INTRODUZIONE di
Antonio Videtta I MOTIVI Strani
destini ci legano a volte col più saldo dei nodi a cose imprevedibili,
nei più imprevedibili modi. Questa sonora e simpatica locuzione latina
- de equo animante - mi sta negli orecchi e, quasi ormai posso dire, fa
parte di me, da una vita. Appresa
già di volata nei banchi del liceo[1],
ne ricevetti una più incisiva cognizione al mio ingresso in Istituto[2]
per bocca di Valerio Mariani; il quale nel suo frequentissimo discorrere
di cose del Rinascimento, non mancava mai di citarla ogni volta che se
ne presentasse propizia l'occasione, affascinato dal peregrino testo albertiano
che così si intitola per implicazioni forse un po' mitizzate, quasi che
il "Vitruvio moderno" fosse stato in quest'opera anche un rinato
Virgilio e l'opera stessa una intatta e riposta ramificazione dell'oro
delle Georgiche[3];
ma più ancora per un segreto trasognamento legato, questo, alle memorie
della sua giovinezza, alla scuola di Adolfo Venturi, quando - a sentire
i suoi racconti - sembrava quasi avere intravisto nel raro scritto albertiano
qualcosa di ancestrale e di favoloso. Le due suggestioni - autobiografica
e letteraria - probabilmente si confondevano nel ricordo, perché in realtà
egli non era mai più ritornato su quel testo in maniera razionale e concreta.
A volte infatti attraverso la vaghezza di quei discorsi faceva capolino
- con una disposizione d'animo più manageriale, da direttore di istituto
universitario, appunto - una sorta di rimpianto anche un po' indispettito
per non aver mai potuto disporre di una edizione "possibile"
(ossia integrale e leggibile), e per non aver avuto egli stesso l'opportunità
di propiziarne l'avvento. Rimpianto ingeneratosi probabilmente sul ricordo
di qualche personale assaggio di sporadici passi dell'opera. Così,
di anno in anno, egli instillò in me la curiosità, e quasi - tanto per
esprimermi in carattere - mi diede lo sprone, di tentare il cimento di
una presa di contatto… ravvicinata. Da allora, per
un arco di anni davvero spropositato (ove lo si commisurasse meccanicamente
alla consistenza materiale dell'opera, e non - per esempio - alle svariatissime
e disparate problematiche alle quali sono connessi le sue origini ed i
suoi effettivi contenuti; alle difficoltà linguistiche e di decifrazione
dei codici per frequenti tratti quasi insormontabili per un non- specialista
di quel particolare campo di applicazione; ai tempi quasi obbligati di
assuefazione e di maturazione che essa imponeva; ai protratti "sconfinamenti"
in territori di ricerca a me estranei quali la storia della Medicina e
della Veterinaria - anche della Mascalcia, specialmente di quelle di matrice
bizantina, che al tempo dell'Alberti erano ancora il nucleo portante delle
cognizioni e delle tecniche in atto -, o quali gli strumenti e le metodologie
propri della filologia classica e umanistica e della paleografia, indispensabili
per la corretta utilizzazione delle trascrizioni coeve nonché delle due
edizioni succedutesi a quelle con amplissimi intervalli di tempo, come
vedremo; ai diffusi equivoci - e tenaci - di cui è stata oggetto questa
smilza ma difficile esercitazione albertiana nella sporadica ed evasiva
bibliografia che la riguarda; almeno fino all'avvento della ricca fioritura
di contributi specifici dedicati all'Alberti, nei vari aspetti della sua
figura e della sua operosità, provocata dalla ricorrenza del quinto centenario
della morte di questo poliedrico personaggio del nostro Quattrocento,
nel 1972, e dintorni; oltre - com'è ovvio, naturalmente, in un caso di
ricerca in certo senso così "anomalo" per me - all'inframmezzarsi
e alle inelusibili pressioni, durante il mio impegno ad esso dedicato,
di altri compiti più pertinenti), questo testo è stato da me reiteratamente
"attaccato", abbandonato e ripreso, a volta a volta, con curiosità,
con interesse, con pena, con affezione, o "sospeso" con insofferenza,
e però mai dimenticato, divenendo una specie di Leitmotiv, di contrappunto
di ogni altra mia attività: un sottofondo persistente, solo affettatamente
ignorato in certi periodi, ma ormai profondamente radicato nella mia coscienza
di studioso insieme alla tacita convinzione che prima o poi avrei mandato
ad effetto il mio proposito. Quando
ormai, collazionati i manoscritti e le trascrizioni stampate grazie ad
un piccolo finanziamento del C.N.R., mi ero reso edotto compiutamente
ed esaurientemente dell'effettivo contenuto dell'opera, del tutto estraneo
alla trattatistica figurativa, mi feci anche la convinzione che questa
constatazione non vanificava una sua edizione critica[4],
ma anzi la rendeva tanto più opportuna quanto più risultava necessaria
la dimostrazione palpabile ed esauriente di ciò che questo piccolo trattato
veramente è; e che ormai era possibile offrirla compiutamente, dal momento
che era stato eseguito ciò che nessuno in Italia o altrove aveva fatto
prima: la sua sistemazione integrale, con il problematico testo latino
adesso emendato e leggibile, e con la versione a fronte in una lingua
moderna. Il che - sia pure per esclusione - mi pare costituisca ugualmente
un valido contributo alla "letteratura artistica",… almeno quanto
lo erano per i neoplatonici - ai fini della esistenza e della percezione
di Dio - le dimostrazioni della "teologia negativa". Del
resto, all'interesse specialistico di partenza si erano intrecciate altre
motivazioni personali, diciamo pure "d'affezione": per esempio,
l'aver io militato a Firenze sotto le nobilissime insegne del Secondo
Reggimento di Cavalleria, «venustus et audax», il reggimento un tempo
detto «della Regina», quel «Piemonte Reale Cavalleria» che all'epoca della
mia appartenenza - parecchi anni già dopo l'avvento della Repubblica -,
i "vecchi" del Circolo Ufficiali ancora raccomandavano di chiamare
«Piemonte, punto e basta».
E inoltre, commisti ai vecchi ricordi ed
al mio persistente interesse per i cavalli, da una parte il sentimento
di aver ormai contratto "un debito" col vecchio professor Mariani,
sotto questo profilo; dall'altra anche una considerazione professionale
per il patrocinio accordato a suo tempo dal C.N.R., che, sebbene fosse
stato onorato esaurientemente - entro i limiti imposti alla ricerca -
alla scadenza del contratto con la relazione scientifica del lavoro svolto,
come richiesto, ugualmente mi pareva comportasse in qualche modo per me
anche la presa di coscienza dell'impegno morale di fornire pure un frutto
pubblicamente tangibile della ricerca esperita.
I MANOSCRITTI E LE EDIZIONI Lo
stato dell'opera (in senso filologico) quando, dopo una prima lettura
del testo (nell'edizione fornita da Girolamo Mancini della quale darò
conto diffusamente più avanti), mi accinsi alla collazione di tutte le
stesure di esso, era il seguente (e non mi risulta che sia mutato nel
frattempo): non esisteva un manoscritto autografo dell'Alberti. Esistevano
invece due codici trascritti e due edizioni a stampa; tutti in lingua
latina. Non esisteva né una edizione critica di essa, né una sua traduzione
in una lingua moderna. Dei
manoscritti, uno è conservato nella Biblioteca Vaticana ove fa parte di
un fondo definito «Ottoboniano» e, nell'ambito di questo, di un codice
cartaceo contenente opere di vari autori. Dell'Alberti, quest'ultimo reca
solo il presente breve trattato sul cavallo: la stesura fu eseguita -
«rapidamente», come il copista stesso dichiara, ma evidentemente anche
in una condizione di quasi totale ignoranza della lingua latina (…e questo
non vi è precisato) - da un certo Giovanni Odone Covato il 7 marzo del
1468. Il secondo manoscritto
fa parte di un esteso codice della Bodleian Library di Oxford (che l'acquistò
nel 1817). Precedentemente aveva fatto parte della ricca collezione dell'ex
gesuita Matteo Luigi Canonici, e perciò gli studiosi lo indicano convenzionalmente
come «codice Canoniciano». Esso contiene - oltre al «De equo animante»
- parecchi altri scritti di Leon Battista Alberti e pare fosse stato redatto
a Bologna; è contrassegnato da un titolo («Opuscula Leonis Baptistae Alberti»[5])
e da una data posta dopo il primo gruppo di trascrizioni - che si conclude
con il testo dell'intercenale «Anuli» - (le altre infatti pare siano state
eseguite da "una mano" diversa): 30 luglio 1487[6]. Non
sono in grado di dire se tale data sia attendibile, e nemmeno ho elementi
per pensare che non lo sia, specie considerando il fatto che tutti gli
studiosi albertiani la accolgono tranquillamente per buona. Certo è che
ad una impressione visiva immediata (confortata anche dal parere di qualche
specialista di paleografia e diplomatica da me consultato) la stesura
ora in Oxford sembra più antica di quella del Covato. Ma i filologi mi
dicono che si tratta di una impressione esteriore da attribuire solo ad
una differenza di stile grafico dovuta sia al diverso livello culturale
dei due amanuensi, sia al fatto che probabilmente la raccolta bolognese
voleva avere un carattere di definitività. Così l'ha definito anche il
Grayson, secondo il quale questa silloge che «ha tutta l'aria di una raccolta
postuma, di una bella copia tirata da un corpus ormai definitivo di opuscoli
dell'Alberti» fa «pensare, se non alla preparazione di una eventuale edizione
a stampa, almeno ad un opera omnia desiderato da qualche parente, amico
o ammiratore dell'Alberti[7]»…
«licet non satis accurate […] exaratum» potremmo soggiungere con Iacopo
Morelli[8],
ove dallo stile grafico si passi a considerarne i contenuti, anche qui
non esenti qua e là da quelle che Rosario Contarino definisce «sviste
oppure omissioni del copista»[9].
L'editio
princeps fu eseguita da Michele Martino Stella, in Basilea, l'anno 1556.
Tale libro è - nel suo assetto originario - quasi introvabile (e il quasi
ha valore meramente cautelativo). Ho avuto notizia di tre esemplari di
esso: uno della Biblioteca Nazionale di Parigi, uno di Montecassino, uno
della Biblioteca Universitaria di Basilea. Il
primo, censito nei correnti repertori internazionali delle biblioteche
pubbliche, è risultato all'epoca inusufruibile per il suo cattivo stato
di conservazione (o per altri motivi; comunque, inottenibile). Il secondo
è menzionato da Girolamo Mancini (nella seconda edizione a stampa del
trattatello albertiano, di cui dirò più avanti), il quale però soggiunse
che glie ne era stato «mostrato humaniter» un «campione manoscritto» dal
monaco Ambrogio Amelli. Come
si vede, la cosa è alquanto ambigua. Non si comprende se il Mancini abbia
effettivamente visto con i propri occhi l'esemplare della edizione basilese
- della quale poi gli sia stata fornita dall'Amelli una copia scritta
a mano (in quell'«humaniter» sembra di cogliere una voluta e sottaciuta
critica ad altre persone di quel convento: per certe faccende i tempi
sono sempre uguali[10])
-, o se egli abbia potuto vedere soltanto una trascrizione a mano di proprietà
dell'Amelli o da questi eseguita - o fatta eseguire - apposta per lui
(ipotesi secondo la quale il citato avverbio assumerebbe un valore ancora
più forte). Quel che è certo è che tale esemplare non esiste (o non è
mai esistito, o non esiste più) a Montecassino. Io
quindi ho lavorato sull'esemplare custodito a Basilea, del quale… humaniter
mi aveva dichiarato l'esistenza e la disponibilità il personale di quella
Biblioteca Universitaria. Tale
copia presenta due particolarità. La prima di esse è che il libro è carente
della copertina originaria, essendo stato rilegato, secondo l'uso frequente
(quanto esteticamente e scientificamente infausto) nelle grandi biblioteche
pubbliche, cucito insieme ad altre due brevi opere di pari formato. Nel
complesso quindi il volume (che reca la segnatura «Catalog C. C. VIII.
37.» si presenta come una miscellanea di tre (compreso il «De equo») cinquecentine. Preciso
per utilità o curiosità del lettore che le altre due sono: un'antologia
- della cui intestazione rimane solo la dedica - di componimenti latini
in versi, di autori di varie epoche, i quali presentano fra loro il nesso
contenutistico costituito dal comune riferimento agli animali, alla caccia,
o a temi di carattere bucolico, curata da GEORGIUS LOGUS SILESIUS S.P.D.,
apud Seb. Gryphium, Lugduni 1537; e un Cynosophion seu de cura canum liber,
PHAEMONIS ueteris Philosophi, interprete ANDREA AURIFABRO Vratislauiense,
Medico, apud Johannem Lufft, Vitenbergae s. d. (ma 1545).
La seconda particolarità
potrebbe assumere un interessante significato per il fatto di essere proprio
la copia conservata nella città ove il libro fu stampato: essa infatti
reca sulle sue pagine parecchie correzioni eseguite a penna. Su questa
circostanza tornerò più avanti. La
seconda edizione del trattato è compresa nel volume LEONIS BAPTISTAE ALBERTI,
Opera inedita et pauca separatim impressa, HIERONYMO MANCINI curante,
J. C. Sansoni, Florentiae 1890, anch'esso discretamente raro. Cinque elementi
di collazione, dunque, anche se di differente natura ed attendibilità,
tutti da me direttamente e minutamente esaminati. IL PROBLEMA DELLE "PARENTELE" Fatto
il necessario e inevitabile avvertimento che "non è mio ufficio"
(né mio precipuo interesse culturale) affrontare una procedura del genere
di quelle che un filologo delle letterature antiche auspicherebbe applicate
nella misura più rigorosa (anche quando - e quanto - questa renda omaggio
a normative di esposizione conformi ad una consuetudine di casta più che
determinanti ai fini dell'indagine da condurre); e che fornisco le seguenti
indicazioni solo per il desiderio di risultare quant'è possibile esauriente
ed esplicito a conforto dei lettori; cercherò di fornire ugualmente tutti
gli elementi sostanziali atti, se non a dirimere (cosa che credo obiettivamente
impossibile) la questione, almeno a porre nel giusto rapporto i termini
reali di essa[11]. Sul
codice Ottoboniano (di cui a pag. 4* [cfr. I manoscritti e le edizioni])
c'è da osservare ben poco tranne la qualità evidentemente incolta ed ingenua
del copista. Più importante è avvertire sùbito che esso reca (oltre a
molte diversità - che qui segnalerò tutte puntualmente ai loro luoghi
-) a volte qualcosa di più e a volte qualcosa di meno rispetto al codice
di Oxford. Il
codice di provenienza bolognese (di cui a pag. 4 [cfr. I manoscritti e
le edizioni]), custodito alla «Bodleiana» di Oxford, è risultato prezioso
per chiarire alcuni problemi sia di lezione che di integrità del testo
i quali sulla base delle altre redazioni sarebbero rimasti - malgrado
ogni sforzo interpretativo e la consultazione di qualche collega dalla
indiscutibile competenza specifica - irrimediabilmente insoluti. Alcune
differenze testuali in esso riscontrabili (che segnalerò ai loro luoghi)
si sono rilevate decisive ai fini della leggibilità dello scritto. Ciò
esclude automaticamente che i due codici possano derivare l'uno dall'altro.
In un caso del genere, infatti, se, in particolare, dei due manoscriti,
quello di data posteriore reca lacune rispetto al più antico, si può pensare
ad una distrazione del copista; ma, se - viceversa - è il più recente
a recare elementi non riscontrabili nell'altro, ciò può solo significare
che esso non deriva da quello, ma da un terzo modello non pervenutoci
o che ancora non conosciamo. Orbene, dalla collazione che presento qui
di seguito emergono entrambe queste circostanze, ed altre combinazioni
ancora, sicché di volta in volta disparate e talvolta contraddittorie
ipotesi sembrano essere rispettivamente quella giusta. Pur
tuttavia, l'impressione complessiva è alla fine che entrambi i codici,
nonché la terza (ipotetica) redazione della quale, come vedremo chiaramente,
sembra essere portatore lo Stella, derivino (ciascuno con sviste e lacune
sue proprie) da un modello comune; che non siano, cioè, - come dicono
gli specialisti - "di famiglie diverse". Ma è, ovviamente, un
interrogativo di difficile soluzione, quando - come in questo caso - manchino
i prototipi o almeno dei parametri attendibili cui far riferimento e ci
si propone invece una alternativa fra due sole varianti ed entrambe di
seconda mano. Circa
le origini - ignote, che io sappia per altri versi - della redazione a
stampa edita a Basilea, si può intuire qualcosa dalla prefazione stessa,
composta dallo Stella sotto forma di dedica a due suoi amici, come vedremo.
Tale pubblicazione, se a rigor di termini filologici non dovrebbe trovare
spazio in un prospetto del genere, essendo a prima vista non un "testimone",
ma una trascizione a stampa e di oltre un secolo posteriore alla presumibile
data di nascita del trattato, ad un esame più approfondito si qualifica
concretamente come elemento "attivo" del confronto fra le diverse
lezioni. Essa infatti, intanto, non è in tutto e per tutto conforme né
all'uno, né all'altro manoscritto. Oltre a ciò, nei luoghi rivelantisi
come oggetti di discussione, coincide pressoché nella totalità dei casi
con la lezione del codice Ottoboniano, e quasi mai con l'altro. Nei luoghi
nei quali è conforme alla lezione del codice ossoniense la circostanza
è quasi sempre insignificante, perché in realtà è quest'ultimo che risulta
coincidente con quello vaticano in qualche situazione molto particolare,
come si vedrà. Soltanto pochissime volte insomma si riscontra lo Stella
coincidente con il Canoniciano senza che lo sia anche l'altro codice.
Oltre tutto, sia detto per incidens, tale circostanza non è certo un vantaggio
dal punto di vista della correttezza linguistica, perché anche questo
Stella non doveva essere un cultore di buon latino a giudicare dalla qualità
della prefazione da lui scritta - di problematicissima interpretazione
- che riporto più giù. C'è
poi l'altra alternativa a queste varianti, ed è quella, già accennata,
dei casi nei quali il testo dell'editio princeps differisce sia dall'uno
che dall'altro manoscritto, e quindi appare chiaramente come portatore
di una terza lezione rispetto ai due codici noti. Ma c'è dell'altro. Le
correzioni manoscritte a penna che appaiono qua e là lungo i margini della
copia dell'edizione dello Stella conservata a Basilea, che ho già messo
in evidenza a pag. 7 [cfr. I manoscritti e le edizioni], infatti, al contrario
che la redazione stampata sono sempre conformi alle lezioni del codice
Canoniciano. Esse risultano certamente coeve (o di non molto discoste
sul piano cronologico), ed indicherò il loro ignoto autore convenzionalmente
con l'appellativo di «Chiosatore di Basilea». Dalla curiosa circostanza
che proprio la copia del libro conservata nella stessa città di Basilea
rechi quelle correzioni, ed il costante orientamento col quale la lezione
del tipografo o è conforme all'Ottoboniano o sta per proprio conto, mentre
quella del Chiosatore sta sempre col Canoniciano, si ingenera spontanea
l'ipotesi che il "mio" Chiosatore di Basilea non sia altri che
lo Stella medesimo (o persona vicina a lui) che qualche tempo dopo il
1556 abbia riguardato il testo avendo in animo la realizzazione di una
ristampa "riveduta e corretta" e magari disponendo di un'altra
trascrizione del testo (e sarebbe la quarta, visto che quella usata nel
1556 già non era identica a quella dei due codici che conosciamo) diversa
da quella usata per la prima (e poi rimasta unica) edizione. Ma di ciò
faccio appello agli specialisti. Ancora
peggiore è la qualità della redazione manciniana, e non per colpa del
degnissimo studioso: i sistemi di lavoro dei quali disponeva certo non
avevano il rigore metodologico e la scientificità di mezzi di quelli dell'odierna
filologia, ma soprattutto ha molto peso la circostanza che egli ha eseguito
la sua collazione non avendo sott'occhio nella sua reale concretezza nessuna
delle trascrizioni alle quali faceva riferimento. Se infatti egli affermò
altrove di conoscere (ma attraverso copia eseguita, ovviamente, a mano,
come rivendica esplicitamente[12])
il codice di Oxford (allo stesso modo degli altri), risulta peraltro indubitabile
che non disponeva di tale trascrizione al momento nel quale si dedicava
alla edizione di brevi scritti latini dell'Alberti. Del
resto, egli stesso nella nota tecnica relativa al «De equo animante»,
che riporterò testualmente a suo luogo, cita come sue fonti solo il codice
Ottoboniano e l'edizione di Basilea. Aggiungasi peraltro che, come abbiamo
visto per l'editio princeps, e come apparirà chiaramente nei luoghi che
segnalerò di volta in volta, anche i codici egli poteva studiare, come
è chiaramente affermato nei passi or ora citati, solo in (ulteriori) copie
manoscritte, con quel che è facile intuire. Diverse volte perciò, non
avendo alcuna possibilità reale di controllo, e preoccupato per la comprensibilità
del testo egli (forse supponendo inesattezze di chi gli aveva procurato
le copie) interviene - come farò notare - con varianti suggerite da sue
congetture[13]. Mi pare evidente
che in queste condizioni è impossibile seguire il principio canonico di
operare una scelta definitiva ed attenersi invariabilmente ad un solo
modello. Non esistendo una stesura di superiore attendibilità, non potrebbe
essere che una scelta cervellotica e priva di un fondamento scientifico
e costante. Perché
incaponirsi a voler seguire una lezione incomprensibile (la lectio difficilior)
del passo quando (ma in quel determinato caso!) il testimone alternativo
ne offre una più piana dal punto di vista lessicale, grammaticale e sintattico;
più logica da quello concettuale; e in definitiva più traducibile in un
buon italiano (almeno, sempre che il vero scopo di un lavoro del genere
non sia una mera esercitazione accademica - gradibile da un certo clan
di iniziati -, ma il recupero soprattutto del senso culturale di un testo
tuttora non ancora acquisito agli studi nella completezza del suo svolgimento)? Meglio
mi pare operare di volta in volta una critica serrata dei luoghi discordanti
(dandone conto con la massima puntualità e limpidezza di metodo - anche
se giustifiche di tal fatta mi dicono che non rientrino nel costume dei
filologi autorevoli -), assumendosi la responsabilità di una ricostruzione
dello scritto quanto più convincente in relazione al contesto e al suo
autore e quanto più atta a dar luogo ad una lettura italiana rigorosa
e aderente all'originale, ma scorrevole e coerente (certo non più di quanto
lo sia l'autore stesso!). E
quando ciò risultasse proprio impossibile, commentare opportunamente la
traduzione proposta, esponendo esplicitamente i termini e le difficoltà
del problema[14]. Passo
quindi qui di seguito ad elencare - attingendo dalla collazione condotta
dettagliatamente in calce alle pagine del testo latino - alcuni casi particolarmente
significativi (raggruppandoli per specie) dei vari modi nei quali si configura
il reciproco rapporto dei due manoscritti del Vaticano e di Oxford fra
di loro, e della stesura stampata dallo Stella (e con questa delle correzioni
del suo chiosatore di Basilea) con ciascuno di essi. Sono luoghi[15]
nei quali: -
i due codici danno lezioni diverse e lo Stella appare conforme
all'Ottoboniano = 84, 4 [18]; 88, 10 [46]; 90, 4 [52]; 172, 11 [635]; -
i due manoscritti danno lezioni diverse; lo Stella è conforme al
Canoniciano 86, 11 [31]; 86, 14 [35]; 132, 4 [364]; 174, 10 [645]; -
i due codici danno lezioni diverse e lo Stella appare conforme
all'Ottoboniano, ma il Chiosatore di Basilea interviene con una lezione
che è conforme a quella del Canoniciano = 102, 10 [141]; 102, 14 [145];
152, 3 [506]; -
i due manoscritti danno lezioni diverse; lo Stella è uguale all'Ottoboniano;
il Chiosatore è diverso da entrambi = 84, 2 [16]; -
i due manoscritti e l'edizione danno tre lezioni differenti = 142,
4 [436]; 168, 8 [612]; 174, 1 [636]; 180, 5 [679]; 180, 6 [680]; -
i due manoscritti danno la stessa lezione, lo Stella è diverso
= 100, 8 [110]; 138, 14 [420]; -
i due manoscritti danno la stessa lezione, lo Stella è diverso,
il Chiosatore a sua volta diverso = 82, 6 [9]; -
le tre stesure risultano tutte conformi essendo stato corretto
l'Ottoboniano = 162, 5 [575]; -
coincidenza di tutte le stesure nel dare una lezione molto inconsueta
o "impossibile" = 126, 4 [332]; 140, 1 [424]; -
caso uguale al precedente, ma con la correzione del Chiosatore
= 118, 7 [272]. Un
prospetto ancora più schematico del reciproco configurarsi dei due manoscritti
fra loro, e della posizione dello Stella, ora conforme ad uno solo di
essi, ed ora diverso da entrambi, e quindi portatore indubbiamente di
una terza lezione, si può dare a proposito della non riscontrabilità in
una delle stesure di una o più parole o di un passo, che mi pare l'elemento
di più immediata rilevanza e significato[16]:
GLI ESTENSORI E GLI ALTRI CONNESSI Su
Giovanni Odone Covato, estensore della trascrizione compresa nel codice
Ottoboniano, nulla risulta. Deve trattarsi evidentemente di un semplice
copista il quale, secondo un uso sempre non infrequente, avrà voluto…
consacrarsi all'immortalità soltanto per questo[17].
E ciò a partire dalla data della trascrizione: 7 marzo 1468. Null'altro all'in
fuori della data della sua fatica (30 luglio 1487) posso dire intorno
all'ignoto «Amanuense bolognese» estensore della prima parte della sìlloge
albertiana del codice Canoniciano ora in Oxford. Matteo
Luigi Canonici (Venezia 1727 - Treviso 1805) fu gesuita, insegnante di
grammatica a Ferrara, quindi di retorica a Parma, ove fu anche bibliotecario.
Raccolse manoscritti ed opere a stampa, alcune delle quali provenienti
dalla biblioteca veneziana di casa Soranzo. Le sue preziose collezioni
passarono poi in parte alla «Marciana» nel 1779. Un altro fondo, dopo
la sua morte, fu venduto dagli eredi alla «Bodleiana» di Oxford, nel 1817.
Altre cose ancora andarono disperse. Al British Museum si conserva di
lui un copioso carteggio. Iacopo
Morelli (Venezia 1745 - 1819), sacerdote, fu erudito e bibliotecario.
Dal 1778 lavorò alla «Marciana». Autore di numerosi saggi e di opere erudite,
letterarie e bibliografiche, lasciò i suoi manoscritti alla suddetta Biblioteca,
della quale aveva descritto i codici ed ove è custodita anche una parte
del suo archivio. Nulla
ho trovato intorno a Michele Martino Stella, editore dell'opuscolo di
Basilea. Ma dal tono e da certe allusioni della lettera dedicatoria da
lui premessa al testo della piccola opera albertiana sembra - se ho ben
compreso - potersi intuire che si tratti di un italiano rifugiatosi in
Svizzera. Che possa (e la scelta di quel Paese per il proprio esilio potrebbe
risultare particolarmente significativa in tal senso) trattarsi di una
vicenda collegata all'incipiente "caccia alle streghe" di marca
controriformista? Nulla però a tal
riguardo emerge a proposito dei due amici destinatari della sua dedica,
i cui nomi si rivelano l'uno non del tutto oscuro, e l'altro addirittura
abbastanza prestigioso. Di
Niccolò Stopio infatti so soltanto (sempre che si tratti della stessa
persona) che esistono due stampe della carta geografica del continente
africano da lui disegnate, incise e pubblicate da Paolo Forlani a Venezia
nel 1566, dunque esattamente dieci anni dopo la prima composizione a stampa
del «De equo animante». Esse si trovano riprodotte nell'Enciclopedia Italiana[18]. Arnoldo
Arlenio, fiammingo, nativo della Campine (Brabante Settentrionale), aprì
a Firenze con Lorenzo Torrentino la nuova tipografia ducale, nel 1547,
dalla quale uscirono eleganti edizioni di classici. Col Torrentino fondò
poi (e diresse insieme al figlio di lui, Leonardo), fra il 1564 e il 1572,
un'altra tipografia a Mondovì, per incarico di Emanuele Filiberto di Savoia. L'Arlenio
e il Torrentino nei sedici anni di attività toscana riportarono ad un
livello dignitoso l'arte tipografica fiorentina, che era molto decaduta
intorno alla metà del Cinquecento. L'«officina torrentiniana» esercitò
anzi nei riguardi di quella famosissima dei Giunti, allora in crisi, una
concorrenza che la stimolò ad una buona ripresa della sua attività. Ma
la cosa più interessante ai nostri fini che si possa notare a proposito
di questi due è che Iacopo Morelli scrive[19]
con riferimento alla dedica ad essi rivolta premessa dallo Stella alla
sua edizione: «…quorum opera libellus fuit inventus». Una tale affermazione
così secca e precisa, non fatta in termini di ipotesi o di problematicità,
non passa senza che ne sorga un importante interrogativo: con la parola
«libellus» intende riferirsi al solo «De equo animante» - come sembrerebbe
chiaramente - o ad un codice più ampio, comprensivo di altri scritti (visto
che il suo articolo appare incentrato proprio sul codice poi passato ad
Oxford)? Sappiamo però che egli trae la notizia relativa ai due grafici
amici dello Stella dal testo stesso della dedica da lui rivolta ad essi
(che riporterò più avanti). Quindi il mio interrogativo può esser facilmente
trasferito dalla persona del Morelli a quella dello Stella. E se la parola
«libellus» - come parrebbe evidente da tutto il contesto della citata
prefazione - fosse da riferire al solo opuscolo ippologico, essa vale
come dimostrazione della mia ipotesi (ma penso che si potrebbe parlare
con sicurezza di constatazione sulla base della collazione eseguita) che
lo Stella abbia fondato la sua trascrizione su un terzo archetipo, differente
da quelli che oggi conosciamo, fornitogli appunto, come ha dichiarato
egli stesso, dallo Stopio e dall'Arlenio. Su
colui che convenzionalmente ho chiamato Chiosatore di Basilea nulla posso
aggiungere a quanto già scritto a pag. 9 [cfr. Il problema delle parentele"].
Salvo a ribadire che a mio parere potrebbe trattarsi dello stesso Michele
Martino Stella, "curatore" e tipografo della editio princeps. Girolamo
Mancini (Cortona 1832 - Firenze 1924) fu erudito, uomo politico (deputato per
il collegio di Cortona durante la nona e la decima legislatura), patriota
combattente partecipò nel 1860 alla campagna per l'annessione dell'Umbria
al costituendo Regno d'Italia, e nel '66 militò sotto le insegne di Garibaldi[20]. Libero da preoccupazioni
di tipo economico, scrisse una biografia di Lorenzo Valla[21]
e qualche contributo relativo alla cultura cortonese. Ma l'impegno precipuo
e costante della sua vita furono gli studi albertiani, condotti dall'età
giovanile fino ai suoi tardi anni, e che si concretarono, oltre che in
una prima monografia[22], nelle due opere più ampie
e complesse che ho già citate compiutamente; a proposito della seconda
delle quali, data alle stampe quasi al compimento degli ottanta anni di
età, riesce davvero toccante il periodo conclusivo della sua prefazione[23],
ove scrive: «Pur
troppo sarò caduto in sviste, ripetizioni ed errori. Vengano condonati
al vecchio studioso che il 30 novembre prossimo entrerà nell'ottantesimo
anno. Ho finqui sopportato discretamente il peso dell'età, per quanto
senta infiacchita la memoria, e sia disturbato da debolezze e doglie.
Il lettore non sia troppo rigoroso con le deficienze che dovrà lamentare. Cortona,
25 luglio 1911.»
GLI STRUMENTI Non
trattandosi di una monografia sistematica, non mi sento obbligato a metter
su uno di quegli interminabili repertori che molto spesso derivano dal…
lavoro altrui, e talvolta anche senza diretti controlli. È mio costume
citare solo (ma anche tutto[24])
ciò che riscontro in qualche modo funzionale al mio lavoro per precisi
riferimenti. Per il resto, io rifuggo da certe "citazioni d'obbligo"
fatte (anche quando non c'entrano nulla col mio discorso in quella determinata
sede) solo in ossequio - anche… cautelativo - a questo o a quel personaggio
"di rispetto", per un atteggiamento di sudditanza talvolta nemmeno
richiesta, ma non per questo meno obbligante in certo costume italiano
che la dà per scontata[25].
Lascio tranquillamente ad altri questa sorta di spocchioso conformismo,
che riesce ad essere opportunamente ossequente ad un tempo e sussiegoso. Per
quanto attiene agli elementi della collazione, i relativi dati schematici
sono: -
Codice Romano della Biblioteca Vaticana n. 70 Ottoboniano, da fº 122 r.
a fº 135 v.[26]; -
Codice Canoniciano misc. 172 della «Bodleian Library» di Oxford, cc. da
20 v. a 28 v.[27]; -
Editio princeps: LEONIS BAPTISTAE ALBERTI, De equo animante […] libellus,
Michaelis Martini Stellae cura […] editus, Basileae 1556. L'esemplare
di questa custodito a Basilea[28]
reca -
alcune chiose manoscritte a penna. L'edizione
curata da Girolamo Mancini sta in -
LEONIS BAPTISTAE ALBERTI, Opera inedita et pauca separatim impressa, HIERONYMO
MANCINI curante, J. C. Sansoni, Florentiae 1890, pagg. 238-256. Per quello che
era, ovviamente, l'impegno basilare, ossia la traduzione del testo dal
latino umanistico, oltre ai migliori vocabolari correnti delle lingue
greca antica, latina e italiana (che citerò all'occorrenza), ho consultato: -
Thesaurus linguae latinae etc., in aedibus B. G. Teubneri, Lipsiae MDCCCCVII; - ALFRED ERNOUT et ANTOINE MEILLET, Dictionnaire
étymologique de la langue latine - Histoire des mots, «Librairie C. Klincksieck»,
Paris 1959 e -
Lexicon totius latinitatis, ab AEGIDIO FORCELLINI etc., curante JOSEPHO
PERIN, Gregoriana edente, Patavii MDCCCCLXV. Malgrado
ciò, problematica è rimasta la decifrazione di alcuni termini forse di
gergo che con tutta probabilità l'Alberti aveva attinto dagli ippologi
che egli stesso cita[29],
quali «cascaliones», «columellares» e «pulvillos» che commenterò uno per
uno ai loro luoghi e per i quali ho dovuto rassegnarmi ad intuire un possibile
significato giovandomi solamente del contesto stesso; o sporadici come
la forma «collitescentibus». Altre notazioni saranno richieste da casi
di palese preferenza per "citazioni" antichizzanti piuttosto
che del tardo latino come «ipsus» per «ipse» e qualche altro. E in tal
senso, anzi, quasi di nessuna utilità mi è stato (salvo che per l'etimologia
di «columellares») -
CHARLES DU FRESNE sieur DU CANGE, Glossarium mediae et infimae latinitatis
etc. etc., 10 voll. s.d. (ma 1883-1887), editio nova etc. a LEOPOLD, FAVRE
ediz. anastatica da Akademische Druck - U. Verlagsanstalt, Graz 1954. Evidentemente
le forti difficoltà interpretative che si incontrano talvolta nel latino
dell'Alberti sono - mi pare - di natura affatto diversa da quelle che
potrebbero eventualmente nascere dall'adozione di forme "volgari"
o "tarde", e ciò ben si accorda con i tratti della sua natura
fortemente "aristocratica". Si tratta invece quasi sempre di
questioni di sintassi (lontana da quella "canonica") e di uno
stile abbastanza "disinvolto" dalle norme di una morfologia
rigorosamente classica. Tali almeno sono state le impressioni da me ricevute
durante lo svolgimento della "versione" di questo piccolo testo.
Ma, naturalmente, sarebbe assurdo voler impostare un discorso del genere
sulla sola base di un siffatto documento. Né io avrei la specifica competenza
e l'"autorità" per affrontarlo[30]. Quanto
alla bibliografia albertiana, a parte quanto ho già espresso in termini
generici in fatto di metodi, mi sembrerebbe davvero fuori luogo impiantare
in questa sede un repertorio sistematico relativo all'Alberti, alla sua
così ricca e molteplice operosità nel suo complesso ed alla quasi sterminata
problematica che essa propone. E del resto sarebbe vana ripetizione: succose
schedature di tal genere esistono già in pubblicazioni di non difficile
reperimento, come: -
Enciclopedia Universale dell'Arte, ed. usata: 16 voll., «Istituto Geografico
De Agostini», Novara 1880-84; vol. I, 1980, ad vocem [31]; -
JOAN GADOL, Leon Battista Alberti, universal man of the early Renaissance,
«The University of Chicago Press», Chicago and London 1969, pagg. 245-258; -
GABRIELE MOROLLI, Saggio di bibliografia albertiana, in Omaggio ad Alberti
della rivista «Studi e documenti di Architettura», num. 1, «Teorema Edizioni»,
Firenze dic. 1972, pagg. 9-56; -
Bibliografia albertiana, in «Bollettino della Biblioteca», num. 2-3, Facoltà
di Architettura dell'Università di Roma, Roma 15 aprile 1973; -
FRANCO BORSI, Leon Battista Alberti, Electa Editrice, Milano 1975, pagg.
378-388; -
ROSARIO CONTARINO nel commento a LEON BATTISTA ALBERTI, Apologhi ed elogi,
ed. cit., con indicazioni bibliografiche molto specifiche passim. Per
quanto attiene strettamente a questo lavoro basti qui citare quegli studi
ai quali ho dovuto fare un particolare ricorso per i motivi che in queste
pagine premesse al testo albertiano, o nell'ambito del mio commento, saranno
di volta in volta precisati. (Altri riferimenti di più specifico dettaglio
saranno fatti direttamente ai loro luoghi e all'occorrenza.) Essi sono: -
GIROLAMO MANCINI, Vita di Leon Battista Alberti, ed. cit. -
ADOLFO VENTURI, Un'opera sconosciuta di Leon Battista Alberti, in «L'Arte»,
A. 17, Roma 1914, pagg. 153-156; -
CORRADO RICCI, Leon Battista Alberti architetto, Celanza, Torino 1917; -
ADOLFO VENTURI, Storia dell'Arte italiana, (25 voll. 1901-1940); L'Architettura
del Quattrocento, Parte prima, Hoepli, Milano 1923; - PAUL HENRY MICHEL, Un idéal humain au XV e siècle:
La pensée de L. B. Alberti (1404-1472), «Le Belles Lettres», Paris 1930; -
MARIA LUISA GENGARO, Leon Battista Alberti teorico e architetto del Rinascimento,
Hoepli, Milano s. d. (ma c. 1939); -
MARIA LUISA GENGARO, Umanesimo e Rinascimento (III volume della Storia
dell'Arte classica e italiana, 5 voll., 1926-1956), UTET, Torino 1940; -
LIONELLO VENTURI, Storia della critica d'arte, 1945; ed. usata: a cura
di NELLO PONENTE, Einaudi, Torino 1964; -
GIACOMO PRAMPOLINI, Storia universale della Letteratura (7 voll., 1949-1950),
vol. III, UTET, Torino 1949; -
MARIO PETRINI, L'uomo di Leon Battista Alberti, in «Belfagor», vol. VI,
D'Anna, Messina-Firenze 1951, pagg. 651-677; - VASILIJ ZOUBOV, Léon Battista Alberti et les auteurs
du Moyen Âge, in «Medioeval and Renaissance studies», «The Warburg Institute»,
London 1958, pagg. 246-266; -
BRUNO ZEVI, EUGENIO BATTISTI, EUGENIO GARIN, LUIGI MALLÈ, Leon Battista
Alberti, in Enciclopedia Universale dell'Arte, ed. cit., ad vocem; -
CECIL GRAYSON, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia
italiana, Roma 1960, ad vocem; -
EUGENIO GARIN, La letteratura degli Umanisti, in Il Quattrocento e l'Ariosto
(vol. III della Storia della letteratura italiana in 9 voll., 1965-1969),
Garzanti 1966; -
VINCENZO FONTANA, Artisti e committenti nella Roma del Quattrocento -
Leon Battista Alberti e la sua opera mediatrice, Istituto di Studi Romani
Editore, Roma 1973; -
Convegno internazionale indetto nel V centenario di Leon Battista Alberti,
atti in «Accademia Nazionale dei Lincei», A. CCCLXXI, quaderno num. 209,
Roma 1974; -
FRANCO BORSI, op. cit.; -
GIOVANNI PONTE, Leon Battista Alberti umanista e scrittore, Tilgher, Genova
1981; -
LUIGI MALERBA, Presentazione e ROSARIO CONTARINO, commento a LEON BATTISTA
ALBERTI, Apologhi ecc., ed. cit.[32]. Il
complesso e "sfaccettato" problema dell'adozione da parte dell'Alberti
della lingua latina o di quella volgare nella stesura delle sue trattazioni
tecniche, e quello della versione in italiano dei relativi opuscoli redatti
in latino, investe un vasto e vario corpus bibliografico che può esser
ricostruito compiutamente anche sulla base dei pochi titoli che cito qui
di esempio (oltre a quelli già ricordati a proposito dei caratteri del
latino dell'Alberti a pag. 20, n. 1 [nota 32]): -
LEON BATTISTA ALBERTI, Della pittura, a cura di LUIGI MALLÈ, Sansoni,
Firenze 1950; -
GIORGIO FLACCAVENTO, Per una moderna traduzione del «De statua» di L.
B. Alberti, in «Cronache di Archeologia e di Storia dell'Arte», num. 1,
Catania 1962; -
JULIUS SCHLOSSER MAGNINO, La letteratura artistica, I ed. italiana: 1935;
ed. usata (con aggiornamenti bibliografici di OTTO KURZ): «La nuova Italia»,
Firenze 1964, pagg. 121-128, 155 e 712; -
LEON BATTISTA ALBERTI, De pictura - De statua (On painting - On sculpture)
the latin text edited with translation and notes by CECIL GRAYSON, Phaidon,
London 1972; -
NICOLETTA MARASCHIO, Aspetti del bilinguismo albertiano nel «De pictura»,
in «Rinascimento», serie II, vol. XII dedicato a Leon Battista Alberti
- Studi nel V° Centenario della morte, Sansoni, Firenze 1972; -
LEON BATTISTA ALBERTI, De pictura, in Opere volgari, a cura di CECIL GRAYSON,
Laterza, Bari 1960-1973, vol III, 1973, pagg. 7-110; -
MAURIZIO DARDANO, L. B. Alberti nella storia della lingua italiana, in
«Convegno internazionale indetto ecc.», ed. cit., pagg. 261-272; -
EDOARDO VINEIS, La tradizione grammaticale latina e la grammatica di Leon
Battista Alberti», ibidem; -
GIOVANNI PONTE, op. cit.; -
LEON BATTISTA ALBERTI, De pictura, testo latino con versione italiana
a fronte a cura di CECIL GRAYSON, Laterza, Bari 1980. I movimenti dell'Alberti
al seguito della curia fuggita da Roma, durante lo svolgimento del concilio
di Basilea (e Losanna) che in Italia ebbe le sue legittime sedi a Firenze,
Bologna e Ferrara per concludersi poi a Roma dopo il rientro in sede del
Papa e del suo séguito, hanno comportato un controllo storico e cronologico
per il quale mi son servito di classiche opere specialistiche, ed anche
di qualche schematico, ma non per questo meno valido repertorio cronografico: -
EDWARD GIBBON, The History of the declin and fall of the Roman Empire,
1776-1788; ed. italiana usata: a cura di PIERO ANGARANO e CELSO BALDUCCI,
6 voll., «Newton Compton Italiana», Roma 1973; -
LUDOVICO von PASTOR, Storia dei Papi ecc., 1885; ed. usata: a cura di
CLEMENTE BERRETTI, vol. I, «Tip. Ed. Artigianelli dei figli di Maria»,
Trento 1890; -
DOMENICO FAVA, La Biblioteca Estense nel suo sviluppo storico - Con il
catalogo della mostra permanente, Vincenzi e Cavallotti, Modena 1925; -
AUTORI VARI, Guida d'Italia - Roma e dintorni, T.C.I., Milano 1925; -
ADRIANO CAPPELLI, Cronologia, Cronografia e Calendario perpetuo ecc.;
ed. usata: Hoepli, Milano 1960; -
AGOSTINO SABA e CARLO CASTIGLIONI, Storia dei Papi, 2 voll., s. d. (ma
1936); ed. usata: UTET, Torino s. d. (ma 1957); -
JOHANNES HARTMANN, Cronologia della Storia universale, Sansoni, Firenze
1972; -
AUTORI VARI, Cronologia universale ecc., Rizzoli, Milano 1987. Altrettanto
dicasi per le date in cui vanno collocate le vicende relative al monumento
equestre eretto in onore di Niccolò III a Ferrara, entro le quali va ricondotta
indiscutibilmente anche la data di composizione del trattato, troppo oscillante
e sempre errata anche nella migliore e più recente bibliografia, ove è
frequente il suo riferimento all'occasione della prima andata dell'Alberti
a Ferrara, nel 1438, o a momenti molto vicini alla morte del marchese
Niccolò: 1441 (che è l'anno di essa) o 1442, o anche 1443. Se
è vero infatti che il trattato poco ha a condividere col monumento (al
di là di un fuggevole - e tuttavia puntuale e circostanziato - riferimento
contenuto nel proemio) e che nemmeno può esser incluso fra i "trattati
d'arte" (e tornerò più puntualmente sull'argomento), è anche vero
che sul piano della biografia dell'Alberti (e, ahimè solo su questo[33])
esso nasce in concomitanza (se non con la realizzazione effettiva - 1451
- del monumento equestre ferrarese) giust'appunto con gli svolgimenti
del concorso ufficiale bandito dalla cittadinanza ferrarese per attribuire
l'allogazione della statua bronzea. Concorso il cui espletamento ebbe
la sua conclusione ufficiale il 27 di novembre del 1444. A tal proposito
ci soccorrono fortunatamente alcuni documenti d'epoca estratti dagli archivi
ufficiali ferraresi e opportunamente pubblicati già moltissimo tempo fa,
tanto che stupisce la perdurante incertezza degli autori a riguardo. Le
pubblicazioni che li contengono sono: -
FERRANTIS BORSETTI, Historia almi Ferrariae Gymnasii in duas partes divisa,
pars prima, Pomatelli, Ferrariae 1735; -
LUIGI NAPOLEONE CITTADELLA, Notizie relative a Ferrara per la maggior
parte inedite ecc., Taddei, Ferrara 1864. Di
utile consultazione ho trovato anche: -
ANTONIO FRIZZI, Guida del forestiere per la città di Ferrara, Pomatelli,
Ferrara 1787; la quale contiene una pianta della città eseguita con finezza
e pregevole gusto grafico da Luigi Passega (disegnatore) e Luigi Ughi
(incisore); poi anche i prontuari di cronologia che ho già citati, ed
infine -
AUTORI VARI, Guida d'Italia - Emilia e Romagna, T.C.I., Milano 1957. Quanto
ai contenuti più strettamente tecnici di ippologia e di mascalcia riscontrabili
nel trattato e provenienti direttamente dalla letteratura bizantina sull'argomento,
pur senza propormi e pretendere di entrare in campi estranei ad uno studioso
di Storia dell'Arte (…ancorché un tempo ufficiale di Cavalleria), ho ritenuto
tuttavia imprescindibile fornire quel minimo di delucidazioni che possano
consentire al lettore una fruizione del testo meno laboriosa e problematica
di quanto essa è riuscita per me. A tal fine sono risalito a svariati
testi di tali materie, attingendo sia a quelli più specialistici e di
valore, per così dire, "storico", che a qualche titolo di una
bibliografia relativa al cavallo divulgativa e "lussuosa", ma
non per questo meno documentata, fiorente in questi anni non si comprende
bene se più per un rimpianto di tempi andati o più per una attuale ripresa
di interessi. Cominciando
dai testi più specialistici,… e storici, una documentazione di essenziale
importanza, anche per quanto vi è annesso dal curatore di deduzioni e
di ipotesi scientifiche, è costituita dal volume -
CLAUDII HERMERI, Mulomedicina Chironis, edidit EUGENIUS ODER, in aedibus
G. B. Teubneri, Lipsiae MCMI. Due trattazioni
generali di interesse storico e di profittevole lettura sono: -
ADALBERTO PAZZINI, Storia della medicina, 2 voll., «Società Editrice Libraria»,
Milano 1947; -
VALENTINO CHIODI, Storia della Veterinaria, «Farmitalia», Milano 1957. Ad esse ho affiancato
due prontuari tecnici: -
STATO MAGGIORE REGIO ESERCITO, Nozioni d'Ippologia per i Corsi Allievi
Ufficiali di Complemento, ed. «Le Forze Armate», Roma 194; -
NICOLA CHECCHIA, Il cavallo, Vallardi, Milano 1947. All'altra categoria
a cui ho accennato appartengono: -
LUIGI GIANOLI e UGO BERTI, Quel motore che si chiama cavallo, UNIRE, Milano
1962; -
NEREO LUGLI, Il romanzo del cavallo, Vallecchi, Firenze 1966; -
LUIGI GIANOLI, Il cavallo e l'uomo, Longanesi, Milano 1967; -
HANS HEINRICH ISENBART ed EMIL MARTIN BÜRER, Il regno del cavallo, Mondadori,
Milano 1970; - AUGUSTO AZZAROLI,
Il cavallo nella storia antica, «L. L. Edizioni Equestri», Milano 1975. IL TITOLO E I CONTENUTI Per
la resa italiana del titolo dato dall'Alberti all'opera, ho preferito
- con la locuzione «Il cavallo vivo» - porre l'accento sull'attributo
«animante» - che con la mente a un buon latino convenzionale potrebbe
anche esser ritenuto pleonastico (e perciò non esser tradotto) - proprio
per sottolineare il fatto che il trattatello non pertiene al cavallo in
quanto forma figurativa (potremmo dire… natura morta[34]?),
ma al cavallo proprio in quanto essere vivente, complemento e completamento
dell'uomo, e perciò stesso oggetto delle sue cure. L'Alberti medesimo,
infatti, ci conforta in tal senso nei luoghi del trattato (e non sono
più di sei oltre al titolo[35])
nei quali ha ripreso il vocabolo e il concetto che esso contiene, intendendoli
sempre in un unico senso: quello della vitalità e quasi della personificazione
del cavallo; e specialmente in un bel passo, al principio della terza
parte, sul quale a suo luogo - cfr. ivi la nota num. 6 [80] del testo
italiano - attirerò l'attenzione del lettore. In
altri termini questa "esercitazione" («…mea pro consuetudine
exercendi ingenij…») albertiana, pur avendo preso lo spunto dal concorso
pubblico relativo alla creazione di un monumento equestre, non rispecchia
minimamente i pensieri figurativi dell'Alberti: né quelli relativi alla
scelta di natura critica alla quale era stato delegato a Ferrara (più
avanti esporrò dettagliatamente i fatti connessi a tale circostanza);
né quelli relativi al basamento marmoreo del monumento a Niccolò III che
era stato pregato di disegnare, sempre che corrisponda alla realtà dei
fatti, così come si svolsero, l'attribuzione di tale progettazione all'Alberti
proposta da Adolfo Venturi[36],
più o meno tacitamente accettata dai critici, almeno fino all'uscita della
monografia di Franco Borsi[37],
il quale - mi pare - non se ne mostra molto convinto, almeno per quel
che appare dagli esiti cui è pervenuta, attraverso l'interpretazione di
maestranze retrograde, l'eventuale idea dell'Alberti (certo inusitata
per quei tempi e per quell'ambiente). Il quale, secondo il Venturi, concepì
la piccola costruzione come un adombramento dell'arco di trionfo romano.
(E proprio questa particolare interpretazione tipologica rende scettico
anche me, per i motivi che illustrerò compiutamente a suo luogo.) Tanto
meno ci fornisce qualche indicazione circa la sistemazione della piazza
principale di Ferrara. Pure per essa infatti - certamente per il campanile
- l'ambito ospite dovette fornire ancora qualche idea, anche se molto
problematica è qualsiasi indagine o ideale ricostruzione "stratificata"
dei suoi assetti dopo la secolare serie di catastrofi (specie di natura
bellica) che - fino all'ultimo conflitto mondiale compreso - li hanno
reiteratamente sconvolti, con la distruzione, per esempio, in epoche disparate,
proprio delle statue di Niccolò e di Borso d'Este, come vedremo, e con
quella - molto tempo dopo - del palazzo della Ragione[38]. In
effetti mi pare che il trattatello si inserisca nella tradizione dell'enciclopedismo
medioevale, in particolare della letteratura relativa alla mascalcia,
più di quanto non sia collocabile nella trattatistica rinascimentale. Del
resto anche alcuni fra i più accaniti magnificatori del genio albertiano,
nell'esperire la formulazione di definizioni delle ragioni connaturate
ad esercitazioni come questa, assumono "tonalità" alquanto discordanti
o non del tutto consone; dando rilievo, ora al gusto per l'erudizione
(la quale, poiché in genere si applica sulle fonti storiche, è rivolta
al passato) - come fa un po' aprioristicamente il Grayson nel suo contributo
al convegno dei Lincei[39],
dalla cui posizione non si discosta molto Giovanni Ponte[40]
-; ora a quello di un indagare pieno di curiosità a diretto contatto coi
più umili artigiani e bottegai per le strade di Roma, come fa il Fontana[41]
- che vede tuttavia all'origine degli scritti dell'Alberti l'«incontro
di una vasta erudizione con una esperienza pratica […] varia e acutamente
interpretata»; laddove per il Borsi[42],
infine, «l'Alberti rifiuta un atteggiamento puramente estetico, un giudizio
di "gusto", ma ricerca sul piano di una conoscenza scientifica
dell'argomento la definizione di tipologie ottimali, di scelte precise». Operando
però una lettura completa e approfondita del «De equo animante» (almeno
nelle condizioni testuali nelle quali ci è pervenuto), non si può che
rimanere perplessi di fronte a tutte queste affermazioni: l'esposizione
vi è non molto accurata, non sempre rigorosamente coerente, priva di apporti
personali (poiché le cose che dice sono più o meno scontate rispetto ad
una disciplina dalle tradizioni addirittura millenarie, nell'ambito della
quale certamente non poteva aggiungere o togliere nulla - il discorso
procede infatti tra reiterati «statuunt», «comprobant», «affirmant»… -),
non limpida nella indicazione delle proprie fonti (che in realtà nella
fattispecie sono da restringere molto probabilmente, nei tratti essenziali,
al solo manuale di Giordano Ruffo, o quasi) e non può non ingenerare -
specialmente in relazione all'occasione ed al prìncipe, cui era indirizzata
- una invincibile sensazione di gratuità. Soprattutto colpisce piuttosto
fastidiosamente il precettismo delle ultime due parti - in special modo
della quarta - tanto velleitario quanto pomposo (forse volutamente, per
amor di paradosso?). In
realtà - specialmente nell'àmbito della medicina, e della medicina veterinaria
(e segnatamente dell'ippologia) - nel secolo Quindicesimo non si registrano
progressi, e sono comunemente accettati i principi della scienza di marca
aristotelica, sia essa di tradizione bizantina o araba; o anche, verso
la fine del secolo, alessandrista; quando non si faccia ricorso a precetti
di natura magica, alchemica o esoterica, che in un àmbito più ampio e
di principi generali si andranno contaminando con le insorgenti motivazioni
neoplatoniche. Per
quanto attiene alla fattispecie, dopo le grandi affermazioni dei tempi
di Federico II e di Carlo d'Angiò o di poco posteriori (Pier de' Crescenzi,
Risio, Ruffo e il poco noto Bonifacio Calabro), bisognerà attendere per
qualcosa di valido fino al 1598, quando il libro «Dell'anatomia e delle
infermitadi del cavallo» del bolognese Carlo Ruini (1530 ca.-1598) si
avvierà verso quella grande fortuna che l'ha fatto ritenere il primo trattato
moderno di Veterinaria. Evidentemente
le energie innovatrici del secolo erano state tutte asservite alle esigenze
filologiche, filosofiche e creative collegate alla riscoperta dell'uomo
e del suo spazio vitale, cosicché ben diverso risulta l'atteggiamento
dell'Alberti nel particolare settore scientifico di applicazione di cui
si discute (nella fattispecie relativo allo studio e alla cura dei cavalli)
da quello che egli stesso, illuminato dai grandi prospettici e innovatori
suoi conterranei - le cui opere al suo arrivo a Firenze lo avevano lasciato
stupefatto e sinceramente commosso ed ai quali (Brunelleschi e gli altri
del gruppo dei protagonisti del momento) dedicherà poi con devota ammirazione
il trattato «De pictura» -, assunse con orgoglio nel campo dell'arte,
passando da un atteggiamento di passiva e impotente ammirazione degli
antichi (da lui stesso confessata nel famoso brano) ad uno razionale di
studio e di analisi delle loro opere tési a commisurarne con la propria
esperienza i dati ancora deducibili («Descriptio urbis Romae»). E
tuttavia la preterizione che qui si ingenera con l'imprevedibile e illogica
protrazione del discorso nella quarta parte, non può non suscitare il
sospetto che, nonostante tutto, anche nello "schivo" avvertimento
di non poter trattare dell'argomento delle patologie (e relative terapie)
equine senza rischiare di essere accusato o di plagio (degli scritti degli
antichi) o di vaniloquio, il trattatista tributi ai classici un omaggio
formale e di natura retorica, dietro al quale si nasconda in realtà una
ambizione - per quanto nella fattispecie oggettivamente velleitaria -
di insinuare fra le righe una certificazione di originalità per i suoi
"consigli" che - infatti - finisce col qualificare «adatti ed
utilissimi [ … ] non dati neppure dagli antichi», ma che in effetti sono
per forza di cose attinti dalla precettistica ancora "istituzionale",
potremmo dire, al suo tempo; la quale peraltro era pur stata già registrata
in formulazioni testuali - e per allora ancora non peregrine - dai "recenti"
autori suddetti: il Ruffo, Pier de' Crescenzi, Bonifacio Calabro e Lorenzo
Risio. A
un avvertimento tanto modesto - che sembra quasi ispirato ad una presa
di coscienza della non molto felice chiusura della dissertazione - fa
riscontro un altro, ben più orgoglioso posto alla fine del proemio con
le parole «Ceteri, dum nos legerint, velim sic deputent: non me ad fabros
curatoresve pecudum, sed ad principem, eundemque eruditissimum scribere,
eaque de re fuisse me parcum in scribendo, forte magis quam imperitorum
vulgus exoptet…» A dispetto di un
latino così scorrevole e sonoro e apparentemente di così facile lettura…
il brano è di problematica interpetazione. Se,
infatti, «vulgus imperitorum» debba essere inteso come riferimento agli
uomini del mestiere («maniscalchi e stallieri») compaiono sùbito alcune
incoerenze e improprietà: innanzi tutto, se riferito a quella categoria,
il termine sarebbe improprio sia sul piano quantitativo (perché certo
costoro non potevano costituire una "moltitudine"); sia sul
piano qualitativo (poiché sappiamo che a quei tempi i maniscalchi costituivano
una categoria ben qualificata ed apprezzata[43]). D'altra
parte, proprio questi specialisti non potevano essere definiti "imperiti"
o "inesperti" nel senso specifico, ma se mai in un senso più
lato, in quanto gente che, praticona del mestiere, ma di modesta levatura
mentale, avrebbe avuto bisogno di una esposizione "terra terra",
di una struttura sufficientemente divulgativa, diluita, particolareggiata
e insomma da vero ricettario, quale avevano infatti tutti i testi tradizionali
di tal genere. Se ne ha, per esempio, una puntuale testimonianza in Vegezio,
il quale nella sua «Mulomedicina» confessa «di aver usato uno stile pedestre
onde poter essere inteso dai contadini …» («…ex diversis auctoribus enucleata
collegi, pedestrique sermone in libellum contuli. Cujus erit praecipua felicitas, si eum nec scholasticus
fastidiat et bubulcus intelligat…»)[44].
Ma allora "parcus" nel significato proprio di "sobrio",
"modesto", non avrebbe un senso coerente in opposizione a "imperitus",
ché anzi tale caratteristica sarebbe appunto la più confacente alle esigenze
di persone siffatte. Perciò l'aggettivo non dovrebbe essere inteso nel
senso qualitativo suo proprio (= "modesto"), ma in un senso
quantitativo (= "breve", "sintetico", appunto). Resta
però il fatto che l'autore ha escluso esplicitamente l'ipotesi che egli
si rivolga a «maniscalchi o stallieri». Tolti
dunque gli stallieri e i maniscalchi, a chi può riferirsi la locuzione
«vulgus imperitorum»? Agli ignoranti della lingua latina? Ma in tal caso
la precisazione sarebbe pleonastica e insensata: a cosa mai servirebbe
avvertire… in latino che non ci si rivolge a chi non conosce tale lingua?!…
E poi egli non fa la questione dei mezzi linguistici con cui si esprime,
ma dei modi della sua espressione. Rimangono
infine due sensi possibili. Si può intendere per «vulgus imperitorum»
"tutti coloro che non si intendono già di questa materia" (=
«Ho fatto una esposizione troppo breve perché possa essere utile a coloro
che sono inesperti di ippologia e di mascalcia.»): in verità sembra una
contrapposizione un po' strana in rapporto alle qualità di un prìncipe…
(quand'anche si voglia tener conto della tradizionale passione del luogo
per i cavalli, testimoniata dal fatto che la "ferrarese" - con
la "mantovana" e la "napoletana" - era una delle tre
razze equine più pregiate d'Italia[45],
nonché del costume secondo il quale «…parlar di cavalli era materia piacevole
e dotta, come parlar di libri, di quadri, di filosofia, ma soprattutto
di genealogie, di cavalli prediletti, come oggi si discute di spider,
di coupé, di cilindrate…»[46];…
la quale è una considerazione vanificata dalla circostanza che - a parte
la caoticità concettuale e sintattica di questa "immagine" del
Gianoli - sta di fatto che a rigor di termini la materia trattata dall'Alberti
non è nemmeno questa). Il
secondo senso possibile è che "parcus" vada inteso nel significato
particolare di "sintetico", e "imperiti" in quello
di "ignoranti" nell'accezione più lata e generica del termine;
come dire (con quel certo tono sprezzante e aristocratico che pure apparteneva
all'Alberti - riteneva per esempio che l'artista non dovesse impegnarsi
con altri che con i prìncipi e con le persone di altissimo rango; ed egli
personalmente così fece sempre, come fa notare la Gengaro[47])
che egli non si rivolge agli ignoranti, alla gente qualunque, non addestrata
agli studi (cfr. in questo senso anche quel «ceteri» sul quale - per intenderci
in termini di retorica - è fatto cadere fortemente l'accento in apertura
di periodo), ma a persona erudita che con intuito sottile ed esercitato
può ben cogliere e gustare il procedimento ellittico e per concettose
allusioni di una esposizione sintetica e stringata. Come per dire: «intelligenti
pauca». E in tal senso, appunto, ho orientato la mia traduzione. E
però, a fronte di una tale difficoltà e sottigliezza di concetti che vorrei
dire "sprecata" per una dissertazione in definitiva così oziosa,
a prima riflessione vien fatto quasi di pensare che il curiale poligrafo
abbia perso una grande occasione: se al posto di questo capriccioso sfoggio
di competenza ippologica avesse fermato sulla carta gli aulici pensieri
figurativi che di sicuro dovevano attraversargli la mente in dipendenza
dei pareri richiestigli da Leonello d'Este in materia di urbanistica e
di arti plastiche, ci avrebbe lasciato una preziosa testimonianza della
propria poetica della romanità al momento stesso del suo primo configurarsi
concretamente in ideazioni personali. Sembra
invece che le componenti estetiche del suo interesse, indipendentemente
dalle sue stesse intenzioni, si siano tutte esaurite nella contemplazione
delle opere esaminate, e che insensibilmente la curiosità per le tecniche
ippologiche, rinfocolatasi nell'occasione forse sotto la spinta della
sua nota passione personale per il nobile animale, inteso in quanto organismo
vivo, funzionante, mirabile espressione della natura attiva, abbia finito
col prevalere su ogni altro interesse («…prendere in considerazione […]
non solo la bellezza formale…»), caratterizzando anche il contenuto del
trattato, quale ideale prosecuzione del suo "estroso" informarsi
sull'argomento («…ho stabilito di esercitarmi secondo la mia consuetudine,
e di scrivere [del cavallo] in questi giorni durante i quali mi trattengo
presso di te. Ho consultato perciò tutti gli autori che ho potuto…»). Senonché,
le fonti di immediato soccorso delle quali si servì forse attingendo alla
biblioteca stessa di casa d'Este e insieme la sua non inusuale tendenza
a passare per citazioni di prima mano dei classici greci e latini le notizie
mediate da autori di tradizione medioevale (come è stato dimostrato da
Vasilij Zoubov nel citato saggio), lo trascinarono insensibilmente verso
i portati di una cultura legata alla tradizione e in particolare (in questa
occasione) a quella dell'ippiatria medioevale (che a sua volta discende
dall'enciclopedismo bizantino), più di quanto non lo spingesse verso aperture
di rinnovati indirizzi teoretici che - nel campo della medicina veterinaria
di sicuro - avrebbero tardato ancora di quasi un secolo e mezzo[48]. Ciò
che davvero non si poteva pretendere, però, dal «De equo animante» è che
esso fosse un trattato canonico e proporzionale, perché la letteratura
di questo tipo si sviluppa molto più tardi: nel momento "scientifico"
del Pacioli e di Piero essa è già posteriore alla metà del secolo, in
quello "accademico" poi dei vari Armenini, Vasari, Danti e compagnia
manierista[49],
essa è tutta cinquecentesca. Nella famosa antinomia fra il concetto di
ritrarre e quello di imitare, entro la quale gli studiosi hanno sintetizzato
l'atteggiamento degli artisti dell'Evo Moderno di fronte alla natura,
l'Alberti - la cui vita si svolse tutta ancora al di là della soglia del
mondo nuovo, ma nel momento più eroico e "fondamentale" della
sua costruzione - è logicamente tutto dalla parte del ritrarre, avendo
l'arte per fatto conoscitivo e la geometria per suo fondamento (quella
naturalistica, non quella delle proporzioni ideali e "divine"). Del resto è già
stato dimostrato (per esempio da Vasilij Zoubov nel suo saggio[50]
che non mi pare possa esser trascurato o ignorato) che nemmeno il primo
nascimento del neoplatonismo fiorentino ebbe nell'Alberti una presenza
partecipe, al di là del fatto che oggi diremmo "di cronaca".
Sappiamo che egli fu molto probabilmente testimone (di certo per i suoi
doveri d'ufficio) dell'arrivo dei Greci (a Venezia l'8 febbraio 1438),
convocati a Firenze da Eugenio IV per il concilio indetto al fine di discutere
sulle possibilità di unificazione delle due Chiese (una comitiva che comprendeva
addirittura l'imperatore d'Oriente Giovanni VIII Paleologo e tutto il
meglio della cultura bizantina con il famoso Giorgio Gemisto Pletone). Ma
negli anni che succedettero a questi fatti, fino alla fondazione dell'Accademia
platonica fiorentina nel 1459, e dopo di essa, i suoi rapporti con questo
ambiente rimasero sempre superficiali, e non solo per una questione di
cronologia: sebbene, infatti, il Ficino avrebbe intrapreso la sua traduzione
di Platone dal greco - secondo il desiderio di Cosimo de' Medici - solo
nel 1463 e la traduzione di Plotino non avrebbe avuto luogo che nello
stesso anno della morte dell'Alberti - 1472 -, è noto infatti che già
da molto prima di questi avvenimenti l'Alberti sapeva - per dirla carduccianamente
- «legger di greco e di latino», che alcuni dialoghi di Platone erano
già stati tradotti da Leonardo Bruni che aveva appreso quella lingua da
un altro famoso maestro, Emanuele Crisolora, il quale fin dal 1397 aveva
introdotto il greco in occidente; e che, infine, certi precoci spunti
di un platonismo italiano non l'avevano trovato né impreparato, né del
tutto estraneo, almeno secondo il persistente, ma non sempre condiviso,
parere di qualcuno[51]. Sta
di fatto, comunque, che nella fioritura "istituzionalizzata"
del neoplatonismo fiorentino non si avverte - se non vado errato - un
"interesse attivo" dell'Alberti, mentre poi il trasferimento
dei principi del neoplatonismo nella pratica e nella critica dell'arte
è cosa ormai di molto posteriore al tempo della sua esistenza. D'altro
canto il professor Garin, in una sua comunicazione privata, appropriatamente
richiama la mia attenzione sulle propensioni lucianesche dell'Alberti[52].
È una propensione plausibile (anche Luciano nacque indigente e visse errabondo),
che dovette sostenerlo nell'esigenza di indurre un po' d'ironia nella
sua vita che non era cominciata sotto gli auspici migliori e non dovette
essere mai molto lieve, a giudicare - intanto - dal suo connaturato pessimismo,
ma poi per la sua intima solitudine (privo com'era di una famiglia propria),
e poi ancora per aver dovuto vivere «aliorum ductu», sottoposto ad altri[53].
Senza contare che era stato certamente soggetto a "respirare parecchia
aria ecclesiastica" durante tutta la sua vita e chissà quanto protocollo
curiale. «La lezione di Luciano», scrive il Mattioli, «è soprattutto una
lezione di libertà»[54],
di libertà interiore, naturalmente. Anche se però c'è qualcosa che li
differenzia non poco, ed è l'impronta del moralista, che non abbandonò
mai l'Alberti, a fronte della costante inclinazione di Luciano ad irridere. La
sua prima formazione ebbe luogo in città settentrionali. Nato a Genova,
passato a Venezia, studiò poi a Padova e a Bologna, e i suoi itinerari
ancora giovanili toccarono anche città e contrade d'oltralpe, come ci
narra nella sua Vita il Mancini, non confutato dai successivi biografi[55]
e compilatori di regesti. Dunque,
il suo approccio con l'arte classica, sviluppandosi - per così dire -
con un andamento erratico e periferico, ebbe un carattere particolare
e con particolari mediazioni di partenza[56],
prima del primo "scalo" romano. Qui
il suo "classicismo" - e il suo interesse per la figurazione
- si fa a "presa diretta", ma è Roma, per l'appunto («Descriptio
urbis Romae», del 1432-34), non è Grecia, ed è l'esito di una folgorazione
a livello di percezione visiva e di (conseguente) caratterizzazione del
gusto. Quello poi che nelle sue opere successive è concreta classicità,
è solo frutto autonomo del suo genio, del suo talento armonizzatore (si
pensi solo al miracolo del completamento della facciata di «Santa Maria
Novella» a Firenze, forse l'unico caso "a lieto fine" di tutta
la storia delle facciate di chiese medioevali compiute fuori tempo). E
ciò è quello che io con me stesso uso familiarmente chiamare «l'occhio
albertiano». Ma
il suo rapporto filologico con gli antichi (di ogni campo) è mediato dalla
cultura corrente del suo tempo (quella di tradizione, non quella innovatrice[57])
e nel costante ossequio nei confronti dell'esperienza conclamata e legittimante.
Così come di ossequio è il suo atteggiamento nei riguardi "de li
maggiori", a fronte dello spirito antagonistico e di emulazione dei
fiorentini autoctoni del quale tanto era rimasto ammirato e stupito nel
suo primo impatto con la sua città d'origine. E in questo, secondo me
è la radice del suo tendenziale accademismo. Ci
si può chiedere, infatti, quale sia per l'Alberti l'esperienza legittimante
da lui frequentemente raccomandata. La risposta - mi pare ovvio - non
potrebbe che essere: quella degli antichi: nel caso del «De equo animante»,
le sue fonti, che - come s'è visto - sono in buona parte pure tramiti
medioevali - e a volte contaminati[58]
- di quelle originarie. E ciò poiché egli stesso esclude ogni altro possibile
significato della parola esperienza quando pone il lettore esplicitamente
in guardia dalle «continue variazioni di cura» e «dalla smania di sperimentare». Cosicché,
da una parte questa diffidenza nei riguardi di qualsiasi intervento diretto
sulla natura appare tipica in quanto retaggio di una certa mentalità medioevale
che vedeva nell'arte medica temibili portati del manifestarsi di potenze
magiche; e tali connessioni erano in effetti tutt'altro che infondate
in un'epoca in cui ancora, nel campo della medicina, allignava una farragine
di elementi disparatissimi per intenti, qualità e livelli mentali e psicologici
oscillanti fra la mera superstizione e le ricerche esoteriche, la cabalistica
e l'astrologia, l'occultismo e la magia; dall'altra («Vàluta […] i segni
che siano apparsi; questi poni quanto più diligentemente possibile in
relazione con le cause; […] ricerca a lungo piuttosto donde la causa derivi
che il danno che ne consegue.») fanno evidentemente capolino le istanze
di un approfondimento più ponderato dei fenomeni, certo per influenza
dei precetti di Giordano Ruffo, come abbiamo visto, e forse anche più
del suo felice intuito matematico (e perciò metodologico). Ma forse erano
regole della ragione più di quanto fossero spontanee propensioni del suo
sentire naturale. Il quale riemerge ancora e ancora con l'esortazione
a preferire quei mezzi «che siano legittimati dall'esperienza» e l'invincibile
diffidenza verso la «smania di sperimentare», in una disciplina che si
fregiava del nome di magia naturalis, mentre i suoi cultori amarono -
non senza gravi rischi - chiamarsi maghi essi stessi[59].
In realtà anche quella che sarà la moderna chimica non si era ancora divincolata
dalle pastoie e dalle ambiguità illusorie e spiritualistiche dell'alchimia
(per esempio le teorie visionarie e le terapie fondate sulle "virtù
nascoste", i lapidari di pietre preziose, i talismani astrologici,
gli abracadabra: tutte sopravvivenze di cultura bizantino-arabo-talmudica).
E si ponga anche mente al fatto che uno dei maggiori alchimisti, Bernardo
Trevisano, fu proprio contemporaneo dell'Alberti (1406-1440), e allo stesso
secolo appartenne - se mai dobbiamo credere alla sua reale esistenza -
anche il noto, ma misterioso, Basilio Valentino. Forse
a tutti costoro indifferentemente intendeva alludere l'Alberti, quando
in un altro passo del suo piccolo trattato (pag. 46 ["Denique affirmant
physici…"]) ha usato il termine «physici» invece di "mulomedici"
o "ippiatri". Quindi,
la saggezza e l'esperienza dei maggiori; interpretate come una precettistica
ed un punto di riferimento tanto sicuri da rendere quasi superflue o addirittura
pericolose ulteriori indagini condotte direttamente sul vivo della realtà
naturale. In
tal senso l'Alberti mi pare più vicino ad un atteggiamento "osservante"
di marca aristotelica che, per esempio, a Leonardo, rispetto al quale
costituisce l'altro termine di un paragone "classico" nella
pubblicistica corrente e del quale viene comunque ritenuto un precursore.
Mai due personaggi mi sono sembrati tanto diversi fra loro: per cultura,
per "forma mentis", per atteggiamento di fronte alla vita e
al mondo naturale. Anche Mario Salmi nel suo chiarificante contributo
ai Lincei[60]
incorse tuttavia in questo - pare - inevitabile accostamento scrivendo
a proposito del «De equo animante» (che fu scritto traendo lo spunto dall'erigenda
statua equestre): «…come Leonardo - ma per un fine pratico -, dopo l'allogazione
del monumento equestre a Francesco Sforza, comporrà con mirabili disegni
il suo libro sull'anatomia del cavallo». Sì,… ma - bisogna dire - quanta
differenza fra gli esiti ai quali pervennero i due artisti: quanta autonoma
creatività e fervore operativo e curiosità e osservazione diretta della
realtà naturale in Leonardo, quanto conformismo e pacata attitudine erudita
e di studioso lettore nell'Alberti. Dove l'uno sviscera la natura per
poi ricrearne gli aspetti con la propria fantasia, l'altro si rifà ai
precetti degli "esperti" con assidua diligenza. E per questa
via possiamo travalicare i ridotti limiti pretestuali del discorso relativo
al cavallo per riferirci alla posizione albertiana di trattatista di fronte
a tale argomento. Quando
afferma la sua fiducia e il rispetto per le forze, la vitalità e l'integrità
della natura, infatti, l'Alberti si ricollega a quella componente del
suo pensiero che è incentrata in una stoica accettazione delle cose, a
volte fondata su una sorta di fatalismo, a volte su una fede nelle doti
critiche e operative dell'uomo atte a trarre appunto da una più vasta
comprensione (o intelligenza) il superamento del fatalismo stesso inteso
come assoggettamento passivo ai capricci della fortuna. In tal senso il
suo rispetto per la natura è autentico. Ma
quando questo rispetto per la natura si trasforma in rispetto per la "saggezza"
e per gli "exempla" degli antichi (divinizzati - miticamente
- quasi come una "seconda natura", e non visti - storicamente
- come gli autori, sic et simpliciter, di una primigenia sperimentazione),
allora egli opera un rigetto della sperimentazione stessa in nome di un
"rispetto per la natura" che non è più schietto e omogeneo -
e quindi di certa e pronta identificabilità -: ossia non è veramente tale
e non è nemmeno ancora (per obiettiva impossibilità, come ho già fatto
osservare, anche sulla scorta delle precisazioni fornite dallo Zoubov[61])
l'imitazione ideale dei neoplatonici, ma è in realtà una finzione intellettualistica,
alonata da quella certa aura di classicismo un po' ampolloso, di perbenismo
convenzionale, che pervade sempre il sentenziare albertiano; una conformistica
abdicazione (si ricordi in proposito come estremamente significativo proprio
in tal senso, a ben riflettere, quell'ammirato stupore espresso nella
dedica del trattato sulla pittura al Brunelleschi, come di chi si trovi
di fronte a cose e ad eventi che abbiano per lui quasi dell'incredibile),
un "alibi" quasi, per non impegnarsi in una rinnovata sperimentazione.
Dunque, quasi una premessa, ante litteram, di quell'"antirinascimento"
che sarà la sostanza del manierismo accademico. Anche in tal senso - e
in quello degli "spunti" che proporrò qui di seguito - mi conforta
(passim) il citato saggio belfagoriano di Mario Petrini. Dicevo
dunque che egli, storicamente "più moderno" di Leonardo (contro
l'obiettività dei dati cronologici), in quanto precursore dei rivolgimenti
involutivi del secondo Cinquecento, risulta per questo, nella sostanza,
veramente più antico di lui che, per certi aspetti a sua volta "più
antico" perché ancora legato al momento "eroico" e sperimentale
del primissimo Rinascimento, perciò stesso si rivela più moderno nella
sostanza, in quanto che segnato da quell'eterna, intramontabile "modernità"
che consiste nella creazione di nuove forme, artistiche e di civiltà.
In altri termini, al di là di ogni luogo comune, mi pare che ciascuno
dei due confermi nell'essenza dei propri contenuti il dato anagrafico,
che a prima vista invece sembrerebbe esser contraddetto dalle rispettive
connessioni con momenti di civiltà di un tempo diverso dal loro proprio
e di "segno" invertito. Se
dunque Leon Battista Alberti è un precursore, lo è di atteggiamenti piuttosto
retrivi che saranno tipici dell'accademismo classicista del secolo successivo.
Se Leonardo è invece un "passatista" (e «homo sanza littere»)
lo è nel senso di un suo riaggancio all'insorgenza degli eroici slanci
del primo Umanesimo figurativo (certamente la sua umanità è più vicina
a quella di Masaccio che a quella delle poetiche del suo tempo, già tendenti
al Manierismo). Alberti prelude a un tempo già ripiegato in se stesso,
Leonardo si aggancia a un tempo di ricerche e di scoperte: e perciò è
più moderno. Ossia, ancora: l'Alberti prelude ad un tempo più moderno
(l'accademismo cinquecentesco: non a caso, anche in architettura, proprio
al suo «S. Andrea» di Mantova si rifece il Vignola concependo quell'aula
gesuitica e controriformistica che fu la chiesa generalizia di quell'Ordine,
intitolata a Gesù[62]);
Leonardo è legato a un tempo più antico (la ricerca umanistica e prospettica
del primo Quattrocento che egli prosegue con la sua poetica dello sfumato
e le sue ricerche sulla "prospettiva aerea"); ma dalla considerazione
del particolare carattere di questa "antichità" e di quella
"modernità" si ricava che in definitiva l'Alberti è effettivamente
più "antico" di Leonardo, nella sostanza oltre che nell'obiettività
dei rispettivi dati anagrafici. E tutto questo rientra bene nel quadro
complessivo della sua intima contraddittorietà riconosciuta da molti suoi
critici e forse - questa sì - in linea con una certa concezione ermetica
della "concordanza degli opposti" di marca neoplatonica. Egli
fu artista e critico; ideatore che non realizzava; classicista che sosteneva
la validità letteraria dell'idioma "volgare"; umanista nutrito
- suo malgrado[63]
- di precetti scolastici; esaltatore del supremo potere della volontà
degli uomini e convinto assertore della comune soggiacenza ai capricci
della fortuna, del fato contro il quale la virtù nulla può; teorizzatore
della prospettiva, del fondamento matematico delle arti, che in definitiva
si fidava ed appagava soltanto del giudizio dell'occhio; assertore - come
diremmo oggi - della "forma chiusa", della simmetria e corrispondenza
delle parti, che poi auspicava la «concinnitas», le piacevolezze della
varietà; orgoglioso proclamatore dell'indipendenza dagli antichi, sempre
incline a farsi decoro e vanto della erudita citazione di essi, talvolta
nel più conformista, convenzionale e (già quasi) "accademico"
nei modi; precettista del governo della famiglia che una propria famiglia
mai ebbe; esortatore ad amare nell'«Ecatonfilea» e ammonitore a non amare
nell'«Amator»; uomo di tanto in tanto dichiaratamente anticlericale («Nummus»)
e comunque del tutto alieno da sentimenti religiosi, e da "pensieri
cristiani" in specie, che trascorse tutta la propria vita al servizio
della curia pontificia e sostenne la necessità di magnificenza e mecenatismo
(«Pontifex») nei prelati[64];
spirito fiero dell'autonomia morale dell'uomo, eppure non alieno da certa
pruderie da "osservante" («…sempre si serva alla vergognia et
alla pudicitia. Le parti brutte a vedere del corpo et l'altre simili quali
porgano poca gratia si cuoprano col panno, con qualche fronde et con la
mano[65].»
che non saprei se ritenere precocissime anticipazioni di tempi ancora
di là da venire o tardivi retaggi di quello già andato. Ho
analizzato ogni possibile motivo per il quale il «De equo animante» non
poté essere un trattato d'arte, e forse in ognuno c'è una parte di vero
(è sempre difficile fare la storia per illazioni). Ma l'ultimo (che però
coincide con la mia prima riflessione sulla poetica della romanità di
pag. 34 ["E però… ideazioni personali."], chiudendo il cerchio
del ragionamento) rimane forse il più significativo. Ed è che l'Alberti
sicuramente non fece mente locale - evidentemente per la mancanza di un'opportuna
prospettiva storica - o non diede peso[66]
al fatto che il monumento equestre a Niccolò III d'Este era un'iniziativa
estremamente importante dei Ferraresi, perché esso sarebbe risultato secondo,
in ordine di tempo, solo a quello effigiato a fresco da Paolo Uccello,
con l'immagine di Giovanni Acuto, a Firenze; non solo, ma addirittura
il primo, dai tempi di quello romano di Marc'Aurelio[67],
concepito in forma plastica per incentrare coi suoi scultorei volumi lo
spazio aperto, a glorificazione di una piazza che era il cuore e il simbolo
di una grande signoria del suo tempo (e da questa mancata "mente
locale" doveva derivar danno - formale e materiale - anche al monumento
stesso, come dimostrerò più avanti). Come
che sia, si ricava facilmente l'impressione che forse proprio una rilettura
a lavoro finito (e non so se questa fosse la stessa possibile per noi
oggi, data la sensazione che paleserò meglio a suo luogo che il testo
pervenutoci sia tronco e perciò incompleto - a meno che l'Alberti stesso,
distolto da cure più urgenti, non l'abbia abbandonato incompiuto -) della
sua dissertazione dovette indurlo ad aggiungere all'intestazione dello
scritto quell'«animante», come preciso avvertimento al lettore circa il
carattere di questo studio e la materia in esso effettivamente trattata. E,
a ben pensarci, in tale attributo è racchiusa in sorprendente sintesi
tutta la ragion d'essere del presente libro. Questo
scritto albertiano, infatti, è - per così dire - nato raro; malgrado le
due precedenti edizioni a stampa di Basilea (1556) e di Firenze (1890
- sebbene non autonoma, quest'ultima -); e, anche se non è stato divorato
«tineis blattisque», quanto meno è stato fraintesto per lunghissimo tempo
- fino agli anni Settanta del nostro secolo - da quasi tutti gli studiosi,
tanto nell'ambito della Storia della Letteratura e della Filosofia che
in quello della Storia dell'Arte. I quali (salvo rarissime eccezioni,
fra le quali l'egregio Girolamo Mancini) o lo citavano senza conoscerlo
o non ne hanno mai protratto la lettura oltre la lettera dedicatoria a
Leonello d'Este. Lettera che la Gengaro, per esempio[68],
accennando all'intervento dell'Alberti (di cui dirò) nel giudizio dei
bozzetti presentati al concorso per il monumento equestre di Ferrara,
addirittura cita come «una lettera dell'Alberti», così, genericamente,
come se si trattasse di una vera e propria missiva e non della dedica
di un libro (da lei, infatti, passato del tutto sotto silenzio). Altri
introducono l'opera nella "famiglia" dei trattati albertiani
dedicati alle arti figurative (oltre ad anticiparne la datazione, ma questo,
come vedremo, è un equivoco ancora molto ricorrente nella bibliografia
albertiana) come Luigi Mallè[69]
ed Eugenio Garin[70].
Altri infine danno dell'opera resoconti nei quali il reale contenuto di
essa appena appena sfiorato fa solo da spunto a divagazioni culturali
abbastanza divergenti dal labile aggancio iniziale[71].
Cosicché sarebbe quantitativamente più breve enumerare le pochissime citazioni
appropriate ed esatte che non la protratta serie di quelle sbagliate.
Già l'erudito MORELLI[72]
scriveva: «…Vel praecipuis de Alberto scriptoribus libellus solo titulo
innotuit, quanquam […] an. 1556 editus fuerit …». Situazione alla quale
non pongono un esauriente rimedio gli sporadici ritagli dalla lettera
dedicatoria che compaiono qua e là nella più recente bibliografia, e talvolta
in traduzioni alquanto "elastiche". Era
dunque tempo, proprio per colmare un "buco" negli studi albertiani,
di trarre questo opuscolo dalla polvere degli scaffali più riposti e meno
frequentati delle biblioteche pubbliche, e insieme dalla penombra degli
equivoci, anche a costo di lasciare i nostri repertori con un compendio
di mascalcia in più e un trattato d'arte in meno. LE FONTI Precisiamo
sùbito che l'Alberti menziona per due volte una serie di nomi di scrittori
antichi e medioevali ai quali si sarebbe rifatto: una all'inizio dell'opera
(a conclusione del proemio) ed una alla fine della trattazione. Va detto,
però, che la prima serie di citazioni non è riscontrabile nel codice Canoniciano. Nel
primo gruppo di riferimenti sono nominati nell'ordine: Senofonte, Absirto,
Chirone, Ippocrate, Pelagonio, Catone, Varrone, Virgilio, Plinio, Columella,
Vegezio, Palladio, il Calabrese, Crescenzio, Alberto e Abate. Nella seconda
serie appaiono citati: Absirto, Chirone, Pelagonio, Catone, Columella,
Vegezio, il Calabrese, Palladio, Alberto, Ruffo, Crescenzio e Abate. Senza
voler "uscire dal seminato" e senza attardarmi vanamente sui
nomi universalmente noti, e controllabili anche nella parte della loro
produzione attinente all'argomento del trattato (per esempio: «L'equitazione»
e «I memorabili di Socrate» di Senofonte; il «Liber de agri cultura» di
Catone il Censore, il «De re rustica» di Varrone, le «Georgiche» di Virgilio
- con particolare riferimento al libro III per richiami molto puntuali
che ricorrono in diversi luoghi che indicherò, e fra questi con speciale
rilevanza per i versi 72-83 ove il poeta latino descrive le forme che
determinano la bellezza del cavallo -, la «Historia naturalis» di Plinio
il Vecchio, il «De re rustica» di Columella), cercherò per comodità del
lettore di fornire qualche delucidazione sugli altri. ABSIRTO.
Veterinario (medico militare secondo l'Oder[73])
nato a Clazomene (Lydia), ma vissuto la maggior parte del suo tempo in
Bitinia, fra Prusia e Nicomedia. Prese parte sotto Costantino alla campagna
contro i Sarmati e, sempre secondo l'Oder, anche a quella contro i Goti
del 332-334. Scrisse due testi di veterinaria poi molto usati, e in parte
pure tradotti nel IX libro della citata «Mulomedicina». Egli rievocava,
oltre al grande filone della tradizione greco-romana, quelli terapeutici,
degli abitanti della Sarmazia, della Cappadocia e della Siria. È il più
importante fra i diciassette autori (pervenutici) dell'antologia degli
«Ippiatrica» (cfr. anche la nota num. 1 a pag. 153 [nota 85 della traduzione]).
Secondo il Chiodi[74]
non scrisse nessun trattato, ma formò direttamente numerosi allievi e
la sua opera - com'era nell'uso del tempo - si ritrova in lettere indirizzate
a capi militari, agli ippiatrici suoi discepoli, ad allevatori e ad amici.
Essa è veramente notevole e superiore a quelle dei suoi contemporanei,
tanto che da qualcuno viene ritenuto il fondatore della Veterinaria. CHIRONE.
Mi sembra davvero fuori luogo dilungarmi in tutta la intricata filologia
relativa a questo personaggio nominato anche da Virgilio[75],
per metà mitico (il famoso centauro maestro di Achille) e per metà storico;
per certi versi collegato a vari elementi di una particolare, peregrina,
riposta cultura, mista di magia, di esoterismo, di scientifismo enciclopedico,
di orientalismo bizantino e della secolare frizione - a volte antagonistica
- fra un certo ascetismo mistico neopagano e il misticismo cristiano (cfr.
le confutazioni di Ierocle di Caria a Eusebio e a Lattanzio nel suo «Discorso
veridico contro i cristiani»). Tali elementi riguardano svariati personaggi
di quei secoli, da Apuleio ad Apollonio di Chiana (contrapposto al Cristo
in fatto di miracoli), da Claudio Ermèrote al lessicografo Suida. Debbo
necessariamente limitarmi a segnalare a chi ne fosse interessato che tutta
questa problematica è disquisita dettagliatamente e con profondissima
dottrina da Eugenius Oder[76]. In
questa sede credo sia sufficiente registrare due ipotesi predominanti
fra quelle che ricorrono in proposito: secondo una di esse si suppone
che un ippiatra realmente esistito nel IV secolo abbia, per ovvi motivi
assunto "come nome d'arte" quello del leggendario centauro terapeuta
ricordato anche come maestro di Asclepio. Le testimonianze che lo riguardano
sarebbero da ricondurre nella raccolta antologica indicata come «Ta ippiatrica»,
patrocinata nel sec. X da Costantino Porfirogenito (cfr. in proposito
anche la nota num. 1 a pag. 153 [nota 85 della traduzione]) sebbene non
sia compreso fra i diciassette autori dei quali sono sopravvisuti frammenti
(l'Alberti, dunque - sia detto per incidens - non può averlo consultato,
salvo a supporre una ulteriore diminuzione di questi frammenti sopravvenuta
dopo il suo tempo). Secondo
l'altra ipotesi, che riguarda il Chirone più famoso, anche costui sarebbe
realmente esistito: verso il XIII secolo a. C. in Magnesia. Il mito della
sua doppia natura sarebbe ddovuto all'impressione mostruosa suscitata
dagli uomini montati sui cavalli, secondo un costume importato in Tessaglia
da tribù immigrate da regioni danubiane o ucraine, in genti indigene che
ancora non conoscevano quell'animale[77]. IPPOCRATE
di Coo (460-375 ca.). Fondatore della medicina scientifica presso i Greci.
Sotto il suo nome ci sono pervenuti 53 testi divisi in 72 libri, tra apocrifi
ed autentici. Di lui scrive il Chiodi[78]:
«Molti considerano Ippocrate anche quale fondatore della veterinaria,
soprattutto per aver creato una scuola sperimentale e per aver descritto
negli animali …» alcune tipiche forme patologiche. PELAGONIO.
Scrittore latino del IV secolo; secondo l'Oder, anch'egli - come i possibili
autori della «Mulomedicina Chironis» (Chirone, Absirto e Claudio Ermèrote)
- anteriore a Vegezio, ma di non molto, e vicino a Columella. Autore di
una «Ars veterinaria», raccolta di lettere a varie persone, dedicata ad
un Arzigio, per la quale si valse di autori greci (Absirto, Eumelo) e
latini (Cornelio Celso, Columella). La sua opera fu usata da Vegezio e
tradotta parzialmente in greco dal compilatore degli «Ippiatrica» (ed
è questo probabilmente il motivo per il quale l'Alberti fu erroneamente
indotto a citarlo fra «i greci»). Le opere di Pelagonio sono scadenti
ai fini della terapeutica e mescolate ad elementi di pratica superstiziosa
e magica. È però ricordato perché dà un lungo elenco di veterinari dell'epoca
romana e di quella greca. VEGEZIO.
Flavio Vegezio Renato (ma in alcuni codici Publio e non Flavio). Scrittore
latino di cose militari concernenti la cavalleria, attivo fra il IV e
il V secolo. Secondo l'Oder è posteriore ai tre della «Mulomedicina Chironis». Di
lui si sa pochissimo: fu alto funzionario imperiale, e cristiano. Scrisse
una «Epitome rei militaris» in quattro libri che gli procurò la fama durante
il Medioevo. Col
suo nome ci è stata tramandata anche una meno famosa opera concernente
la veterinaria (che ho trovato citata con due titoli diversi: «Artis veterinariae,
sive Mulomedicinae, libri quattuor» e «Digesta artis mulomedicinae») in
quattro libri. Del suo valore discute l'Oder nell'opera citata. Nonostante
la scarsa notorietà, essa era ed è molto importante per un particolare
motivo. Costituisce l'unico documento antico che ci tramandi un elenco
delle razze equine note al tempo dell'autore, per di più limitandosi (e
quindi con ciò individuandole) alle sole razze pregiate: da combattimento,
da corsa o da equitazione. Esse sono sedici e ciascuna di esse prende
il nome dalla sua regione d'origine. Quindi, evidentemente ogni regione
(nessuna dell'Italia peninsulare) produceva una sola razza di pregio,
per distinguere la quale Vegezio mette a disposizione del lettore la sua
esperienza personale. I cavalli più adatti agli usi bellici erano gli
unni; più numerose le razze buone per le corse o semplicemente per fornire
confortevoli cavalcature. Vegezio
è anche reiteratamente menzionato da Edward Gibbon. Pure l'Azzaroli si
sofferma su di lui[79]. PALLADIO.
Questo nome, e quello seguente (= Calaber), nel codice Ottoboniano sono
scritti con iniziale maiuscola e scanditi da una virgola; nel codice Canoniciano
(limitatamente alla seconda elencazione di fonti - poiché la prima, come
abbiamo visto, manca in quella radazione -) sono scritti con lettera minuscola
(come tutti gli altri, del resto) e scanditi da una virgola. Nella versione
dello Stella e del Mancini sono scritti in immediata consecuzione fra
loro, ossia non separati dalla virgola; ed anzi il Mancini piglia decisamente
partito scrivendo «calaber» con la lettera minuscola, come attributo di
«Palladius». Io ho seguito la lezione del Covato, perché in realtà si
tratta di due persone diverse. Di
esse, se il Calabrese è un personaggio storicamente accertato - seppur
noto a pochissimi e quasi in nessun luogo citato -, esattamente contraria
è la situazione del nome Palladio. Esso, infatti, è comunemente riscontrabile,
ma riferito a vari personaggi, diversi fra loro; quel che è veramente
difficile è stabilire a quale di costoro intenda alludere l'Alberti. Mi
pare d'altra parte superfluo - per ovvi motivi - riferire qui sia pure
sinteticamente tutti gli elementi che ho potuto raccogliere e mi limito
ad accennare ai due casi più pertinenti; avvertendo sùbito, peraltro,
che - se dobbiamo prestar fede all'accuratezza dell'Alberti come filologo
- anche questi due personaggi risultano da escludere dall'àmbito di una
ipotetica serie di "probabili". L'Alberti,
infatti, quando alla fine del trattato ripete i nomi di coloro che afferma
di aver avuti presenti, cita questo nome fra quelli di un gruppo di scrittori
che definisce «recentissimi». Con ciò già si elimina la più "pronta"
possiblità di identificazione: quella relativa ad un Palladio ippiatra
del IV secolo, autore di un «De veterinaria medicina», che - secondo il
Chiodi[80]
- va forse identificato con un certo Rutilius Taurus Aemilianus Palladius
autore anche di un «De re rustica» (altrove citato come «Opus agriculturae»)
entro i cui 14 libri sarebbe compresa la suddetta trattazione veterinaria
- in gran parte derivata da Columella - che fu assai nota in tutto il
Medioevo. Per
la medesima difficoltà: il non esser recentissimo; ed anche a causa della
sua origine greca, e non latina come vuole l'Alberti, "cade"
anche un Palladio della seconda metà del VI secolo, scrittore di medicina,
autore di commenti a Ippocrate e a Galeno. Tutti
gli altri presentano discrepanze ancora maggiori per poter essere identificati
col Palladio albertiano. Salvo dunque a pensare ad una svista dell'Alberti,
questo personaggio latino e recentissimo rimane avvolto nel mistero e
non saprei proprio cosa dirne. IL
CALABRESE. Con questo nome credo debba intendersi denotato un certo Bonifacio
Calabro attivo nella seconda metà del sec. XIII, maniscalco di Carlo I
d'Angiò, il quale lo ebbe in grande stima. Di lui esiste un'opera inedita
conservata in due codici manoscritti miniati, intitolati, l'uno: «Tesoro
dei cavalli»; e l'altro: «Libro della Manescalcia de' cavalli». Il primo
codice, pergamenaceo, recante il testo tradotto dal greco in volgare dal
domenicano Antonio Da Pera, è conservato fra i manoscritti della Biblioteca
palatina di Mannheim. L'altro, membranaceo, recante la traduzione dal
greco in volgare eseguita dal prete Angelo Tarantino Delicio, è custodito
a Napoli, come «Ms. C F II 7» della Biblioteca dei Gerolamini. I due codici
furono studiati in una tesi di laurea in Storia della Miniatura da Giuseppe
Cilento, allievo di Mario Rotili, nell'anno 1970; e ad essa rimando chi
fosse bisognoso di dettagliati ragguagli. CRESCENZIO.
È certamente il longevo bolognese Pier de' Crescenzi (1230-1320 o -21),
noto per un celebre trattato di agricoltura: il «Liber ruralium commodorum»,
scritto ai primi del Trecento (editio princeps in Augusta, 1471; prima
traduzione in italiano di anonimo toscano pubblicata nel 1478, alla quale
fecero séguito versioni in francese, inglese e tedesco). In esso il precettista
attinge molto alle fonti antiche, ma anche utilizza la propria personale
esperienza. Il libro, che parla anche delle piante mediche usate al tempo
dell'autore, ebbe grande fortuna, come risulta evidentemente dai dati
relativi alle sue edizioni e traduzioni. ALBERTO.
Il problema relativo a questo nome è analogo a quello concernente il nome
«Palladio». Tralascio tuttavia un certo "maestro Alberto" detto
Bertuccio, professore di anatomia all'Università di Bologna forse durante
il secolo XIII; e Alberto da Parma benedettino, attivo a Strasburgo «nel
primo Medioevo»[81];
perché mi sembrano meno inseribili in questo àmbito. Penso invece che
possa con maggior probabilità trattarsi di S. Alberto Magno (nome che
del resto ricorre anche per altri versi nella bibliografia albertiana[82]).
Questi, nativo di Ballstädt in Svevia (ma detto anche "di Colonia",
1195-1280), fu vescovo di Ratisbona, maestro di Tommaso d'Aquino a Parigi,
introduttore di Aristotele nel mondo cattolico, divulgatore ed interprete
di testi e di commentari greci, arabi ed ebraici. Scrisse fra l'altro
26 libri «De animalibus» - in cui trattò largamente di veterinaria - i
quali vanno considerati più che un contributo originale, un'opera di compilazione,
ma importante, oltre tutto, perché fu la fonte di un altro famoso ippologo:
Lorenzo Risio, sul quale dovrò fermarmi più avanti. ABATE.
Ancora un problema analogo a quello relativo a Palladio, anche in relazione
alla variante dello Stella, il quale, nella prima citazione scrive senz'altro
«Albertus abbas» (anche se poi nella seconda citazione i due nomi appaiono
in tutte le trascrizioni nettamente separati dalla intercalazione di altri
due nomi: Ruffo e Crescenzio). Esiste
un "Abbas antiquus" e un "Abbas modernus". Il
primo, canonista provenzale, scriveva fra il 1261 ed il 1275, ed è così
chiamato essendosi ignorato fino a pochi anni fa il suo vero nome, che
era Bernardo di Monmirat. Il
secondo, nominato anche con gli appellativi di "Panormitanus"
o "Siculus", si chiamò in realtà Niccolò de' Tedeschi o Tudisco
(Catania 1386 - Palermo 1445). Fu giureconsulto, insegnò Diritto Canonico
a Parma (1412-1418), a Siena (1418-1430) e a Bologna (1431-1432). Entrato
a far parte dei Benedettini nell'anno 1400, fu canonico nella cattedrale
di Catania (1415), abate di Maniaci (1425), referendario e uditore della
Camera Apostolica (1433), arcivescovo di Palermo (1435) e cardinale (1440).
Come tale, partecipò al già ricordato concilio di Basilea, ove rappresentò
Alfonso il Magnanimo re di Napoli, e sostenne la dottrina della superiorità
conciliare in un «Tractatus de Concilio Basileense». Scrisse anche «Consilia»,
«Quaestiones», «Repetitiones». Esiste
infine un abate Teodorico (Borgognoni) vescovo di Cervia, il quale esercitò
anche l'arte del medico e del mulomedico, e che scrisse di chirurgia e
di veterinaria nel suo «Pratica equorum composita a fratre Theodorico
de ordine fratrum Praedicatorum Phisico et episcopo Cerviensi». Sarebbe certo quest'ultima
l'ipotesi più convincente, ma non so se costui fosse chiamato antonomasticamente
"Abate". Come
si vede, anche in questo caso risultano veritiere le deduzioni dello Zoubov
che ho più volte citate: la bibliografia fornita dall'Alberti salta da
nomi di universale chiarezza, quali Senofonte, Virgilio, ecc., a nomi
del tutto oscuri e peregrini, entro i quali quasi mimetizza - o tace del
tutto - quelli degli autori che andavano per la maggiore ed avevano prodotto
testi correnti al suo tempo, che avrà potuto facilmente reperire anche
nelle librerie degli Estensi dalle quali - credibilmente - avrà attinto,
mentre era a Ferrara, tutto il materiale necessario alla sua ricerca. Alludo
in particolare a Pier de' Crescenzi, a Giordano Ruffo e a Lorenzo Risio,
notissimi autori medioevali. Del primo, citato come Crescenzio, ho già
detto. Il secondo è nominato soltanto nella seconda serie di citazioni
alla fine della terza parte, quando l'autore torna sulla menzione delle
sue fonti, mentre il terzo è del tutto tralasciato. RUFFO.
Cominciamo col precisare che il cognome di questo personaggio è scritto
con una effe dal Covato, dallo Stella e dal Mancini; e con due effe dall'Amanuense
bolognese. Differenza che risulterebbe filologicamente irrilevante - ove
non vi fossero alternative al Ruffo calabrese - per i motivi che tra poco
preciserò. Ma che crea invece una certa problematicità nella fattispecie. Entrambe
le forme, infatti, Rufo e Ruffo, hanno una rispondenza storica ad un autore
riscontrabile in questo campo particolare: una estremamente difficile
e, per così dire, "preziosa"; l'altra invece di facile ed universale
accezione; tanto che si potrebbe anche pensare (e questa è già una ipotesi)
che l'amanuense della stesura ora in Oxford, avendo cognizione di questa
chiara fama, e ignorando invece del tutto l'altra persona, abbia pensato
bene di rettificare il nome, secondo l'ortografia da lui presunta come
ovvia, con l'aggiunta di una -f- (abbiamo già visto che per unanime parere
dei filologi la redazione "bolognese" del testo ha carattere
più ricercato e consapevole, e che quindi è più "indiziata"
- secondo un comune principio degli specialisti - di aver subito interventi
ortografici o piccole interpolazioni di natura logica). Se
così fosse, il nome che risulterebbe dalla eventuale rimozione di questo
arbitrario intervento tornerebbe ancora una volta coerente con la teoria
dello Zoubov della tendenza dell'Alberti a tacere, per amor di erudizione,
i nomi di più ovvio riferimento a favore di quelli più illustri oppure
più rari. Il nome ipotizzabile, infatti, sarebbe quello di Rufo di Èfeso.
Costui, medico greco della seconda metà del primo secolo dopo Cristo,
dimorò in Egitto e per qualche tempo a Roma. Fu un importante studioso
di anatomia sia esterna (osservata sugli schiavi) che interna (osservata
sulle scimmie). Studiò in particolare l'anatomia dell'occhio umano, di
molti importanti organi interni e delle ossa, e la relativa nomenclatura,
alla quale dedicò uno dei dodici trattati da lui composti e non pervenutici
se non in frammenti riportati da altri, tanto greci che arabi. Questa
supposizione troverebbe conforto nell'affermazione fatta dall'Alberti
verso la fine del proemio quando, dopo la serie delle citazioni, aggiunge:
«E perfino dai migliori studiosi di medicina ho desunto ciò che mi è sembrato
attinente alla materia.» Ad essa si oppongono invece due circostanze:
il non essere cioè questo Rufo (di Èfeso, appunto) né latino, né recentissimo. Se
invece prendiamo per buona la lezione del nome data dall'amanuense del
Canoniciano (con due effe), emerge - costituendo una relativa "eccezione
alla regola" - la figura, di comunissima accezione al suo tempo,
del veterinario Giordano Ruffo. Vero è anche che pure nel primo caso tale
identificazione non sarebbe da escludere a causa della corrente oscillazione
nei documenti d'epoca tra le due (ed altre ancora) forme ortografiche
di questo cognome calabrese. Di esse si interessò minutamente Ernesto
Pontieri. Fra l'altro in una sua nota[83]
si legge: «Quanto al nome della casata in questione, troviamo indistintamente
adoperato, sia negli scrittori che nei documenti cancellereschi del secolo
XIII, le forme Ruffus e Rufus, Russus e Rusus, e ciò per lo scambio, dovuto
alla somiglianza della grafia, della f con la s. Qualcuno, smanioso di
classicizzare, arrivò a scrivere anche Rubeus…». Proprio per questo, poco
più su ho parlato di «fattispecie»: in qualunque altro contesto non avrebbe
messo conto di fermarsi più di tanto su questa variante; sta però di fatto
che qui, se la lezione giusta è quella con una effe, ciò comporta l'alternativa
fra i due personaggi (appunto perché anche il cognome calabrese - oltre
al nome dell'antico medico di Èfeso - può esser riscontrato con tale ortografia);
laddove, se la lezione giusta è quella con due effe, ciò "taglia"
- come sul dirsi - "la testa al toro" e non si potrà pensare
ad altri che al Ruffo calabro. Ed
ho scritto che «il caso costituirebbe una relativa "eccezione alla
regola"» perché in rapporto alla sua importanza e alla "parte"
che deve aver avuto nella ricerca condotta dall'Alberti, il suo nome (come
quelli di Pier de' Crescenzi e di Lorenzo Risio - addirittura taciuto
quest'ultimo -) non ha il rilievo che presumibilmente avrebbe dovuto avere
(per esempio, completando la citazione con il nome di battesimo = Giordano
Ruffo, cosa che avrebbe evitato qualunque possibile equivoco), ed anzi
è come "occultato" fra tanti nomi così sofisticati, ma - con
tutta probabilità - di apprendimento soltanto indiretto. Il
Ruffo, dunque, (1190-1250) fu scudiero, amico e commensale di Federico
II di Hohenstaufen alla corte siciliana. La sua cultura innestava esperienze
dal vivo nel tessuto della tradizione ippiatrica. Egli costituì il fondamento
di tutti gli studi di veterinaria, dal suo tempo fino all'avvento, nel
XVI secolo, di Carlo Ruini. Il suo «Libro della marescialleria» fu edito
in italiano, tedesco, francese, ed ebraico. Alcune coincidenze quasi puntuali
ci dicono che con tutta probabilità egli proprio fu la vera fonte dell'Alberti:
intanto l'articolazione della materia («De creatione et nativitate equi»,
«De domatione et captione eius», «De custodia et doctrina», «De cognitione
pulchritudinis corporis», «De infirmitatibus», «De medicinis ac remediis»);
e poi alcuni argomenti particolari, come: il suggerimento di non arrestarsi
ad una superficiale osservazione dei sintomi e, invece, di fondare ogni
cura sull'accertamento delle cause delle malattie; le definizioni relative
alla fluidità del sangue e all'"effusione dell'umidità del cervello";
le norme che suggerisce in materia di ferratura, morsi e finimenti. A
questa serie di nomi sarebbe naturale aggiungere quello di LORENZO
RISIO (1288-1347), che l'Alberti stranamente ignora. Questi esercitò la
professione di veterinario a Roma e scrisse una «Marescalciae» poi stampata
a Roma intorno al 1490. Anch'egli, come tutti, si riferisce molto ai precetti
della medicina antica (Galeno, Aristotele), attingendoli attraverso la
mediazione di S. Alberto Magno. A questi commisurò con metodo ed autorità
le sue proprie esperienze. Fu familiare del cardinale Napoleone Orsini,
e la sua fama travalicò le Alpi. IL MONUMENTO
FERRARESE: SUE VICENDE - PROBLEMI DI FORMA DI URBANISTICA E DI CRONOLOGIA Niccolò
III d'Este, marchese di Ferrara, morì il 26 di dicembre dell'anno 1441.
La cittadinanza di Ferrara decise di onorarne la memoria con un monumento
equestre e tale decisione fu ratificata (con la conseguente deliberazione)
l'anno 1443. Fu bandito un pubblico concorso per l'allogazione dell'opera.
Vi parteciparono due scultori fiorentini: Antonio di Cristoforo e Niccolò
Baroncelli.
Un
verbale d'assemblea del Consiglio dei XII Sapienti, in data 27 novembre
1444, documenta che detto Consiglio, con votazione segreta, fra il bozzetto
di Antonio di Cristoforo e quello di Niccolò Baroncelli, aveva scelto
il primo. Un
documento di pagamento del 1449 (relativo a una pigione di casa decorrente
dal I gennaio dello stesso anno) attesta però che anche il Baroncelli
lavorava alla statua: «…fa el chavallo de bronzo…»[84].
Era accaduto infatti - come è facile desumere dalle stesse parole dell'Alberti
nel suo proemio - che il marchese Leonello, in deroga evidentemente alla
votazione dei "Sapienti", aveva affidato al suo amico Alberti
il compito di decidere, «quale giudice ed esperto», in merito alla preferenza
da dare ad uno dei bozzetti presentati al concorso. Fu tale circostanza
«assai gradita» a dargli lo spunto, come egli stesso afferma, per la stesura
di questo curioso compendio… di ippologia. Trapasso logico invero abbastanza
strano. Sarebbe stato certo più facile aspettarsi che egli andasse annotando
piuttosto gli elementi formativi del giudizio di cui era stato richiesto.
Il quale infatti dové essere così poco "impegnato" da non lasciare
traccia alcuna, se non quella di dar luogo ad una "pacifica"
spartizione della commessa fra i due concorrenti, dei quali - infatti
- uno (Antonio) modellò la figura del cavaliere, l'altro quella del cavallo
(dal che, come capita nel mondo degli artisti, gli derivò un soprannome
che gli rimase appiccicato addosso per sempre, passando poi addirittura
a suo figlio!). Ma tant'è: abbiamo già visto a pag. 43 ["Ho analizzato…
più avanti."], sulla scorta del Salmi, che i pensieri di natura meramente
estetica non investivano la mente dell'Alberti, almeno in questi anni. Il
monumento fu sistemato in un punto della piazza che non siamo più in grado
di individuare con precisione, e inaugurato nel 1451, il 26 di giugno,
festa dell'Ascensione. Il
17 agosto 1451 Antonio di Cristoforo riceve il saldo «…de soa merzede
ne fare 1 mazene del Ill. N. S. Messer lo Marchexe Nicholo pasado…»[85]:
risulta dunque accertato che entrambi gli artisti furono impegnati nell'esecuzione
dell'opera; mentre nessun documento obiettivo ci conforta nella dimostrazione
di interventi di qualsiasi genere da parte di Leon Battista Alberti. Nel
1472 Ercole I d'Este, in occasione di alcune modifiche apportate al complesso
del palazzo Ducale, fece spostare le due statue di Nicolò III e di Borso
(che era stata aggiunta alla prima nel 1454, probabilmente per celebrare
l'avanzamento del titolo gentilizio da marchese a duca, concesso nel 1452
a Borso - succeduto a Leonello nel 1450 - dall'imperatore Federico III
d'Absburgo) dalle prime collocazioni ad altre adiacenti all'edificio principale. Al
tempo dei moti giacobini conseguenti alla occupazione della Lombardia
da parte di Napoleone, il 19 ottobre 1796, cioè all'indomani[86]
della proclamazione della Repubblica Cispadana, le due statue di bronzo
furono abbattute e fusa la materia di cui erano costituite per farne cannoni. Nel
giugno del 1864 furon poi riscoperti l'arco e la colonna che le avevano
sostenute, i quali nei tempi successivi alla distruzione delle sculture,
erano stati occultati da una superfetazione di piccole botteghe. Su di
essi furono collocate nel 1926 nuove statue dei due prìncipi «fedele rifacimento
di quelle quattrocentesche»[87],
eseguite da Giacomo Zilocchi[88].
La problematica
concernente la prima collocazione della statua equestre nella piazza di
Ferrara - nonché la forma originaria di essa e quella del suo marmoreo
basamento attribuito da Adolfo Venturi nel citato articolo all'Alberti
stesso - si articola nei seguenti termini. Il
documento più antico è costituito dallo stesso scritto albertiano oggetto
di questo studio, nel proemio del quale si legge: «…cum instituissent
cives tui parenti tuo equestres […] ad forum statuas ponere…». Tralasciando
per ora il problema di questo strano plurale («statuas»), sul quale mi
fermerò a suo luogo (cfr. pag. 83, n. 5 [nota 7 della traduzione]), c'è
innanzi tutto da chiedersi perché l'Alberti abbia scritto «ad forum» e
non "in foro". Se tale quesito però è da considerarsi di natura
prettamente morfologica, esso non presenta qui alcun interesse.
Una
importanza non trascurabile esso assume invece se nella locuzione albertiana
possa esser intravista una sia pur vaga indicazione atta a far supporre
che egli all'epoca avesse avuto sentore del fatto che la statua del defunto
Marchese sarebbe stata posta (e magari propro dietro suo consiglio) in
un certo luogo nei pressi o ai margini della piazza. Purtroppo però nessun
altro elemento ci soccorre ai fini di tale possibile interpretazione. Anche
il Borsetti[89],
quando rammenta la deliberazione del 1443 (con la quale si stabiliva di
erigere un monumento in onore di Niccolò III d'Este, morto due anni prima),
non precisa se essa contenesse una qualche indicazione di luogo; e - per
proprio conto - dà notizia che la statua fu eretta nel 1451 «in Foro prope
Palatium Communis, supèr (sic) marmoreas columnas duas». Anche qui non
si può che rimanere incerti circa l'esatto significato della locuzione
«prope Palatium». Il Cittadella[90]
in un primo tempo afferma senz'altro che l'arco fu innalzato «in mezzo
alla piazza rimpetto alla Cattedrale sopra due colonne di marmo» e che
la statua di Borso fu «innalzata presso il palazzo della Ragione sulla
piazza istessa nel 19 dicembre 1454». Secondo
tale indicazione i due monumenti sarebbero venuti a trovarsi in luoghi
nettamente distinti, se si abbia presente la planimetria della piazza
e la posizione dei due palazzi in questione: quello Comunale e quello
della Ragione. Più
avanti[91],
egli riporta - e commenta - un documento del 13 dicembre 1453 relativo
ad un vitalizio concesso agli eredi di Niccolò Baroncelli - autore, come
abbiamo visto, con Antonio di Cristoforo, della statua equestre - che
era morto a Ferrara tra il 24 e il 29 ottobre (date dal Cittadella stesso
dedotte) del medesimo anno. In tale documento si legge: «Pro labore immenso,
quem passus fuit quondam Magister Nicholaus Baroncelli de florentia (sic)
circa constructionem fabrice lapidis et fundamenti colone posite in platea
comunis ferrarie (sic) juxta logiam Illm. Dmi. supra qua deputata fuit
et est imago Illmi. D. Nostri Dn Nicolai Marchionis Estensis…». Il
Cittadella sùbito di séguito collega inspiegabilmente tutto questo passo
con la colonna destinata a ricevere la statua assisa di Borso. Da tale
connessione dovrebbe dedursi che l'espressione «juxta logiam» dovesse
significare un punto della piazza presso il palazzo della Ragione, vista
la precedente affermazione di pagina 415.
Ancora
oltre[92],
egli invece connette il medesimo passo con l'arco che sosteneva la statua
equestre di Niccolò, visto che assume la medesima espressione «juxta logiam»
come prova che l'arco stesso dovesse trovarsi in mezzo alla piazza.
Sappiamo
però, da quanto affermato dal Cittadella stesso a pag. 415, che i due
monumenti si trovavano, nell'amplissima piazza, in due punti disparati
(uno «rimpetto alla Cattedrale», l'altro «presso il palazzo della Ragione»);
e dunque non si può supporre che nel citato documento l'indicazione «juxta
logiam» sia riferibile ad entrambe le opere tanto da potersene servire
ora per l'una, ora per l'altra come appunto mostra chiaramente di aver
fatto il Cittadella. È certo, dunque, che l'elaborazione delle fonti da
lui operata arriva a conclusioni ambigue. Egli
infatti non precisa da che cosa ha ricavato che l'arco dovesse trovarsi
«in mezzo alla piazza rimpetto alla Cattedrale» e la colonna con la statua
di Borso invece «presso il palazzo della Ragione» e sembra sorvolare sul
fatto che nel documento, alla locuzione «juxta logiam» segue la specificazione
«Illm. Dmi.» che allude chiaramente al palazzo degli Estensi, mentre abbiamo
visto che il Borsetti collocava la statua equestre «in Foro prope Palatium
Communis». Qual era dunque questa loggia? E perché il Cittadella fa riferimento
al palazzo della Ragione, il quale si trovava (ora non esiste più) in
tutt'altro lato della piazza? Del
resto lo stesso documento del 13 dicembre del 1453 è incoerente e contraddittorio,
poiché nello stesso capoverso cita la «constructionem […] fundamenti colone»
(e dunque al singolare, come se si trattasse della colonna sulla quale
era sistemata la statua di Borso) e poi precisa «supra qua deputata fuit
et est imago […] Nicolai Marchionis», come se invece si trattasse dell'arco
recante la statua equestre. D'altra
parte, non disponiamo di altre possibilità per chiarire con certezza il
vero significato topografico e l'esatto riferimento delle parole «juxta
logiam» alle quali la contraddittorietà del contesto e l'impossibilità
di sapere quale fosse la citata loggia (data la quasi totale alterazione
e ricostruzione dei luoghi verificatesi in vari tempi, a partire da quelli
di Ercole I - 1471-1505 -, e segnatamente durante gli ultimi cento anni
circa) tolgono quel valore di fondamentale indicazione che avrebbero potuto
avere. Abbiamo in verità svariate notizie, attinenti a veroni, loggiati,
poggioli marmorei, passaggi pensili; ma tutte si riferiscono a date poteriori
a quella del citato documento relativo agli eredi del Baroncelli. Il più
antico documento utilizzabile al fine di ottenere elementi di fatto non
equivoci è molto più tardo: cioè del 1591. Si tratta di un atto di acquisto
di una delle bottegucce agglomeratesi malamente nella piazza. Nell'indicarne
esattamente la collocazione, com'è di prammatica, l'atto notarile si esprime
fra l'altro con le parole «sub imagine olim Ser. Ducis Borsii»[93].
Da queste parole si ricava che l'immagine di Borso non poteva trovarsi
che sulla fronte del palazzo, perché a questa erano addossate le botteghe
in questione; e ciò concorda bene con la circostanza certa che Ercole
I d'Este nel 1472, avendo apportato vari abbellimenti al palazzo, aveva
fatto anche collocare le due statue presso l'arco d'ingresso, quindi in
una situazione che possiamo ben ritenere analoga o identica a quella attuale,
se appunto colleghiamo questi due fatti: lo spostamento delle statue e
la documentata esistenza delle botteghe al di sotto di esse. Il tutto
è anzi avvalorato da una circostanza ancor più significativa: quando nel
1796 i due bronzi furono abbattuti e fusi dai giacobini, i rispettivi
basamenti di marmo rimasero intatti con tutta probabilità proprio perché
erano diventati invisibili essendo stati sommersi dalla proliferazione
delle botteghe (essi furono poi riscoperti soltanto nel 1864 e in séguito
riutilizzati per le statue "rimpiazzate" da Giacomo Zilocchi
nel 1926; dal che consegue che i monumenti così come si presentano oggi,
in quel luogo che i Ferraresi indicano come il "vòlto del cavallo",
hanno i marmi autentici e i bronzi rifatti).
In
conclusione, nulla sappiamo di sicuro circa la primitiva collocazione
dei due monumenti. Possiamo però tranquillamente presumere, almeno con
riferimento al lungo lasso di tempo che dal 1471 (con un "terminus
ante quem" nel 1591) va al 1796, che essa sia stata più o meno analoga
a quella attuale; mentre per il periodo che dal regno di Ercole I risale
fino alle rispettive date della prima erezione dei due manufatti, nulla
di preciso e di certo può dirsi, potendosi solo ipotizzare che la colonna
con l'immagine di Borso sia stata sempre a ridosso della parete di uno
dei palazzi che delimitavano la piazza (la magione degli Estensi? Il palazzo
Comunale? Il palazzo della Ragione?), mentre il monumento equestre a Niccolò
III, col suo basamento marmoreo a forma di arco trionfale romano, pare
si sia trovato da principio anche se non proprio «in mezzo alla piazza»,
almeno isolato in uno spazio più ampio, di fronte alla Cattedrale. Fin
qui l'esegesi delle fonti.
Vediamo
quant'altro si può logicamente rilevare dall'osservazione diretta del
monumento equestre. Il
suo presumibile trasferimento da un punto all'altro della piazza dovette
forzosamente comportare (se le due collocazioni succedutesi erano una
isolata e l'altra a ridosso di una parete) una certa alterazione strutturale:
mentre prima infatti il monumento doveva essere stato concepito come tale
da poter essere osservato da tutti i lati, all'atto dello spostamento,
doveva essere stato "cucito" nel muro di appoggio, risultandone
così eliminato - come tuttora è - il profilo architettonico di uno dei
lati minori. Eliminazione che risulta denunciata, con sufficiente evidenza,
dalla diversa situazione dei due tondi inscritti nei pennacchi dell'arco.
Di tali tondi, infatti, quello più vicino alla parete di appoggio, ortogonale
ai lati maggiori del basamento, al contrario dell'altro, è a stento contenuto
nel disegno complessivo, ed anzi va proprio a toccare la superficie della
parete stessa ove il marmo si innesta nel corpo dell'edificio. Deriva
da ciò un taglio netto il quale, privando il basamento della statua (come
ancora oggi è facile osservare) della simmetria dei suoi elementi costitutivi,
ne àltera la concezione in maniera non irrilevante, specie in rapporto
agli ideali tipici dell'Alberti, romaneggianti e vitruviani. Si
aggiunga a questa considerazione formale, condotta sul piano teorico della
poetica albertiana, una curiosa risultanza di tipo materiale. Questa è
la diversità delle pietre di cui son fatte le due colonne (e i rispettivi
capitelli), le quali - secondo il riconoscimento già operato dal Cittadella[94]
- sono l'una (ossia quella rimasta integra) di marmo di Verona, l'altra
invece (ossia quella tagliata) di pietra d'Istria. Queste due fondamentali
osservazioni (quantunque la seconda rimanga in ogni caso quasi inspiegabile,
specialmente in rapporto allo splendore di quella corte) avvalorano l'ipotesi
che una manomissione ci fu e che l'attuale situazione, così come ci si
presenta, non corrisponda di certo all'originaria progettazione dell'Alberti,
se mai questa ci fu. Il
Cittadella, esaminando la questione, propone un'alternanza di ipotesi:
o che il monumento non sia mai stato isolato nella piazza (per il fatto
che non è pensabile che in tale situazione avesse… una colonna e mezza!),
oppure che esso abbia subito delle modifiche all'atto dello spostamento.
Egli sostiene l'attendibilità di questa seconda ipotesi come dell'unica
che concilia le prove documentarie con la forma che in effetti presenta
l'arco. In
realtà l'alternativa proposta dal Cittadella è solo "retorica",
perché non esiste in concreto la possibilità che l'arco sia stato sempre
appoggiato al muro, in quanto, se è vero che solo tale situazione giustifica
l'esistenza della mezza colonna, è vero anche che - come lo storiografo
stesso ha messo in rilievo - le pietre delle due colonne e dei relativi
capitelli sono di diversa natura ed è logicamente inconcepibile che l'arco
sia stato costruito così, e tanto più ove si accetti l'attribuzione di
esso a Leon Battista Alberti. D'altra parte il Cittadella stesso ci ha
dato notizia dell'avvenuto spostamento al tempo di Ercole I (per quanto
di tale notizia non abbia citato le fonti), e dunque non si comprende
perché la questione gli appaia tanto dubbia quanto è mostrato dal suo
tono perplesso. Mi
pare ovvio supporre che durante lo spostamento e la manomissione del 1472
una colonna sia rimasta danneggiata ad un punto tale da dover esser sostituita
(molto meno ovvio rimane comunque, come ho già notato, che nel ripristino
dell'opera nella nuova sede si siano usate delle pietre differenti da
quelle originarie). Per il resto, è chiaro che l'inserzione dell'arco
nel muro doveva comportare il taglio (da intendersi almeno come risultanza
visiva, dato che senza un opportuno sondaggio non si può sapere quanta
parte del basamento sia rimasta conglobata dentro al tessuto murario)
di una parte delle sue profilature, pur rimanendo alquanto strano, in
rapporto alla perizia artigianale del tempo di Ercole I, che il lavoro
sia stato condotto con tanta poca cura. Il Cittadella riscontra nella
semicolonna scolpita in pietra d'Istria «un lavoro meno finito e meno
gentile». D'altro canto secondo Adolfo Venturi[95]
la colonna non originale sarebbe quella «non addossata al muro». Ipotesi
che invero appare non priva di logica ove la si confronti con l'analisi
dei fatti che stiamo qui conducendo. E ciò, sia considerando i due diversi
momenti storici (del 1444-50 e del 1472) e la mediocre esecuzione materiale
dell'eventuale progetto albertiano, già notata dal Venturi stesso e dal
Borsi (come abbiamo già visto a pag. 29 ["… l'attribuzione di tale…
trionfo romano."]); sia perché, se è possibile supporre che, una
volta avvenuto il guasto, e dovendo provvedere al ripristino della colonna
destinata a rimanere tutta a vista, la signoria ferrarese abbia voluto
usare per questa una pietra più nobile di quella già esistente, molto
meno convincente sarebbe l'ipotesi opposta, e cioè che nel rifare la colonna
si sia voluto risparmiare comprando una pietra più vile e ciò a scapito
di un'opera allora tanto insigne. Sta
di fatto però che il Venturi non connette la sua idea al tipo di problematica
che qui stiamo analizzando, la quale egli anzi passa del tutto sotto silenzio,
tanto che dal suo contesto si ricava l'impressione che egli intenda alludere
ad un rifacimento avvenuto in una imprecisata epoca moderna, che possiamo
presumere dovrebbe corrispondere alla data del ritrovamento dei due basamenti
marmorei, individuata dal Cittadella con precisione (addirittura al livello
del mese: cioè giugno) come immediatamente precedente a quella della pubblicazione
del suo lavoro, avvenuta nel 1864. Ma se così fosse, l'opera di sistemazione
e - diciamo - di "restauro" dell'arco sarebbe avvenuta sotto
i suoi occhi, nel breve periodo di tempo intercorso fra il ritrovamento
dei due marmi e la pubblicazione del libro. E dunque il Cittadella non
avrebbe potuto mostrare stupore "scoprendo" con quali sistemi
e con quali materiali era stata realizzata l'impresa, come invece mostra
di fare, e tanto meno collocare questo evento (ossia il ripristino del
basamento) in un epoca imprecisata. Perciò il fatto non può aver avuto
luogo in quella occasione. Esclusa
la quale, soltanto altre due sono le circostanze nelle quali risulta certa
una manomissione del monumento: la sua ultima sistemazione con la statua
equestre eseguita dallo Zilocchi nel 1926, la quale però è posteriore
sia allo scritto del Cittadella (1864) che a quello di Adolfo Venturi
(1914); e la prima, la quale invece ebbe luogo al tempo della signoria
di Ercole I d'Este. Sembra
quindi doversene necessariamente ricavare che l'analisi formale esposta
dal Cittadella trovi conferma in quella del Venturi per quanto concerne
la qualità esecutiva delle due colonne, ma non invece per quanto attiene
alla loro rispettiva collocazione cronologica. Come
che sia, ai fini del ragionamento che stiamo conducendo, la sostanza del
nostro problema non cambia, consistendo essa nella diversità (e di epoca,
e di materia, e di qualità esecutiva) che differenzia le due colonne:
la quale rimarrebbe inspiegabile ove si escludesse l'avvenuto spostamento
dell'arco dalla sua primitiva collocazione. Ma
mi pare che nel contesto di questa problematica vada necessariamente inclusa
anche qualche considerazione di carattere estetico. Adolfo
Venturi nel suo citato articolo, affermò che mentre i primi monumenti
equestri dipinti o scolpiti nel Quattrocento non si discostavano «dall'idea
funeraria, quale si era determinata a Firenze in duomo con i simulacri
dei condottieri Giovanni Acuto e Niccolò da Tolentino» - ma si noti che
l'effigie eseguita da Andrea del Castagno viene oggi comunemente assegnata
ad un tempo posteriore (1456) -, a Ferrara «quello di Niccolò III era
ideato sopra un arco trionfale», e più avanti soggiunge: «L'arco su cui
si impostava la statua equestre di Niccolò III è un vivo ricordo degli
archi trionfali di Roma, dei quali può considerarsi una riduzione nelle
proporzioni, e come un estratto dell'insieme grandioso. In quelle prime
forme della Rinascita, l'architettura aveva timidezza di aggetti e semplificazione
di linee, esilità di sagome, ma qui, nell'elegante arco ferrarese, la
riduzione nulla toglie alla pienezza romana delle forme.» Eppure
non si può non avvertire - specie ove si cerchi di immaginare il monumento
isolato nella piazza e con ampi spazi tutt'intorno - qualcosa di strano
nella inversione di termini che sussiste nel rapporto proporzionale fra
due elementi costitutivi - l'arco di trionfo e la statua equestre -, ciascuno
dei quali, per proprio conto tipologicamente legato ad una metrica già
ampiamente e validamente canonizzata. Sovvertire
i canoni o meglio tralasciarli e inventarne di nuovi in funzione anche
della perenne mutazione del gusto, è proprio dell'autentica creazione
artistica. Ma questa operazione non può risolversi col fermarsi ad una
fase iniziale che potremmo dire di alterazione dei dati di partenza, con
una mera disorganizzazione o disarmonizzazione o disarticolazione degli
antichi termini tuttavia assunti come tali, ma deve - per essere valida
- consistere nella organizzazione di nuovi termini, ossia nella creazione
di una nuova metrica, cioè - in definitiva - nella creazione di nuove
forme. Qui, al contrario, i due suddetti elementi si riallacciano ciascuno
con gusto quasi archeologico agli antichi modelli, ma ciascuno secondo
una scala diversa, che è estremamente ridotta soltanto nell'arco trionfale
assunto come piedistallo, sì che le due parti ne risultano più giustapposte
che armonizzate, più accostate che fuse: è quasi come aver messo una testa
di gigante sopra un corpo di nano. Questo
non può certo essere addebitato all'Alberti, il quale - al contrario -
aveva vivissimo il senso dell'armonia, dell'ambientazione e perfino della
mimetizzazione, come è ampiamente dimostrato dalla sua opera architettonica
in episodi salienti, dei quali uno proprio coevo e topograficamente vicinissimo:
il campanile della stessa piazza di Ferrara, secondo l'attribuzione ormai
generalmente accettata; tanto che proprio sull'atteggiamento del critico
restauratore, Bruno Zevi ha impostato nel suo citato contributo la propria
interpretazione dell'architettura albertiana. Evidentemente,
se l'intervento dell'Alberti vi fu - cosa di cui sono convinto - non dovette
trattarsi di una vera e propria collaborazione. L'opera nel suo complesso
non dovette esser concertata fra l'architetto e i due scultori; e ciascuno
dovette badare al proprio lavoro del tutto autonomamente. E si ha l'impressione
che l'Alberti, da che aveva rivolto la propria fantasia all'arco di trionfo
romano (e l'idea sarà ricorrente durante la sua carriera) se ne sia innamorato
al punto da assumerne il concetto come una specie di "divertissement",
senza punto preoccuparsi della funzione alla quale esso era destinato
e senza tener conto di altro all'in fuori, forse, delle misure imposte
dalle esigenze contingenti. In
tale atteggiamento confluivano due motivazioni tipiche del suo carattere
e della sua poetica. La prima di queste fu la tendenza a interpretare,
in opposizione con i grandi maestri che lo avevano immediatamente preceduto,
la creatività artistica come puramente intellettuale e sganciata da qualsiasi
materialità (nonostante la sua spiccata attrazione per i problemi e ritrovati
tecnici - sempre peraltro in termini di studio teorico e non di manualità
brunelleschiana -); cosa che lo indurrà a definire le proprie visioni
formali nella più assoluta indifferenza per qualsiasi concreto condizionamento
od aggancio organizzativo (fatto questo che con altri suoi tipici atteggiamenti
- ai quali ho già accennato - costituirà a mio avviso un non tracurabile
precorrimento del formalismo proprio di certi settori - accademici e classicisti
- della Rinascenza). La seconda fu il suo gusto per la miniaturizzazione
delle forme architettoniche (la quale conseguirà il suo capolavoro oltre
un ventennio più tardi nel «tempietto del Santo Sepolcro» a Firenze) che
riscatta e fissa nella preziosità dello scrigno ogni eventuale riferimento
all'inconsistenza e alla provvisorietà del plastico modellino in scala.
Ma
per quanto attiene alla stranezza - o, se si vuole, alla spregiudicatezza
- che mi è sembrato di dover rilevare nell'arco ferrarese, c'è dell'altro.
Intendo
riferirmi alla reciproca posizione dell'arco e del cavaliere. La poetica
dell'arco trionfale è prettamente legata ad una concezione urbanistica.
Ed è ovvio che si trattasse di una concezione scenografica. Nella sua
assoluta mancanza di funzionalità pratica, nella sua qualità di edificio
"inutile", tutto rivolto all'esterno, quasi privo di spazi interni
e nato invece per investire uno spazio, l'arco celebrativo serviva solo
a definire e puntualizzare una meta topografica (ma che diveniva anche
una meta emblematica per chi aspirasse a tali glorificazioni), il punto
conclusivo di un lungo corso trionfale, l'accesso ad un ampio spazio da
parata, o quello ad una città rivolto verso la lunga strada provinciale. Esso
era destinato a celebrare un personaggio e più ancora a glorificare un'Idea.
Nella pretta tipologia classica, al di sopra del suo attico, sul piano
orizzontale corrispondente alla base superiore del monumento (specificamente
in quelli che l'Alberti poteva aver osservato a Roma) non era disposta
alcuna figura. Ma quand'anche volessimo immaginarcelo un trionfale coronamento
di tal genere (come quelli di cui si avrà qualche atipica invenzione in
epoca neoclassica - per esempio nell'arco delle Vittorie a Milano) esso,
rappresentando l'apoteosi di quei personaggi e di quelle gesta a cui l'opera
era dedicata, e che talvolta erano descritte nelle sculture e nei rilievi
sottostanti, necessariamente non avrebbe potuto esser disposto altrimenti
che incontro a chi stesse per attraversare il fornice sacro, e perciò
stesso dovevano necessariamente esser orientate secondo l'asse longitudinale
del passaggio. A
Ferrara, invece, se è vero che l'arco fosse isolato nella piazza, doveva
verificarsi una triplice assurdità: quella costituita dalla sproporzione
già commentata fra l'arco e la statua equestre; quella rappresentata dal
rapporto esiguo di tutto il monumento nel suo insieme rispetto all'ampio
spazio urbano che avrebbe dovuto investire; e per terza il fatto che,
mentre il fornice dell'arco doveva giustamente esser disposto secondo
l'asse del corso che rasentava la fronte del castello estense conducendo
alla piazza della Cattedrale, il gruppo scultoreo era invece ruotato di
novanta gradi e mostrava ai sopravvenienti il proprio fianco… E non avrebbe
potuto essere altrimenti se sul basamento si voleva posare gli zoccoli
e non il ventre del monumentale cavallo. Se
dunque il duca Ercole I dispose lo spostamento dell'arco al limite della
piazza, dobbiamo idealmente congratularci con lui per la sua intelligenza
e cultura. Egli è, fra tutti coloro che misero effettivamente mano all'impresa,
quello che ha dimostrato la più acuta sensibilità critica e di gusto (ciò
del resto non stupisce, ben nota essendo la sua competenza urbanistica:
si pensi alla collaborazione con Biagio Rossetti e alla cosiddetta «addizione
erculea» di Ferrara, primo esempio moderno di espansione urbana programmata).
L'arco infatti, appoggiato ad uno dei palazzi, dovette acquistare un minimo
di logica formale. Uscendo dal muro, esso investiva uno spazio più modesto
e molto più proporzionato alla sua mole. E l'effigie del Marchese, quand'anche
guardasse (come quella modellata nella statua tuttora in opera) da un'altra
parte, poteva finger che egli venisse fuori dall'edificio per recarsi
magari ad una cerimonia in Cattedrale; con minore spirito di glorificazione,
certo, ma con una misura di realistica concretezza in qualche modo più
appropriata alle tradizioni di pragmatica intraprendenza espresse - come
ci ricorda Mario Petrini nel suo citato saggio - da queste casate ancora
al tempo di Niccolò. Si
tratta certo di una "lettura" ipotetica che l'attuale sistemazione
non molto conforta: la reciproca posizione dei due monumenti, qual'è oggi,
decisamente priva di una logica formale, esclude in pratica qualsiasi
opportunità "tecnica" di passare sotto l'arco e riduce questo
ad una gratuita sporgenza che non sta «in mezzo alla piazza» e nemmeno
travalica il marciapiede e in definitiva offre solo un appoggio "pronto"
per l'inseparabile bicicletta a qualche indaffarato ferrarese. Tornando
all'Alberti, l'episodio rappresenta un altro esempio - oltre quello costituito
dal problema delle fonti della sua trattatistica - del suo duplice atteggiamento:
di stretta osservanza nei riguardi dei classici, e di condiscendente spregiudicatezza
verso i suoi contemporanei. Rimane
ora da discutere un ultimo - ma tutt'altro che trascurabile - aspetto
della problematica che è stata oggetto di questo lavoro: il problema della
collocazione temporale del monumento equestre a Niccolo III, del connesso
«De equo animante» e - come sembra pacificamente ipotizzabile - di tutto
il "blocco" dei contributi ferraresi dell'Alberti. Alcuni
studiosi (Mallè, Garin), nelle opere citate, connettono tale blocco alla
prima sosta ferrarese dell'artista impegnato nel suo ufficio curiale,
che ebbe luogo nel 1438. Altri l'hanno fatta scorrere di qualche anno:
fino al 1441 (Grayson) o '42 (Fava, Morolli, Borsi), e di ciò in verità
non afferro un fondamento logico[96]
- se non quello che essi si sono rifatti alla (del resto preziosa) «Vita»
scritta dal Mancini (il Morolli lo dichiara esplicitamente alla pagina
11 del suo citato regesto, poi riportato tal quale nella monografia del
Borsi)[97]
-, anche perché questo "momento" - albertiano e ferrarese -
è trattato sempre molto di volata. Ho rilevato tuttavia con soddisfazione
che Mario Salmi, nel riferire anch'egli nella sua citata relazione ai
Lincei[98]
questa data, 1442, vi appose un bel punto interrogativo. Lo Zevi la sposta
ulteriormente: al 1443. Cominciamo
dunque con lo stabilire i termini cronologici estremi ("post quem"
e "ante quem") entro i quali può esser compresa la questione:
da una parte, la morte del marchese Niccolò, avvenuta il 26 dicembre 1441
(e conseguente ascesa di Leonello al trono della signoria il 29 dicembre);
dall'altra l'effettiva erezione della statua equestre: il dì dell'Ascensione,
2 giugno, dell'anno 1451. Tale
periodo può già esser ristretto considerando la data della deliberazione
di erigere il monumento in onore del defunto Marchese (1443, come riscontrabile
nelle citate fonti documentarie) e la data della morte di Leonello (I
ottobre 1450), com'è ovvio, essendo questi il prìncipe al quale l'Alberti
dedicò tutti i suoi lavori "estensi". Altre
due date ancora più vicine fra loro (e quindi atte a restringere ulteriormente
l'arco cronologico "dell'incertezza") sono: quella della votazione
dei XII Sapienti (27 novembre 1444) relativa ai bozzetti presentati da
«ottimi artisti» come poi li definì l'Alberti, con la quale si concludeva
il concorso per l'allogazione del monumento; e quella del 7 agosto 1445,
di apertura a Roma dell'ultima sessione del Concilio che, partito con
la sede e il nome di Basilea, diventato per via Concilio di Firenze, ebbe
a Basilea e a Losanna solo la sua "controparte", mentre la parte
ufficiale e legittima si svolse nelle sedi di Firenze, di Bologna, di
Ferrara, nuovamente di Firenze, infine di Roma, dopo il rientro del Papa
- che ne era fuggito nove anni prima - con due sessioni, la penultima
delle quali aveva avuto luogo il 30 ottobre del 1444. Entro
questo ristretto periodo compreso fra il 27 novembre 1444 e il 7 agosto
1445 - contrariamente a quanto affermato dalla maggioranza degli studiosi
(anche da specialisti di cose ferraresi, come Domenico Fava) - deve necessariamente
cadere la seconda permanenza dell'Alberti a Ferrara (la prima era stata
nel 1438, quando vi ebbe sede il Concilio; e in quella data il Garin[99]
e il Mallè[100]
posero insostenibilmente le opere estensi dell'Alberti, compresa la stesura
del «De equo animante»). Non
è infatti logicamente supponibile che il Prìncipe estense affidasse alcun
incarico attinente al monumento prima ancora che «il Senato e il Popolo»,
secondo l'espressione del Borsetti, di Ferrara decretassero l'erezione
di esso, il che - come abbiamo visto - avvenne solo nell'anno 1443. E
nemmeno nel tempo medesimo nel quale i XII Sapienti, in commissione, giudicavano
i bozzetti presentati: chi doveva giudicare? L'Alberti o la commissione?
Quando poi l'Alberti stesso afferma nel suo proemio: «per tuo comando
scelsero quale giudice ed esperto me che mi diletto alquanto di pittura
e scultura». Nulla
osta invece a supporre che il Prìncipe inducesse i membri del collegio
dei Dodici a rivolgersi per consiglio all'Alberti, visti i rapporti di
cordiale amicizia che lo legavano sia a Meliaduse che a Leonello, al quale
ultimo - proprio in nome dell'amicizia del primo - aveva già dedicato
il «Filodosso», e più tardi - alla data della morte del marchese Niccolò,
appunto -, quasi a titolo di consolazione, dedicato ed inviato il «Teogenio»,
dichiarando nella relativa lettera[101]:
«…aspetta di dì in dì quanto mi richiedesti ricevere da me simili argumenti
e segni dell'amore, quale io a te porto. Ubbidirotti: comunicherò teco
le cose mie per l'avvenire con più larghezza…». Non è invece facilmente
supponibile che l'Alberti, il quale aveva seguito il Papa in tutti i suoi
spostamenti di questi anni di esilio da Roma, potesse allontanarsi dal
suo ufficio curiale nei momenti "caldi" dello scisma basilese.
Ma proprio nel 1443, col rientro del Papa a Roma - il 28 di settembre
- e con la deposizione dell'antipapa Felice V (Amedeo di Savoia) - il
4 di novembre -, si avviava alla composizione ogni vertenza e le cose
prendevano una piega sostanzialmente favorevole al Papa legittimo. Il
30 ottobre 1444 si sarebbe aperta la prima sessione romana (penultima
in assoluto) del Concilio; mentre l'ultima avrebbe avuto luogo il 7 agosto
1445, dopo circa una decina di mesi. L'anno ancora successivo, 1446, l'Alberti
risulta già preso da impegni diversi per una serie molto importante di
opere immediate e di progetti imminenti: a Roma, a Firenze ed a Rimini.
Considerati tutti questi fatti e tutte queste date, mi pare ragionevole
dedurre che le cose si siano svolte come passo ad esporre. Essendo
la votazione dei Sapienti a Ferrara riuscita quasi in parità (dovendosi
mettere in conto un'assenza - o piuttosto un'astensione -, dal momento
che i Sapienti erano 12 e i voti scrutinati 11: cinque per l'uno e sei
per l'altro concorrente; cosa che peraltro si può spiegare con la facile
supposizione che colui il quale ricopriva la carica di «Giudice dei XII
Savi», e al quale spettava l'ufficio di riferire le decisioni al prìncipe,
per norma non prendesse parte alle votazioni, risaultandone così garantita
l'impossiblità di un verdetto di parità), e avendo la commissione verbalizzato
la generale ammirazione per entrambi i bozzetti, risultati somigliantissimi
al defunto Marchese e tanto pregevoli che solo agguerriti competenti d'arte
avrebbero potuto esprimere una ragionata preferenza[102],
Leonello, il quale ricordava l'assoluta disponibilità e devozione preclamata
dall'Alberti nel passo del «Teogenio» che ho citato, e che forse aveva
già in mente di affidare a lui la sistemazione del progettato monumento
sulla piazza, abbia conluso che forse era giusto che fosse lui stesso
a dire l'ultima parola anche circa la scelta del bozzetto. Di qui il suo
"suggerimento" di rivolgersi all'illustre ospite. Il termine
suggerimento è, credibilmente, eufemistico. Più rispondente a verità sembra
l'espressione «tuo iussu» usata dall'Alberti, che sul piano testuale presenta
qualche problema del quale esporrò i termini dettagliatamente a suo luogo.
Questa analisi dei fatti, anzi, ha un peso anche ai fini di quella questione
perché la presenza nel testo delle parole «tuo iussu» risulta alla luce
di essa del tutto attendibile sia sul piano della concatenazione cronologica
dei fatti, sia su quello della loro logica interna[103]. L'Alberti,
a sua volta, nell'intervallo fra le due tornate romane del Concilio ormai
rasserenato, avrà potuto più facilmente chiedere al Papa la licenza di
allontanarsi per qualche tempo dal suo ufficio di "abbreviatore apostolico".
E nell'arco di alcuni mesi può aver soddisfatto ogni richiesta del Marchese
amico: sia col fornirgli disegni per il basamento necessario alla collocazione
della statua equestre, e per il campanile della Cattedrale, sia col dargli
il suo consiglio circa la scelta dell'artista fra quelli concorrenti all'ambita
commissione. Per
quest'ultima faccenda, egli, o per solidarietà con entrambi gli artisti
- fiorentini come lui[104]
-, o per compiacere ciascuno dei due gruppi - numericamente non molto
disuguali - nei quali si erano divisi nella votazione i XII Sapienti,
o per intima coerenza con la sua filosofia della "tranquillità dell'animo"
e della "composizione dei contrari", o perché in definitiva
anch'egli ammirava entrambi i bozzetti, o piuttosto perché la cosa non
lo tangeva eccessivamente, espresse quel giudizio (che Corrado Ricci[105]
definì «alquanto salomonico»), promuovendo la spartizione della commessa
fra i due artisti. A
Niccolò Baroncelli (che nella votazione aveva ottenuto cinque preferenze)
toccò di modellare il cavallo. Glie ne derivò, per quell'eterna arguzia
che caratterizza l'ambiente degli artisti, il nomignolo di Niccolò del
Cavallo, che equivale a dire «colui che poté fare il ritratto soltanto…
al cavallo». E gli rimase così bene appiccicato da essere ereditato, come
un secondo cognome, da suo figlio, se è vero che in documenti più tardi
troviamo quest'ultimo citato come «Giovanni dal Cavallo»[106]. Va da sé che la
permanenza di alcuni mesi nello splendore della corte estense, con impegni
di lavoro non gravosi e che erano anzi per lui più un piacere che una
fatica, perché oltretutto gli schiudevano gli orizzonti e suscitavano
in lui gli estri della creatività figurativa, se dobbiamo avallare (come
io credo) le diffuse supposizioni relative alle sue possibili progettazioni
ferraresi, che - ove fossero certe - rappresenterebbero il suo esordio
nel campo dell'arte; ed in più offertagli dopo tanti affanni e dispiaceri
anche per fatti strettamente personali (se è vera la storia dell'attentato
alla sua vita di cui parla l'anonimo biografo suo contemporaneo, che alcuni
vogliono fosse egli stesso[107])
e tanto girovagare al seguito di Papa e prelati per il suo ufficio e specialmente
durante lo svolgimento delle drammatiche vicende dello scisma; dovette
essere per lui come una meravigliosa, distensiva e proficua vacanza, come
crede anche Bruno Zevi[108],
e come si ricava pure - con plausibile rispondenza - dalle importanti
osservazioni di tipo socio-economico e ideologico fatte da Mario Petrini[109]. Forse
proprio questo stato d'animo, più di ogni altra considerazione, può farci
comprendere come egli abbia voluto dare libero sfogo alla sua estrosità
e alla sua «abitudine di esercitare l'ingegno», improvvisando questa peregrina
dissertazione sulla vita del cavallo. LA CONCLUSIONE E I RINGRAZIAMENTI Credo
in verità che questo libro, prima presunto da molti come pertinente agli
studi di Storia dell'Arte, poi - da me - a momenti lasciato perdere come
estraneo ai miei interessi, abbia finito con l'acquistare - attraverso
reiterate ricerche e approfondimenti - una validità molteplice. Se
da una parte infatti esso pur sempre rappresenta un utile contributo alla
sistemazione della bibliografia albertiana e alla "letteratura artistica"
in genere, specialmente per quanto attiene alla storia del monumento equestre
ferrarese, dall'altra parte può esser proposto senza tema che rimanga
negletto, anche ai molti studiosi e appassionati della storia del cavallo;
mentre mi pare che possa ugualmente esser fatto presente anche agli studiosi
di letteratura e di filologia umanistica - i quali non si erano mai proposti
di divulgarlo salvo che per qualche passo del proemio - nonché a quelli
di Storia della Veterinaria. A
tal proposito, anzi, mi vien fatto di riconsiderare i quesiti posti dallo
studioso Charles B. Schmitt, del «Warburg Institute» a conclusione di
un ciclo di conferenze tenute da noi, nell'«Istituto italiano per gli
studi filosofici» sul tema dell'aristotelismo nel Rinascimento, e le risposte
da lui sollecitate con l'auspicare contributi di ricerca da condurre nell'àmbito
di una problematica entro la quale tutte queste discipline trovano - a
suo dire - una connessione particolare. Mi sembra infatti che questo lavoro
possa, con felice coincidenza[110],
costituire proprio un contributo di tal genere. Lo
studioso sollecitava incrementi della registrazione di informazioni e
della sistemazione di fonti bibliografiche d'epoca; e poneva altresì l'accento
sulla necessità - per migliorare le conoscenze relative al secolo Quindicesimo
- di chiarire i rapporti fra l'istruzione letteraria e - per esempio -
lo studio della medicina, per il quale la prima (insieme alle ricerche
astrologiche ed astronomiche, matematiche e filosofiche) pare fosse assunta
come imprescindibile (ma anche strumentalizzata) formazione, propedeutica
alla ricerca scientifica. Fatto
questo che lo Schmitt poneva in rapporto con la singolare simbiosi di
esoterismo, scolasticismo e "ideologia", tipica di quel momento
storico di frizione fra aristotelismo e neoplatonismo, configurabile al
tempo stesso come «l'autunno del Medioevo» e la primavera dei tempi nuovi. Ringrazio
vivamente il professor Fernando Gritta, da sempre mio carissimo e riconosciuto
maestro di lingua latina, per l'incoraggiamento e il sostegno che, in
fase di ricostruzione e di interpretazione del testo albertiano, mi sono
venuti dalla sua gratificante e disponibile consulenza, prestata sempre
con serena e partecipe affettuosità. Un
riconoscente pensiero debbo esprimere anche al caro amico avvocato Francesco
Mammalella per la liberalità e la sollecitudine - sempre arricchita di
cólti pensieri - con le quali ha voluto far sì che in ogni momento potessi
avvalermi delle opportunità offerte dalla sua doviziosa e preziosa biblioteca
umanistica. Particolari
ringraziamenti, naturalmente, vanno indirizzati ai funzionari della Biblioteca
Universitaria di Basilea, della Bodleian Library di Oxford, della Biblioteca
Vaticana e della Biblioteca Estense di Modena per la straordinaria disponibilità
da essi dimostrata. *Michele Martino Stella, nella sua edizione del trattato, antepose al testo albertiano la seguente lettera dedicatoria:
[1] Non credo sia opportuno impostare una indagine per appurare quali e quanti siano i manuali per i licei che menzionano il «De equo animante», anche se la cosa non mancherebbe di presentare un certo interesse, almeno da qualche particolare punto di vista. Ciò non per tanto, io di certo ne conosco uno: ROSARIO TOSTO, Compendio di Storia della Letteratura italiana, Vallecchi, Firenze 1958. Nel quale peraltro a pagina 131 si legge a proposito dell'Alberti: «…nel De equo animante si occupò della statua equestre che i Ferraresi volevano innalzare al marchese Niccolò III». Dunque, anche prescindendo dallo strano "imperfetto" «volevano» del quale non è chiaro il senso, appare chiaro invece che anche questo autore era partecipe di tutti gli equivoci correnti su questo soggetto, sui quali mi fermerò esaurientemente più avanti. [2] Intendasi l'Istituto di Storia dell'Arte Medioevale e Moderna della Facoltà di Lettere e Filosofia, attualmente annesso al Dipartimento di Discipline storiche dell'Università «Federico II». [3] Cfr. VALERIO MARIANI, Equo animante (sic), in «Idea», A. II, num. 34, Roma 3 sett. 1950, pag. 3. [4] Uso, beninteso, questa parola nel senso culturalmente più lato. [5] Cfr. L. B. ALBERTI, Apologhi ed elogi, a cura di R. CONTARINO e con una presentazione di L. MALERBA, Costa e Nolan, Genova 1984: in Nota al testo, pag. 198 [6] Cfr. Opuscoli inediti di L. B. ALBERTI, «Musca» - «Vita S. Potiti», a cura di CECIL GRAYSON, Olschki, Firenze 1954; in Prefazione, a pag. 10. [7] Ibidem. [8] IACOPO MORELLI, Operette, 3 voll., «Tipografia di Alvisopoli», Venezia 1820, vol. II, pag. 255. [9] Cfr. R. CONTARINO, op. cit., pag. 200. [10] È ben noto e sempre vivo il diffuso costume per il quale amministratori e conservatori dei beni culturali ritengono le collezioni a loro affidate come personali "riserve di caccia", entro le quali nessun altro che essi stessi devono poter mettere le mani; naturalmente a comodo, senza fretta, quando ne abbiano voglia, tempo e convenienza: l'importante è nel frattempo (…un "frattempo" che può comportare dei decenni) che il minor numero possibile di "estranei" (da tener lontani con gli atteggiamenti e i metodi più speciosi) vi "ficchi il naso". [11] In definitiva io mi intrometto in questa particolare problematica da storico dell'arte, non da filologo umanista. Potrà darsi che in questo lavoro non siano - sul piano meramente schematico - applicati certi formulari nella maniera e nella misura più rigorosamente convenzionali (talvolta criptici per i non "iniziati", laddove io vorrei poter esser letto da chiunque) che uno specialista potrebbe attendersi. D'altra parte era una intromissione fatale e plausibile, visto che in tutto il tempo intercorso da quando nelle nostre università si parla italiano nessun filologo si era assunto il cómpito di rendere questo piccolo testo - ma problematico e dalle molteplici connessioni - disponibile per gli studiosi di ogni altro campo di ricerca. * Nell'edizione elettronica Manuzio, ai rimandi relativi all'edizione cartacea faremo seguire, tra parentesi quadra, l'indicazione dei passi o delle note corrispondenti nell'e-text. [12] Cfr. GIROLAMO MANCINI, Vita di Leon Battista Alberti, Carnesecchi, Firenze 1911; ed. usata: Bardi Editore, Roma 1967, pagg. III (in particolar modo), e 178 n. 5. [13] Debbo avvertire, peraltro, che in alcuni casi anche il supporto delle stesure vere e proprie non rende giustizia al testo. E che perciò gli interventi del Mancini appaiono ragionevoli (pur a dispetto dell'ortodossia filologica), e talora inevitabili. Anche questi casi saranno, com'è ovvio, puntualmente segnalati. [14] Certo, suppongo che un impegno del genere debba risultare tanto più arduo quanto più alto sia il livello del testo trattato; per esempio quando invece che di un trattatello di ippologia si trattasse di una personalissima e preziosa creazione di poesia (penso, fra l'altro, alla enorme e dibattutissima filologia dantesca, per nulla scevra, mi pare, da procedimenti congetturali). [15] I luoghi sono contrassegnati con due numeri, dei quali il primo ìndica la pagina di questo volume, il secondo la nota relativa alla parola o al passo in questione. [16] Nel tabulato le lettere a, b, c, d ed e scritte in cima alle colonne indicano le seguenti cinque combinazioni: sotto a sono elencati i casi in cui nel codice Ottoboniano si riscontra qualche parte in meno rispetto all'altra stesura; sotto la b sono elencati i casi (contrari) nei quali è il codice Canoniciano a presentare qualche lacuna testuale rispetto all'Ottoboniano; sotto la c sono elencati i casi nei quali la lezione data dallo Stella nella sua edizione risulta conforme a quella del codice vaticano; sotto la d i casi nei quali la lezione dello Stella risulta coincidente con quella del codice di Oxford; sotto la e, infine, i casi nei quali la lezione data dallo Stella risulta terza rispetto a quella dei due manoscritti, ossia è differente da quelle di entrambi. [17] Nella prima edizione di questo lavoro avevo lasciato tal quale il suo secondo nome, Odo, per rispettarne la singolarità. Ora mi sembra preferibile tradurlo regolarmente in Odone, sebbene anche la forma trasposta invariata non manchi di qualche documentazione significativa: si pensi al trecentesco poeta della scuola siciliana Odo delle Colonne (si trovano invero anche due santi menzionati con questa forma del nome: Oddone di Cluny - 880 c.- 942 -, che viene chiamato talvolta anche Odo, e Odo - detto anche Oda di Canterbury - del secolo Decimo; ma ritengo che nella fattispecie non sia da tenerne conto, vuoi per l'epoca di molto precedente a quella del Covato, vuoi perché si tratta di nomi espressi in lingue straniere). Inoltre, siccome oltre alla forma Oddone viene registrata anche quella con una sola -d-, ho preferito proporre quest'ultima, meno distante dal nome originario. [18] Enciclopedia Italiana, vol. I, Treccani, Roma 1929, pagg. 732 e 733. [19] Nell'op. cit., vol. II, a pag. 271. [20] Cfr. PIO RAJNA, G. Mancini, commemorazione scritta in occasione della morte dello studioso; in «Il Marzocco», A. XXIX, num. 7, Firenze 17 febbr. 1924, pagg. 1-2. [21] G. MANCINI, Vita di Lorenzo Valla, Sansoni, Firenze 1891. [22] G. MANCINI, Vita di Leon Battista Alberti, Sansoni, Firenze 1882. [23] G. MANCINI, Vita di Leon Battista Alberti, ed. 1911 (cit.), pag. IV. [24] Già, perché, in controparte con le cosiddette "citazioni d'obbligo", vi sono quelle che "assolutamente non vanno fatte", perché relative a titoli non consacrati, o non peregrini e sofisticati, o non prestigiosi e difficili tanto da costituire attributi di distinzione per chi mostra di praticarli, ma invece appartenenti ad una pubblicistica di piana acquisizione per ciascun determinato argomento, e che perciò non dà lustro. In tal caso, anche se poi ci è stata in qualche modo utile, è convenuto che si debba ripagare tale utilità con l'ingratitudine del silenzio. [25] Voglio sperare che non si confonda questo discorso con un qualunquistico inno ad una "orgogliosa ignoranza". È chiaro che talune cose debbono costituire un indispensabile patrimonio - che deve essere comunque "a monte", di volta in volta, dei lavori che si intraprendono -. Ma ciò - a mio avviso - non vuol dire che se ne debba fare l'elenco completo in ogni occasione in cui si metta penna su carta, anche, cioè, quando manchi una connessione diretta e funzionale col discorso in atto. [26] È menzionato in PAUL OSKAR KRISTELLER, Iter italicum etc., 2 voll., «The Warburg Institute» e E. J. Brill, London e Leiden 1967, pag. 423 b, come «De equo animanti»; ma si tratta certamente di un accidente tipografico, visto che nel codice questa desinenza in -i non compare in nessun luogo. [27] Cfr.: I. MORELLI, op. cit., vol. II, pagg. 255-256; HENRY O. COXE, Catalogi codicum manuscriptorum Bibliothecae Bodleianae, pars tertia, «The Bodleian Library», Oxford 1854, pag. 553; C. GRAYSON, Prefazione a Opuscoli inediti, ed. cit., pag. 10; JOHN BAPTIST MITCHELL, Trevisan and Soranzo: Some Canonici manuscripts from tow eighteen-century Venetian collections, in «The Bodleian Library Record», vol. VIII, Oxford 1969, pagg. 125-135 (con ulteriori interessanti indicazioni bibliografiche specifiche passim); R. CONTARINO, op. cit., pagg. 198 e 200. [28] Nella locale Biblioteca Universitaria (Universitäts Bibliothek, Basel) con la segnatura: «Catalog C.C. VIII. 37.». [29] Un parere analogo si trova espresso da C. GRAYSON, in Il prosatore latino e volgare in Convegno internazionale ecc., ed. cit., a pag. 280 n. 21; e da GIOVANNI PONTE, in Leon Battista Alberti umanista e scrittore, Tilgher, Genova 1981, a pag. 135. [30] Dagli anni del "centenario" in poi, però, sono apparsi vari studi relativi a questo problema e ad altri ad esso connessi. Posso segnalare - oltre ai già citati studi del GRAYSON (al convegno dei Lincei), del PONTE (in varie parti della sua monografia), del MALERBA e del CONTARINO (passim) - le relazioni di MAURIZIO DARDANO (L. B. Alberti nella storia della lingua italiana) e di EDOARDO VINEIS (La tradizione grammaticale latina e la grammatica di Leon Battista Alberti) al medesimo convegno accademico. [31] Si badi però che ai fini di una storiografia della bibliografia albertiana tale voce va fatta risalire fino al 1958 (data della prima edizione - da «Istituto per la collaborazione culturale», Venezia, Roma, Firenze - dell'opera) poiché la ristampa qui citata non è stata in alcun modo modificata o aggiornata, per cui ne restano fuori, per esempio, tutti gli studi fioriti nell'occasione del quinto centenario della morte dell'Alberti (1972) e intorno ad esso. [32] Della lista degli studi apparsi in occasione del "centenario" fanno parte anche: gli atti del convegno mantovano dedicato a Il Sant'Andrea di Mantova e Leon Battista Alberti, Città di Mantova e Accademia Virgiliana, Mantova 1974; e la Miscellanea di studi albertiani curata dal Comitato genovese per le onoranze a Leon Battista Alberti ecc., Tilgher, Genova 1975. Tutti questi contributi alle problematiche albertiane furono preceduti di un buon decennio dall'uscita del primo volume (1960) della edizione delle Opere volgari in 3 volumi curati dal GRAYSON, Laterza, Bari, protrattasi peraltro fino al 1973. [33] Intendo alludere all'assoluta mancanza, in questa piccola dissertazione sul cavallo, di contenuti teorico-figurativi, che - come ho già scritto all'inizio di questa introduzione, nel paragrafo «I MOTIVI», alle pagg. 1-3 ["Strani destini… il mio proposito"] - erano proprio il "bersaglio" che di primo acchito uno storico dell'arte, anzi "della critica d'arte" poteva sulla linea di partenza proporsi per questo lavoro. Che era poi il tipo di curiosità che mi esprimeva anche Carlo Pedretti, il quale, durante una conversazione privata successiva all'uscita della prima edizione di esso, mi chiedeva fra l'incuriosito e il rammaricato, lumi a proposito di questa per noi deludente constatazione. [34] Anche se le opere d'arte possono renderne i soggetti ritratti più vivi che mai, fino a rivelarne (secondo i neoplatonici) l'essenza stessa delle cose (ma già prima, proprio al tempo dell'Alberti ed anche per influenza di lui, si tendeva a concepire la figura dell'artista mago, come scrive L. VENTURI nell'op. cit. a pag. 96) e fino a giungere all'"esagerazione" romantica secondo la quale "è la natura che imita l'arte". [35] Il participio ricorre esattamente due volte a pag. 86 ["… horum animantium ope…"; "… quod est hoc unum animans…"], e poi alle pagg. 88 ["Gratum aspectu animans…"], 148 ["… Sed quando hoc unum anomans…"], 174 ["… non recte valere animantem…"] e 180 ["… non pessume valere animantem…"]. [36] In Un'opera sconosciuta ecc., citato. [37] Cfr. op. cit. pag. 25. [38] Cfr. AA. VV., […] Emilia e Romagna, ed. cit., pagg. 618-619. [39] Il quale infatti scrive: «…contentandomi dell'osservare che la ricerca delle fonti […] rivelerebbe ancora di più la vasta erudizione dell'Alberti…», dunque anteponendo le conclusioni alla ricerca… Cfr. Il prosatore latino e volgare, ed. cit., pag. 280. [40] Nell'op. cit., a pag. 135. [41] Nell'op. cit., a pag. 23. [42] Op. cit., a pag. 25. [43] Cfr. L. GIANOLI, op. cit., pag. 408 b. [44] In V. CHIODI, op. cit., pag. 134. [45] Cfr. L. GIANOLI e U. BERTI, op. cit., pag. 43. [46] L. GIANOLI, op. cit., pag. 85 a. [47] In Umanesimo e Rinascimento, ed. cit., pagg. 71 e 72. («In questo suo atteggiamento v'è certo qualche superbia nobiliare e accademica, ma v'è anche un'elevatissima coscienza dell'arte…» e «…non ultimo dei suggerimenti che l'Alberti dà al suo ideale architetto è quello di avvicinare soltanto mecenati d'alto lignaggio.») [48] Cioè fino all'avvento del grande CARLO RUINI (1530-1598). La cui opera «Della anatomia et delle infermitadi del cavallo» fu pubblicata a Bologna l'anno stesso della sua morte. [49] Cfr. per tutta questa problematica: J. SCHLOSSER MAGNINO, op. cit.; AUTORI VARI, Trattati d'arte del Cinquecento, 3 voll. a cura di PAOLA BAROCCHI, Laterza, Bari 1960-1962; LUIGI GRASSI, Teorici e storia della Critica d'Arte, 3 voll., Multigrafica Editrice, Roma 1970-1979; ELISABETH G. HOLT, Storia documentaria dell'arte - Dal Medioevo al XVIII secolo, Feltrinelli, Milano 1972; L. GRASSI e MARIO PEPE, Dizionario della Critica d'Arte, 2 voll., UTET, Torino 1978. [50] Op. cit., pag. 256, ove si contesta in particolare la validità di quella testimonianza di Cristoforo Landino nelle «Disputationes Camaldolenses», sulla quale alcuni, come il Kristeller, fondano il loro convincimento relativo ad un Alberti platonico. [51] Possiamo individuare nello Zoubov e nel Kristeller due significativi esempi di questa tipica contrapposizione di opinioni. [52] Un "motivo" che ha già avuto un suo specifico sviluppo in una monografia di EMILIO MATTIOLI: Luciano e l'Umanesimo, Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli 1980. [53] L. B. ALBERTI in De commodis litterarum atque incommodis, citato dal MANCINI nella Vita ecc., ed. cit., a pag. 85 e ivi nella n. num. 5. [54] Op. cit., pag. 77. [55] Cfr. fra i testi già indicati a pag. 22 [cfr. Gli strumenti]. [56] Cfr. M. L. GENGARO, Leon Battista Alberti teorico ecc., ed. cit., pag. 12. [57] Su questo concetto si era già soffermato acutamente e innovativamente - mi pare, almeno sul piano della critica figurativa - Mario Salmi nel citato saggio, alle pagg. 10 e 11, ponendo chiaramente in rilievo un legame culturale e di gusto - di certo tuttora sussistente nell'Alberti all'epoca dei suoi primi contatti fiorentini - con il mondo medioevale. Forse, a ben pensarci, proprio questa interiore e radicata consentaneità dovette giovargli nella sua così armoniosa ed immedesimata interpretazione di quanto già esisteva della bella facciata fiorentina che ho testé ricordato. E se così è, si trattò di una propensione durevole ove si consideri la collocazione cronologica di tale opera, che è già nella seconda metà del secolo (la facciata fu compiuta nel 1470). [58] Cfr., V. ZOUBOV, op. cit., pag. 254. [59] Si vedano le interessanti pagine dedicate a tale argomento da N. PAZZINI nell'op. cit., vol. I, alle pagg. 382-385 e 391 e segg. [60] …E si consideri che questo modo di vedere le cose si protrasse perfino oltre la durata della vita stessa dell'Alberti, con figure molto meno mitiche di quelle or ora menzionate, e - invece - storicamente certe, nelle quali tale tendenza e il relativo filone di pensiero sussistevano ancora ben dentro al secolo successivo. Si pensi per esempio al medico e filosofo tedesco Heinrich Cornelius, meglio noto come Agrippa von Nettesheim (1486-1535), il quale portò avanti la tradizione magico-astrologica fino ad agganciarla a quella cabalistica di matrice spagnola nelle opere «De occulta philosophia» (1510) e «De incertitudine et vanitate scientiarum» (1527). [61] Nell'op. cit., a pag. 256. [62] GIULIO CARLO ARGAN, L'Architettura barocca in Italia, Garzanti, Milano 1957, pag. 19. [63] Significativa in tal senso la sua rinuncia agli studi bolognesi per la laurea in Diritto Canonico (quando aveva conseguito solo un titolo intermedio in «Decreti»). Cfr. G. MOROLLI, op. cit., pag. 11. [64] Cfr. M. PETRINI, op. cit., pagg. 666-669. [65] Il passo è tolto dal De pictura, ed. a cura di L. MALLÈ, cit., pagg. 92-93. Non pare di presentirvi già i precetti del Gilio e del "pentito" Ammannati, o le reprimende di Biagio da Cesena?… [66] Acutamente il Salmi, nel citato saggio (alle pagg. 10 e 11), rileva la prevalenza nell'Alberti di questi anni, degli interessi tecnici su quelli estetici, supponendo che una delle principali motivazioni della toccante ed entusiastica lettera dedicatoria del «De pictura» stia nella «commossa ammirazione con cui l'Alberti (a Firenze nel 1434, al seguito di Eugenio IV) aveva seguito il sorgere della cupola di Santa Maria del Fiore.», ma ponendo altrettanto in rilevo che nella lettera stessa «manca ogni giudizio di ordine estetico sulla cupola…». [67] All'epoca di questi fatti sussisteva ancora nella piazza di Pavia la statua equestre bronzea di imperatore romano chiamata «Regisole» (che poi fu distrutta anch'essa, proprio come questa di Ferrara, durante gli eventi rivoluzionari della fine del Settecento). Ma essa non era posteriore al tempo degli Antonini. Le trecentesche arche di Verona, d'altra parte, presentano materia, caratteri e intenti di differente natura. [68] In Leon Battista Alberti teorico ecc., ed. cit., pag. 47. [69] Nella sua scheda I trattati d'Arte della Enciclopedia […] dell'Arte, ed. cit., vol. I, col. 216. [70] In La letteratura degli Umanisti, ed. cit., pag. 266. [71] Come V. MARIANI, nel citato articolo. [72] Nell'op. cit., vol. II, pag. 271. [73] Nell'op. cit. di CLAUDIO ERMÈROTE. [74] Nell'op. cit. a pag. 121. [75] Georgiche, III 550. [76] Nelle parti di sua pertinenza annesse all'op. cit. di CLAUDIO ERMÈROTE. [77] Interessante in proposito quanto narra A. AZZAROLI (nell'op. cit., a pag. 56) a proposito degli Sciti. Del resto la storia si è ripetuta ancora tanti secoli dopo, all'epoca dei conquistadores spagnoli degli imperi precolombiani, quando tanto tragicamente si affrontarono da una parte l'ingenuità dei sudditi di Montezuma e di Atahualpa, e dall'altra l'astuzia sleale e l'avido e sanguinario cinismo di Cortés e di Pizarro. [78] Nell'op. cit., a pag. 73. [79] Cfr. E. GIBBON, op. cit., I, II e III volume, passim. L'AZZAROLI, nell'op. cit. dedica a questo esperto due pagine (116 e 117) con notizie (dalle quali ho attinto quanto ho qui riportato sul suo "catalogo" delle razze equine) abbastanza dettagliate. [80] Nell'op. cit., a pag. 112. [81] Sic in A. PAZZINI, op. cit., vol. I, pagg. 434-435. [82] Cfr. PAOLA TESTI MASSETANI, Ricerche sugli «Apologi» di L. B. Alberti, in «Rinascimento», vol. Studi nel V° Centenario ecc., ed. cit., passim. [83] In Ricerche sulla crisi della monarchia siciliana nel secolo XIII, II ediz., Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1950, n. 3 della pag. 8. [84] L. N. CITTADELLA, op. cit., pag. 417. [85] Ibidem. [86] Cfr. A. CAPPELLI, op. cit., pag. 383. [87] AA. VV., […] Emilia e Romagna, ed. cit., pag. 618. [88] Per Antonio di Cristoforo, Niccolò Baroncelli e Giacomo Zilocchi cfr. ULRICH THIEME und FELIX BECKER, Allgemeines Lexikon der bildenden Künstler ecc., 37 voll., Selmann, Leipzig 1907-1950, ad voces. [89] F. BORSETTI, op. cit., pag. 40. [90] L. N. CITTADELLA, op. cit., pagg. 415-416. [91] A pag. 419. [92] A pag. 421. [93] Cfr. L. N. CITTADELLA, op. cit., nota 1 della pag. 322. [94] Nell'op. cit., a pag. 421. [95] In Un'opera sconosciuta ecc., ed. cit., pag. 155. [96] A parte infatti ogni più dettagliata considerazione, se il marchese Niccolò morì allo scadere dell'anno 1441 (il 26 dicembre), com'è possibile porre già nell'anno immediatamente successivo tutti gli avvenimenti che ho già esposti e in particolare la circostanza che fossero già presenti a Ferrara i due bozzetti da esaminare? [97] Sennonché - va notato - il Mancini stesso, in questo caso (op. cit., pagg. 178-180) pecca alquanto in analiticità e in rigore logico. Egli stesso infatti racconta che Leonello «aveva rimessa la scelta» del bozzetto al «collegio dei XII Sapienti», e che la votazione di questi ebbe luogo il «27 novembre del 1444». Nella pagina precedente aveva scritto che «dopo dedicato il Teogenio a Leonello, Battista si recò a Ferrara». La dedica del «Teogenio», era stata motivata dalla morte di Niccolò III avvenuta il 26 dicembre 1441. Queste due connessioni, autorizzano evidentemente gli studiosi a datare la visita dell'Alberti fra il 1441 e il 1442. Il Mancini però aggiunge che «forse gli [= all'Alberti] deferirono l'arbitrato [della scelta fra i bozzetti proposti al concorso] i rappresentanti del municipio ferrarese incerti sul merito de' modelli…». Allora, due sono i casi: se il parere dell'Alberti aveva avuto già luogo nel 1442 (e i fatti ci dimostrano che esso fu decisivo, vista la spartizione della commessa) non si vede la ragione logica della votazione dei XII Sapienti che ebbe luogo soltanto due anni dopo - 27 novembre 1444 - (e si noti che essi non classificarono alla pari i due artisti, poiché preferirono il bozzetto di Antonio di Cristoforo). Se invece, come in realtà è stato, il verdetto dei XII Sapienti è rimasto disatteso, ciò può significare soltanto che l'intervento dell'Alberti ebbe luogo solo in un momento successivo alla sua emanazione, e che ne modificò i termini. Il 27 novembre 1444 costituisce dunque un non ignorabile "terminus post quem" per tutti gli avvenimenti che qui ci interessano. [98] A pag. 12 dell'opera citata. [99] In La letteratura degli Umanisti, ed. cit., pag. 266. [100] In I trattati d'arte, ed. cit., col. 216. [101] Cfr. G. MANCINI, Vita ecc., ed. cit., pagg. 139 e 171. [102] «Utraque ipsarum assimilatur dicto principi: per pulite ambe sunt: adeo ut non nisi summo cum labore et a peritissimis picture de eis que aptior et melior sit judicium fieri possit…» in L. N. CITTADELLA, op. cit., pag. 416. [103] Cfr. le note 5 a pag. 84 [nota 19] e 1 a pag. 85 [nota 8 della traduzione]. [104] "Fiorentinità" che doveva sentire molto viva, come càpita a tutti gli esuli; e specialmente negli anni successivi alla "riscoperta" - vissuta, come sappiamo, con grande orgoglio - della sua patria d'origine. D'altra parte, però, egli manifestò anche, da buon diplomatico, di possedere un grande senso dell'opportunità, perché in definitiva mostrò in qualche modo di rispettare anche il verdetto dei XII Sapienti col far eseguire - se la decisione partì da lui - la parte certo (segnatamente in rapporto alla civiltà umanistica) più importante dell'opera, la figura del Prìncipe, dall'artista che aveva riscosso più voti dagli autorevoli Ferraresi membri della commissione. [105] Nell'op. cit., a pag. 29. [106] Cfr. L. N. CITTADELLA, op. cit., pag. 421. [107] Cfr. G. MANCINI, Vita ecc., ed. cit., pagg. 167-169; e E. GARIN, La letteratura degli Umanisti, ed. cit., pag 261. [108] Nell'op. cit., vol. I, col. 192. [109] Nell'op. cit., alle pagg. 651-677. [110] Naturalmente la «coincidenza» va collocata nel tempo in cui usciva la prima edizione di questo volume. Ma ho voluto conservare inalterati i termini di questo discorso, un po' per amore di "storicizzazione", ma soprattutto per affezione alla memoria di Charles B. Schmitt e per il ricordo della sua pronta cordialità e della sua sincera ed effettiva disponibilità. |