima mi si
traversò inanzi. Poi dentro a questo quadrangolo, dove a me paia, fermo
uno punto il quale occupi quello luogo dove il razzo centrico ferisce,
e per questo il chiamo punto centrico. Sarà bene posto questo punto alto
dalla linea che sotto giace nel quadrangolo non più che sia l'altezza
dell'uomo quale ivi io abbia a dipignere, però che così e chi vede e le
dipinte cose vedute paiono medesimo in suo uno piano. Adunque posto il
punto centrico, come dissi, segno diritte linee da esso a ciascuna divisione
posta nella linea del quadrangolo che giace, quali segnate linee a me
dimostrino in che modo, quasi persino in infinito, ciascuna traversa quantità
segua alterandosi. Qui sarebbono alcuni i quali segnerebbono una linea
a traverso equedistante dalla linea che giace nel quadrangolo, e quella
distanza, quale ora fusse tra queste due linee, dividerebbono in tre parti;
e presone le due, a tanta distanza sopracignerebbono un'altra linea, e
così a questa agiugnerebbono un'altra e poi un'altra, sempre così misurando
che quello spazio diviso in tre, qual fusse tra la prima e la seconda,
sempre una parte avanzi lo spazio che sia fra la seconda e la terza; e
così seguendo farebbe che sempre sarebbono li spazi superbipartienti,
come dicono i matematici, ad i suoi seguenti. Questi forse così farebbono,
quali bene che seguissero a loro ditto buona via da dipignere, pure dico
errerebbono; però che ponendo la prima linea a caso, benché l'altre seguano
a ragione, non però sanno ove sia certo luogo alla cuspide della pirramide
visiva, onde loro succedono errori alla pittura non piccioli. Aggiugni
a questo quanto la loro ragione sia viziosa, ove il punto centrico sia
più alto o più basso che la lunghezza del dipinto uomo. E sappi che cosa
niuna dipinta mai parrà pari alle vere, dove non sia certa distanza a
vederle. Ma di questo diremone sue ragioni, se mai scriveremo di quelle
dimostrazioni quali, fatte da noi, gli amici, veggendole e maravigliandosi,
chiamavano miracoli. Ivi ciò che sino a qui dissi molto s'apartiene. Adunque
torniamo al nostro proposito. 20.
Trovai adunque io questo modo ottimo così in tutte le cose seguendo quanto
dissi, ponendo il punto centrico, traendo indi linee alle divisioni della
giacente linea del quadrangolo. Ma nelle quantità trasverse, come l'una
seguiti l'altra così conosco. Prendo uno picciolo spazio nel quale scrivo
una diritta linea, e questa divido in simile parte in quale divisi la
linea che giace nel quadrangolo. Poi pongo di sopra uno punto alto da
questa linea quanto nel quadrangolo posi el punto centrico alto dalla
linea che giace nel quadrangolo, e da questo punto tiro linee a ciascuna
divisione segnata in quella prima linea. Poi constituisco quanto io voglia
distanza dall'occhio alla pittura, e ivi segno, quanto dicono i matematici,
una perpendiculare linea tagliando qualunque truovi linea. Dicesi linea
perpendiculare quella linea dritta, quale tagliando un'altra linea diritta
fa appresso di sé di qua e di qua angoli retti. Questa così perpendiculare
linea dove dall'altra sarà tagliata, così mi darà la successione di tutte
le trasverse quantità. E a questo modo mi truovo descritto tutti e' paraleli,
cioè le braccia quadrate del pavimento nella dipintura, quali quanto sieno
dirittamente descritti a me ne sarà indizio se una medesima ritta linea
continoverà diamitro di più quadrangoli descritti alla pittura. Dicono
i matematici diamitro d'uno quadrangolo quella retta linea da uno angolo
ad un altro angolo, quale divida in due parti il quadrangolo per modo
che d'uno quadrangolo solo sia due triangoli. Fatto questo, io descrivo
nel quadrangolo della pittura attraverso una dritta linea dalle inferiori
equedistante, quale dall'uno lato all'altro passando super 'l centrico
punto divida il quadrangolo. Questa linea a me tiene uno termine quale
niuna veduta quantità, non più alta che l'occhio che vede, può sopragiudicare.
E questa, perché passa per 'l punto centrico, dicasi linea centrica. Di
qui interviene che gli uomini dipinti posti nell'ultimo braccio quadro
della dipintura sono minori che gli altri. Qual cosa così essere, la natura
medesima a noi dimostra. Veggiamo ne' tempî i capi degli uomini quasi
tutti ad una quantità, ma i piedi de' più lontani quasi corrispondere
ad i ginocchi de' più presso. 21.
Ma questa ragione di dividere il pavimento s'apartiene a quella parte
quale al suo luogo chiameremo composizione. E sono tali che io dubito
sì per la novità della matera, sì etiam per questa brevità del nostro
comentare, sarà non molto forse intesa da chi leggerà. E quanto sia difficile
veggasi nell'opere degli antiqui scultori e pittori. Forse perché era
oscura, loro fu ascosa e incognita. Appena vedrai alcuna storia antiqua
attamente composta. 22.
Da me sino a qui sono dette cose utili ma brieve e, come estimo, non in
tutto oscure. Ma bene intendo quali sieno che, dove in esse io posso acquistare
laude niuna di eloquenza, ivi ancora chi non le comprende al primo aspetto,
costui appena mai con quanta sia fatica le apprenderà. Ma ad i sottili
ingegni e atti alla pittura queste nostre cose in qualunque modo dette
saranno facili e bellissime; e a chi altri sia rozzo e da natura poco
dato a queste arti nobilissime, saranno queste cose, benché da eloquentissimi
scritte, ingrate. Da noi forse perché sono sanza eloquenza scritte, si
leggeranno con fastidio. Ma priego mi perdonino, se dove io in prima volli
essere inteso, ebbi riguardo a fare il nostro dire chiaro molto più che
ornato. Quello che seguirà, credo, sarà meno tedioso a chi leggerà. 23.
Dicemmo de' triangoli, della pirramide, della intercesione quanto parea
da dire; quale cose, mia usanza, soglio appresso de' miei amici prolisso
con certe dimostrazioni ieometrice esplicare, quali in questi comentari
per brevità mi parve da lassare. Qui solo raccontai i primi dirozzamenti
dell'arte, e per questo così li chiamo dirozzamenti, quali ad i pittori
non eruditi dieno i primi fondamenti a ben dipignere. Ma sono sì fatti
che chi bene li conoscerà, costui come allo ingegno, così a conoscere
la difinizione della pittura intenderà quanto li giovi. Né sia chi dubiti
quanto mai sarà buono alcuno pittore colui, il quale non molto intenda
qualunque cosa si sforzi di fare. Indarno si tira l'arco ove non hai da
dirizzare la saetta. E voglio sia persuaso apresso di noi che solo colui
sarà ottimo artefice, el quale arà imparato conoscere gli orli delle superficie
e ogni sua qualità. Così contrario mai sarà buon artefice chi non sarà
diligentissimo a conoscere quanto abbiamo sino a qui detto. 24.
Furono adunque cose necessarie queste intersegazioni e superficie. Seguita
ad istituire il pittore in che modo possa seguire colla mano quanto arà
coll'ingegno compreso. LIBRO
SECONDO 25.
Ma perché forse questo imparare ad i giovani può parere cosa faticosa,
parmi qui da dimostrare quanto la pittura sia non indegna da consumarvi
ogni nostra opera e studio. Tiene in sé la pittura forza divina non solo
quanto si dice dell'amicizia, quale fa gli uomini assenti essere presenti,
ma più i morti dopo molti secoli essere quasi vivi, tale che con molta
ammirazione dell'artefice e con molta voluttà si riconoscono. Dice Plutarco,
Cassandro uno de' capitani di Allessandro, perché vide l'immagine d'Allessandro
re tremò con tutto il corpo; Agesilao Lacedemonio mai permise alcuno il
dipignesse o isculpisse: non li piacea la propia sua forma, che fuggiva
essere conosciuto da chi dopo lui venisse. E così certo il viso di chi
già sia morto, per la pittura vive lunga vita. E che la pittura tenga
espressi gli iddii quali siano adorati dalle genti, questo certo fu sempre
grandissimo dono ai mortali, però che la pittura molto così giova a quella
pietà per quale siamo congiunti agli iddii, insieme e a tenere gli animi
nostri pieni di religione. Dicono che Fidia fece in Elide uno iddio Giove,
la bellezza del quale non poco confermò la ora presa religione. E quanto
alle delizie dell'animo onestissime e alla bellezza delle cose s'agiugna
dalla pittura, puossi d'altronde e in prima di qui vedere, che a me darai
cosa niuna tanto preziosa, quale non sia per la pittura molto più cara
e molto più graziosa fatta. L'avorio, le gemme e simili care cose per
mano del pittore diventano più preziose; e anche l'oro lavorato con arte
di pittura si contrapesa con molto più oro. Anzi ancora il piombo medesimo,
metallo in fra gli altri vilissimo, fattone figura per mano di Fidia o
Prassiteles, si stimerà più prezioso che l'argento. Zeusis pittore cominciava
a donare le sue cose, quali, come dicea, non si poteano comperare; né
estimava costui potersi invenire atto pregio quale satisfacesse a chi
fingendo, dipignendo animali, sé porgesse quasi uno iddio. 27.
Giudica Trimegisto, vecchissimo scrittore, che insieme con la religione
nacque la pittura e scoltura. Ma chi può qui negare in tutte le cose publiche
e private, profane e religiose la pittura a sé avere prese tutte le parti
onestissime, tale che mi pare cosa niuna tanto sempre essere stata estimata
dai mortali? Racontasi i pregi incredibili di tavole dipinte. Aristide
tebano vendè una sola pittura talenti cento; e dicono che Rodi non fu
arsa da Demetrio re, ove temea che una tavola di Protogenes non perisse.
Possiamo adunque qui affermare che la città di Rodi fu ricomperata dai
nemici con una sola dipintura. Simile molte cose raccolse Plinio, per
le quali tu conoscerai i buoni pittori sempre stati apresso di tutti in
molto onore, tanto che molti nobilissimi cittadini, filosafi, ancora e
non pochi re, non solo di cose dipinte, ma e di sua mano dipignerle assai
si dilettavano. Lucio Manilio cittadino romano e Fabio uomo nobilissimo
furono dipintori. Turpilio cavaliere romano dipinse a Verona. Sitedio,
uomo stato pretore e proconsolo, acquistò dipignendo nome. Pacuvio poeta
tragico, nipote ad Ennio poeta, dipinse Ercole in foro romano. Socrate,
Platone, Metrodoro, Pirro furono in pittura conosciuti. Nerone, Valentiniano
e Alessandro Severo imperadori furono studiosissimi in pittura. Ma sarebbe
qui lungo racontare a quanti principi e re sia piaciuto la pittura. E
ancora non mi pare da racontare tutta la turba degli antiqui pittori,
quale quanto fusse grande vedilo quinci che a Demetrio Falerio, figliuolo
di Fanostrato, furono fra quattrocento di trecentosessanta statue, parte
a cavallo, parte sui carri, compiute. E in questa terra in quale sia stato
tanto numero di scultori, credi che manco fussero pittori? Sono certo
queste arti cognate e da uno medesimo ingegno nutrite, la pittura insieme
con la scoltura. Ma io sempre preposi l'ingegno del pittore, perché s'aopera
in cosa più difficile. Pure torniamo al fatto nostro. 28.
Fu certo grande numero di scultori in que' tempi e di pittori, quando
i prencipi e i plebei e i dotti e gl'indotti si dilettavano di pittura,
e quando fra le prime prede delle province si estendeano ne' teatri tavole
dipinte e immagini. E processe in tanto che Paolo Emilio e non pochi altri
cittadini romani fra le buone arti a bene e beato vivere ad i figliuoli
insegnavano la pittura; quale ottimo costume molto apresso de' Greci s'osservava.
Voleano che i figliuoli bene allevati insieme con geometria e musica imparassono
dipignere. Anzi fu ancora alle femine onore sapere dipignere. Marzia,
figliuola di Varrone, si loda appresso degli scrittori che seppe dipignere.
E fu in tanta lode e onore apresso de' Greci la pittura, che fecero editto
e legge non essere ad i servi licito imparare pittura. Fecero certo bene,
però che l'arte del dipignere sempre fu ad i liberali ingegni e agli animi
nobili dignissima. E quant'io, certo così estimo ottimo indizio d'uno
perfettissimo ingegno essere in chi molto si diletti di pittura; benché
intervenga che questa una arte così sta grata ai dotti quanto agl'indotti,
qual cosa poco accade in quale altra si sia arte, che quello qual diletti
ai periti muova chi sia imperito. Né ispesso troverrai chi non molto desideri
sé essere in pittura ben dotto. Anzi la natura medesima pare si diletti
di dipignere, quale veggiamo quanto nelle fessure de' marmi spesso dipinga
ipocentauri e più facce di re barbate e crinite. Anzi più dicono che in
una gemma di Pirro si trovò dipinto dalla natura tutte e nove le Muse
distinte con suo segno. Agiugni a questo che niuna si truova arte in quale
ogni età di periti e d'imperiti così volentieri s'affatichi ad impararla
e a essercitarla. Sia licito confessare di me stesso. Io se mai per mio
piacere mi do a dipignere, - qual cosa fo non raro quando dall'altre mie
maggiori faccende io truovo ozio -, ivi con tanta voluttà sto fermo al
lavoro, che spesso mi maraviglio così avere passate tre o quattro ore. 29.
Così adunque dà voluttà questa arte a chi bene la esserciti, e lode, ricchezze
e perpetua fama a chi ne sia maestro. Quale cose così sendo quanto dicemmo,
se la pittura sia ottimo e antiquissimo ornamento delle cose, digna ad
i liberi uomini, grata ai dotti e agl'indotti, molto conforto i giovani
studiosi diano quanto sia licito opera alla pittura. E poi amonisco chi
sia studioso di dipignere imparino questa arte. Sia a chi in prima cerca
gloriarsi di pittura questa una cura grande ad acquistare fama e nome,
quale vedete gli antiqui avere agiunta. E gioveravvi ricordarvi che l'avarizia
fu sempre inimica della virtù. Raro potrà acquistare nome animo alcuno
che sia dato al guadagno. Vidi io molti quasi nel primo fiore d'imparare,
subito caduti al guadagno, indi acquistare né ricchezze né lode, quali
certo se avessero acresciuto suo ingegno con studio, facile sarebbono
saliti in molta lode e ivi arebbono acquistato ricchezze e piacere assai.
Ma di queste assai sino a qui sia detto. Torniamo a nostro proposito. 30.
Dividesi la pittura in tre parti, qual divisione abbiamo presta dalla
natura. E dove la pittura studia ripresentare cose vedute, notiamo in
che modo le cose si veggano. Principio, vedendo qual cosa, diciamo questo
esser cosa quale occupa uno luogo. Qui il pittore, descrivendo questo
spazio, dirà questo suo guidare uno orlo con linea essere circonscrizione.
Apresso rimirandolo conosciamo come più superficie del veduto corpo insieme
convengano; e qui l'artefice, segnandole in suoi luoghi, dirà fare composizione.
Ultimo, più distinto discerniamo colori e qualità delle superficie, quali
ripresentandoli, ché ogni differenza nasce da' lumi, proprio possiamo
chiamarlo recezione di lumi. 31.
Adunque la pittura si compie di circonscrizione, composizione, e ricevere
di lumi. Seguita adunque dirne brevissimo. Prima diremo della circunscrizione.
Sarà circunscrizione quella che descriva l'attorniare dell'orlo nella
pittura. In questa dicono Parrasio, quel pittore el quale appresso Senofonte
favella con Socrate, essere stato molto perito e molto avere queste linee
essaminate. Io così dico in questa circonscrizione molto doversi osservare
ch'ella sia di linee sottilissime fatta, quasi tali che fuggano essere
vedute, in quali solea sé Appelles pittore essercitare e contendere con
Protogene; però che la circonscrizione è non altro che disegnamento dell'orlo,
quale ove sia fatto con linea troppo apparente, non dimostrerà ivi essere
margine di superficie ma fessura, e io desiderrei nulla proseguirsi circonscrivendo
che solo l'andare dell'orlo; in qual cosa così affermo debbano molto essercitarsi.
Niuna composizione e niuno ricevere di lumi si può lodare ove non sia
buona circonscrizione aggiunta; e non raro pur si vede solo una buona
circonscrizione, cioè uno buono disegno per sé essere gratissimo. Qui
adunque si dia principale opera, a quale, se bene vorremo tenerla, nulla
si può trovare, quanto io estimo, più acommodata cosa altra che quel velo,
quale io tra i miei amici soglio appellare intersegazione. Quello sta
così. Egli è uno velo sottilissimo, tessuto raro, tinto di quale a te
piace colore, distinto con fili più grossi in quanti a te piace paraleli,
qual velo pongo tra l'occhio e la cosa veduta, tale che la pirramide visiva
penetra per la rarità del velo. Porgeti questo velo certo non picciola
commodità: primo, che sempre ti ripresenta medesima non mossa superficie,
dove tu, posti certi termini, subito ritruovi la vera cuspide della pirramide,
qual cosa certo senza intercisione sarebbe difficile; e sai quanto sia
impossibile bene contraffare cosa quale non continovo servi una medesima
presenza. Di qui pertanto sono più facili a ritrarre le cose dipinte che
le scolpite. E conosci quanto, mutato la distanza e mutato la posizione
del centro, paia quello che tu vedi molto alterato. Adunque il velo ti
darà, quanto dissi, non poca utilità ove sempre a vederla sarà una medesima
cosa. L'altra sarà utilità che tu potrai facile constituire i termini
degli orli e delle superficie. Ove in questo paralelo vedrai il fronte,
in quello e il naso, in un altro le guance, in quel di sotto il mento,
e così ogni cosa distinto ne' suoi luoghi, così tu nella tavola o in parete
vedi divisa in simili paraleli, ogni cosa a punto porrai. Ultimo a te
darà il velo molto aiuto ad imparare dipignere, quando vedrai nel velo
cose ritonde e rilevate, per le quali cose assai potrai e con giudicio
e con esperienza provare quanto a te sia il nostro velo utilissimo. 32.
Né io qui udirò quelli che dicano poco convenirsi al pittore usarsi a
queste cose, quali bene che portino molto aiuto a bene dipignere, pure
sono sì fatte che poi senza quelle potrai nulla. Non credo io dal pittore
si richiegga infinita fatica, ma bene s'aspetti pittura quale molto paia
rilevata e simigliata a chi ella si ritrae; qual cosa non intendo io sanza
aiuto del velo alcuno mai possa. Adunque usino questa intercisione, cioè
velo, qual dissi. E dove a loro piaccia provare l'ingegno suo senza velo,
pure in prima notino i termini delle cose drento da' paraleli del velo,
o vero così seguitino rimirandole che sempre immaginino una linea a traverso
ivi da un'altra perpendiculare essere segata, ove sia statuito quel termine.
Ma perché non raro ad i pittori inesperti sono gli orli delle superficie
non conosciuti, dubbi e incerti, come ne' visi degli uomini, ove non discernono
che mezzo sia tra 'l fronte e le tempie, pertanto conviensi loro insegnare
in che modo possano conoscere. Questo bene ci dimostra la natura. Veggiamo
nelle piane superficie che ciascuna ci si dimostra con sue linee, lumi
e ombre; così ancora le sperich'e concave superficie veggiamo quasi divise
in molte superficie quasi quadrate con diverse macchie di lumi e d'ombre.
Pertanto ciascuna parte, con sua chiarità divisa da quella che sia oscura,
si vuole avere per più superficie. Ma se una medesima superficie cominciando
ombrosa a poco a poco venendo in chiaro continua, allora quello che fra
loro sia il mezzo si noti con una sottilissima linea, acciò che ivi sia
la ragione del colorire men dubbia. 33.
Resta da dire della circonscrizione cosa quale non poco apartiene alla
composizione. Per questo si conviene sapere che sia in pittura composizione.
Dico composizione essere quella ragione di dipignere, per la quale le
parti si compongono nella opera dipinta. Grandissima opera del pittore
sarà l'istoria: parte della istoria sono i corpi: parte de' corpi sono
i membri: parte de' membri sono le superficie. E dove la circonscrizione
non altro sia che certa ragione di segnare l'orlo delle superficie, poi
che delle superficie alcuna si truova picciola come quella degli animali,
alcuna si truova grande come quella degli edifici e de' colossi, delle
picciole superficie bastino i precetti sino a qui detti, quali dimostrano
quanto s'apprendano col velo. Alle superficie maggiori ci convien trovare
nuove ragioni. Ma dobbiamo ricordarci di quanto di sopra ne' dirozzamenti
dicemmo delle superficie, de' razzi, della pirramide e della intersegazione,
ancora e de' paraleli del pavimento, e del centrico punto e linea. Nel
pavimento scritto con sue linee e paraleli sono da edificare muri e simili
superficie quali appellammo giacenti. Qui adunque dirò brevissimo quello
che io faccio. Principio, comincio dai fondamenti. Pongo la larghezza
e la lunghezza de' muri ne' suoi paraleli, in quale descrizione seguo
la natura, in qual veggo che di niuno quadrato corpo, quale abbia retti
angoli, ad uno tratto posso vedere d'intorno più che due facce congiunte.
Così io questo osservo descrivendo i fondamenti dei pareti; e sempre in
prima comincio dalle più prossimane superficie, massime da quelle quali
equalmente sieno distanti dalla intersegazione. Queste adunque metto inanzi
l'altre, descrivendo loro latitudine e longitudine in quelli paraleli
del pavimento, in modo che quante io voglia occupare braccia, tanto prendo
paraleli. E a ritrovare il mezzo di ciascuno paralelo truovo dove l'uno
e l'altro diamitro si sega insieme, e così quanto voglio i fondamenti
descrivo. Poi l'altezza seguo con ordine non difficilissimo. Conosco l'altezza
del parete in sé tenere questa proporzione, che quanto sia dal luogo onde
essa nasce sul pavimento per sino alla centrica linea, con quella medesima
in su crescere. Onde se vorrai questa quantità dal pavimento persino alla
centrica linea essere l'altezza d'uno uomo, saranno adunque queste braccia
tre. Tu adunque volendo il parete tuo essere braccia dodici, tre volte
tanto andrai su in alto quanto sia dalla centrica linea persino a quel
luogo del pavimento. Con queste ragioni così possiamo disegnare tutte
le superficie quali abbiano angolo. 34.
Restaci a dire in che modo si disegnino le circulari. Tragonsi le circulari
delle angulari; e questo fo io così. Fo in sullo spazzo uno quadrangolo
con angoli retti, e divido i lati di questo quadrangolo in parte simili
a quelle parti in quale divisi la linea iacente nel primo quadrangolo
della pittura; e qui da ciascuno punto al suo oposito punto tiro linee,
e così rimane lo spazzo diviso in molti piccioli quadrangoli. Quivi io
scrivo uno cerchio quanto il voglio grande, così che le linee de' piccioli
quadrati e la linea del circolo insieme l'una con l'altra si tagli, e
noto tutti i punti di questi tagliamenti, quali luoghi segno ne' paraleli
del pavimento nella mia pittura. Ma perché sarebbe fatica estrema e quasi
infinita con nuovi minori paraleli dividere il cerchio in molti luoghi,
e così con molto numero di punti seguire continovando il circolo, per
questo, quando io arò notato otto o più tagliamenti, segno con ingegno
il mio circulo nella pittura guidando la linea da termine a termine. Forse
sarebbe più brieve via corlo all'ombra? Certo sì, dove il corpo quale
facesse ombra fusse in mezzo posto con sua ragione in suo luogo. Dicemmo
adunque in che modo coll'aiuto de' paraleli le superficie grandi acantonate
e tonde si disegnino. Finita adunque la circunscrizione, cioè il modo
del disegnare, restaci a dire della composizione. Convienci repetere che
sia composizione. 35.
Composizione è quella ragione di dipignere con la quale le parti delle
cose vedute si pongono insieme in pittura. Grandissima opera del pittore
non uno collosso, ma istoria. Maggiore loda d'ingegno rende l'istoria
che qual sia collosso. Parte della istoria sono i corpi, parte de' corpi
i membri, parte de' membri la superficie. Le prime adunque parti del dipignere
sono le superficie. Nasce della composizione delle superficie quella grazia
ne' corpi quale dicono bellezza. Vedesi uno viso, il quale abbia sue superficie
chi grandi e chi piccole, quivi ben rilevate e qui ben drento riposto,
simile al viso delle vecchierelle, questo essere in aspetto bruttissimo.
Ma quelli visi s'aranno le superficie giunte in modo che piglino ombre
e lumi ameni e suavi, né abbino asperitate alcuna di rilevati canti, certo
diremo questi essere formosi e dilicati visi. Adunque in questa composizione
di superficie molto si cerca la grazia e bellezza delle cose quale, a
chi voglia seguirla, pare a me niuna più atta e più certa via che di torla
dalla natura, ponendo mente in che modo la natura, maravigliosa artefice
delle cose, bene abbia in be' corpi composte le superficie. A quale imitarla,
si conviene molto avervi continovo pensieri e cura, insieme e molto dilettarsi
del nostro, qual di sopra dicemmo, velo. E quando vogliamo mettere in
opera quanto aremo compreso dalla natura, prima sempre aremo notato i
termini dove tiriamo ad uno certo luogo nostre linee. 36.
Sino a qui detto della composizione delle superficie. Seguita de' membri.
Conviensi in prima dare opera che tutti i membri bene convengano. Converranno
quando e di grandezza e d'offizio e di spezie e di colore e d'altre simili
cose corrisponderanno ad una bellezza: ché se fusse in una dipintura il
capo grandissimo e il petto piccolo, la mano ampia e il piè enfiato, il
corpo gonfiato, questa composizione certo sarebbe brutta a vederla. Adunque
conviensi tenere certa ragione circa alla grandezza de' membri, in quale
commensurazione gioverà prima allogare ciascuno osso dell'animale, poi
apresso agiungere i suoi muscoli, di poi tutto vestirlo di sue carne.
Ma qui sarà chi mi contraponga quanto di sopra dissi, che al pittore nulla
s'apartiene delle cose quali non vede. Ben ramentano costoro, ma come
a vestire l'uomo prima si disegna ignudo, poi il circondiamo di panni,
così dipignendo il nudo, prima pogniamo sue ossa e muscoli, quali poi
così copriamo con sue carni che non sia difficile intendere ove sotto
sia ciascuno moscolo. E poi che la natura ci ha porto in mezzo le misure,
ove si truova non poca utilità a riconoscerle dalla natura, ivi adunque
piglino gli studiosi pittori questa fatica, per tanto tenere a mente quello
che piglino dalla natura, quanto a riconoscerle aranno posto suo studio
e opera. Una cosa ramento, che a bene misurare uno animante si pigli uno
quale che suo membro col quale gli altri si misurino. Vitruvio architetto
misurava la lunghezza dell'omo coi piedi. A me pare cosa più degna l'altre
membra si riferiscano al capo, benché ho posto mente quasi comune in tutti
gli uomini che il piede tanto è lungo quanto dal mento al cocuzzolo del
capo. 37.
Così adunque, preso uno membro, si accommodi ogni altro membro in modo
che niuno di loro sia non conveniente agli altri in lunghezza e in larghezza.
Poi si provegga che ciascuno membro segua, a quello che ivi si fa, al
suo officio. Sta bene a chi corre non meno gittare le mani che i piedi;
ma voglio un filosafo, mentre che favella, dimostri molto più modestia
che arte di schermire. Lodasi una storia in Roma nella quale Meleagro
morto, portato, aggrava quelli che portano il peso, e in sé pare in ogni
suo membro ben morto ogni cosa pende, mani, dito e capo; ogni cosa cade
languido; ciò che ve si dà ad espriemere uno corpo morto, qual cosa certo
è difficilissima, però che in uno corpo chi saprà fingere ciascuno membro
ozioso, sarà ottimo artefice. Così adunque in ogni pittura si osservi
che ciascuno membro faccia il suo officio, che niuno per minimo articolo
che sia, resti ozioso. E sieno le membra de' morti sino all'unghie morte.
Dei vivi sia ogni minima parte viva. Dicesi vivere il corpo quando a sua
posta abbia certo movimento: dicesi morte dove i membri non più possono
portare gli offici della vita, cioè movimento e sentimento. Adunque il
pittore, volendo espriemere nelle cose vita, farà ogni sua parte in moto;
ma in ciascuno moto terrà venustà e grazia. Sono gratissimi i movimenti
e ben vivaci quelli e' quali si muovano in alto verso l'aere. Dicemmo
ancora alla composizione de' membri doversi certa spezie: e sarebbe cosa
assurda se le mani di Elena o di Efigenia fussero vecchizze e zotiche,
o se in Nestor fusse il petto tenero e il collo dilicato, o se a Ganimede
fusse la fronte crespa o le coscie d'un facchino, o se a Milone, fra gli
altri gagliardissimo, fusseno i fianchi magrolini e sottiluzzi. E ancora
in quella figura, in quale fusse il viso fresco e lattoso, sarebbe sozzo
soggiungervi le braccia e le mani secche per magrezza. Così chi dipignesse
Acamenide, trovato da Enea in su quell'isola con quella faccia quale Virgilio
il descrive, non seguendo gli altri membri a tanta tisichezza, sarebbe
pittore da farsene beffe. Pertanto così conviene tutte le membra condicano
ad una spezie. E ancora voglio le membra corrispondano ad uno colore,
però che a chi avesse il viso rosato, candido e venusto, a costui poco
s'affarebbe il petto e l'altre membra brutte e sucide. 38.
Adunque nella composizione de' membri dobbiamo seguire quanto dissi della
grandezza, officio, spezie e colori. Poi apresso ogni cosa seguiti ad
una dignità. Sarebbe cosa non conveniente vestire Venere o Minerva con
uno capperone da saccomanno: simile sarebbe vestire Marte o Giove con
una vesta di femmina. Curavano gli antiqui dipintori, dipignendo Castor
e Poluce, fare che paressero fratelli, ma nell'uno apparesse natura pugnace,
nell'altro agilità. Facevano ancora che a Vulcano sotto la vesta parea
il suo vizio di zopicare, tanto era in loro studio espriemere officio,
spezie e dignità a qualunque cosa dipignessero. 39.
Seguita la composizione de' corpi, nella quale ogni lode e ingegno del
pittore consiste. Alla quale composizione certe cose dette nella composizione
de' membri qui s'apartengono. Conviensi che i corpi insieme si confacciano
in istoria con grandezza e con adoperarsi. Chi dipignesse centauri far
briga apresso la cena, sarebbe cosa innetta in tanto tumulto che alcuno
carico di vino stesse adormentato. E sarebbe vizio se in pari distanza
l'uno fusse più che l'altro maggiore, o se ivi fussero e' cani equali
ai cavalli, overo se, quello che spesse volte veggo, ivi fusse uomo alcuno
nello edificio quasi come in uno scrigno inchiuso, dove apena sedendo
vi si assetti. Adunque tutti i corpi per grandezza e suo officio s'aconfaranno
a quello che ivi nella storia si facci. 40.
Sarà la storia, qual tu possa lodare e maravigliare, tale che con sue
piacevolezze si porgerà sì ornata e grata, che ella terrà con diletto
e movimento d'animo qualunque dotto o indotto la miri. Quello che prima
dà voluttà nella istoria viene dalla copia e varietà delle cose. Come
ne' cibi e nella musica sempre la novità e abondanza tanto piace quanto
sia differente dalle cose antique e consuete, così l'animo si diletta
d'ogni copia e varietà. Per questo in pittura la copia e varietà piace.
Dirò io quella istoria essere copiosissima in quale a' suo luoghi sieno
permisti vecchi, giovani, fanciulli, donne, fanciulle, fanciullini, polli,
catellini, uccellini, cavalli, pecore, edifici, province, e tutte simili
cose: e loderò io qualunque copia quale s'apartenga a quella istoria.
E interviene, dove chi guarda soprasta rimirando tutte le cose, ivi la
copia del pittore acquisti molta grazia. Ma vorrei io questa copia essere
ornata di certa varietà, ancora moderata e grave di dignità e verecundia.
Biasimo io quelli pittori quali, dove vogliono parere copiosi nulla lassando
vacuo, ivi non composizione, ma dissoluta confusione disseminano; pertanto
non pare la storia facci qualche cosa degna, ma sia in tumulto aviluppata.
E forse chi molto cercherà dignità in sua storia, a costui piacerà la
solitudine. Suole ad i prencipi la carestia delle parole tenere maestà,
dove fanno intendere suoi precetti. Così in istoria uno certo competente
numero di corpi rende non poca dignità. Dispiacemi la solitudine in istoria,
pure né però laudo copia alcuna quale sia sanza dignità. Ma in ogni storia
la varietà sempre fu ioconda, e in prima sempre fu grata quella pittura
in quale sieno i corpi con suoi posari molto dissimili. Ivi adunque stieno
alcuni ritti e mostrino tutta la faccia, con le mani in alto e con le
dita liete, fermi in su un piè. Agli altri sia il viso contrario e le
braccia remisse, coi piedi agiunti. E così a ciascuno sia suo atto e flessione
di membra: altri segga, altri si posi su un ginocchio, altri giacciano.
E se così ivi sia licito, sievi alcuno ignudo, e alcuni parte nudi e parte
vestiti, ma sempre si serva alla vergogna e alla pudicizia. Le parti brutte
a vedere del corpo, e l'altre simili quali porgono poca grazia, si cuoprano
col panno, con qualche fronde o con la mano. Dipignevano gli antiqui l'immagine
d'Antigono solo da quella parte del viso ove non era mancamento dell'occhio.
E dicono che a Pericle era suo capo lungo e brutto, e per questo dai pittori
e dagli scultori, non come gli altri era col capo nudo, ma col capo armato
ritratto. E dice Plutarco gli antiqui pittori, dipignendo i re, se in
loro era qualche vizio, non volerlo però essere non notato, ma quanto
potevano, servando la similitudine, lo emendavano. Così adunque desidero
in ogni storia servarsi quanto dissi modestia e verecundia, e così sforzarsi
che in niuno sia un medesimo gesto o posamento che nell'altro. 41.
Poi moverà l'istoria l'animo quando gli uomini ivi dipinti molto porgeranno
suo propio movimento d'animo. Interviene da natura, quale nulla più che
lei si truova rapace di cose a sé simile, che piagniamo con chi piange,
e ridiamo con chi ride, e doglianci con chi si duole. Ma questi movimenti
d'animo si conoscono dai movimenti del corpo. E veggiamo quanto uno atristito,
perché la cura estrigne e il pensiero l'assedia, stanno con sue forze
e sentimenti quasi balordi, tenendo sé stessi lenti e pigri in sue membra
palide e malsostenute. Vedrai a chi sia malinconico il fronte premuto,
la cervice languida, al tutto ogni suo membro quasi stracco e negletto
cade. Vero, a chi sia irato, perché l'ira incita l'animo, però gonfia
di stizza negli occhi e nel viso, e incendesi di colore, e ogni suo membro,
quanto il furore, tanto ardito si getta. Agli uomini lieti e gioiosi sono
i movimenti liberi e con certe inflessioni grati. Dicono che Aristide
tebano equale ad Appelle molto conoscea questi movimenti, quali certo
e noi conosceremo quando a conoscerli porremo studio e diligenza. 42.
Così adunque conviene sieno ai pittori notissimi tutti i movimenti del
corpo, quali bene impareranno dalla natura, bene che sia cosa difficile
imitare i molti movimenti dello animo. E chi mai credesse, se non provando,
tanto essere difficile, volendo dipignere uno viso che rida, schifare
di non lo fare piuttosto piangioso che lieto? E ancora chi mai potesse
senza grandissimo studio espriemere visi nei quale la bocca, il mento,
gli occhi, le guance, il fronte, i cigli, tutti ad uno ridere o piangere
convengono? Per questo molto conviensi impararli dalla natura, e sempre
seguire cose molto pronte e quali lassino da pensare a chi le guarda molto
più che egli non vede. Ma che noi racontiamo alcune cose di questi movimenti,
quali parte fabbricammo con nostro ingegno, parte imparammo dalla natura.
Parmi in prima tutti e' corpi a quello si debbano muovere a che sia ordinata
la storia. E piacemi sia nella storia chi ammonisca e insegni a noi quello
che ivi si facci, o chiami con la mano a vedere, o con viso cruccioso
e con gli occhi turbati minacci che niuno verso loro vada, o dimostri
qualche pericolo o cosa ivi maravigliosa, o te inviti a piagnere con loro
insieme o a ridere. E così qualunque cosa fra loro o teco facciano i dipinti,
tutto apartenga a ornare o a insegnarti la storia. Lodasi Timantes di
Cipri in quella tavola in quale egli vinse Colocentrio, che nella imolazione
di Efigenia, avendo finto Calcante mesto, Ulisse più mesto, e in Menelao
poi avesse consunto ogni suo arte a molto mostrarlo adolorato, non avendo
in che modo mostrare la tristezza del padre, a lui avolse uno panno al
capo, e così lassò si pensasse qual non si vedea suo acerbissimo merore.
Lodasi la nave dipinta a Roma, in quale el nostro toscano dipintore Giotto
pose undici discepoli tutti commossi da paura vedendo uno de' suoi compagni
passeggiare sopra l'acqua, ché ivi espresse ciascuno con suo viso e gesto
porgere suo certo indizio d'animo turbato, tale che in ciascuno erano
suoi diversi movimenti e stati. Ma piacemi brevissimo passare tutto questo
luogo de' movimenti. 43.
Sono alcuni movimenti d'animo detti affezione, come ira, dolore, gaudio
e timore, desiderio e simili. Altri sono movimenti de' corpi. Muovonsi
i corpi in più modi, crescendo, discrescendo, infermandosi, guarendo e
mutandosi da luogo a luogo. Ma noi dipintori, i quali vogliamo coi movimenti
delle membra mostrare i movimenti dell'animo, solo riferiamo di quel movimento
si fa mutando el luogo. Qualunque cosa si muove da luogo può fare sette
vie: in su, uno; in giù, l'altro; in destra, il terzo; in sinistra, il
quarto; colà lunge movendosi di qui, o di là venendo in qua; il settimo,
andando attorno. Questi adunque tutti movimenti desidero io essere in
pittura. Sianvi corpi alcuni quali si porgano verso noi, alcuni si porgano
in qua verso e in là, e d'uno medesimo alcune parti si dimostrino a chi
guarda, alcune si retriano, alcune stieno alte, e alcune basse. Ma perché
talora in questi movimenti si truova chi passa ogni ragione, mi piace
qui de' posari e de' movimenti raccontare alcune cose quali ho raccolte
dalla natura, onde bene intenderemo con che moderazione si debbano usare.
Posi mente come l'uomo in ogni suo posare sottostatuisca tutto il corpo
a sostenere il capo, membro fra gli altri gravissimo, e posandosi in uno
piè sempre ferma il piè perpendiculare sotto il capo quasi come base d'una
colonna, e quasi sempre di chi stia diritto il viso si porge dove si dirizzi
il piè. I movimenti del capo veggo quasi sempre essere tale che sotto
a sé hanno qualche parte del corpo a sostenerlo, tanto è grande peso quello
del capo; overo certo in contraria parte quasi come stile d'una bilancia
distende uno membro quale corrisponda al peso del capo. E veggiamo che
chi sul braccio disteso sostiene uno peso fermando il piè quasi come ago
di bilancia, tutta l'altra parte del corpo si contraponga a contrapesare
il peso. Parmi ancora che, alzando il capo, niuno più porga la faccia
in alto se non quanto vegga in mezzo il cielo, né in lato alcuno più si
volge il viso se non quanto il mento tocchi la spalla; in quella parte
del corpo ove ti cigni, quasi mai tanto ti torci che la punta della spalla
sia perpendiculare sopra il bellico. I movimenti delle gambe e delle braccia
sono molto liberi, ma non vorrei io coprissero alcuna degna e onesta parte
del corpo. E veggo dalla natura quasi mai le mani levarsi sopra il capo,
né le gomita sopra la spalla, né sopra il ginocchio il piede, né tra uno
piè ad un altro essere più spazio che d'uno solo piede. E posi mente distendendo
in alto una mano, che persino al piede tutta quella parte del corpo la
sussegua tale che il calcagno medesimo del piè si leva dal pavimento. 44.
Simile molte cose uno diligente artefice da sé a sé noterà; e forse quali
dissi cose tanto sono in pronto che paiono superflue recitare. Ma perché
veggio non pochi in quelle errare, parsemi da non tacerle. Truovasi chi
esprimendo movimenti troppo arditi, e in una medesima figura facendo che
ad un tratto si vede il petto e le reni, cosa impossibile e non condicente,
credono essere lodati, perché odono quelle immagini molto parer vive quali
molto gettino ogni suo membro, e per questo in loro figure fanno parerle
schermidori e istrioni senza alcuna degnità di pittura, onde non solo
sono senza grazia e dolcezza, ma più ancora mostrano l'ingegno dell'artefice
troppo fervente e furioso. E conviensi alla pittura avere movimenti soavi
e grati, convenienti a quello ivi si facci. Siano alle vergini movimenti
e posari ariosi, pieni di semplicità, in quali piuttosto sia dolcezza
di quiete che gagliardia, bene che ad Omero, quale seguitò Zeosis, piacque
la forma fatticcia persino in le femine. Siano i movimenti ai garzonetti
leggieri, iocondi, con una certa demostrazione di grande animo e buone
forze. Sia nell'uomo movimenti con più fermezza ornati con belli posari
e artificiosi. Sia ad i vecchi loro movimenti e posari stracchi: non solo
in su due piè, ma ancora si sostenghino sulle mani. E così a ciascuno
con dignità siano i suoi movimenti del corpo ad espriemere qual vuoi movimento
d'animo; e delle grandissime perturbazione dell'animo, simile sieno grandissimi
movimenti delle membra. E questa ragione dei movimenti comune si osservi
in tutti gli animanti. Già non si aconfà ad uno bue aratore darli que'
movimenti quali daresti a Bucefalas, gagliardissimo cavallo d'Alessandro.
Forse facendo Io, quale fu conversa in vacca, correre colla coda ritta,
rintorcigliata, col collo erto, coi piè levati, sarebbe atta pittura. 45.
Basti così avere discorso il movimento degli animanti. Ora, poi che ancora
le cose non animate si muovono in tutti quelli modi quali di sopra dicemmo,
adunque e di queste diremo. Dilettano nei capelli, nei crini, ne' rami,
frondi e veste vedere qualche movimento. Quanto certo a me piace ne' capelli
vedere quale io dissi sette movimenti: volgansi in uno giro quasi volendo
anodarsi, e ondeggino in aria simile alle fiamme; parte quasi come serpe
si tessano fra gli altri, parte crescendo in qua e parte in là; così i
rami ora in alto si torcano, ora in giù, ora in fuori, ora in dentro,
parte si contorcano come funi. Medesimo ancora le pieghe facciano, e nascano
le pieghe come al tronco dell'albero i suo rami. In questo adunque si
seguano tutti i movimenti tale che parte niuna del panno sia senza vacuo
movimento. Ma siano, quanto spesso ricordo, i movimenti moderati e dolci,
più tosto quali porgano grazia a chi miri che maraviglia di fatica alcuna.
Ma dove così vogliamo ad i panni suoi movimenti, sendo i panni di natura
gravi e continuo cadendo a terra, per questo starà bene in la pittura
porvi la faccia del vento zeffiro o austro che soffi tra le nuvole, onde
i panni ventoleggino; e quinci verrà a quella grazia che i corpi da questa
parte percossi dal vento, sotto i panni in buona parte mostreranno il
nudo, dall'altra parte i panni gittati dal vento dolce voleranno per aria.
E in questo ventoleggiare guardi il pittore non ispiegare alcuno panno
contro il vento; e così tutto osservi quanto dicemmo de' movimenti degli
animali e delle cose non animate. Ancora con diligenza séguiti quanto
racontammo della composizione delle superficie, de' membri e de' corpi. 46.
Resta a dire del ricevere de' lumi. Ne' dirozzamenti di sopra assai dimostrammo
quanto i lumi abbiano forza a variare i colori, ché insegnammo come istando
uno medesimo colore, secondo il lume e l'ombra che riceve altera sua veduta:
e dicemmo che 'l bianco e 'l nero al pittore esprimea l'ombra e il chiarore,
tutti gli altri colori essere al pittore come materia a quale aggiugnesse
più o meno ombra o lume. Adunque lassando l'altre cose, qui solo resta
a dire in che modo abbia il pittore usare suo bianco e nero. Dicono che
gli antiqui pittori Polignoto e Timante usavano solo colori quattro, e
Aglaofon si maravigliano si dilettasse dipignere in uno solo semplice
colore, quasi come fusse poco in quanto estimavano grandissimo numero
di colori, se quegli ottimi dipintori avessero eletti quelli pochi, e
ad uno copioso artefice credeano convenirsi tutta la moltitudine de' colori.
Certo affermo che alla grazia e lode della pittura la copia e varietà
de' colori molto giova. Ma voglio così estimino i dotti, che tutta la
somma industria e arte sta in sapere usare il bianco e 'l nero, e in ben
sapere usare questi due conviensi porre tutto lo studio e diligenza. Però
che il lume e l'ombra fanno parere le cose rilevate, così il bianco e
'l nero fa le cose dipinte parere rilevate, e dà quella lode quale si
dava a Nitia pittore ateniese. Dicono che Zeusis, antiquissimo e famosissimo
dipintore, fu quasi prencipe degli altri in conoscere la forza de' lumi
e dell'ombre: agli altri poco fu data simile loda. Ma io quasi mai estimerò
mezzano dipintore quello quale non bene intenda che forza ogni lume e
ombra tenga in ogni superficie. Io, coi dotti e non dotti, loderò quelli
visi quali come scolpiti parranno uscire fuori della tavola, e biasimerò
quelli visi in quali vegga arte niuna altra che solo forse nel disegno.
Vorrei io un buono disegno ad una buona composizione bene essere colorato.
Così adunque in prima studino circa i lumi e circa all'ombre, e pongano
mente come quella superficie più che l'altra sia chiara in quale feriscano
i razzi del lume, e come, dove manca la forza del lume, quel medesimo
colore diventa fusco. E notino che sempre contro al lume dall'altra parte
corrisponda l'ombra, tale che in corpo niuno sarà parte alcuna luminata,
a cui non sia altra parte diversa oscura. Ma quanto ad imitare il chiarore
col bianco e l'ombra col nero, ammonisco molto abbino studio a conoscere
distinte superficie, quanto ciascuna sia coperta di lume o d'ombra. Questo
assai da te comprenderai dalla natura; e quando bene le conoscerai, ivi
con molta avarizia, dove bisogni, comincerai a porvi il bianco, e subito
contrario ove bisogni il nero, però che con questo bilanciare il bianco
col nero molto si scorge quanto le cose si rilievino. E così pure con
avarizia a poco a poco seguirai acrescendo più bianco e più nero quanto
basti. E saratti a ciò conoscere buono giudice lo specchio, né so come
le cose ben dipinte molto abbino nello specchio grazia: cosa maravigliosa
come ogni vizio della pittura si manifesti diforme nello specchio. Adunque
le cose prese dalla natura si emendino collo specchio. 47.
Qui vero raccontiamo cose quali imparammo dalla natura. Posi mente che
alla superficie piana in ogni suo luogo sta il colore uniforme; nelle
superficie cave e sperice piglia il colore variazione, però ch'è qui chiaro,
ivi oscuro, in altro luogo mezzo colore. Questa alterazione de' colori
inganna gli sciocchi pittori, quali se, come dicemmo, bene avessono disegnato
gli orli delle superficie, sentirebbono facile il porvi i lumi. Così farebbono:
prima quasi come leggerissima rugiada per infino all'orlo coprirebbono
la superficie di qual bisognasse bianco o nero; di poi sopra a questa
un'altra, e poi un'altra; e così a poco a poco farebbono che dove fusse
più lume, ivi più bianco da torno, mancando il lume, il bianco si perderebbe
quasi in fummo. E simile contrario farebbero del nero. Ma ramentisi mai
fare bianca alcuna superficie tanto che ancora non possa farla vie più
bianca. Se bene vestissi di panni candidissimi, convienti fermare molto
più giù che l'ultima bianchezza. Truova il pittore cosa niuna altro che
'l bianco con quale dimostri l'ultimo lustro d'una forbitissima spada,
e solo il nero a dimostrare l'ultime tenebre della notte. E vedesi forza
in ben comporre bianco presso a nero, che vasi per questo paiano d'argento,
d'oro e di vetro, e paiono dipinti risplendere. Per questo molto si biasimi
ciascuno pittore il quale senza molto modo usi bianco o nero. Piacerebbemi
apresso de' pittori il bianco si vendesse più che le preziosissime gemme
caro. Sarebbe certo utile il bianco e nero si facesse di quelle grossissime
perle quale Cleopatra distruggeva in aceto, ché ne sarebbono quanto debbono
avari e massai, e sarebbero loro opere più al vero dolci e vezzose. Né
si può dire quanto di questi si convenga masserizia al dipintore. E se
pure in distribuirli peccano, meno si riprenda chi adoperi molto nero,
che chi non bene distende il bianco. Di dì in dì fa la natura che ti viene
in odio le cose orride e oscure; e quanto più facendo impari, tanto più
la mano si fa dilicata a vezzosa grazia. Certo da natura amiamo le cose
aperte e chiare. Adunque più si chiuda la via quale più stia facile a
peccare. 48.
Detto del bianco e nero, diremo degli altri colori, non come Vitruvio
architetto in che luogo nasca ciascuno ottimo e ben provato colore; ma
diremo in che modo i colori ben triti s'adoperino in pittura. Dicono che
Eufranor, antiquissimo dipintore, scrisse non so che de' colori: non si
truova oggi. Noi vero, i quali, se mai da altri fu scritta, abbiamo cavata
quest'arte di sotterra, o se non mai fu scritta, l'abbiamo tratta di cielo,
seguiamo quanto sino a qui facemmo con nostro ingegno. Vorrei nella pittura
si vedessero tutti i generi e ciascuna sua spezie con molto diletto e
grazia a rimirarla. Sarà ivi grazia quando l'uno colore apresso, molto
sarà dall'altro differente; che se dipignerai Diana guidi il coro, sia
a questa ninfa panni verdi, a quella bianchi, all'altra rosati, all'altra
crocei, e così a ciascuna diversi colori, tale che sempre i chiari sieno
presso ad altri diversi colori oscuri. Sarà per questa comparazione ivi
la bellezza de' colori più chiara e più leggiadra. E truovasi certa amicizia
de' colori, che l'uno giunto con l'altro li porge dignità e grazia. Il
colore rosato presso al verde e al cilestro si danno insieme onore e vista.
Il colore bianco non solo appresso il cenericcio e appresso il croceo,
ma quasi presso a tutti posto, porge letizia. I colori oscuri stanno fra
i chiari non sanza alcuna dignità, e così i chiari bene s'avolgano fra
gli oscuri. Così adunque, quanto dissi, il pittore disporrà suo colori. 49
Truovasi chi adopera molto in sue storie oro, che stima porga maestà.
Non lo lodo. E benché dipignesse quella Didone di Virgilio, a cui era
la faretra d'oro, i capelli aurei nodati in oro, e la veste purpurea cinta
pur d'oro, i freni al cavallo e ogni cosa d'oro, non però ivi vorrei punto
adoperassi oro, però che nei colori imitando i razzi dell'oro sta più
ammirazione e lode all'artefice. E ancora veggiamo in una piana tavola
alcune superficie ove sia l'oro, quando deono essere oscure risplendere,
e quando deono essere chiare parere nere. Dico bene che gli altri fabrili
ornamenti giunti alla pittura, qual sono colunne scolpite, base, capitelli
e frontispici, non li biasimerò se ben fussero d'oro purissimo e massiccio.
Anzi più una ben perfetta storia merita ornamenti di gemme preziosissime. 50.
Sino a qui dicemmo brevissime di tre parti della pittura. Dicemmo della
circonscrizione delle minori e maggiori superficie. Dicemmo della composizione
delle superficie, membri e corpi. Dicemmo de' colori quanto all'uso del
pittore estimammo s'apartenesse. Adunque così esponemmo tutta la pittura,
quale dicemmo stava in queste tre cose: circonscrizione, composizione
e ricevere di lumi. LIBRO
TERZO 51.
Ma poi che ancora altre utili cose restano a fare uno pittore tale che
possa seguire intera lode, parmi in questi commentari da non lassarlo.
Direnne molto brevissimo. 52.
Dico l'officio del pittore essere così descrivere con linee e tignere
con colori in qual sia datoli tavola o parete simile vedute superficie
di qualunque corpo, che quelle ad una certa distanza e ad una certa posizione
di centro paiano rilevate e molto simili avere i corpi; la fine della
pittura, rendere grazia e benivolenza e lode allo artefice molto più che
ricchezze. E seguiranno questo i pittori ove la loro pittura terrà gli
occhi e l'animo di chi la miri; qual cosa come possa farlo dicemmo di
sopra dove trattammo della composizione e del ricevere de lumi. Ma piacerammi
sia il pittore, per bene potere tenere tutte queste cose, uomo buono e
dotto in buone lettere. E sa ciascuno quanto la bontà dell'uomo molto
più vaglia che ogni industria o arte ad acquistarsi benivolenza da' cittadini,
e niuno dubita la benivolenza di molti molto all'artefice giovare a lode
insieme e al guadagno. E interviene spesso che i ricchi, mossi più da
benivolenza che da maravigliarsi d'altrui arte, prima danno guadagno a
costui modesto e buono, lassando adrieto quell'altro pittore forse migliore
in arte ma non sì buono in costumi. Adunque conviensi all'artefice molto
porgersi costumato, massime da umanità e facilità, e così arà benivolenza,
fermo aiuto contro la povertà, e guadagni, ottimo aiuto a bene imparare
sua arte. 53.
Piacemi il pittore sia dotto, in quanto e' possa, in tutte l'arti liberali;
ma in prima desidero sappi geometria. Piacemi la sentenza di Panfilo,
antiquo e nobilissimo pittore, dal quale i giovani nobili cominciarono
ad imparare dipignere. Stimava niuno pittore potere bene dipignere se
non sapea molta geometria. I nostri dirozzamenti, dai quali si esprieme
tutta la perfetta, assoluta arte di dipignere, saranno intesi facile dal
geometra. Ma chi sia ignorante in geometria, né intenderà quelle né alcuna
altra ragione di dipignere. Pertanto affermo sia necessario al pittore
imprendere geometria. E farassi per loro dilettarsi de' poeti e degli
oratori. Questi hanno molti ornamenti comuni col pittore; e copiosi di
notizia di molte cose, molto gioveranno a bello componere l'istoria, di
cui ogni laude consiste in la invenzione, quale suole avere questa forza,
quanto vediamo, che sola senza pittura per sé la bella invenzione sta
grata. Lodasi leggendo quella discrezione della Calunnia, quale Luciano
racconta dipinta da Appelle. Parmi cosa non aliena dal nostro proposito
qui narrarla, per ammonire i pittori in che cose circa alla invenzione
loro convenga essere vigilanti. Era quella pittura uno uomo con sue orecchie
molte grandissime, apresso del quale, una di qua e una di là, stavano
due femmine: l'una si chiamava Ignoranza, l'altra si chiamava Sospezione.
Più in là veniva la Calunnia. Questa era una femmina a vederla bellissima,
ma parea nel viso troppo astuta. Tenea nella sua destra mano una face
incesa; con l'altra mano trainava, preso pe' capelli, uno garzonetto,
il quale stendea suo mani alte al cielo. Ed eravi uno uomo palido, brutto,
tutto lordo, con aspetto iniquo, quale potresti assimigliare a chi ne'
campi dell'armi con lunga fatica fusse magrito e riarso: costui era guida
della Calunnia, e chiamavasi Livore. Ed erano due altre femmine compagne
alla Calunnia, quali a lei aconciavano suoi ornamenti e panni: chiamasi
l'una Insidie e l'altra Fraude. Drieto a queste era la Penitenza, femmina
vestita di veste funerali, quale sé stessa tutta stracciava. Dietro seguiva
una fanciulletta vergognosa e pudica, chiamata Verità. Quale istoria se
mentre che si recita piace, pensa quanto essa avesse grazia e amenità
a vederla dipinta di mano d'Appelle. 54.
Piacerebbe ancora vedere quelle tre sorelle a quali Esiodo pose nome Egle,
Eufronesis e Talia, quali si dipignevano prese fra loro l'una l'altra
per mano ridendo, con la vesta scinta e ben monda; per quali volea s'intendesse
la liberalità, ché una di queste sorelle dà, l'altra riceve, la terza
rende il benificio; quali gradi debbano in ogni perfetta liberalità essere.
Adunque si vede quanta lode porgano simile invenzioni all'artefice. Pertanto
consiglio ciascuno pittore molto si faccia famigliare ad i poeti, retorici
e agli altri simili dotti di lettere, già che costoro doneranno nuove
invenzioni, o certo aiuteranno a bello componere sua storia, per quali
certo acquisteranno in sua pittura molte lode e nome. Fidias, più che
gli altri pittori famoso, confessava avere imparato da Omero poeta dipignere
Iove con molta divina maestà. Così noi, studiosi d'imparare più che di
guadagno, dai nostri poeti impareremo più e più cose utili alla pittura. 55.
Ma non raro avviene che gli studiosi e cupidi d'imparare, non meno si
straccano ove non sanno imparare, che dove l'incresce la fatica. Per questo
diremo in che modo si diventi in questa arte dotto. Niuno dubiti capo
e principio di questa arte, e così ogni suo grado a diventare maestro,
doversi prendere dalla natura. Il perficere l'arte si troverà con diligenza,
assiduitate e studio. Voglio che i giovani, quali ora nuovi si danno a
dipignere, così facciano quanto veggo di chi impara a scrivere. Questi
in prima separato insegnano tutte le forme delle lettere, quali gli antiqui
chiamano elementi; poi insegnano le silabe; poi apresso insegnano componere
tutte le dizioni. Con questa ragione ancora seguitino i nostri a dipignere.
In prima imparino ben disegnare gli orli delle superficie, e qui se essercitino
quasi come ne' primi elementi della pittura; poi imparino giugnere insieme
le superficie; poi imparino ciascuna forma distinta di ciascuno membro,
e mandino a mente qualunque possa essere differenza in ciascuno membro.
E sono le differenze de' membri non poche e molto chiare. Vedrai a chi
sarà il naso rilevato e gobbo; altri aranno le narici scimmie o arovesciate
aperte; altri porgerà i labri pendenti; alcuni altri aranno ornamento
di labrolini magruzzi. E così essamini il pittore qualunque cosa a ciascuno
membro essendo più o meno, il facci differente. E noti ancora quanto veggiamo,
che i nostri membri fanciulleschi sono ritondi, quasi fatti a tornio,
e dilicati; nella età più provetta sono aspri e canteruti. Così tutte
queste cose lo studioso pittore conoscerà dalla natura, e con sé stessi
molto assiduo le essaminerà in che modo ciascuna stia, e continuo starà
in questa investigazione e opera desto con suo occhi e mente. Porrà mente
il grembo a chi siede; porrà mente quanto dolce le gambe a chi segga sieno
pendenti; noterà di chi stia dritto tutto il corpo, né sarà ivi parte
alcuna della quale non sappi suo officio e sua misura. E di tutte le parti
li piacerà non solo renderne similitudine, ma più aggiugnervi bellezza,
però che nella pittura la vaghezza non meno è grata che richiesta. A Demetrio,
antiquo pittore, mancò ad acquistare l'ultima lode che fu curioso di fare
cose assimigliate al naturale molto più che vaghe. Per questo gioverà
pigliare da tutti i belli corpi ciascuna lodata parte. E sempre ad imparare
molta vaghezza si contenda con istudio e con industria. Qual cosa bene
che sia difficile, perché nonne in uno corpo solo si truova compiute bellezze,
ma sono disperse e rare in più corpi, pure si debba ad investigarla e
impararla porvi ogni fatica. Interverrà come a chi s'ausi volgere e prendere
cose maggiori, che facile costui potrà le minori: né truovasi cosa alcuna
tanto difficile quale lo studio e assiduità non vinca. 56.
Ma per non perdere studio e fatica si vuole fuggire quella consuetudine
d'alcuni sciocchi, i quali presuntuosi di suo ingegno, senza avere essemplo
alcuno dalla natura quale con occhi o mente seguano, studiano da sé a
sé acquistare lode di dipignere. Questi non imparano dipignere bene, ma
assuefanno sé a' suoi errori. Fugge gl'ingegni non periti quella idea
delle bellezze, quale i bene essercitatissimi appena discernono. Zeusis,
prestantissimo e fra gli altri essercitatissimo pittore, per fare una
tavola qual pubblico pose nel tempio di Lucina appresso de' Crotoniati,
non fidandosi pazzamente, quanto oggi ciascuno pittore, del suo ingegno,
ma perché pensava non potere in uno solo corpo trovare quante bellezze
egli ricercava, perché dalla natura non erano ad uno solo date, pertanto
di tutta la gioventù di quella terra elesse cinque fanciulle le più belle,
per torre da queste qualunque bellezza lodata in una femmina. Savio pittore,
se conobbe che ad i pittori, ove loro sia niuno essemplo della natura
quale elli seguitino, ma pure vogliono con suoi ingegni giugnere le lode
della bellezza, ivi facile loro avverrà che non quale cercano bellezza
con tanta fatica troveranno, ma certo piglieranno sue pratiche non buone,
quali poi ben volendo mai potranno lassare. Ma chi da essa natura s'auserà
prendere qualunque facci cosa, costui renderà sua mano sì essercitata
che sempre qualunque cosa farà parrà tratta dal naturale. Qual cosa quanto
sia dal pittore a ricercarla si può intendere, ove poi che in una storia
sarà uno viso di qualche conosciuto e degno uomo, bene che ivi sieno altre
figure di arte molto più che questa perfette e grate, pure quel viso conosciuto
a sé imprima trarrà tutti gli occhi di chi la storia raguardi: tanto si
vede in sé tiene forza ciò che sia ritratto dalla natura. Per questo sempre
ciò che vorremo dipignere piglieremo dalla natura, e sempre torremo le
cose più belle. 57.
Ma guarda non fare come molti, quali imparano disegnare in picciole tavolelle.
Voglio te esserciti disegnando cose grandi, quasi pari al ripresentare
la grandezza di quello che tu disegni, però che nei piccioli disegni facile
s'asconde ogni gran vizio, nei grandi molto i bene minimi vizi si veggono.
Scrive Galieno medico avere ne' suo tempi veduto scolpito in uno anello
Fetonte portato da quattro cavalli, dei quali suo freni, petto e tutti
i piedi distinti si vedeano. Ma i nostri pittori lassino queste lode agli
scultori delle gemme; loro vero si spassino in campi maggiori di lode.
Chi saprà ben dipignere una gran figura, molto facile in uno solo colpo
potrà quest'altre cose minute ben formare. Ma chi in questi piccioli vezzi
e monili arà usato suo mano e ingegno, costui facile errerà in cose maggiori. 58.
Alcuni ritranno figure d'altri pittori, e ivi cercano lode quale fu data
a Calamide scultore, quanto referiscono che scolpì due tazze in quali
così retratte cose prima simili fatte da Zenodoro, che niuna differenza
vi si conosceva. Ma certo i nostri pittori saranno in grandi errori se
non intenderanno che chi dipinse si sforzò ripresentarti cosa, quale puoi
vedere nel nostro quale di sopra dicemmo velo, dolce e bene da essa natura
dipinto. E se pure ti piace ritrarre opere d'altrui, perché elle più teco
hanno pazienza che le cose vive, più mi piace a ritrarre una mediocre
scultura che una ottima dipintura, però che dalle cose dipinte nulla più
acquisti che solo sapere asimigliarteli, ma dalle cose scolpite impari
asimigliarti, e impari conoscere e ritrarre i lumi. E molto giova a gustare
i lumi socchiudere l'occhio e strignere il vedere coi peli delle palpebre,
acciò che ivi i lumi si veggano abacinati e quasi come in intersegazione
dipinti. E forse più sarà utile essercitarsi al rilievo che al disegno.
E s'io non erro, la scultura più sta certa che la pittura; e raro sarà
chi possa bene dipignere quella cosa della quale elli non conosca ogni
suo rilievo; e più facile si truova il rilievo scolpendo che dipignendo.
Sia questo argomento atto quanto veggiamo che quasi in ogni età sono stati
alcuni mediocri scultori, ma truovi quasi niuno pittore non in tutto da
riderlo e disadatto. 59.
Ma in quale ti esserciti, sempre abbi inanzi qualche elegante e singulare
essempio, quale tu rimirando ritria; e in ritrarlo, giudico bisogni avere
una diligenza congiunta con prestezza, che mai ponga lo stile o suo pennello
se prima non bene con la mente arà constituito quello che egli abbi a
fare, e in che modo abbia a condurlo; ché certo più sarà sicuro emendare
gli errori colla mente che raderli dalla pittura. E ancora quando saremo
usati a fare nulla senza prima avere ordinato, interverracci che molto
più che Asclipiodoro saremo pittori velocissimi, quale uno antiquo pittore
dicono fra gli altri fu dipignendo velocissimo. E l'ingegno mosso e riscaldato
per essercitazione molto si rende pronto ed espedito al lavoro; e quella
mano seguita velocissimo, quale sia da certa ragione d'ingegno ben guidata.
E se alcuno si troverà pigro artefice, costui per questo così sarà pigro,
perché lento e temoroso tenterà quelle cose quale non arà prima fatte
alla sua mente conosciute e chiare; e mentre che s'avolgerà fra quelle
tenebre d'errori e quasi come il cieco con sua bacchetta, così lui con
suo pennello tasterà questa e quest'altra via. Pertanto mai se non con
ingegno scorgidore, bene erudito, mai porrà mano a suo lavoro. 60.
Ma poi che la istoria è summa opera del pittore, in quale dee essere ogni
copia ed eleganza di tutte le cose, conviensi curare sappiamo dipignere
non solo uno uomo, ma ancora cavalli, cani e tutti altri animali, e tutte
altre cose degne d'essere vedute. Questo così conviensi per bene fare
copiosa la nostra istoria; cosa qual ti confesso grandissima, e a chi
si fusse dagli antiqui non molto concessa, che uno in ogni cosa, non dico
eccellente fusse, ma mediocre dotto. Pure affermo dobbiamo sforzarci che
per nostra negligenza quelle cose non manchino quale acquistate rendono
lode, e neglette lassano biasimo. Nitias, ateniese pittore, diligente
dipinse femmine. Eraclides fu lodato in dipignere navi. Serapion non potea
dipignere uomini; altra qual vuoi cosa molto dipignea bene. Dionisio nulla
potea dipignere altri che uomini. Allessandro, quello il quale dipinse
il portico di Pompeo, sopra gli altri bene dipignea animali, massime cani.
Aurelio che sempre amava, solo dipignendo dee ritraeva i loro visi quali
esso amava. Fidias in dimostrare la maestà degli iddii più dava opera
che in seguire la bellezza degli uomini. Eufranore si dilettava espriemere
la degnità de' signori, e in questo avanzò tutti gli altri. Così a ciascuno
fu non equali facultà; e diede la natura a ciascuno ingegno sue proprie
dote, delle quali non però in tanto dobbiamo essere contenti che per negligenza
lassiamo di tentare quanto ancora più oltre con nostro studio possiamo.
E conviensi cultivare i beni della natura con studio ed essercizio, e
così di dì in dì farle maggiori; e conviensi per nostra negligenza nulla
pretermettere quale a noi possa retribuere lode. 61.
E quando aremo a dipignere storia, prima fra noi molto penseremo qual
modo e quale ordine in quella sia bellissima, e faremo nostri concetti
e modelli di tutta la storia e di ciascuna sua parte prima, e chiameremo
tutti gli amici a consigliarci sopra a ciò. E così ci sforzeremo avere
ogni parte in noi prima ben pensata, tale che nella opera abbi a essere
cosa alcuna, quale non intendiamo ove e come debba essere fatta e collocata.
E per meglio di tutto aver certezza, segneremo i modelli nostri con paraleli,
onde nel publico lavoro torremo dai nostri congetti, quasi come da privati
commentari, ogni stanza e sito delle cose. In lavorare la istoria aremo
quella prestezza di fare, congiunta con diligenza, quale a noi non dia
fastidio o tedio lavorando, e fuggiremo quella cupidità di finire le cose
quale ci facci abboracciare il lavoro. E qualche volta si conviene interlassare
la fatica del lavorare ricreando l'animo. Né giova fare come alcuni, intraprendere
più opere cominciando oggi questa e domani quest'altra, e così lassarle
non perfette, ma qual pigli opera, questa renderla da ogni parte compiuta.
Fu uno a cui Appelles rispose, quando li mostrava una sua dipintura, dicendo:
«oggi feci questo»; disseli: «non me ne maraviglio se bene avessi più
altre simili fatte». Vidi io alcuni pittori, scultori, ancora rettorici
e poeti, - se in questa età si truovano rettorici o poeti, - con ardentissimo
studio darsi a qualche opera, poi freddato quello ardore d'ingegno, lassano
l'opera cominciata e rozza e con nuova cupidità si danno a nuove cose.
Io certo vitupero così fatti uomini, però che qualunque vuole le sue cose
essere, a chi dopo viene, grate e acette, conviene prima bene pensi quello
che egli ha a fare, e poi con molta diligenza il renda bene perfetto.
Né in poche cose più si pregia la diligenza che l'ingegno; ma conviensi
fuggire quella decimaggine di coloro, i quali volendo ad ogni cosa manchi
ogni vizio e tutto essere troppo pulito, prima in loro mani diventa l'opera
vecchia e sucida che finita. Biasimavano gli antiqui Protogene pittore
che non sapesse levare la mano d'in sulla tavola. Meritamente questo,
però che, benché si convenga sforzare, quanto in noi sia ingegno, che
le cose con nostra diligenza sieno ben fatte, pure volere in tutte le
cose più che a te non sia possibile, mi pare atto di pertinace e bizzarro,
non d'uomo diligente. 62.
Adunque alle cose si dia diligenza moderata, e abbisi consiglio degli
amici, e dipignendo s'apra a chiunque viene e odasi ciascuno. L'opera
del pittore cerca essere grata a tutta la moltitudine. Adunque non si
spregi il giudicio e sentenza della moltitudine, quando ancora sia licito
satisfare a loro oppenione. Dicono che Appelles, nascoso drieto alla tavola,
acciò che ciascuno potesse più libero biasimarlo e lui più onesto udirlo,
udiva quanto ciascuno biasimava o lodava. Così io voglio i nostri pittori
apertamente domandino o odano ciascuno quello che giudichi, e gioveralli
questo ad acquistar grazia. Niuno si truova il quale non estimi onore
porre sua sentenza nella fatica altrui. E ancora poco mi pare da dubitare
che gli invidi e detrattori nuocano alle lode del pittore. Sempre fu al
pittore ogni sua lode palese, e sono alle sue lode testimoni cose quale
bene arà dipinte. Adunque oda ciascuno, e imprima tutto bene pensi e bene
seco gastighi; e quando arà udito ciascuno, creda ai più periti. 63. Ebbi da dire queste cose della pittura, quali se sono commode e utili a' pittori, solo questo domando in premio delle mie fatiche, che nelle sue istorie dipingano il viso mio, acciò dimostrino sé essere grati e me essere stato studioso dell'arte. E se meno satisfeci alle loro aspettazioni, non però vituperino me se ebbi animo traprendere matera sì grande. E se il nostro ingegno non ha potuto finire quello che fu laude tentare, pure solo il volere ne' grandi e difficili fatti suole essere lode. Forse dopo me sarà chi emenderà e' nostri scritti errori, e in questa dignissima e prestantissima arte saranno più che noi in aiuto e utile ad i pittori, quale io, - se mai alcuno sarà, - priego e molto ripriego piglino questa fatica con animo lieto e pronto in quale essercitino suo ingegno e rendano questa arte nobilissima ben governata. Noi però ci reputeremo a voluttà primi aver presa questa palma d'avere ardito commendare alle lettere questa arte sottilissima e nobilissima. In quale impresa difficilissima se poco abbiamo potuto satisfare alla espettazione di chi ci ha letto, incolpino la natura non meno che noi, quale impose questa legge alle cose, che niuna si truovi arte quale non abbia avuto suoi inizi da cose mendose: nulla si truova insieme nato e perfetto. Chi noi seguirà, se forse sarà alcuno di studio e d'ingegno più prestante che noi, costui, quanto mi stimo, farà la pittura assoluta e perfetta.
(1) È questa la traduzione, fatta dallo stesso Leon Battista Alberti nel 1436, del testo latino scritto l'anno precedente. |