Le prove ontologiche sull’esistenza di Dio

 

 

A cura di Diego Giordano

  

Nel corso della storia della filosofia occidentale, sono state formalizzate due generi di dimostrazioni dell’esistenza di Dio, e tale bipartizione la possiamo riscontrare, seppur larvatamente, in Aristotele e precisamente in un frammento del dialogo “De Phylosophia” e in altri frammenti riscontrabili nelle opere di altri autori successivi. Aristotele afferma che la nozione degli dei ci è giunta e ci giunge attraverso due vie: l’interiorità (l’anima) o la contemplazione dei fenomeni celesti (eventi altamente regolari). Ecco, dunque, prospettate quelle che saranno poi codificate dalla Scolastica come prove dell’esistenza di Dio, ossia le vie per dimostrare l’esistenza, o meglio, tentare di dimostrare l’esistenza di Dio “a priori” o “ a posteriori”.

 

 Anselmo d’Aosta

 La posizione di Anselmo d’Aosta, precedente di due secoli quella di Tommaso, è articolata in dimostrazioni “a priori” e “a posteriori” relativamente all’esistenza di Dio, ma è celebre soprattutto la prova “ontologica”  contenuta nel Proslogion, composto tra il 1077-78.

Inizialmente intitolato “la fede alla ricerca dell’intelletto” (fides quaerens intellectum), segue due direzioni suggerite già da Agostino “credo ut intelligam” e “intelligo ut credam”, ma per Agostino vi era circolarità tra le due: sia il credere può essere presupposto dell’intelligenza (presupposto, dunque che è a fondamento) e viceversa, sia l’intelligenza è rafforzatrice per la fede (presupposto per capire la propria fede). Per Anselmo d’Aosta è sul presupposto della fede che l’intero compito si svolge: nella fede è già inscritta la ricerca, essendo essa il fondamento dell’indagare, del ricercare.

In questo, Agostino e Anselmo non fanno che approfondire Isaia, il quale afferma “se non crederò, non intenderò” (nisi credidero, non intelligam).

E’ dalla fede, quale presupposto non scontato, che Anselmo inizia il suo cammino di ricerca e giunge a formulare la propria argomentazione relativamente alla esistenza di Dio, provabile senza il ricorso all’esperienza esteriore. Nel secondo capitolo del Proslogion, giunge a definire Dio come ens perfectum, ossia come quell’ente che accoglie in sé tutte le perfezioni, inclusa quella perfezione che è l’esistenza: l’essere intellettualmente comprensibile di Dio include in sé la sua stessa esistenza. Se noi pensassimo a Dio senza pensarlo esistente, ecco che non avremmo pensato veramente a Dio, perché potremmo pensare a un’idea ancora più grande: quella pensata prima più quella della sua esistenza.

Un conto è pensare alla perfezione di Dio come essere perfettissimo e altro la conseguenza logica che non possiamo pensarlo non esistente. Inoltre Anselmo esprime così la sua idea di Dio: “non Sei solo ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore, ma Sei anche alcunché di maggiore di quanto possa essere pensato”; le due affermazioni vanno tenute assieme, infatti la prima è il contenuto della argomentazione ontologica, mentre la seconda vuole evidenziare il ruolo della fede, in quanto  si vuole esprimere che Dio è anche più perfetto, più grande di ogni pensiero che si possa formulare su di lui.

Solo nella contemplazione di questi apparenti contrasti, quindi nella comprensione simultanea di queste due tesi, possiamo davvero affermare la perfezione di Dio, senza ridurlo a ente razionale, cioè a prodotto semplicemente della nostra speculazione,garantendogli la indicibilità, la superiorità, la differenza qualitativa tra Lui e l’uomo. Tuttavia in questo modo non rinunceremo così al tentativo di intuirne l’essenza.

Ecco che, così compreso il pensiero anselmiano, potremo comprendere la motivazione, da parte dell’ultimo Schelling, di riprendere l’argomento ontologico di Anselmo d’Aosta e nel              riapprofondirne la portata. Filosofia negativa e filosofia positiva non sono che le due facce del tentativo di comprensione dell’esistenza di Dio, Dio vivente capace di porsi in relazione con la conoscenza umana, la quale è capace a sua volta, almeno in parte, di cercare di comprendere Dio nelle sue relazioni storiche con la finitezza umana.

 

 Tommaso d’Aquino

  San Tommaso d’Aquino formalizza diverse prove dell’esistenza di Dio, e sembra essere proprio lui il principale teorizzatore della prova “a posteriori” dell’esistenza di Dio, anche se, comunque, parla della prova “a priori” formulata da Anselmo d’Aosta in tono critico, dichiarandola inaccettabile.

San Tommaso, infatti, afferma che di per sé, la prova ontologica sarebbe valida in assoluto, ma solo relativamente a Dio e non per l’uomo, che invece deve contemplare Dio a partire dalla propria finitezza: cioè, la prova che partendo semplicemente dall’essere di Dio ne dimostra l’esistenza, per Dio stesso è sicuramente valida (essenza ed esistenza coincidono in Dio), ma per la debole mente umana non è valida, in quanto l’uomo non può fare esperienza diretta del fatto che in Dio coincidono essenza ed esistenza.

Per San Tommaso, come chiaramente in Aristotele, la conoscenza non può che avvenire attraverso l’esperienza, la quale a sua volta non può che avvenire per mezzo dei sensi.

Così, San Tommaso passa ad individuare quali siano le prove a posteriori per giungere alla dimostrazione dell’esistenza di Dio e queste vengono chiamate prove cosmologiche o fisico-teologiche, in quanto partono dal cosmo sensibile e ordinato, invece di partire da una mera nozione dell’essere riscontrabile nella stessa mente finita dell’uomo. Per San Tommaso le prove dell’esistenza di Dio sono cinque, e c’è una ripresa di varie tematiche aristoteliche.

1)      La prima parte dal principio aristotelico che ogni movimento non può che essere ricondotto ad uno suo movente, e il movente ultimo di ogni movimento non può che essere un motore immobile, cioè che muove pur non essendo mosso (Dio). Questo concetto, proprio della teologia aristotelica,intende Dio come causa finale, cioè muove per attrazione, attraverso il desiderio, ogni cosa finita, la qual mossa dal desiderio di questo fine superiore, viene attratta, appunto, finalisticamente da questo motore che resta, tuttavia, immobile.

2)      La seconda via individua nella serie di causalità, argomentabili relativamente ai rapporti di causalità fra cose sensibili, tra sostanze sensibili e anche soprasensibili, quindi in una continua concatenazione di cause con cause, un fondamento primo di questa serie. Questa causalità non è semplicemente una causa efficiente, ma la causa finale, ossia la immobile movenza attrattiva propria al primo principio aristotelico della realtà come motore immobile. La serie di cause rinvia ad una causa prima, che può essere causa assolutamente finale, cioè Dio.

3)      La terza consiste nell’interpretazione tomistica del rapporto tra potenza e atto aristotelico: prima l’atto, poi la potenza. Se riscontriamo una potenza, per spiegarla, dovremo risolverla all’attualità rispetto alla quale tale potenza è potenzialità. Non possiamo fare a meno di considerare Dio come atto puro, ossia un atto privo di ogni potenzialità, una realtà pienamente realizzata in quanto ha in sé stesso il suo fine.

4 e 5) La quarta e la quinta risalgono dalla realtà sensibile alla realtà divina: riscontrando alcuni gradi di realtà è necessario risalire ad un principio primo, che contiene tali gradi nella propria purezza, nella propria perfezione. La quinta prova, non solo riscontra queste tracce di caratteristiche trascendentali nel mondo sensibile, ma riscontra proprio l’ordine del cosmo: il cosmo è tale proprio perché è ordinato, ed è possibile riscontrare in esso una certa provvidenza, ossia possiamo dire che è governato da qualcosa di superiore, e questo lo possiamo dire a posteriori.

Ecco dunque la reinterpretazione tomistica della metafisica aristotelica: tuttavia San Tommaso riconoscerà un apofatismo relativamente alla divinità e introdurrà una teologia della Rivelazione, ossia una teologia fatta non solo attraverso la conoscenza naturalmente propria all’esistenza finita e alla sua capacità conoscitiva, ma anche basata sulla rivelazione positiva del cristianesimo.

 

 Cartesio

Cartesio, attraverso i teologi scolastici, riprende l’argomento anselmiano in particolar modo nelle Meditationes de prima philosophia (Meditazioni metafisiche). Il termine prima filosofia è stato già usato da Aristotele per definire la teologia, quindi, anche Cartesio, nelle sue Meditazioni metafisiche vuole riflettere su Dio. Infatti, afferma esplicitamente che vuole indagare la questione dell’anima e della sua immortalità, e l’esistenza di Dio.

Cartesio, nelle sue Meditazioni metafisiche (pubblicate nel 1641 in lingua latina), non parte, come Anselmo, dalla fede per portare intelligenza alla fede stessa, ma parte dal dubbio universale, pur restando il fine di dimostrare qualcosa di certo, indubitabile, ossia l’esistenza di Dio. Provare l’esistenza di Dio significa, per Cartesio, garantire la corrispondenza tra pensiero ed estensione, ossia tra idee della nostra mente e realtà esterna, posta precedentemente in dubbio. Dio è il punto fermo da cui dipende la certezza stessa (anche il cogito).

Ponendo in dubbio tutte le nostre credenze circa l’esistenza di una realtà a noi esterna, Cartesio riesce, al fine, a trovare una certezza: l’essere dubitante, ossia un io pensante che esiste,  riconoscendosi esistente proprio attraverso l’atto del dubitare. Scopre, così, l’esistenza di un io dubitante e pensate le idee. Cartesio distingue poi tre tipi di idee relativamente alla loro origine: le idee avventizie, fattizie e innate.

Le idee avventizie, sarebbero quelle idee che provengono dall’esperienza sensibile, quindi da ciò che è a noi esterno.

Le idee fattizie, sarebbero quelle idee prodotte in noi, a prescindere da una nostra esperienza sensibile, quindi solamente a partire dalla nostra mente.

Le idee innate, non provengono, invece, né da una realtà esterna a noi, né dalla produttività della nostra mente. Esse sono infatti presenti in noi a prescindere da una nostra esperienza sensibile  e a prescindere da una nostra creatività interiore, dunque le idee innate sono eterne. Da qui una ripresa dell’eternità delle idee platoniche come base dell’argomentazione dell’immortalità dell’anima: se riscontriamo idee che sono da sempre presenti nella nostra anima, poiché noi siamo mortali, la nostra anima sarà, invece, immortale e per questo motivo abbiamo in essa idee eternamente presenti.

Fatta questa tripartizione, Cartesio formula tre possibili diverse dimostrazioni a priori dell’esistenza di Dio: nella terza meditazione viene riscontrata la presenza, nella nostra mente, dell’idea di Dio come essere infinito. L’origine di una tale idea non è nella realtà esterna a questa idea, perché essa non è infinita come Dio: quindi tale idea non è avventizia.

Cartesio nega, inoltre, che una tale idea sia fattizia perché l’idea di un essere infinito non può giungere da un essere finito: l’uomo non può produrre fattiziamente una tale idea, in quanto è essere finito.

Cartesio afferma questo sulla base di un presupposto logico e gnoseologico, cioè afferma che la causa di una idea deve avere una realtà formale altrettanto grande quanto la realtà oggettiva presente nell’idea causata. Per formale dobbiamo pensare all’atto aristotelico, alla forma come ciò che è in atto. Per oggettivo dobbiamo pensare il contenuto dell’idea, ossia a ciò che è oggettivabile alla facoltà rappresentativa della nostra mente. Cartesio afferma che la causa formale, cioè in atto, deve avere almeno altrettanta realtà formale quanto l’idea causata ne abbia di realtà effettiva, cioè se noi abbiamo, nella nostra mente, l’idea di Dio come essere infinito, questa che per noi è una rappresentazione (realtà oggettiva) nella nostra mente, dovrà essere causata da una causa che contenga in atto (formalmente) almeno altrettanta realtà formale quanta realtà oggettivata nella nostra mente. Così Cartesio sventa l’ipotesi che l’idea di Dio sia fattizia, perché dimostra che in noi non c’è la causa formale del risultato rappresentativo di tale causalità, in noi c’è solo l’oggettività, la rappresentatività di Dio come essere infinito, ma non Dio nella sua forma.

Così l’idea di Dio non può essere prodotta da noi (non può essere fattizia) e non può giungerci da una realtà esterna, né può essere intesa come semplice negazione del finito, in quanto per Cartesio l’infinito precede il finito, così come il perfetto precede l’imperfetto, ma è idea innata. Nella terza meditazione, viene introdotta una definizione di Dio come infinita potestas, concependolo non solo come ente supremo, infinito, perfetto, ma anche come volontà, capacità. Cartesio vuole arrivare ad intendere Dio come continuo sostenitore della nostra esistenza finita, e dunque vuole dimostrarne l’effettiva esistenza a partire proprio dall’idea presente in noi.

Infine, nella quinta meditazione si stabilisce che nell’idea stessa di Dio si debba includere anche quella della perfezione della sua esistenza: se Dio è l’essere infinito, l’essere perfettissimo, nella sua stessa essenza, nelle sua stessa idea dobbiamo includere l’esistenza, perché l’esistenza è vista come perfezione. E’ proprio su quest’ultimo punto che Kant solleverà la sua critica a Cartesio, considerando l’esistenza come non essere una perfezione, ma piuttosto una posizione della cosa. La critica schellinghiana a Cartesio assumerà l’argomento cartesiano di Dio come quell’ente alla cui “essenza compete l’esistenza”, ma affermerà che “Dio è l’essere necessariamente esistente, se esiste”, cioè il fatto che Dio è necessariamente esistente è frutto di una definizione meramente logica, che noi possiamo ritenere a priori come valida, tuttavia l’effettivo darsi di questa perfezione logica avverrà solo se riusciremo a presupporre l’esistenza effettiva di Dio. In altri termini, con la definizione di Dio come l’essere necessariamente esistente avremmo soltanto l’idea di Dio,ma non ancora la sua effettiva esistenza.

 

Leibniz

Leibniz, sia nella Monadologia, nel 1714, sia nello scritto del 1701 Sulla dimostrazione cartesiana dell’esistenza di Dio, svilupperà l’interpretazione cartesiana dell’argomento anselmiano estrapolato dal contesto di fede e lo riformulerà in una maniera ancora più logica. Per Leibniz, infatti, la prova dell’esistenza di Dio è ridotta alla riflessione logica sulla sua possibilità: se Dio è possibile, necessariamente esiste. Dio è quell’essere la cui esistenza è implicita nella sua essenza o natura, e allora basterà pensare la possibilità di un essere la cui esistenza è implicita nella sua essenza che ne avremo dimostrato l’effettiva esistenza. Basterà, dunque, dimostrare la non-contraddittorietà logica per dimostrare l’esistenza di quell’essere la cui esistenza è inclusa nella sua essenza. Ecco che in Leibniz abbiamo questa estrema logicizzazione dell’argomento anselmiano, il quale verrà totalmente abbandonato nel suo contenuto, nel corso della filosofia moderna, di considerare la fede come presupposto indagante e quindi non scontato e di considerare la conoscenza di Dio come non-conoscitiva attraverso la ripresa della Lettera a Timoteo, che afferma l’apofaticità di Dio. Kant si misurerà continuamente con la filosofia della scuola wolffiana, criticando radicalmente l’argomentazione ontologica, tuttavia valorizzandone la portata e ravvivandone la possibilità di contestualizzazione e quindi, creando quel terreno fertile attraverso il quale Schelling rivaluterà la prova ontologica, pur componendo il percorso in due cammini conoscitivi, ossia filosofia negativa e filosofia positiva.

 

Kant

Proprio nel confronto a partire dalla critica svolta da Kant alle prove dell’esistenza di Dio che Schelling svilupperò in parte la riformulazione di una prova dell’esistenza di Dio.

Kant approfondisce il discorso su tali prove già a partire da uno scritto precritico, intitolato L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio (1763), e continua la sua speculazione filosofica in questa direzione a partire dalla Critica della Ragione Pura (1781).

In particolare il filosofo analizza le prove dell’esistenza di Dio nel capitolo della Dialettica trascendentale dedicato all’ideale della ragione pura, e ne individua di tre tipi:

-          la fisico-teologica, che corrisponde alla quarta e quinta delle prove di Tommaso (rispettivamente ex gradu e ex fine);

-          la prova cosmologica, corrispondente alle prime tre prove di Tommaso (rispettivamente ex motu, ex causa e ex possibili et necessario).

-          la prova ontologica, detta anche cartesiana, in riferimento al razionalismo di Cartesio e di Leibniz.

Kant riconduce la prova fisico-teologica a quella cosmologica, e a sua volta la prova cosmologica a quella ontologica, per cui si propone di argomentare intorno a quest’ultima dimostrandone l’inefficacia filosofica. Va notato subito come nella sezione della Critica della Ragion pura presa in esame Kant conduca una critica a tutte le prove dell’esistenza di Dio, mostrando al tempo stesso in maniera limpida e netta come l’idea di Dio, propriamente costituita dall’ideale trascendentale, sia inevitabile per la ragione: per un verso, dunque, Kant afferma l’inevitabilità dell’idea di Dio e per altro verso l’impossibilità di dimostrarne l’esistenza, per cui pensare Dio non faciliterebbe affatto l’accesso effettivo della ragione alla prova della sua esistenza. E’ significativo sottolineare che tale paradossalità della ragione sarà ben presente all’ultimo Schelling. L’ideale trascendentale costituisce un vero e proprio abisso della ragione umana, e questa abissalità permetterà di riflettere parecchio, sia sulla trascendentalità della ragione, attraverso una filosofia negativa, sia sulla possibilità di provare l’esistenza di Dio, attraverso una filosofia positiva.

L’ideale trascendentale della ragione umana è per Kant un’idea personificata, attraverso un processo di ipostatizzazione tale da far assurgere ad archetipo tale idea: si tratta dunque dell’ideale che permette di compiere tutta la serie di possibilità pensabili da parte della ragione umana. Esso è propriamente un ens perfectissimum, secondo l’espressione dell’argomentazione di Anselmo, ma Kant richiama anche altre espressioni, come ad esempio omnitudo realitatis, che sta ad indicare la realtà di ogni totalità pensabile racchiusa nell’ideale trascendentale; egli inoltre fa riferimento ad una vera e propria teologia trascendentale, ossia ad una teologia svolta semplicemente attraverso la trascendentalità della ragione: la ragione, a priori e inevitabilmente, giunge ad una riflessione su Dio, che è inteso come ideale trascendentale.

La riflessione sulla paradossalità della ragione si fonda, dunque, sull’argomentazione critica intorno alle prove dell’esistenza di Dio.

1)      In primo luogo, Kant incentra la sua attenzione sulla prova fisico-teologica, che dal mondo esperibile della fisica risale a Dio come suo fondamento, secondo l’argomentazione, già presente in Aristotele, che giustifica l’ordine e la finalità del mondo sensibile attraverso un rimando ad un principio primo, che si configura come causa teleologica del mondo stesso. Kant afferma che in questo caso siamo di fronte ad un salto logico, in quanto non è possibile risalire dalla teologia riscontrabile nel mondo alla sua causa finale prima ed incausata: tale percorso sarebbe lecito soltanto attraverso la dimostrazione delle relazioni di causalità, che gradualmente potrebbero condurci dalla realtà fisica ad un essere assolutamente incondizionato.  Ma questa è propriamente la strada che percorre la prova cosmologica dell’esistenza di Dio, cioè quella che dal cosmo risale per gradi, ossia di causa in causa, ad un Atto primo puro, immobile movente di ogni divenire: Kant è dunque riuscito a ricondurre a quest’ultima la prova fisico-teologica, da cui è partito.

2)      Kant analizza la prova cosmologica, partendo non dall’esperienza sensibile in quanto tale, come invece fa Tommaso, piuttosto dalla possibilità a priori di qualcosa di esperibile nel cosmo, operando in tal modo ancora una volta riflessione trascendentale: il filosofo ipotizza infatti la possibilità di un’esperienza sensibile, che non prescinde totalmente dall’esperienza stessa, ma che è comunque parzialmente a priori. Partendo dalla possibilità dell’esistenza effettiva di qualcosa, Kant giunge alla presupposizione inevitabile di una incondizionatezza che fondi tale possibilità. Il filosofo afferma che, se qualcosa esiste e se riesco almeno a riscontrarlo, allora lo si potrà determinare nella sua individualità solamente nell’esclusione di ogni altra diversa possibilità, da cui la possibilità particolare in questione deve necessariamente distinguersi: per distinguere una cosa nella sua singolarità, si dovrebbe possedere l’intera serie delle possibilità; in caso contrario la cosa non potrà mai essere determinata con una precisione tale da escludere il suo confondersi con qualcos’altro. Questa serie completa è propriamente costituita dall’ideale trascendentale, ossia dall’idea di Dio: essa sarebbe la causa incausata ed incondizionata di ogni altra causa infinita, di quella concatenazione di cause che non può essere infinita, altrimenti di fatto sarebbe indefinita non solo nella sua totalità, ma anche nella singolarità di ogni ente finito e determinato: se non circoscriviamo questo rimando apparentemente infinito, nemmeno le singole cose saranno determinabili nella loro singolarità. Allora cosmologicamente l’esaminare una data cosa ci rimanda inevitabilmente a tale causa ultima ed incondizionata, raffigurabile come un essere necessario che fonda, senza essere causato, la concatenazione di cause possibili. La possibilità di un semplice ente nella sua determinazione finita presuppone dunque la necessità di un ens necessarium: la prova cosmologica, a partire dalla possibilità di un ente determinato, rinvia alla necessaria presupposizione ad esso di un ente necessario. A questo punto sorge un ulteriore problema secondo Kant: questo ente necessario dovrà essere in qualche modo definito, quindi non ci si potrà limitare ad una definizione negativa di esso come ente incausato e non-possibile. Per descriverne la necessità dovremo dire qualcosa di più, ossia ricondurre l’ens necessarium all’ens perfectum e dunque ricondurre la prova cosmologica alla prova ontologica; per affermare la necessità dell’ente dovremo dunque concepirlo come l’essere così perfetto, da includere nella sua essenza la sua stessa esistenza. Se la prova fisico-teologica si fonda su quella cosmologica, e quest’ultima sulla prova ontologica, se inoltre la prova ontologica risulterà valida, allora reggeranno mediatamente tutte le altre prove, in quanto esse si fondano sull’effettività dell’esistenza di Dio.

3)       A differenza che nella sua opera precritica L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio, nella Dialettica trascendentale Kant critica radicalmente la prova ontologica. Tale critica è molto articolata e di fatto si basa sul fatto che Cartesio include l’esistenza fra le perfezioni attribuibili a Dio. Kant riesce a dimostrare che l’esistenza non è una delle perfezioni possibili di Dio: ogni esistenza, e tra queste l’esistenza di Dio, non costituisce una perfezione, non è un predicato. L’esistenza non è un predicato reale, non è un predicato in generale. Se noi per affermare l’esistenza di Dio formuliamo una proposizione del tipo Dio è esistente, allora attribuiremo a Dio l’esistenza come suo predicato, come sua qualità. Tutte le altre perfezioni di Dio sono attribuibili a Lui come predicati ella soggettività di Dio. Potremmo dire ad esempio Dio è onnipotente, in quanto l’onnipotenza è un predicato incluso nello stesso soggetto della proposizione, il predicato infatti non fa che esplicitare analiticamente a priori  una caratteristica del soggetto: la copula nel giudizio in questione ha mero valore logico, in quanto unisce semplicemente in maniera analitica il predicato al soggetto, esplicitando una caratteristica del soggetto già implicita in esso, ma senza voler esprimere l’esistenza di Dio onnipotente. La copula nel giudizio analitico non può valere essa stessa come predicato: dicendo che Dio è onnipotente noi non intendiamo che Esiste un Dio che è onnipotente. Non possiamo dire che Dio sia esistente, in quanto l’esistenza non è una sua predicabile qualità e non è inclusa nella sua soggettività. L’esistenza è qualcosa che solo in una fase successiva, sintetica, possiamo aggiungere a questo soggetto: l’esistenza non è un predicato. Esempio di giudizio analitico a priori: il triangolo ha tre lati. Si tratta di un’affermazione nella quale il fatto di avere tra lati non fa che esplicitare analiticamente ciò che è contenuto nel soggetto. Ma con ciò non avremo affermato l’esistenza del tale triangolo che dobbiamo descrivere. Lo stesso ragionamento vale per Dio: se noi diciamo che Dio è onnipotente, non ne affermiamo l’esistenza. A tal proposito Kant riporta l’esempio della moneta da cento talleri, che certamente nella sua identità è qualcosa di chiaramente pensabile, numericamente ineccepibile, ma nella sua effettiva realtà sarà esperibile solo attraverso la posizione stessa della cosa, la sintesi con l’esperienza e con l’intuizione sensibile. Non accade che l’idea di cento talleri aggiunga o diminuisca di un centesimo la loro quantità, ovvero l’essenza stessa della moneta in questione nella sua effettiva realtà. I cento talleri pensati dalla mia mente o i cento talleri che effettivamente posso possedere, da un punto di vista di definizione della cosa, sono esattamente identici, eppure l’esistenza è qualcosa di diverso. Lo stesso vale per Dio: Dio non fa eccezione rispetto a qualsiasi altro ente relativamente all’esistenza. Anche la sua esistenza non è un predicato, ma un’esistenza che può essere colta attraverso un intuizione sensibile. Ma Dio è un’idea della ragione, che sfugge a qualsiasi sensibilità, dunque la sua esistenza no è sintetizzabile. Eppure Dio è l’idea inevitabile, l’idea per eccellenza della ragione stessa. Se la ragione vuole pensare, allora non potrà fare a meno di ricorrere all’ideale trascendentale, incondizionata condizione di ogni realtà e complessività di ogni possibilità pensabile presupposta necessariamente alla pensabilità di ogni singolarità determinata. Nel tentativo di avvicinarci all’ideale trascendentale siamo ribaltati da un’idea all’altra, senza poter trovare un fondamento su cui basarci. Kant sinteticamente riassume il procedere della prova cosmologica e di quella ontologica, facendo notare come l’una rinvii all’altra senza soluzione di continuità e senza la possibilità di una risoluzione del nodo problematico ad esse sotteso. Infatti incisivamente il filosofo afferma che “l’intero compito dell’ideale trascendentale si riduce a questo: o trova per la necessità assoluta un concetto o per il concetto di una qualche cosa la necessità assoluta di questa”. Qui abbiamo in estrema sintesi l’indicazione di quali siano i percorsi della prova cosmologica (prima parte dell’affermazione) e di quella ontologica (seconda parte dell’affermazione): la prova cosmologica – almeno per quanto concerne la seconda parte dell’argomentazione kantiana, ossia quando si giunge all’incondizionato come condizione di ogni altra ipotizzabile condizione finita – esige una definizione dell’incondizionato stesso, richiede che dell’ens necessarium si dica il suo il suo essere ens perfectum: ecco spiegato il rinvio alla prova ontologica. Ma se noi siamo rinviati dalla necessità di una causa incondizionata all’esigenza di un concetto per essa, che è quello di perfezione, ecco che dal concetto di una qualsiasi cosa siamo inevitabilmente e circolarmente rinviati alla necessità, cioè la concettualità a sua volta è priva di necessità, nel senso che essa – che si parli di Dio, di un triangolo o di una moneta da cento talleri -, pur potendo includere in sé anche l’idea di esistenza necessaria, non da riferimento all’esistenza effettiva, in quanto l’esistenza non è un predicato, e quindi in nessuna concettualità potremo includere l’esistenza nella sua effettività. L’esistenza può effettivamente essere riscontrata mediante una sintesi della concettualità con l’intuizione sensibile, che nel caso di Dio non ci è data. Soltanto un’intuizione intellettuale come quella di Dio potrebbe concepire concetto ed esistenza come qualcosa di simultaneo, perché Dio crea le cose nell’atto stesso in cui le pensa e le pensa nell’atto stesso in cui le crea. Saranno gli idealisti ad attribuire tale intuizione intellettuale all’Io piuttosto che a Dio, permettendo dunque una fondazione della razionalità trascendentale.

Nell’essere rinviati circolarmente da una prova all’altra, senza un fondamento ultimo né un’insensatezza conoscitiva – di fatto la ragione inevitabilmente è attratta dall’ideale trascendentale ma al tempo stesso ne è respinta – Kant, in una pagina significativa della prima Critica individua un “abisso” della ragione umana. “La necessità incondizionata, di cui abbiamo bisogno in maniera così indispensabile come dell’ultimo sostegno di tutte le cose, è il vero abisso della  ragione umana. L’eternità stessa, con tutta la sublimità terribile con cui possa pure essere dipinta da uno Haller (poeta svizzero), è lungi dal produrre sull’animo quest’impressione vertiginosa; infatti si limita a misurare la durata delle cose, ma non le sostiene. Non si può evitare il pensiero, ma neanche sostenerlo; che un ente che ci rappresentiamo come il sommo di tutti i possibili dica in certo qual modo a se stesso: Io sono dall’eternità per l’eternità; fuori di me non è nulla se non ciò che è qualcosa meramente per mia volontà; ma donde sono io allora? Qui tutto sprofonda sotto di noi, e la massima perfezione con la minima meramente fluttuano senza sostegno davanti alla ragione speculativa, a cui nulla costa fare svanire l’una come l’altra senza il benché minimo ostacolo”. Questa è una delle pagine più abissali del sistema filosofico di Kant, che ci fa capire come il nostro intelletto operi relativamente alla conoscibilità come su un’isola circondata da mari tempestosi – il riferimento è ad uno spunto metaforico presente in un’altra pagina della produzione kantiana. Nel passo citato si afferma non solo la presenza di un abisso della ragione umana, verso il quale la ragione è inevitabilmente attratta e dal quale al tempo stesso è insopportabilmente respinta, ma anche che è quello stesso fondamento ultimo, che la ragione identifica con Dio, ad essere abissale: persino Dio interroga se stesso intorno alla propria fondatezza; l’ultimo fondamento di ogni cosa da ultimo risulta infondato.