NICOLA ABBAGNANO

 

ESISTENZIALISMO POSITIVO

 

 



PARTE I - CHE COS'E' L'ESISTENZIALISMO?

1. La ricerca

In tutti i suoi aspetti, umili o alti che siano, l'esistenza dell'uomo è la ricerca dell'essere. La tendenza volgare al godimento e al benessere e lo slancio religioso verso Dio (per considerare gli atteggiamenti più opposti) sono ugualmente, come tutti gli altri atteggiamenti della concreta umanità, la ricerca di uno stato, cioè di una condizione o di un modo d'essere, nel quale venga garantita la realizzazione di esigenze o bisogni considerati fondamentali. L'uomo cerca in ogni caso un appagamento, un completamento, una stabilità che gli mancano. Cerca l'essere. Questa condizione è caratteristica della sua finitudine. Se egli cerca l'essere, non lo possiede, non è, lui, l' essere. Rendersi conto di questa finitudine, scrutarne a fondo la natura è il compito fondamentale dell'esistenzialismo. Ma rendersene conto o scrutarla non significa soltanto farne oggetto di speculazione ma prenderne atto e decidere di conseguenza. Qui appare chiaramente la prospettiva nuova dell'esistenzialismo. Esso esige dall'uomo impegno nella propria finitudine. Esige che nella ricerca dell'essere che costituisce la sostanza di ogni suo quotidiano o eccezionale atteggiamento, egli non dimentichi o disconosca per l'appunto questa sostanza: non dimentichi e disconosca che tale ricerca ha un senso o un fondamento solo in virtù della sua limitazione costitutiva, solo in virtù della sua insufficienza ed instabilità e che pertanto ogni passo in quella ricerca non fa che consolidarlo nella finitudine della sua natura.Tale esigenza gli chiude certe prospettive, ma gliene apre subito altre, molto più feconde. Gli chiude la prospettiva di un appagamento finale, di un possesso definitivo e inalienabile, di una attesa troppo fiduciosa ed inerte; ma gli apre quella della lotta, della realizzazione di sé e della conquista. E in tale prospettiva le cose cambiano. L'uomo non deve lanciarsi verso l'essere con la pretesa di captarlo e di poterlo, quandocchesia, dominare tutto, non deve nutrire l'illusione di convertirsi in esso e di identificarsi con esso, - illusione che gli prepara la caduta inevitabile nello smarrimento e nella disperazione. Deve invece consolidarsi nella sua capacità di ricerca e di acquisizione, accettando e riconoscendo i propri limiti e lavorando entro questi limiti in profondità, con la rinunzia a ogni dispersione. Questo impegno è nello stesso tempo il riconoscimento della natura ultima dell'uomo e l'autodefinizione metafisica dell'uomo in quanto finitudine: l'uomo è l'originaria, trascendentale possibilità della ricerca dell'essere.

2. L'impegno nella finitudine

Appare qui chiaramente il secondo motivo fondamentale dell'esistenzialismo. Il filosofare non è privilegio dei filosofi. E' l'impegno dell'uomo verso la propria finita condizione di uomo, verso i limiti che lo condizionano e lo stimolano. Questo impegno può realizzarsi nella fede come nell'azione, nella speculazione come nell'arte. Esso non esclude nessun compito, nessuna condizione umana. Esclude solo il suo contrario, cioè il non-impegno, il disconoscimento della finitudine. Ma questo imprime già una direttiva sicura all'esistenza, le dà già la norma della sua costituzione autentica. Esclude la distrazione, la dispersione, esclude tutto ciò che rompe il vincolo esistenziale dell'uomo con se stesso e con gli altri; giacché esige il raccoglimento delle proprie forze e la solidarietà fattiva con gli altri. La finitudine, come sostanza dell'esistenza, diventa norma dell'esistenza. E questa norma portando l'uomo a realizzarsi come finito, lo porta nello stesso tempo continuamente al di là di sé, giacché lo consolida nella sua capacità di ricerca, nella possibilità del suo rapporto con l'essere. Così quella che a prima vista appare la debolezza dell'uomo, l'impotenza della sua natura finita, si converte in forza e in potenza. Il riconoscimento, l'accettazione e la scelta operano la trasformazione. Ma questa trasformazione è in realtà una fondazione. L'uomo realizza fino in fondo la sua natura finita perché ha deciso di sceglierla. La scelta decisa significa l'appassionarsi dell'uomo al suo compito, la sua risoluzione di essere sino in fondo esclusivamente se stesso. E il se stesso non è dato all'uomo anteriormente alla scelta e alla decisione. La scelta e la decisione lo costituiscono; la ricerca dell'essere è la ricerca del proprio essere, del proprio se stesso, dell'io. L'io è l'unità fondamentale dell'essere dell'uomo. Ma di tale unità l'uomo non gode come di un privilegio che non può perdersi: egli deve realizzarla ritraendosi dalla dispersione degli atteggiamenti impropri e raccogliendosi nell'unità di un compito unico. L'io non è un dato psicologico o antropologico, non è un fatto oggettivamente osservabile; è l'esigenza fondamentale verso cui l'uomo muove nella sua ricerca dell'essere, il termine che egli tende a costituire e a fondare nel suo rapporto con l'essere. L'io stesso è perciò trascendente. L'uomo non lo ritrova finché rimane immerso e disperso nella finitudine, cioè nel molteplice eterogeneo dei suoi atteggiamenti insignificanti, ma lo ritrova solo quando assume, su di sé la finitudine e convoglia il molteplice degli atteggiamenti verso l'unità di un compito. E anche quando l'ha ritrovato può ancora perderlo, sicché la sua decisione non è un atto puntuale ma una continuità di processo nel quale il rischio della dispersione e della perdita è sempre presente.

3. La trascendenza

Si presenta qui il terzo tema fondamentale dell'esistenzialismo: la trascendenza. L'eliminazione di ogni dato, la risoluzione di tutto l'essere nella sua essenza problematica, fa apparire in tutta la sua enorme importanza il movimento della trascendenza. Giacché, come l'io è continuamente trascendente per l'uomo in quanto deve continuamente rapportarsi ad esso per realizzarlo, così è trascendente l'essere del mondo. Realizzarsi come io significa appassionarsi al proprio compito e appassionarsi al proprio compito significa far uscire il mondo dalla dispersione degli avvenimenti insignificanti e riconoscerlo nella serietà e nella consistenza del suo ordine, nel quale ogni cosa è un mezzo o un ostacolo per la realizzazione dell'io. Il mondo appare come un complesso di vicende insignificanti, uno spettacolo variopinto, ma privo di consistenza e di serietà, a chi non ha scelto il suo compito, a chi non ha ritrovato se stesso. Ma a chi è impegnato sino in fondo nella realizzazione di sé, il mondo appare come un'unità compatta; la quale deve fornire gli strumenti indispensabili della realizzazione, ma può anche costituire l'ostacolo insormontabile e la possibilità di uno scacco. L'accettazione del mondo nell'essere che gli è proprio, nel suo ordine lucidamente riconosciuto, è la condizione indispensabile per la realizzazione di sé ed è quindi essenzialmente connessa a tale realizzazione. Neppure il mondo è dunque un fatto o un complesso di fatti. Il suo essere autentico si costituisce soltanto come termine della trascendenza esistenziale.

4. La coesistenza

Ma il significato ultimo della trascendenza si rivela soltanto nella coesistenza. Questa è il quarto tema fondamentale dell'esistenzialismo. Potrebbe sembrare che l'uomo che viva nella passione del suo compito e nello sforzo della realizzazione di sé si ponga in uno splendido isolamento; in realtà il legame dell'uomo con gli altri uomini è essenziale all'esistenza e si rivela nei suoi due aspetti fondamentali: la nascita e la morte. Nascita e morte non sono fatti; non sono, come si ritiene comunemente, i termini obbligati dell'esistenza umana, o della vita in generale. Sono possibilità che sta all'uomo di riconoscere e accettare o disconoscere ed ignorare. Riconoscere che si nasce significa per me riconoscere che la mia esistenza non è tutta l'esistenza, che essa è legata, quanto alla sua stessa origine, all'esistenza degli altri: e significa perciò riconoscere la comunità con la quale coesisto e che mi ha dato origine. Rendersi conto del fatto originario, (che tutti verbalmente ammettono ma che non tutti realizzano nel suo significato esistenziale) che si nasce, significa rendersi conto della natura essenziale, costitutiva dei vincoli che legano l'uomo alla comunità e del carattere concreto e individuale della propria esistenza; il che significa riconoscere la dignità e l'importanza degli altri rispetto alla mia stessa esistenza. L'esistenza non basta a se stessa: alla sua origine deve essere posto un atto di trascendenza verso l'esistenza: la trascendenza verso l'esistenza è la coesistenza. L'uomo nasce dall'uomo. Questo esprime tipicamente la necessità della coesistenza per l'esistenza: l'insufficienza dell'esistenza a se stessa, la necessità del suo ritrovarsi nella coesistenza. Da quel riconoscimento scaturisce la possibilità esistenziale della solidarietà umana che è a fondamento delle comunità storiche e degli aspetti propriamente umani dell'esistenza: l'amore e l'amicizia. Il rapporto esistenziale si rivela come un vincolo di solidarietà che sorregge l'uomo nella sua debolezza e nella sua insufficienza e lo obbliga a rendere agli altri ciò che a lui è stato dato. L'esistenza del singolo è riconosciuta così legata a quella dell'altro, da non poterne stare senza. L'amore è la forma tipica del riconoscimento dell'altro come di un altro se stesso. Esso suppone la trasparenza evidente dell'uno all'altro, trasparenza per la quale l'uno è per l'altro proprio ciò che è per se stesso. L'amicizia moltiplica a sua volta le possibilità di intesa e di incontro fra l'uomo e l'uomo e, come già vide Aristotele, è costituita da una comunità fondamentale di interesse e di direttive. Tutte le forme della coesistenza si fondano sulla natura finita dell'uomo come possibilità del rapporto con l'essere. L'uomo non può ricercare l'essere o rapportarsi all'essere, se non coesistendo. L'uomo non può ritrovare se stesso e costituirsi come io nè riconoscere la realtà e l'ordine del mondo, se non nell'atto di rapportarsi agli altri, di riconoscere l'originarietà e l'essenzialità del suo vincolo con gli altri e di decidersi conseguentemente, alla fedeltà verso la comunità alla quale appartiene, verso l'amore e verso l'amicizia. Dall'altro lato la morte. esprime la possibilità della risoluzione del vincolo coesistenziale. Dalla morte io posso essere tolto agli altri, al mondo ed a me stesso. La morte non è una fine o un compimento, ma una possibilità che accompagna tutte le altre e ne costituisce l'intrinseca limitazione. Essa è la possibilità del non-possibile, che domina e determina dall'interno ogni opera umana e ne fa un appello all'avvenire, cioè appunto una possibilità. L'uomo deve in ogni caso fare i conti con l'avvenire; e in ogni caso l'avvenire include per lui una minaccia latente: la possibilità che la sua opera o lui stesso vada perduto. Questa minaccia, se è riconosciuta ed accettata, diventa un rischio, il rischio deIla riuscita e della perdita. Ma come rischio è ineliminabile. Proprio dal rischio nasce infatti la necessità di decidere, l'esigenza della fedeltà.

5. Il destino

Qui si incontra il quinto tema fondamentale dell'esistenzialismo. Se l'avvenire fosse già incluso e precostituito nel passato, se la storia fosse un progresso continuo, un ordine necessario dal quale ogni conquista fosse resa definitiva e ogni valore garantito in eterno, nessuna dispersione, nessuno sbandamento di singoli potrebbero impedirlo o turbarlo. Ma in realtà l'uomo deve sollevarsi alla storia, cioè all'ordine nel quale si ritrova il significato del suo essere come dell'essere del mondo e della comunità, muovendo faticosamente dalle vicende insignificanti e dispersive del tempo. L'uomo non è storia: deve farsi storia ritrovando se stesso nel mondo e nella comunità. Deve sottrarsi alla minaccia del tempo, che è sempre pronto a sommergerlo nella insignificanza delle sue vicende banali, e affrontare il rischio della sua riuscita nella storia. Ora questo rischio può affrontarlo solo disponendosi alla fedeltà: muovendo verso l'avvenire con la decisione di rinsaldarlo al passato e di ritrovare nel passato il suo vero se stesso e la vera forma della sua coesistenza con gli altri. Questa fedeltà è il destino. Nel mito di Er, Platone immagina che le anime prima di incarnarsi siano condotte a scegliere il loro destino; e che siano poste dinanzi a tanti modelli di vita, tra i quali ognuna liberamente può scegliere quello al quale rimarrà poi necessariamente legato. Ma accade che ogni anima scelga in base all'esperienza della vita anteriore e che ad esempio Ulisse, ammaestrato dagli antichi travagli e spoglio ormai da ogni ambizione, scelga per sé la vita più oscura e più umile. Questo mito platonico nasconde un insegnamento vitale. Sembra che nella scelta del proprio compito, nell'accettazione e nel riconoscimento di quello che per ognuno è il proprio destino, l'uomo abbia dinanzi infinite possibilità tra le quali la scelta sia indifferente. In realtà, non c'è possibilità di scelta indifferente. Una sola è la possibilità che mi è propria ed è quella alla quale posso dedicarmi con un impegno appassionato e totale. Non è possibile riconoscerla se non per la possibilità di questo impegno. Non è possibile esaminare dall'esterno le varie possibilità indifferenti che mi sembrano offerte: in realtà tutte le altre ci sono soltanto perché io scelga la mia, che è quella in fondo alla quale ritroverò me stesso e il mio vero rapporto con gli altri e col mondo. E la decisione non è un atto puntuale, ma una ricerca continua, un processo di approfondimento, che scopre nella possibilità che ho scelta una sempre nuova ricchezza, distogliendomi da ciò che può distrarmi, concentrandomi e consolidandomi in ciò che mi è proprio. Né io sono io, né sussiste per me una possibilità qualsiasi, al di fuori dell'impegno, della decisione e della scelta. L'unità che mi fa io è quella dell'impegno esistenziale, è l'unità del compito nel quale mi riconosco. Le altre possibilità mi si prospettano sullo sfondo di questo compito fondamentale che debbo lavorare a chiarire e a riconoscere. E in questo lavoro gli altri mi possono aiutare, come io posso aiutarli; ma, da ultimo, la decisione spetta a me solo. Certamente, io posso ingannarmi. Come le anime del mito platonico, posso essere ammaliato o lusingato dal luccicore esterno di certe possibilità dispersive e posso nel vano tentativo di rincorrerle, mancare al ritrovamento di me stesso e del mio vero rapporto con gli altri. Ma in questo caso l'errore mi si farà chiaro, prima ancora che con lo scacco, con la mia incapacità di consolidare e mantenere l'impegno. Questa incapacità produrrà immediatamente la caduta nella dispersione e nell'insignificanza. Io non mi ritroverò in quello che faccio, perché non sarò quello che debbo essere. Avrò mancato alla sostanza del mio essere, alla natura ultima della mia finitudine, sarò stato infedele a me stesso ed agli altri. Al limite di questa caduta, se nulla mi redime e mi fa ritornare a me stesso, non solo svaniranno nel nulla le possibilità che sembravano più promettenti, ma tenderà a disperdersi e a svanire lo stesso mio io ed il mio rapporto con gli altri: il vincolo esistenziale e coesistenziale sarà minacciato dalla rottura definitiva dell'isolamento e della follia. Ma già molto al di qua di questo limite, l'io non avrà la sua unità propria e non avrà un destino: incapace di fedeltà, sarà schiavo di vicende insignificanti e si lascerà vivere come un'unità anonima, senza destino. L'esistenzialismo tende a sottrarre l'uomo all'indifferentismo anonimo, alla dissipazione, all'infedeltà a se stesso e altri altri: tende a restituirlo al suo destino, a reintegrarlo nella sua libertà. La libertà è l'ultimo e conclusivo suo tema fondamentale. L'uomo libero è l'uomo che ha un destino. Il destino è la fedeltà al proprio compito storico, cioè a se stesso, alla comunità e all'ordine del mondo. La libertà è l'atto di decisione della fedeltà, è la scelta del proprio compito e la fiducia incrollabile nel suo valore trascendentale, è la passione spassionata che tutto lucidamente vede e giudica per poter tutto affrontare.

6. Storicità dell'esistenzialismo

Storicamente, l'esistenzialismo è sulla linea delle grandi metafisiche dell'occidente, da Platone a S. Tommaso, da Cartesio e Vico a Kant. Ma queste grandi figure, e tutte le altre che in qualsiasi modo hanno detto una loro parola nella storia, l'esistenzialismo non le considera imbalsamate e chiuse nei loro sistemi, ma come personalità vive e potenti che hanno offerto per secoli agli uomini un modo di intendersi e di ritrovarsi e che ancora possono e potranno dare, alle urgenti e vitali domande degli uomini, risposte chiarificatrici. Egualmente lontano dal dogmatismo e dallo scetticismo, l'esistenzialismo ritorna ad interrogare i maestri del passato e ne vaglia, rispettoso e fermo, le risposte. La parola di cui l'uomo è vissuto ieri sarà forse ancora quella di cui vivrà domani. Ma accorre ritrovarla e farla risuonare chiaramente, perché la si possa ascoltare. Il compito di chiarificazione esistenziale è strettamente connesso a un compito di ricerca e di chiarificazione storiografica. L'uno e l'altro richiedono impegno, lavoro, fedeltà e tenacia. L'esistenzialismo non è una scuola e ripudia il proselitismo. Non essendo pura dottrina ma richiedendo a fondamento della dottrina un atteggiamento esistenziale, cioè dell'uomo totale, esso può costituire per l'uomo un richiamo o un aiuto, ma non può sostituirsi alla sua decisione e al suo impegno. Esso costruisce una via, non impone una formula. In fondo a questa via, c'è la possibilità per ognuno di riconoscersi nella sua vera natura e per tutti di comprendersi e di realizzarsi in una comunità solidale.

 

PARTE II - L'ESISTENZIALISMO E' UNA FILOSOFIA POSITIVA

1. La filosofia come problema

Ha l'esistenzialismo una caratteristica propria di fronte alla filosofia tradizionale? E giustifica questa caratteristica, l'interesse che esso suscita anche fuori della cerchia dei filosofi, e la sua pretesa di permeare di sé la letteratura, l'arte, e in generale la cultura contemporanea? Cominciamo, per rispondere a questa domanda, col considerare l'atteggiamento dell'esistenzialismo di fronte al problema della filosofia. C'è stato sempre un problema della filosofia; mai questa disciplina ha potuto semplicemente presupporre la sua natura, il suo metodo e i suoi oggetti, ed ha sempre dovuto cominciare dalla definizione di se stessa. Ma non sempre, anzi assai raramente, essa è riuscita alla giustificazione del suo problema. Il problema di ciò che è la filosofia è apparso più spesso come uno stato provvisorio d'incertezza e di dubbio proprio degli inizi di questa disciplina, stato che il costituirsi e i successivi avanzamenti di essa avrebbero eliminato e distrutto. La filosofia ha sempre avuto la pretesa di spiegare e giustificare tutti gli aspetti della realtà, l'uomo, il mondo e Dio; ma il più delle volte ha dimenticato o trascurato di spiegare e giustificare proprio ciò che la riguarda più da vicino: il suo stesso problema, e con esso l'incertezza, l'instabilità e il dubbio che accompagnano i suoi inizi, i suoi progressi e le sue conclusioni, e che ripropongono ancora e sempre come un problema ogni suo risultato più certo. Che la filosofia debba incessantemente lottare per la sua stessa vita, che essa debba cominciare dal darsi una figura e un volto, e che, anche dopo essersi data una figura ed un volto, debba battagliare per difenderli e mantenerseli, questo fatto, o meglio questo destino della filosofia, deve proprio cadere fuori della stessa filosofia? 0 deve invece costituirne l'anima e la vita? Ecco l'alternativa dalla quale nasce l'esistenzialismo. L'esistenzialismo è su questo punto la rottura definitiva con l'ingenuità filosofica. Posizioni e sistemi filosofici caratterizzati dall'ignoranza di quell'alternativa sono per esso impossibili. Quando, per esempio, Hegel afferma l'intrinseca, totale e necessaria identità del reale e del razionale, toglie ogni fondamento alla sua stessa filosofia, giacché se il reale è identico al razionale, il problema della loro identità non può nascere, e la filosofia che se lo propone e combatte per esso non ha scopo né significato. Quando dall'altro lato lo scetticismo afferma l'equivalenza di tutte le vedute o concezioni del mondo, toglie al suo problema ogni possibile fondamento giacché, se l'equivalenza ci fosse, non avrebbe senso il dimostrarla. In una totalità di prospettive equivalenti, ogni scelta è giustificata in anticipo, e il problema da cui lo scetticismo si origina, risulta privo di senso. Di fronte ad ogni filosofia, bisogna chiedersi se il concetto della realtà, cui essa mette capo, rende possibile il problema, da cui essa nasce. Se non lo rende possibile, il risultato implicito è sempre la totale e irrimediabile vacuità della filosofia. Ora a questa vacuità l'esistenzialismo intende sottrarsi. Esso esige che la filosofia debba da ultimo giungere a giustificare il proprio problema, a dimostrarne l'intrinseca possibilità. Tale è, si può dire, la caratteristica fondamentale dell'esistenzialismo.

2. Problematicità della filosofia

Da questa caratteristica scaturiscono la sua natura e il suo metodo. E' evidente che il primo problema di una tale filosofia è quello che concerne la stessa forma problematica della filosofia. Perché la filosofia è sempre a se stessa un problema? Nella sua apparente semplicità e astrattezza questa domanda è ricca di conseguenze e di risonanze, non tutte facili a percepirsi a prima vista. E' sullo stesso porsi della domanda, sul suo significato interiore, che, deve fermarsi la nostra considerazione. Si vede subito allora che essa è tanto una domanda quanto una risposta, e che può essere assunta, senza alcun mutamento, come la definizione stessa della filosofia. "Perchè la filosofia è sempre a se stessa un problema?" può significare che la filosofia è essenzialmente il suo proprio problema. In tal caso, la sua forma problematica non è apparenza e provvisorietà, ma sostanza. Consideriamo le implicazioni di questo riconoscimento. Un problema è in generale uno stato di indeterminazione, nel quale possibilità diverse e contrastanti si bilanciano. La soluzione di un problema è in generale la scelta di quella possibilità che giustifica (o rende possibile) il problema stesso. Questi chiarimenti diventano ovvi se si abbandona il radicato pregiudizio che la soluzione di un problema sia l'eliminazione di esso. In realtà un problema risolto è un problema giustificato come problema e quindi fondato e reso autentico dalla stessa soluzione. I problemi insolubili (costitutivamente insolubili) non sono problemi ma rompicapi e costituiscono la gioia e il tormento dei dilettanti di qualsiasi disciplina. Nella scienza, per esempio, un problema risolto si ripresenta incessantemente come problema nel corso della ricerca e sui riproduce e vive in tutte le sue possibili diramazioni. In matematica un problema è un vero problema quando è stato risolto, cioè quando la sua soluzione può valere come soluzione di tutti gli altri problemi, dentro e fuori della matematica, ai quali è applicabile. Queste osservazioni, e altre che si potrebbero fare, chiariscono che la soluzione di un problema non è altro che la dimostrazione della sua possibilità; che pertanto essa, nonché eliminare, distruggere o togliere di mezzo il problema stesso, lo fonda e ne giustifica l'autenticità. Stando a ciò, la forma problematica della filosofia non implica per nulla che essa debba lasciare in sospeso la soluzione del suo problema o che debba mantenersi continuamente in bilico tra le possibili soluzioni di esso, ma solo che la soluzione, quale che sia, debba giustificare la possibilità del problema. Questo basta a chiarire in modo preciso il soggetto, l'oggetto e il metodo della filosofia.

3. Filosofia come esistenza

E' immediatamente evidente che, per la sua natura problematica, la filosofia non è e non può essere un sapere divino del mondo. Non è cioè il possesso saldo, definitivo, totale di tutto il sapere possibile; non è neppure il possesso di un sapere qualsiasi; è piuttosto il problema del sapere, un problema che continuamente rinasce dalle proprie soluzioni. Se si accettano i chiarimenti addotti sulla natura della filosofia, bisogna respingere come illusoria ogni filosofia divineggiante, cioè ogni filosofia che consideri se stessa come l'attività di un intelletto puro, di una ragione assoluta o di una intuizione intellettuale. Ogni filosofia di questo genere rende infatti impossibile il problema della filosofia, e priva di qualunque significato la ricerca stessa su cui si fonda. Ma con quelle negazioni non si precipita, come si potrebbe temere, nel baratro dell'irrazionale. Si può continuare a dire (sebbene questa terminologia non sia strettamente indispensabile, ma soltanto comoda e ovvia) che la filosofia sia ragione o pensiero; purché si aggiunga che è ragione o pensiero problematico. La problematicità si contrappone qui alla necessità propria della ragione assoluta o divineggiante. Un sapere necessario è quello che si realizza come concatenazione immutabile di determinazioni universali, sicché possa essere compreso e dominato da un solo colpo d'occhio, che ne abbracci l'assoluta totalità. Un sapere siffatto esclude, per la necessità delle sue concatenazioni, ogni problema dentro di sé e non costituisce un problema nella sua totalità. Un sapere problematico invece esclude la necessità, include l'indeterminazione, il dubbio, la decisione e la scelta, e ha come sua norma e sua suprema categoria quella della possibilità. Un sapere problematico è un sapere possibile, che implica la possibilità del non sapere. Esso è quindi incessantemente accompagnato dal dubbio che è il riconoscimento appunto della possibilità negativa implicita in ogni sapere positivo: la possibilità dell'errore, della perdita e dello smarrimento del sapere possibile. Il sapere necessario definisce la vita pensante di un essere infinito. Il sapere problematico definisce la vita pensante di un essere finito. Finitudine non significa qui che problematicità: non esprime che la problematicità costitutiva di un sapere che è sempre possibilità del non-sapere. L'uomo è il solo essere pensante finito; il sapere problematico costituisce perciò la condizione e il modo d'essere dell'uomo. Se si chiama esistenza il modo d'essere dell'uomo, il sapere problematico definisce ed esprime l'esistenza. Si rivela a questo punto quel tratto da cui l'esistenzialismo prende nome: l'identità tra esistenza e filosofia. Questo non è certo una novìtà. Che altro è mai stata la filosofia se non lo sforzo incessante dell'uomo di giungere a una qualche chiarezza intorno all'essere che gli è proprio? Ma se questa è stata sempre la filosofia, non sempre è stato questo il problema esplicito della filosofia. E se e quando non è stato il problema esplicito, è mancato con ciò il chiarimento fondamentale intorno all'uomo: quello d'essere, l'uomo, problema a se stesso. Questo è appunto il significato ultimo del riconoscimento che la filosofia è un sapere problematico, che definisce e esprime la condizione o il modo d'essere dell'ente finito. La filosofia si connette immediatamente alla costituzione stessa dell'uomo; la quale risulta investita e illuminata dalla problematicità riconosciuta propria di essa. Immediatamente, dallo stesso chiarimento preliminare della natura della filosofia scaturisce un chiarimento preliminare intorno alla natura dell'uomo. Questa natura non è uno stato immobile, né una realtà oggettiva, né una soggettività universale; ma è soltanto l'originaria, trascendentale problematicità dei suoi problemi. La filosofia, considerata inizialmente nel suo significato ristretto e nelle sue manifestazioni tecniche, si rivela a questo punto connessa intimamente e essenzialmente col modo d'essere dell'uomo, con l'esistenza. Alla sua origine, non c'è una gratuita e vana curiosità di conoscere, ma un movimento vitale, quello per cui l'uomo, nell'instabilità della sua natura problematica, cerca l'essere che gli è proprio e si sforza di raggiungerlo e di possederlo in qualche modo. La serietà e il valore della ricerca filosofica sono così garantite nel modo più saldo. Questa ricerca non è un lusso che possa essere tralasciato o ritenuto superfluo; è la costituzione intrinseca dell'esistenza in quanto tale. Dall'altro lato l' elaborazione tecnica della filosofia, che è sostanzialmente la costruzione di un linguaggio che esprima nella forma più rigorosa e precisa possibile il filosofare autentico che è l'esistenza, acquista anch'esso un nuovo significato. L'insopportazione e l'insoddisfazione generate a volte dalla cosiddetta "astrusità" della tecnica filosofica vengono rese impossibili dal riconoscimento esplicito che in quella tecnica cercano la loro espressione e la loro sistemazione logico-linguistica le esperienze e gli atteggiamenti fondamentali dell'uomo. Il lavoro dei filosofi non è chiuso nella loro specializzazione, ma interessa tutti gli uomini perché trova la sua radice nella stessa condizione umana. In virtù di questo riconoscimento, l'esistenzialismo, che pure si avvale di una tecnica rigorosa e difficile, tende a oltrepassare la cerchia ristretta dei filosofi e a investire del suo spirito le manifestazioni più varie della cultura contemporanea.

4. La filosofia non è contemplazione

Il riconoscimento della natura problematica della filosofia ha consentito di determinare subito il soggetto di essa; questo soggetto è l'uomo. Consente anche di circoscriverne e determinarne l'oggetto? Una domanda preliminare si impone a questo proposito: ha la filosofia, propriamente parlando, un oggetto? Per oggetto si deve intendere ciò che sta contro o si oppone all'attività che lo investiga, quindi ciò che, dà validità o verità ad ogni tipo o forma di conoscenze. La domanda precedente può dunque assumere questa forma: è la filosofia riducibile a conoscenza? E in questa forma la domanda può avere una risposta negativa o affermativa, secondo che si ritenga possibile o impossibile per l'uomo essere o diventare lo spettatore disinteressato di se stesso. L'ideale di una conoscenza disinteressata di sé e quindi della filosofia come scienza rigorosa dei significati oggettivi caratterizza alcune correnti della filosofia contemporanea, prima fra tutte la fenomenologia. Comunque presentato o difeso, questo ideale costituisce tuttavia una grave deroga alla struttura problematica della filosofia. Si ammetta pure che l'uomo possa diventare spettatore disinteressato del suo proprio io e che possa contemplare la sua stessa vita senza confondersi con essa. Bisogna subito riconoscere che si tratta appunto di una possibilità, costitutiva della condizione problematica dell'uomo, e messa in atto da una decisione e da una scelta. Ora proprio questa costituzione problematica, con le possibilità che la costituiscono e con la scelta e la decisione che essa rende possibile, cadono totalmente fuori da una filosofia intesa come scienza o conoscenza perché non sono atteggiamenti o esperienze riducibili a significati oggettivi. L'ideale della filosofia come scienza oggettiva, anche ripresentata nella forma più moderna e critica della fenomenologia, taglia fuori di sé l'atto originario, il problema, di questa stessa filosofia. Costituisce dunque una manifestazione dell'ingenuità filosofica e una forma di filosofare che non riesce al possesso critico di se stesso. La filosofia non può fondarsi sull'illusione di rendere l'uomo spettatore disinteressato di sé. Ogni chiarimento che l'uomo riesce a conseguire intorno a se stesso e anche quello che soltanto s'illude di conseguire, entra immediatamente a costituire la sua esistenza, che ne risulta modificata. Il che vuol dire che la filosofia non ha un oggetto, nel significato proprio del termine; ma soltanto un compito, e che questo compito consiste nell'impegnare l'uomo a quella forma o a quel modo dì essere che egli giunge a ritenere suo proprio. Ciò non implica d'altronde che la filosofia sia piuttosto pratica che teoretica e che concerna l'azione più che la specuIazione. Teoria e pratica, azione e speculazione, sono modi di classificazione convenzionali e inservibili per la filosofia. La quale concerne sempre l'uomo nella sua totalità, nell'essere problematico che gli è proprio e interamente lo impegna nella forma o nell'atteggiamento che gli consente di scegliere.

5.Problematicità e problemi

Negare che la filosofia sia conoscenza disinteressata non significa che una conoscenza disinteressata non sia possibile per l'uomo. Significa solo che, se è possibile, non è filosofia. Essa c'è, infatti, quindi è possibile; ma è la scienza naturale. L'atteggiamento che è alla base della scienza è quello per il quale l'uomo è soltanto uno degli oggetti possibili della considerazione scientifica, senza nessun titolo o diritto di privilegio rispetto agli altri. L'uomo è sottoposto nella scienza agli stessi procedimenti di osservazione e di misura cui sono sottoposti gli altri oggetti quali che siano, e non può pretendere in essa a nessun trattamento di favore. Per la fisica è, per esempio, un corpo sottoposto alle stesse leggi che concernono gli altri corpi naturali; per la biologia è un organismo vivente sottoposto, come tutti gli altri, alle esigenze e alle leggi della vita organica; per la stessa psicologia è un centro di azioni e reazioni psicofisiche, in tutto simile agli altri animali, ma solo più complicato. La caratteristica essenziale di ogni considerazione e di ogni problema scientifico è che l'uomo rientra come uno dei possibili oggetti o dei possibili termini di ogni considerazione o problema del genere. Il fondamento di questa caratteristica è che la scienza è, in generale, considerazione del mondo e che pertanto l'uomo nella scienza vale soltanto come parte o elemento del mondo. La conoscenza disinteressata, che è propria della scienza, è dunque condizionata da un atteggiamento che è una possibilità dell'esistenza: l'atteggiamento per il quale l'uomo si considera parte di una totalità che lo ricomprende. Ci si può domandare fino a che punto questo atteggiamento si connette con l'esistenza umana; e la domanda è importante perché da essa dipende la risposta alla domanda così frequentemente dibattuta: quella circa il valore umano della scienza. La risposta deve essere desunta dai chiarimenti già dati sulla costituzione problematica dell'uomo. L'uomo esiste come la stessa problematicità dei suoi problemi; ma questi problemi, quali che siano, lo ricomprendono immediatamente come uno dei loro termini. Ogni problema ha per così dire una doppia faccia. E', in primo luogo, un modo d'essere particolare dell'uomo, un atteggiamento singolo dell'esistenza. In secondo luogo è un rapporto indeterminato o indeciso tra più termini possibili. Nel primo senso il problema è I'uomo stesso in uno dei suoi atteggiamenti; nel secondo senso ricomprende in sé l'uomo come uno dei suoi termini possibili. Si consideri, per esempio un qualsiasi problema scientifico: esso è in primo luogo la vita stessa dello scienziato che vi si appassiona e ne fa il suo interesse dominante; è, in secondo luogo, un rapporto di termini oggettivi tra i quali rientra o può rientrare lo scienziato stesso ed ogni altro uomo, come corpo fisico-chimico, come organismo, ecc. Si può esprimere questa duplice dimensionalità del problema semplicemente distinguendo la problematicità dal problema; e poiché la problematicità è la condizione che rende possibile il problema, essa sola è l'elemento trascendentale o se si vuole la possibilità trascendentaIe, di ogni problema possibile. Questi chiarimenti mostrano che l'uomo non è problematicità se non nell'atto stesso in cui i problemi, che in tale problematicità si radicano, lo ricomprendono come uno dei loro termini possibili. Il che implica che la conoscenza scientifica, come quella comune ne che prepara e stimola la ricerca scientifica, si connette essenzialmente all'esistenza e ne costituisce un aspetto fondamentale. La pretesa che l'uomo possa fare a meno della scienza è chimerica ed esprime soltanto l'attaccamento ad una forma più rudimentale e meno efficace della conoscenza scientifica. Questo implica pure che l'uomo non può riconoscersi nella sua natura originale di fronte a tutti gli altri esseri o cose del mondo, se non riconoscendosi col medesimo atto essere o cosa del mondo. Il rapporto col mondo è altrettanto essenziale all'uomo del suo rapporto con se stesso; l'esteriorità in cui vive lo costituisce non meno della sua interiorità o coscienza. Si è già detto che l'uomo è un ente finito proprio in virtù della sua costituzione problematica. Si vede ora chiaramente un aspetto della sua finitudine: quello per cui è parte e non tutto, e come parte dipende dal tutto che lo ricomprende. Questa dipendenza è reale anche prima e fuori del suo riconoscimento esplicito: si manifesta nella corporeità dell'uomo e nei bisogni che lo legano al mondo di cui è parte. E' evidente che la filosofia non può né deve chiudere gli occhi di fronte a questa sua situazione. Essa non può insistere sulla pura interiorità dell'uomo a se stesso, sulla sua spiritualità, senza riconoscere al tempo stesso la sua esteriorità e corporeità che ne fa un essere tra gli altri esseri e, in qualche misura, una cosa tra cose. L'illusione di esaltare l'uomo conduce a diminuirlo: lo riduce ad un aspetto solo della sua struttura dimenticando l'altro, senza del quale non esiste.

6. La realtà come possibilità

Possiamo ricapitolare nel modo seguente i risultati intravisti attraverso le considerazioni precedenti: 1) La forma problematica della filosofia non è apparenza e provvisorietà, ma sostanza. 2) La filosofia costituisce perciò un sapere problematico, che definisce ed esprime il modo d'essere di un ente finito; quest'ente finito è l'uomo, e il suo modo d'essere è l'esistenza. 3) La filosofia non può costituirsi come auto-contemplazione disinteressata dell'uomo, perciò non è conoscenza né scienza. 4) La conoscenza e la scienza nascono insieme con la filosofia, in quanto la problematicità costitutiva dell'uomo include l'uomo stesso nei termini dei suoi problemi. Questi punti rappresentano altrettante esclusioni e negoziazioni di dottrine filosofiche antiche o recenti. La sostanza problematica della filosofia esclude ogni filosofia divineggiante, cioè ogni filosofia che si ponga come emanazione o espressione di uno Spirito o Ragione assoluta. Il carattere esistenziale della filosofia esclude che essa possa essere organizzata come conoscenza o scienza nel senso delle discipline fisico-matematiche, e perciò esclude da un lato il positivismo, dall'altro la fenomenoIogia, che anch'essa accetta l'ideale della filosofia come disciplina logico-contemplativa. L'unità che, nella natura problematica dell'uomo, trovano il rapporto dell'uomo con se stesso e il suo rapporto col mondo, esclude ogni spiritualismo che faccia leva esclusivamente sull'interiorità o coscienza dell'uomo. Queste determinazioni ed esclusioni costituiscono un primo avviamento a un indirizzo positivo della filosofia esistenziale. Un ulteriore avviamento può aversi considerando che la filosofia dell'esistenza rompe decisamente il quadro della necessità dentro il quale si muove ogni filosofia di tipo dogmatico. L'orizzonte che essa riconosce e dentro il quale si muove è quello delle possibilità. La problematicità riconosciuta propria della filosofia, e dell'uomo che è il suo unico tema, ha operato questo mutamento. Dal punto di vista di una ragione problematica, non si può scorgere nell'uomo e in qualsiasi altra realtà che comunque entri in rapporto con l'uomo, nessuna natura necessitante, nessun dato immutabile, nessuna legge determinante. Non si possono scorgere e riconoscere che possibilità, sempre individuate e singole; possibilità di fronte alle quali l'uomo è incessantemente chiamato alla decisione e alla scelta. Né dentro né fuori di sé, l'uomo può imbattersi mai in qualcosa di più stabile, di più resistente, di più saldo, della possibilità. Una possibilità è, per lui, lui stesso, cioè il suo proprio io, che è l'unità possibile dei suoi atteggiamenti interiori. Possibilità sono per lui gli altri uomini: possibilità di concreti rapporti di lavoro, di solidarietà, di amicizia, di amore. Possibilità, e precisamente possibilità di utilizzazione, sono per lui le cose del mondo. Possibilità sono le opere d'arte, che diventano pezzi di tela o di pietra, cioè bruta materia, se l'uomo non ha il gusto per sentirle e apprezzarle. Possibilità sono i documenti su cui si fonda la storia, e che non dicono nulla, se l'uomo non sa intenderli nel loro valore di testimonianze. Sotto questo aspetto il distacco tra gli animali e l'uomo è radicale. Nell'animale l'istinto è un impulso necessitante, che non conosce eccezioni, e che può essere bloccato in tutto o in parte soltanto da un altro istinto più forte. Nell'uomo, anche quelli che si chiamano istinti non sono determinazioni infallibili, ma solo possibilità delle quali sta a lui decidere. Non c'è istinto così potente che l'uomo non possa far tacere e contro il quale non possa agire. Le stesse aberrazioni che gli istinti talora subiscono nell'uomo rivelano il loro carattere di mere possibilità concrete che offrono all'uomo un'alternativa di scelta. Che l'uomo non possa appigliarsi né dentro né fuori di sé a nulla di stabile e di definitivo, che egli debba incessantemente faticare e lottare, decidere e scegliere, a suo rischio e sotto la sua responsabilità, è certo la prospettiva più inquietante che si sia mai aperta di fronte agli uomini, e non c'è da meravigliarsi che essi vi recalcitrino e cerchino di nasconderla ai propri occhi. Ma la filosofia non può assumere il facile e piacevole compito di cullare l'uomo con illusioni e di consolarlo con prospettive fittizie. Deve assumere invece quello più difficile, ma più degno, di risvegliarlo se si addormenta su una sicurezza illusoria, e d'impegnarlo alla vigilanza, alla lotta e al lavoro. Ciò che tuttavia essa ha il dovere di chiarire è quale guida o quale orientamento questa prospettiva offra all'uomo. E' quel che cercherò di illustrare rapidamente nel seguito. E a questo scopo è opportuno accennare ai due filosofi che possono offrire un insegnamento efficace a questo riguardo: Kant e Kierkegaard.

7. I filosofi della possibilità: Kant e Kierkegaard

Kant è il filosofo della possibilità positiva. La filosofia dell'illuminismo tedesco, a partire da Wolff, aveva trovato ed usato il metodo della ragione fondante. Questo metodo consiste essenzialmente nell'addurre come fondamento di un concetto la sua possibilità. Wolff e i suoi seguaci intendono ancora la possibilità nel senso logico-formale, come assenza di contraddizione. Kant porta per la prima volta la possibilità sul piano della concreta esperienza umana; e così la carica di un significato esistenziale. Ricondotta la conoscenza nei limiti dell'esperienza possibile, Kant riconosce nelle forme a priori la possibilità dell'esperienza. Ricondotta la vita morale nei possibili limiti della finitudine umana, ne riconosce la possibilità nel carattere formale dell'imperativo categorico che esprime appunto la possibilità della persona morale e di una comunità di persone. Ricondotto il sentimento estetico nei limiti dell'animalità intelligente propria dell'uomo, ne riconosce la possibilità come quella di trasformare, la dipendenza dell'uomo dalla natura in dalla natura. Per la prima volta, nell'opera di Kant l'intero mondo dell'uomo veniva espresso e fondato in termini di possibilità; possibilità trascendentali, cioè condizionatrici e fondanti. Kant ha inteso in ogni campo limitare, cioè determinare, le autentiche possibilità ne distinguendole da quelle che non sono autentiche ma puramente fittizie. Di qui il carattere critico e limitativo della sua opera, che è una continua polemica contro il dogmatismo teoretico e il fanatismo morale. In Kant tuttavia la possibilità presenta una sola delle sue facce, quella positiva. Ora ogni possibilità concreta ha come tale sempre un' altra faccia, che è quella negativa. Essa è sempre possibilità-che-non, oltre che possibilità-che-si. La possibilità di conoscere (per esempio) è sempre possibilità di non conoscere, cioè possibilità del dubbio, dell'errore e dell'oblio. In Kant questo secondo aspetto della possibilità come tale rimane in ombra sebbene egli l'abbia intravisto con la dottrina del male radicale. Viene invece crudamente illuminato dall'opera di Kierkegaard. Kierkegaard è il filosofo della possibilità negativa. L'angoscia è il sentimento del possibile, ma del possibile nella sua forza annientatrice e distruttiva. Questa forza è paralizzante. Il "discepolo del possibile" secondo l'espressione di Kierkegaard, è chi si rende conto e vive sotto la minaccia delle alternative terribili che ogni concreta possibilità presenta per l'uomo. Kierkegaard ha realizzato in tutta la sua forza il senso della problematicità dell'esistenza; ma questa problematicità' gli è apparsa esclusivamente nel suo lato negativo, ed è stata perciò vissuta da lui come angoscia e disperazione paralizzante. Tra l'insegnamento di Kant e quello di Kierkegaard, non c'è alternativa né scelta, ma solo complementarietà. La possibilità costitutiva dell'esistenza umana, chiarita da Kant nel suo aspetto positivo, è stata chiarita da Kierkegaard nell'aspetto negativo che le è indissolubilmente connesso. Una filosofia dell'esistenza che non voglia essere unilaterale e non voglia ridurre l'esistenza stessa a un frammento, deve in qualche modo riportare incessantemente Kant a Kierkegaard e Kierkegaard a Kant. Solo così potrà rintracciare nella stessa struttura problematica dell'esistenza la norma e la guida dell'esistenza medesima.

8. L'equivalenza delle possibilità: l'esistenzialismo negativo

Tale è infatti il problema centrale, l'unico vero problema della filosofia dell'esistenza. Si consideri la condizione di radicale instabilità che questa filosofia riconosce propria dell'uomo. L'uomo non può scorgere, dentro e fuori di sé che mere possibilità, ognuna delle quali implica una minaccia e un rischio. Come farà a scegliere e a orientarsi? A qual segno riconoscerà quelle che gli sono proprie e quelle fittizie, e come farà a consolidare e a garantirsi le prime? La prima risposta che si presenta a queste domande è il riconoscimento dell'equivalenza assoluta di tutte le possibilità umane; riconoscimento che implica che ogni scelta per il fatto stesso di essere tale, è giustificata, e che l'uomo è essenzialmente libero, cioè indifferente, di fronte a tutte le possibilità che gli si prospettano. Tale è la risposta dell'ultimo esistenzialismo francese (Sartre, Camus). E' questa indubbiamente la risposta più ovvia, ma anche la più paralizzante. Una scelta che non è sorretta dalla fede nel valore di ciò che si sceglie non è possibile: giacché il riconoscimento dell'equivalenza è già la rinunzia alla scelta. Quel riconoscimento equivale perciò alla nullificazione e alla perdita di tutte indistintamente le possibilità, quindi alla negazione dell'esistenza come tale. La seconda risposta alle stesse domande è il riconoscimento dell'equivalenza di tutte le possibilità umane meno una: quella che esprime ed assomma la nullità possibile di tutte e ciascuna le possibilità singole, la possibilità della morte. Tale è la risposta di Heidegger. Da questo punto di vista, l'unica scelta possibile è per l'uomo quella del vivere per la morte, e di fronte a questa le altre sono fittizie ed improprie. Questa risposta rappresenta certamente un passo avanti sulla prima. Essa implica la possibilità di una scelta; ma questa possibilità è in effetti una necessità perché la scelta possibile è una sola. Si vede subito come, da questo punto di vista, la problematicità dell'esistenza si è capovolta nel suo contrario, cioè nella necessità. L'unica autentica possibilità di esistere è l'impossibilità di esistere. Ora impossibilità è necessità, e se l'esistenza è problematicità, non può ridursi a un'impossibilità. Ancora una volta l'esistenza come possibilità è negata nell'atto stesso del suo riconoscimento. La terza risposta è che tutte le possibilità dell'esistenza si equivalgono per la loro comune impossibilità di essere più che possibilità, cioè di agganciarsi all'essere che è al di là di esse, alla Trascendenza. E' la risposta di Jaspers. Essa è simmetrica e opposta a quella di Heidegger, ma porta alla stessa conclusione. Per Heidegger l'esistenza è l'impossibilità di emergere dal nulla ed essere qualcosa; per Jaspers l'esistenza è l'impossibilità di essere l'Essere, di raggiungere e conquistare la trascendenza. L'una e l'altra risposta ricondu- cono l'esistenza ad una fondamentale impossibilità; epperò negano la sua problematicità, che la fa vivere e costituirsi attraverso concrete possibilità. L'insegnamento che scaturisce dal quadro di questi indirizzi dell'esistenzialismo contemporaneo è che l'equivalenza delle possibilità costitutive dell'esistenza, che è il loro comune presupposto, conduce alla negazione dell'esistenza stessa come possibilità. Se tutte le possibilità che costituiscono I'esistenza sono, per un motivo o per l'altro, equivalenti, l'esistenza è impossibile. Questo riconoscimento fa vedere quanta importanza la considerazione del valore e della normatività abbia per l'esistenzialismo, che tuttavia negli indirizzi accennati I'ha trascurata completamente. Senza una soluzione, positiva dell'esigenza valutativa, la problematicità dell'esistenza si trasforma in necessità, la possibilità in impossibilità; l'esistenza si nega nell'atto stesso che si riconosce. Nel confronti di questo esistenzialismo, che si può chiamare negativo, non perché neghi credenze, valori o realtà che sono fuori del suo raggio, ma perché nega lo stesso principio da cui muove, l'esistenza, io propongo un indirizzo positivo che giustifichi il riconoscersi e il mantenersi dell'esistenza nella sua fondamentale problematicità e lasci aperte le possibilità in cui essa si costituisce. Ad un esistenzialismo che vive sotto l'esclusivo segno di Kierkegaard, il filosofo della possibilità impossibile, bisogna contrapporre un esistenzialismo che riporti Kierkegaard a Kant e a quanti altri filosofi hanno lavorato per garantire all'uomo il legittimo possesso dei suoi stessi limiti.

9. La possibilità trascendentale

Occorre in primo luogo distinguere il riconoscimento che l'esistenza è costituita da possibilità, dall'affermazione che tutte queste possibilità hanno lo stesso valore. Quest'affermazione non deriva da quel riconoscimento e non dev'essere confusa con esso. Dall'altra parte le possibilità esistenziali non possono essere distinte e valutate in base a un criterio estrinseco, in base a una norma o ad una realtà estranee ad esse e non risolvibili in esse. Nulla - lo abbiamo detto - c'è, dentro e fuori dell'uomo, che non sia per lui una concreta e vissuta possibilità. Dunque le stesse possibilità in quanto tali devono avere in sé il criterio e la misura del loro valore. Qual è questo criterio? Si consideri l'importanza della questione. Se questo criterio mancasse, non sarebbe possibile né impegno né fede nell'esistenza. Impegno e fede sono infatti niente altro che il riconoscimento effettivo e operante del valore della possibilità in cui l'uomo riconosce se stesso. Senza il riconoscimento del valore, o peggio ancora col riconoscimento dell'uguale valore di tutte le possibilità umane, non resta all'uomo che buttarsi a capofitto in una direzione o nell'altra, calandosi a casaccio in questa o quella forma di vita, senza serietà, senza fede e senza ragione. Il problema della fede nell'esistenza e quello della ragione come guida e orientamento dell'uomo, coincidono in questo punto. Non dovremmo esitare tuttavia a riconoscere e a proclamare la verità se sfortunatamente le cose stessero proprio così. Ci sono invece, ed io cercherò di mostrarli, motivi per riconoscere che l'uomo ha, nelle stesse possibilità che lo costituiscono, la norma della loro valutazione. Una possibilità esistenziale può avere i caratteri più diversi, ma il carattere proprio e fondamentale è indubbiamente quello che fa di essa una possibilità autentica. Una possibilità che si presenti coi colori più smaglianti, ma che, una volta decisa e fatta propria da un uomo, gli si dissolva o capovolga tra le mani, sottraendogli o negandogli proprio quello che gli prometteva, non è una possibilità autentica, perché è un'impossibilità. Una possibilità invece che una volta scelta e decisa si consolidi nel suo essere di possibilità, sicché renda di nuovo e sempre possibile la sua propria scelta e decisione, è una possibilità autentica, una possibilità vera e propria. Una simile possibilità si ripresenta immediatamente di fronte a chi l'ha scelta con un carattere di normatività che rende obbligatoria la scelta. La possibilità della possibilità è il criterio e la norma di ogni possibilità. Si può indicare la possibilità della possibilità col nome di possibilità trascendentale; la possibilità trascendentale è allora ciò che giustifica e fonda ogni concreto atteggiamento umano, ogni scelta e decisione. Una scelta infatti non si giustifica perché è stata fatta, ma perché è ancora possibile farla. Una decisione non è buona e valida perché è stata presa una volta, ma perché può essere ancora presa e mandata ad effetto. Un atteggiamento qualsiasi non deriva il suo valore dal fatto che è stato assunto o può in linea di fatto essere assunto, ma solo dalla possibilità che la sua assunzione non lo renda intrinsecamente impossibile. Per rendersi conto della portata di queste considerazioni è necessario tener presente che ogni atteggiamento, scelta o decisione umana non concerne il singolo uomo che lo assume e non si esaurisce nella sua singolarità. Pensieri, sentimenti, azioni, e tutte le altre determinazioni sotto le quali si sogliono classificare le possibilità umane, concernono gli altri uomini tanto quanto il singolo a cui appartengono. Sicché il singolo, nel far propria una possibilità determinata o nel!'atteggiarsi di fronte ad essa, decide non solo di sé, ma anche, e nel medesimo atto, dei suoi rapporti con gli altri. Quando egli si determina in un compito, nel quale riconosce la possibilità di concentrarsi e di valere come un io (come unità) egli si determina altresì a tutta una serie di rapporti possibili tra sé e gli altri. Anche solo la scelta di una professione o di un lavoro qualsiasi immette immediatamente il singolo uomo in una complessa rete di rapporti di solidarietà, di interessi, di inimicizie o di amicizie, di gerarchie, di subordinazioni. Ma lo stesso lavoro o professione si può assumere e scegliere in tanti modi diversi e ognuno di questi modi colorisce la personalità di chi lo ha scelto e i rapporti con gli altri. Ora il criterio della possibilità trascendentale suggerisce facilmente che il compito che io ho scelto affinché mi renda possibile l'unità e l'equilibrio del mio io, non è il mio vero compito se questa unità e questo equilibrio vengono proprio da esso resi impossibili. E mi suggerisce pure che se quel compito tende, come ogni compito tende, a stabilire tra me e gli altri un insieme di rapporti determinati, non è un vero còmpito se nega la possibilità di questi rapporti. In tal modo, ogni atteggiamento umano, semplice o complesso che sia, ha in sé la norma della propria possibilità. Questa norma non viene desunta dall'esterno; è inerente alla possibilità che mi si offre, qualunque essa sia. Non immobilizza questa possibilità, non ne fa una realtà, un dato, un fatto, una necessità; anzi, la mantiene e la consolida proprio nel suo essere di possibilità. L'uomo, è vero, è costituito unicamente di possibilità e non ha nulla di più solido e di più stabile a cui afferrarsi. Ma proprio nell'alternativa di mantenere aperta incessantemente l'instabilità che gli è propria, può, trovare e realizzare il suo equilibrio. Può, quindi deve. Ma ciò non dice che sia costretto a farlo, né che gli riesca sempre di farlo. Niente può offrirgli una garanzia infallibile: l'errore è possibile, ed e tutto a suo rischio. Ma egli può, con sforzo e fatica, attraverso il dubbio, l'errore e la lotta, raggiungere una fede ragionevole in se stesso, cioè nella possibilità che riconosce propria, e negli altri uomini, legati a lui da questa stessa possibilità. E questa fede ragionevole è tutto quanto può costituire la sua dignità e il suo valore di uomo.

10. La libertà

Ciò che si è detto apre la via ad una interpretazione della libertà . La prima osservazione da fare a questo proposito è che la libertà non è il carattere indiscriminato di ogni scelta o decisione umana, di ogni atteggiamento possibile. Non è la condizione in cui l'uomo si trova quasi per diritto di nascita e dalla quale non gli sia possibile deflettere o decadere. Non è neppure l'amor fati, la pura e semplice accettazione del fatto, la scelta di ciò che è stato già scelto, la decisione di ciò che è già implicitamente deciso da una situazione necessitante La libertà come indifferenza di fronte alle possibilità esistenziali è propria dell'indirizzo che afferma l'assoluta parità di valore di queste possibilità. La libertà come coincidenza con la necessità è propria degli indirizzi che riducono le possibilità esistenziali ad una fondamentale impossibilità. Le possibilità esistenziali non si offrono mai all'uomo nella loro indifferenza. Tra quelle che, in linea di fatto, egli può scegliere, una sola è l'autentica, cioè quella che non si risolve in impossibilità. Questa egli deve scegliere, perché questa soltanto gli garantisce la possibilità della scelta. E questa sola è la libertà. La libertà è quindi connessa al valore di possibilità della possibilità scelta, cioè alla possibilità trascendentale. E risulta evidente che non ogni scelta è libera, ma solo quella che include la garanzia della propria possibilità. Se ho deciso liberamente, ciò che ho deciso posso incessantemente continuare a deciderlo, perché la mia decisione garantisce se stessa. Se ho deciso male, o anche se ho sbagliato (come è sempre possibile), la mia decisione si ritorce contro di me, mi mette in un vicolo cieco e mi rende impossibile ogni rapporto con me stesso e con gli altri. In questo caso io non sono e non mi sento libero, perché quella forma o quel modo d'essere di me stesso che la possibilità scelta illusoriamente mi prospettava, mi si è rivelato impossibile. E non sono libero nei confronti con gli altri, giacché la mia libertà di fronte agli altri non consiste nell'assenza totale di rapporti e nell'isolamento, ma solo nella possibilità del determinato rapporto che ho scelto. In realtà l'isolamento (da non confondersi con la solitudine) non è altro per l'uomo che la pazzia, o anche ogni forma di delinquenza o di aberrazione morale che, negando la possibilità stessa di ogni rapporto umano, confina con la pazzia e si confonde con essa. L'uomo è libero soltanto tra gli altri uomini e con gli altri uomini: alla condizione che i suoi rapporti con essi siano possibili proprio sul fondamento che egli ha scelto e deciso. Ma affinché questo sia possibile, la decisione del singolo, quale che sia, deve sempre includere e garantire la possibilità dai rapporti con gli altri; perciò solo in questo caso è libera. Sono, queste, considerazioni molto semplici, che non hanno bisogno di esemplificazioni. Mi fermerò ad un unico esempio molto istruttivo. Si discute ancora, soprattutto dopo le tristi esperienze recenti, su ciò che si deve intendere per un governo libero o per una libera costituzione statale. La risposta più ovvia, suffragata dalla tradizione del giusnaturalismo, è che un governo libero è quello scelto dal popolo. Ma questa risposta non basta; sappiamo che un popolo può scegliere e mantenere un governo non libero. Bisogna dire quindi che un governo libero è solo quello che garantisce al popolo la possibilità della scelta; e che solo questa possibilità garantita fa di esso un governo di uomini liberi. Ancora una volta, non ogni scelta è libertà, ma è libertà solo quella scelta che garantisce a se stessa la sua possibilità. La via della libertà è per l'uomo la più difficile, e l'uomo la imbrocca di solito solo dopo molti tentativi, smarrimenti ed errori. Assai più facile ed ovvia è la via della non-libertà, o della libertà fittizia, che si rivela, subito dopo la scelta, costrizione insopportabile, rottura con se stesso e con gli altri. Spinoza ha detto che l'uomo libero non pensa mai alla morte; Heidegger, che l'unica libertà possibile per l'uomo è la libertà per la morte. In realtà l'uomo libero non dimentica la morte e non vive solo per la morte. Riconosce la morte come il rischio incombente su ogni suo progetto o riuscita, su ogni suo rapporto con se stesso e con gli altri. Perciò non perde tempo nel lavorare per le cose essenziali che gli restano a fare, e non trascura in nessun momento quelle sulle quali più grava e incombe la minaccia di morte. L'uomo libero rimane fedele alla morte perchè fedele al carattere problematico della sua esistenza, che è in ogni istante possibilità di non-esistenza. Ma vi rimane fedele nelle opere e nei progetti concreti, cioè nelle possibilità che riconosce e fa sue; la sua fedeltà si esprime nel dovere che avverte di consolidare incessantemente queste possibilità e nel rifiutarsi alla credenza illusoria di ritenerle garantite in perpetuo senza il suo sforzo.

11. Il tempo

Il riconoscimento della problematicità dell'esistenza implica il riconoscimento della temporalità dell'esistenza stessa. La filosofia dell'esistenza non soggiace all'esigenza di una illusoria soppressione del tempo, caratteristica di ogni filosofia divineggiante. 0gni filosofia che abbia la pretesa di valere come un sapere necessario del mondo deve ignorare o negare il potere distruttivo dei tempo e ridurlo a un ordine di determinazioni immutabili, cioè all'eternità. Ma l'eternità non è poi che il presente o la contemporaneità; e la contemporaneità e il presente sono ancora determinazioni del tempo. Sicché la pretesa di ignorare o sopprimere il tempo non fa altro che ridurlo ad uno dei suoi momenti, con la trascuranza degli altri. La filosofia dell'esistenza parte dal riconoscimento esplicito della realtà del tempo. E con essa riconosce quella di tutte le sue caratteristiche e i suoi aspetti: nascita e morte, conservazione e distruzione, immobilità e mutamento, sviluppo e decadenza. Questi aspetti antagonisti del tempo difficilmente possono essere intesi e interpretati sulla base di un qualsiasi concetto del tempo. Giacché se il tempo è ordine, permanenza, secondo il concetto che è a fondamento di quasi tutte le sue interpretazioni filosofiche, non si spiega Il suo potere distruttivo e nullificante. E se invece è disordine, impermanenza e distruzione secondo le interpretazioni religiose o tendenzialmente religiose di esso, non si spiega la possibilità dell'uomo di sottrargli sia pure a pezzi e a brandelli, quello che gli sta a cuore e di farne il patrimonio del suo passato, della sua tradizione o della sua storia. In realtà soltanto la categoria esistenziale della possibilità permette di intendere il tempo in tutti gli aspetti della sua temporalità, perché permette di riconoscere questa temporalità nella possibilità che è sempre insieme positiva e negativa, ed implica sempre l'alternativa dell'ordine e del disordine, della conservazione e della distruzione, ecc. La temporalità del tempo non è che I'instabilità fondamentale della possibilità esistenziale. La minaccia della distruzione implicita nel tempo non è che la possibilità, connessa ad ogni possibilità concreta, di perdersi e di svanire. La possibilità di rinnovamento e di conservazione, che il tempo racchiude, è quella del consolidarsi e del mantenersi delle singole possibilità concrete. Tutti gli aspetti e le dimensioni si legano alla possibilità come tale. Il presente di una possibilità è una prospettiva verso il futuro, che si radica nel passato. Una possibilità è sempre un'apertura verso il futuro, giacché prospetta il venire all'essere di ciò che è possibile col passato, giacché non fa che prospettare o progettare ciò che, in qualche modo, è già stato. L'atto con cui l'avvenire è problematicamente agganciato al passato e il passato è spinto verso l'avvenire, è il presente di una possibilità. Come prospettiva o progetto dell'avvenire, ogni possibilità include in sé il passato e realizza una qualche forma di unità tra l'avvenire e il passato che è il presente o l'istante. Ma non si può intendere l'esistenza umana, dal punto di vista del tempo, come una successione di istanti. La vicenda della successione è una vicenda di sostituzione, e la sostituzione implica la sostituibilità degli istanti che si succedono. Ma questa sostituibilità esprime a sua volta l'equivalenza di valore degli istanti, e l'equivalenza non è altro che l'assenza del valore dal quale dipende la preferenza e la scelta. L'esistenza umana può indubbiamente anche abbassarsi ad essere pura successione di istanti, e cioè vicenda insignificante di possibilità che si accavallano e si sostituiscono, sparendo subito dopo, senza lasciar traccia. Ma indubbiamente essa è tale soltanto quando decade o viene meno alla sua intrinseca normatività, mentre non è tale quando si riconosce in una possibilità valida e si concreta e si consolida in essa. In questo caso, l'esistenza non è successione, e la sua temporalità si esprime nella possibilità di salvaguardare i suoi aspetti essenziali, e di conservare e rinnovare il patrimonio nel quale si riconosce. La considerazione del tempo implica, così, la considerazione del valore. Là dove manca l'impegno e la fede nell'esistenza, la temporalità appare come successione; là dove l'impegno e la fede prevalgono, la temporalità si rivela come possibilità di arricchimento e di conservazione, e la minaccia del tempo come una alternativa di riuscita o di fallimento.

12. La storia

In questa alternativa della temporalità esistenziale si radica la storia. La quale è una ricerca che impegna l'avvenire a scoprire la verità del passato, ed è quindi lotta per sottrarre al potere distruttivo e nullificante del tempo ciò che è valido e degno di conservazione o di ricordo. La storia non è la conservazione integrale, e per così dire automatica, del passato, nel seno di una esperienza o di una coscienza universale o comune a tutto il genere umano. Non è neppure un colpo d'occhio divino gettato sulle vicende degli uomini e diretto a scoprire i loro rapporti necessari e la loro eterna contemporaneità. E' piuttosto una possibilità e un dovere per l'uomo: la possibilità e il dovere di rintracciare e riconoscere nel proprio passato gli aspetti autentici di verità e di farli valere come norma di limitazione e di scelta delle possibilità a venire. L'uomo non può conoscersi e giudicarsi se non nel passato; deve dunque disporsi al riconoscimento del suo passato senza illusioni né pregiudizi, con la volontà di scoprirne il volto autentico, e a valersi nel modo migliore di quelle possibilità di rievocazione che sono le fonti della storia. Ma ogni riconoscimento e giudizio è perciò stesso un impegno per l'avvenire: giudicando il suo passato, riconoscendo i mancamenti e gli errori come le conquiste autentiche, egli dispone il quadro dei suoi progetti a venire, dei suoi propositi, in una parola, delle concrete possibilità che lo attendono. L'indagine storica deve perciò procedere sempre mediante una scelta dei suoi elementi di giudizio, scelta che assume come particolarmente significativi, per un'epoca, per una personalità o per un fatto, singoli istituzioni o costumi, atteggiamenti od eventi. Ma la scelta è giustificata soltanto se in qualche modo giustifica e fonda la propria possibilità; se, cioè, non rende impossibile quella problematicità degli eventi che è il fondamento di ogni giudizio o scelta possibile. Una valutazione storica, infatti, che immobilizzasse la storia stessa in uno schema predisposto, in una orientazione unica o necessitante, in un ordine progressivo o regressivo ineluttabile, verrebbe meno alla problematicità della storia e ne renderebbe impossibile il giudizio o la valutazione. La problematicità della storia è la stessa problematicità dell'esistenza che incessantemente ritorna a se stessa, e cerca di riconoscere e di consolidare le sue possibilità autentiche. Essa ci vieta così l'ottimismo come il pessimismo, che entrambi tentano di legare la sorte dell'umanità ad un ordine storico necessario. Essa ci dice che l'ordine è piuttosto avanti e al di là di noi che dietro di noi. Ci mostra nel passato gli elementi di fiducia o di speranza come quelli d'incertezza e di dubbio. E in ogni caso ci impegna a lavorare nel modo migliore per ciò che a ciascuno di noi deve stare più a cuore, per ciò che è più degno ed umano.