PLATONE

INTRODUZIONE

LA VITA

La formazione

Il primo viaggio in Sicilia e l'Accademia

Dionisio e Dione

LA POLEMICA CONTRO I SOFISTI

La giustizia di Socrate e la virtù dei Sofisti

L'ANIMA E L'AMORE

La matematica e l'anima

L'amore

IL FILOSOFO E LO STATO

I filosofi e il potere

Utopia e analisi

LA DOTTRINA DELLE IDEE

Il mito della caverna e l'ascesa alle idee

La critica alle idee

Le idee e i principi

  L'UNO E I MOLTI

 La molteplicità dell'essere e il movimento

 La dialettica e la struttura delle idee

  LA NATURA

L'enciclopedia della natura

LE LEGGI

La storia e la città delle "Leggi"

LA RELIGIONE ASTRALE

L'Opera platonica

Possiamo dire di possedere sostanzialmente tutte le opere platoniche perché non conosciamo titoli di scritti che non ci siano giunti. Forse la loro conservazione e perfino il loro culto incominciò già nell'Accademia, nella quale dovettero essere considerati testi canonici, da studiare e commentare. I dialoghi di Platone furono classificati in tipi diversi (DL III, 49-50), ricevettero titolo (quasi sempre il nome di un personaggio, per esempio Fedone) e sottotitolo (per esempio Sull'anima per il Fedone in DL III, 57), e furono sottoposti a esegesi diverse e allo studio critico del testo (DL III, 65-66).

In età alessandrina si dovette ritenere che nei dialoghi di Platone la filosofia avesse raggiunto la forma perfetta, come era avvenuto nel teatro con Eschilo e Sofocle (DL III, 56). E infatti nel III secolo a.C. Aristofane, il bibliotecario di Alessandria, ne curò un'edizione raggruppandoli in trilogie (DL III, 61-62). In séguito essi furono organizzati in tetralogie e così furono editi da Trasillo (DL III, 56). Non è chiaro chi fosse Trasillo, che spesso viene collocato nell'età di Tiberio; però già Varrone doveva conoscere l'ordinamento in tetralogie. La distribuzione degli scritti platonici in tetralogie era la seguente:

I tetralogia: Eutifrone, Apologia, Critone, Fedone.

II tetralogia: Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico.

III tetralogia: Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro.

IV tetralogia: Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti.

V tetralogia: Teage, Carmide, Lachete, Liside.

VI tetralogia: Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone.

VII tetralogia: Ippia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno.

VIII tetralogia: clitofonte, Repubblica, Timeo, Crizia.

IX tetralogia: Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere.

L'autenticità dell'Opera

Già gli antichi mettevano in dubbio l'autenticità di alcune opere attribuite a Platone: Midone o L'allevatore di cavalli, Erissia o Erasistrato, Alcioni, Acefali, Sisifo, Assioco, Feaci, Demodoco, Chelidone, II settimo giorno, Epimenide (DL III, 62). Questi dialoghi non appartenevano a nessuna tetralogia, e di essi ci sono arrivati Demodoco, Sisifo, Erissia e Assioco, oltre a Sul giusto, Sulla virtù e Definizioni, neppur essi compresi nelle tetralogie.

Ma l'antichità dubitava anche di alcuni dialoghi compresi nelle tetralogie: Alcibiade secondo, Epinomide, Amanti e Ipparco, che in generale anche la critica moderna ha ritenuto spuri. In particolare V Epinomide viene attribuito a Filippo di Opunte, che avrebbe anche trascritto le Leggi (DL III, 37). Oggi non si considerano autentici neppure Alcibiade primo, Minosse e Teage, mentre dubbi sono formulati su Clitofonte, Ione, Menesseno e Ippia maggiore. Comunque quelli discussi sono dialoghi minori, che non aggiungono elementi nuovi o importanti al pensiero platonico. Anche se tra gli antichi Panezio escludeva il Fedone e Proclo la Repubblica e le Leggi e nel secolo scorso non ci fu quasi dialogo, anche tra i maggiori, che non fosse espunto dal corpus platonico, oggi non si dubita più dei grandi dialoghi trasmessi dalla tradizione. Molti di essi sono attribuiti a Platone da Aristotele, direttamente o indirettamente, e l'attendibilità del corpus è garantita dall'azione di un gruppo di platonici che risale a Platone stesso.

Un discorso a parte va fatto per l'autenticità delle Lettere, perché in generale le lettere attribuite a personaggi antichi sono false, e alcune delle lettere platoniche sono evidentemente fittizie. Quelle alle quali molti studiosi hanno dato credito sono la II, III, IV, VI, VII e VIII, che riguardano le vicende siciliane. Tra esse la più importante è la VII, che ci dà notizie sulla biografia intellettuale di Platone e sui suoi rapporti con Siracusa. La sua autenticità è stata valutata in modi diversi: in certi momenti è stata considerata un cardine dell'interpretazione di Platone, in altri un mito da sfatare. I più recenti studi stilo-metrici hanno tuttavia gettato di nuovo dubbi sulla sua autenticità e in generale su tutta la corrispondenza platonica, perché dalla valutazione della VII Lettera dipende quella delle altre.

La Cronologia

A) Criteri letterari. Fin dall'antichità si è cercato di dare un ordine cronologico ai dialoghi platonici, tenendo conto del fatto che Platone visse a lungo e scrisse le Leggi poco prima di morire. Secondo Diogene Laerzio (III, 37-38) si riteneva che il Fedro fosse la sua prima opera perché «il problema ivi trattato ha un certo che di giovanile». Considerazioni del genere, ripetute a volte anche per altri dialoghi, sono però soggettive e arbitrarie. Qualcosa di più preciso si è ricavato dalla tecnica letteraria usata da Platone per costruire i propri dialoghi. Il Teeteto incomincia come un dialogo tra Euclide e Terpsione. Euclide si accinge a riferire una conversazione che molto tempo prima Socrate aveva avuto con Teeteto.

Subito dopo quella conversazione Euclide aveva preso degli appunti (hypomnèmaTA), che poi aveva corretto e completato sentendo Socrate: ne era nato così un discorso continuo (logos), che ora Euclide e Terpsione ascolteranno, letto da uno schiavo. Euclide avverte di aver omesso nel suo scritto la parte narrativa e aver usato la forma dialogica diretta. La forma dialogica indiretta era usata da Platone in parecchi dialoghi molto importanti, come il Protagora, il Fedone, la Repubblica, il Fedro, il Simposio, nei quali un dialogo iniziale è la cornice in cui è inserita la narrazione del dialogo più importante in cui interviene Socrate. Invece la forma diretta era presente in dialoghi come 1'Eutifrone, il Critone, il Cratilo, il Lachete, il Gorgia, il Menone; ma non mancano forme che si potrebbero dire miste. Si è di solito inteso il proemio del Teeteto come una rinuncia allo stile narrativo e al dialogo indiretto. Ci sarebbe un momento in cui Platone si mostrerebbe a disagio con lo stile narrativo: nel Parmenide esso è usato all'inizio, ma poi (dopo 137c) è abbandonato.

Si potrebbe pensare che tutti i dialoghi in forma diretta siano successivi al Teeteto. Ma è risultato difficile pensare che dialoghi come l’Eutifrone, il Critone, il Cratilo, il Lachete, il Gorgia, il Menone siano vicini al Parmenide, al Sofista, al Politico o addirittura al Timeo e alle Leggi e lontani dal Carmide, dal Liside, dal Protagora, dal Fedone, dal Fedro, dal Simposio. Si è allora supposto che il Teeteto rappresenti sì un abbandono della forma narrativa, che aveva raggiunto il suo massimo sviluppo in dialoghi come il Fedone, la Repubblica, il Fedro, il Simposio, ma che prima aveva convissuto con la forma diretta. Questo criterio perciò non permette, da solo, di ordinare cronologicamente i dialoghi. Esso potrebbe avere un'applicazione negativa: se un dialogo ha forma narrativa non può essere collocato dopo il Teeteto.

B) La stilometria. A partire dal 1867, con le ricerche di Lewis Campbell, si cercò un criterio oggettivo per stabilire la successione dei dialoghi. Se si può assumere che opere cronologicamente vicine presentino affinità di stile, è possibile ricostruire un ordine cronologico tra opere letterarie misurando il loro grado di affinità stilistica. Per 'stile' si intende non tanto un modo premeditato di scrivere, quanto l'uso ricorrente di parole, formule di assenso, costrutti grammaticali, giri di frase, ritmi del periodo, accettazione o esclusione dello iato ecc. Attraverso il conteggio degli elementi stilistici significativi e la loro densità relativa è possibile stabilire indici di affinità tra dialoghi, e di conseguenza la loro distanza cronologica. Secondo Diogene Laerzio le Leggi erano l'ultima opera di Platone, e al momento della sua morte non avevano ancora ricevuto la revisione definitiva. Inoltre Aristotele aveva detto che le Leggi erano state composte dopo la Repubblica. Era così possibile assumere queste opere come termini di riferimento e stabilire la distanza cronologica degli altri dialoghi da esse in base al grado di affinità stilistica.

Le ricerche stilometriche suscitarono entusiasmi e riserve. Un'applicazione di verifica alle opere di Goethe, delle quali era nota la successione, diede buoni risultati. La loro ripresa con l'uso dei computer ne ha dimostrato l'attendibilità, ma anche i limiti. La stilometria è sensibile alle scelte degli elementi stilistici e delle opere considerate. Inoltre, come si era visto anche prima dell'uso di tecniche computazionali, non sempre è possibile stabilire la successione fine delle opere. Si può cioè delineare a grandi linee la successione tra gruppi di opere, ma non è detto che si possa stabilire l'ordine all'interno di ciascun gruppo. Inoltre non è detto che ogni dialogo possa essere attribuito a un gruppo cronologico. Infine i risultati stilometrici potrebbero essere perturbati dal fatto che le opere potrebbero essere state riviste in tempi anche lontani da quello della composizione.

C) La successione. Tenendo conto della forma dialogica e degli indici stilometrici i dialoghi platonici sono stati divisi in gruppi, che vengono ammessi da molti studiosi.

1° gruppo: Apologia, Critone, Lachete, Liside, Carmide, Eutifrone, Ippia minore, Ippia maggiore (?), Protagora, Gorgia, Ione.

2° gruppo: Menone, Fedone, Repubblica, Simposio, Fedro, Eutidemo, Menesseno, Cratilo.

3° gruppo: Parmenide, Teeteto, Sofista, Politico, Timeo, Crizia, Filebo, Leggi.

La posizione di alcuni dialoghi, come il Cratilo e il Timeo, sembra più incerta di quella di altri. Il Teeteto e il Parmenide sembrano in realtà collocarsi tra il 2° e il 3° gruppo, tanto più che in essi avviene il mutamento della forma dialogica.

D) La datazione. Una volta stabilita la successione dei dialoghi restava pur sempre il problema della loro datazione, cioè della correlazione con i momenti della vita di Platone e con eventi esterni, la cui data fosse nota. Platone non menziona mai se stesso in modo significativo nei propri scritti, che in massima parte si riferiscono alla vita di Socrate. E scarsissimi sono anche i riferimenti ad avvenimenti esterni. Le Leggi (638b) si riferiscono alla presa di Locri da parte di Dionisio II di Siracusa nel 356 a.C. E questo si accorda con la collocazione dell'opera verso la fine della vita di Platone. Il Teeteto descrive il trasporto di Teeteto morente, dopo che aveva preso parte a una battaglia combattuta presso Corinto; senonché ci sono due battaglie di Corinto, una del 394 e l'altra del 369. Molti accettano la seconda data e collocano il dialogo subito dopo di essa, poco prima del secondo viaggio di Platone a Siracusa. Tuttavia la prima data è difesa soprattutto da coloro che ritengono il Teeteto un dialogo antico, di tipo socratico.

A volte però i riferimenti aiutano poco per via degli anacronismi: il Menesseno e il Simposio accostano liberamente fatti e personaggi del V secolo (Aspasia, l'amante di Pericle, o la festa per la vittoria di Agatone, che è del 416) a fatti del IV secolo. Si potrebbe sperare di ricavare qualcosa dai rapporti tra Platone e Socrate, che sono stati così importanti almeno per Platone. Ma in primo luogo sappiamo poco anche di Socrate. Poi non sappiamo se Platone abbia incominciato a scrivere i propri dialoghi prima della morte di Socrate. Infine è vero che Socrate non è più la figura dominante nei dialoghi presumibilmente contemporanei o successivi al Teeteto, ma questo non vale per il Teeteto stesso ne per il Filebo.

Anche i rimandi da un dialogo all'altro fanno parte della scenografia e non possono essere presi come indici indipendenti dal contesto narrativo: il fatto che il Timeo si presenti come una continuazione immediata della Repubblica non vuoi dire che quei dialoghi siano vicini. Tutte congetturali le proposte di collegamento tra i singoli dialoghi e la vicenda siracusana di Platone. Ne è più facile stabilire un rapporto tra le opere platoniche e l'attività dell'Accademia, sulla quale del resto sappiamo ben poco.

 

 

LA VITA

La formazione

Platone nacque ad Atene o a Egina nel 427 a.C. e morì ottantenne ad Atene nel 347 (DL III, 2-3). La maggior parte delle notizie sulla sua giovinezza derivano da scritti elogiativi, oppure furono ricavate dai dialoghi a lui attribuiti, da accostamenti con personaggi noti del suo tempo o da analogie con la vita di Socrate narrata dai socratici. Apollo comparve in sogno a suo padre al momento della sua nascita (DL III, 2) e prima di incontrarlo Socrate sognò di tenere sulle ginocchia un meraviglioso cigno (DL III, 5). Studiò grammatica con Dionisio e ginnastica con Aristone, partecipò ai giochi ginnici dell'Istmo, scrisse poesie e tragedie e prese parte a campagne militari (DL III, 4, 5, 8). Altre notizie potrebbero essere speculazioni dei suoi biografi: si chiamava Aristocle, ma fu soprannominato 'Platone' per la sua possanza fisica o per la larghezza della sua fronte o per l'ampiezza del suo stile (DL III, 4).

In realtà della giovinezza di Platone non sappiamo quasi nulla, se non che incontrò Socrate, si diceva a vent'anni. Ma anche questo fatto è stato inglobato entro schemi filosofici. Secondo una versione Platone avrebbe seguito Socrate dopo aver abbandonato la poesia in modo drammatico, bruciando la tragedia che aveva scritto (DL III, 5). La VII Lettera, che contiene una biografia (o un'autobiografia) di Platone, ricostruisce la sua giovinezza in analogia con la biografia di Socrate contenuta nell'‘Apologia. Platone, sollecitato da familiari e amici, che avevano posti importanti nel regime dei Trenta, avrebbe desiderato fare politica, ma fu ben presto deluso da quel regime, tanto più che i Trenta cercarono di coinvolgere Socrate nell'uccisione illegale di un cittadino. In séguito furono il processo a Socrate, l'impossibilità di fare politica senza l'appoggio di amici e consociati e il generale decadimento delle leggi e dei costumi a tenerlo lontano dalla politica e a fargli pensare che solo la congiunzione di politica e filosofia avrebbe potuto garantire un buon governo alle città {VII Lettera 324b).

La biografia di Platone, come in generale quella degli autori antichi, è spesso modellata su dati o anche soltanto supposizioni sulla sua formazione intellettuale: attribuirgli un maestro o una frequentazione è un modo per rilevare un'affinità culturale o supporre l'influsso di un autore o una scuola. Se si trova una traccia di eraclitismo nella sua filosofia, gli si attribuisce lo studio della filosofia di Eraclito prima dell'incontro con Socrate (DL III, 5) e Aristotele (Metafisica I, 6, 987a32) dice addirittura che «da giovane» Platone era stato scolaro di Cratilo. Ma poiché Platone si riferisce nei dialoghi anche all'eleatismo, a Cratilo, maestro di eraclitismo, si affianca Ermogene, maestro di eleatismo. Senonché Platone nomina Eraclito e Parmenide dopo Socrate: allora avrebbe frequentato Cratilo ed Ermogene dopo la morte di Socrate (DL III, 6).

Influssi culturali e circolazioni di opere vengono anche spiegati come 'plagi', e il capitolo dei plagi di Platone (DL III, 9) è assai nutrito. Un terzo modo per spiegare la formazione intellettuale di un filosofo greco classico consiste nel supporre che abbia fatto viaggi. Un viaggio e un soggiorno a Megara, presso Euclide, con gli altri socratici, dopo la morte di Socrate, riferito da Ermodoro (DL III, 6), è collegabile con la vicenda socratica e sarebbe dovuto al fatto che gli amici di Socrate non si sentivano più sicuri ad Atene (DL II, 106). Ma i viaggi culturalmente importanti, che si potevano inferire da accenni dei suoi dialoghi, erano quelli in Egitto, in Italia e in Sicilia, che vengono attribuiti a Platone già al tempo di Cicerone (De republica I, 10, 16; De finibus V, 29, 87). Si diceva che fosse andato in Italia presso i pitagorici Filolao ed Eurito e in Egitto presso «i profeti», a Cirene presso il matematico Teodoro, mentre le guerre lo avrebbero tenuto lontano dall'Asia e dai Magi (DL III, 6).

 

Il primo viaggio in Sicilia e l'Accademia

I soli viaggi sicuri, sui quali abbiamo notizie dettagliate, sono quelli in Sicilia. Secondo la VII Lettera (324a) Platone vi andò la prima volta verso il 387 a.C., quando la città era governata dal tiranno Dionisio I e Platone era sulla quarantina. La VII Lettera non nomina quasi Dionisio, si dilunga sul disgusto di Platone per la molle vita degli italioti e dei sicelioti e descrive l'intensa amicizia che lega il giovane Dione a Platone {VII Lettera 326b). Una sorella di Dione, Aristomache, aveva sposato Dionisio I, e Dione a sua volta aveva preso in moglie la loro figlia. Ma quando deve dire perché Platone andò a Siracusa, la VII Lettera è sfuggente: forse vi andò per caso o per volere divino. I biografi antichi colmarono questo vuoto supponendo che Platone fosse stato spinto dalla curiosità: sarebbe andato in Sicilia per visitare l'isola e i suoi vulcani, e Dionisio I lo avrebbe costretto ad avvicinarsi alla corte (DL III, 18). Ma si poteva pur sempre invocare quel viaggio per spiegare il pitagorismo che si scorgeva nella filosofia platonica: tutto era incominciato quando Platone aveva scritto a Dione di comperargli le opere del pitagorico Filolao (DL III, 9).

Nella versione confluita in Diogene Laerzio, Platone subisce i rapporti con Dionisio I, che mal sopporta il filosofo. La faccenda finisce male. Probabilmente nello stesso anno del suo arrivo Dionisio consegna Platone all'ambasciatore spartano che lo vende come schiavo. Gli amici ateniesi trovarono i soldi per il riscatto, oppure li mandò Dione. Ma non furono accettati, perché Platone fu liberato per la stima di cui godeva. Con quella somma comperò «il piccolo giardino che è nell'Accademia» (DL III, 19-20), un luogo che aveva preso a frequentare già al ritorno dai primi viaggi, un «ginnasio suburbano ricco di alberi, così chiamato dall'eroe Ecademo» (DL III, 7).

 

Dionisio e Dione

Dopo una ventina d'anni Platone tornò a Siracusa quando nel 367, morto Dionisio I, la tirannide passò al figlio, Dionisio il Giovane. Dione si era appassionato alla filosofia di Platone e aveva cercato di convertirvi anche il nuovo signore: si proponeva di mutare tutta la vita delle città greche in Sicilia e in una gran parte dell'Italia meridionale, e per questo chiese l'aiuto di Platone, facendolo invitare a Siracusa da Dionisio ( VII Lettera 327a). Ci dovette essere un certo imbarazzo per la decisione di Platone di stabilirsi presso la corte di un tiranno, dopo che già una volta le cose erano finite male. E si dovettero fare supposizioni non benevole sulle sue vere motivazioni (VII Lettera 328c, 329a). Nella VII Lettera Platone si difende appassionatamente: gli era parso di poter unificare filosofia e potere politico in grandi città e di attuare le proprie teorie sulle leggi e il governo; inoltre aveva obblighi verso Dione, che chiedeva il suo aiuto (VII Lettera 328a).

Al suo arrivo Platone trovò una situazione difficile. Il tentativo di Dione di controllare Dionisio era già fallito e alla corte c'era una forte ostilità contro di lui. Platone cercò di aiutarlo, ma dopo tre o quattro mesi Dione venne esiliato (329b), mentre Platone, pur trattato benissimo, era tenuto praticamente prigioniero in una casa sull'acropoli (VII Lettera 329d). In realtà Dionisio voleva soppiantare Dione nell'affetto e nella stima di Platone, ma non era disposto a studiare seriamente la sua filosofia (VII Lettera 330a). Platone ebbe molta paura, ma alla fine Dionisio lo lasciò partire con la promessa che sarebbe ritornato; da parte sua il tiranno si impegnò a far tornare anche Dione (VII Lettera 338a). Intorno al 365 Platone era di nuovo ad Atene.

Dione non tornò, ma nel 361 Platone andò per la terza volta in Sicilia. La biografia della VII Lettera è molto imbarazzata e si dilunga in giustificazioni. Platone aveva ricevuto molte pressioni, da Dionisio, ma anche da Dione, dagli amici in Sicilia, in Italia e ad Atene, e provava degli scrupoli nel non mettere alla prova la passione di Dionisio per la filosofia, della quale in tanti gli parlavano. Inoltre prima di lasciare Siracusa Platone aveva promosso l'amicizia tra Dionisio e Archita di Taranto e i capi della città. Ora Archita era andato a Siracusa, e anche lui di là premeva su Platone. Del resto Dionisio si era circondato di filosofi, che erano anche interessati al pensiero platonico e di fronte ai quali il tiranno avrebbe fatto una cattiva figura se non fosse riuscito ad attirare Platone alla sua corte (VII Lettera 33Sb).

Dionisio mandò una nave ad Atene a prendere Platone. Ma anche questa volta la delusione venne subito. Dionisio non aveva nessuna idea di che cosa fosse la filosofia e, per evitare il lungo apprendimento che essa richiede, cercava di ridurla a poche formule da mettere per iscritto. E c'era tanta diffidenza politica. Non solo Dionisio non richiamava Dione in esilio nel Peloponneso, ma voleva interrompere l'invio delle rendite dei suoi beni e venderli. Alla richiesta di Platone di partire, Dionisio gli promise di rispettare i diritti di Dione e lo pregò di esserne il garante. Ma non appena la stagione propizia per la traversata finì Dionisio venne di nuovo meno ai patti, e i suoi rapporti con Platone diventarono tempestosi. A Siracusa scoppiarono torbidi politici nei quali Platone rischiò di essere coinvolto. Finalmente, per l'intervento di Archita, Dionisio gli consentì di lasciare la città. Sulla via del ritorno a Olimpia avvenne l'ultimo incontro con Dione (VII Lettera 345c). Non abbiamo notizie sugli ultimi anni di Platone. Si diceva che morendo, ottantenne nel 347 a.C., avesse lasciato le Leggi sulle tavolette cerate (DL III, 37). Fu sepolto nell'Accademia (DL III, 40).

 

 

 

LA POLEMICA CONTRO I SOFISTI

La giustizia di Socrate e la virtù dei Sofisti

Dopo la condanna di Socrate anche Platone dovette, come gli altri socratici, farne accogliere il lascito alla città che lo aveva respinto. Cercò di mostrare che Socrate si era sempre considerato ateniese: aveva accettato la condanna e respinto la proposta di fuga fattagli da Critone, perché andandosene avrebbe infranto il patto implicito che aveva stipulato con la città#. Platone sapeva che questo non era un modo ovvio d'intendere i rapporti con la comunità; del resto non c'è nulla di ovvio neppure tra gli dèi quando si tratta di giusto e ingiusto, bello e brutto, buono e cattivo. Una regola minima di giustizia, che tutti, uomini e dèi, riconoscono, stabilisce che chi ha commesso ingiustizia deve essere punito#. Ma Socrate, che non aveva commesso ingiustizie, non si era fermato qui, e aveva seguito un principio che poteva sembrare paradossale: è meglio subire un danno che infliggerlo#. Ma questo non era bastato a Socrate per delineare una teoria completa del buon comportamento. In dialoghi come il Lachete, il Liside, il Carmide, appartenenti al primo periodo della sua attività, Platone rappresenta un Socrate nel fiore degli anni che discute con ateniesi importanti, generali come Nicia e Lachete, o giovani colti e raffinati, come Liside e Carmide. Sono tutti convinti che ci sia un sapere che sta al di sopra delle competenze tecniche, ma nessuno sa esprimerne il contenuto. Per dire che cosa siano il coraggio, la saggezza, l'amicizia, cose ovviamente buone, bisognerebbe possedere la scienza del bene e del male, sconosciuta a Socrate come ai suoi interlocutori.

I sofisti, che la storiografìa di solito considera gli interlocutori originari di Socrate, compaiono solo in dialoghi come Ippia maggiore, Ippia minore, Protagora, Gorgia, Eutidemo, probabilmente successivi a Eutifrone, Carmide, Lachete, Liside. In questi dialoghi Platone può confrontare la concezione sofistica della virtù, intesa come un insieme di prestazioni di gran pregio alle quali i sofisti pretendono di avviare i loro scolari, con la concezione socratica della giustizia e mostrare che esse non sono compatibili. Come Socrate neppure i sofisti hanno competenze specifiche. Essi insegnano soltanto a parlare di tutto senza sapere nulla di preciso e la capacità di influire sugli altri, di cui tanto si vantano, si riduce all'arte di produrre persuasione nei tribunali e nel consiglio. Ma questo dimostra soltanto che la retorica ha qualcosa in meno rispetto alle discipline tecniche, perché non è regolata neppure dal vincolo delle competenze specifiche#. Per questo i sofisti più giovani e aggressivi, come Polo e Callicle, affermano spavaldamente che la vera virtù consiste nell'affermazione di sé, ed è giusto che il più forte domini sul più debole. Già il Lachete lamentava che i grandi politici della generazione di Tucidide e Aristide avessero allevato da signori i propri figli ma, troppo presi dagli interessi pubblici, non li avessero educati#. Allora Platone aveva cercato di spiegare la condanna di Socrate con la decadenza di Atene, colpa dei suoi capi aristocratici. Nel Protagora, nel Gorgia e nel Menone aveva inserito i sofisti in quel processo di decadenza: essi si erano presentati come maestri di un sapere politico nel quale tutta la città avrebbe dovuto riconoscersi e che avrebbe dovuto formarne i capi. In realtà era un sapere inesistente, visto che i politici di successo avevano fatto peggiorare i propri concittadini# e ne avevano compiaciuto i peggiori desideri.

C'era chi, come Isocrate, scolaro di Protagora e Gorgia, considerava l'antica sofistica un aspetto importante della grande tradizione greca e la distingueva dall'eristica, una degenerazione recente che distoglieva i giovani dalle cose utili e vere. Isocrate poneva tra gli eristi anche i socratici, ai quali attribuiva tesi paradossali sull'unità delle virtù e sul sapere#. Nell'Eutidemo Platone non nasconde che c'è chi accosta l'eristica a quella che egli considera 'filosofia', per accomunarle nella condanna#. Ma anche se quella è una novità#, non si può separare la retorica buona dei sofisti tradizionali dall'eristica cattiva dei sofisti più giovani, perché questa è il prodotto più vistoso dell'albagia dei vecchi sofisti, i quali non si rendono conto che la cosiddetta scienza dei discorsi, come tutte le tecniche, comprese quelle produttive e perfino la matematica, ha bisogno di un sapere filosofico superiore, che ne diriga l'uso, un sapere filosofico che è ben diverso dalla degenerazione eristica della sofistica#. Per questo bisogna convincere i giovani «che è necessario filosofare». L’Eutidemo è stato considerato il manifesto di una nuova scuola, forse dell'Accademia. Sappiamo troppo poco dell'insegnamento platonico per poter dirne qualcosa di preciso, ma l’Eutidemo cerca di evitare il pericolo che il socratismo venga presentato come una degenerazione della sofistica. Accuse del genere circolavano fuori della cultura socratica, come testimonia Isocrate, ma certe tendenze interne del socratismo potevano autorizzare quelle interpretazioni, o a Platone sembrava che potessero farlo.

Isocrate aveva l'impressione che i socratici intendessero con 'filosofia' non più la cultura generale, fatta soprattutto di storia e letteratura, ma un sapere chiuso, ora professionale, ora paradossale secondo il gusto dell'eristica. Al socratismo un paradosso si poteva attribuire: l’unità delle virtù. Con questa formula probabilmente i socratici intendevano sostenere che chi ha veramente la virtù le ha tutte, e che le funzioni della vita cittadina ordinaria e i pregi connessi, che possono essere separati, non sono vere virtù. Poi i socratici ricavavano dall'interpretazione che davano di Socrate il contenuto da attribuire alla virtù unitaria. Platone riduceva tutte le virtù al sapere. La scienza dei beni e dei mali era stata presente nei primi dialoghi, anche se come un ideale irraggiungibile. E tale resta nel Protagora dove però Platone raffigura un Socrate che con ogni mezzo e qualche difficoltà tiene testa a Protagora il quale sostiene che le virtù, distinte l'una dall'altra come le parti del viso, sono sì simili, ma ognuna ha una funzione specifica; che l'utile e il bene sono vari perché ciò che giova in un caso non giova in un altro; infine che chi possiede il coraggio, con le doti fisiche e naturali necessarie, può non possedere le altre virtù e viceversa. Platone cerca invece di dimostrare che le singole virtù sono soltanto nomi diversi di un'unica realtà e, se si tratta di vera virtù, chi ne possiede una le possiede tutte#.

Ma il più noto dei paradossi attribuiti a Socrate da Platone è che nessuno fa il male volontariamente. Esso è formulato in modi diversi. Nel Protagora Platone fa sostenere a Socrate che non c'è contrasto tra bene e piacere: quando si fanno cose piacevoli ma non buone, e ciò accade perché non si conoscono le conseguenze spiacevoli di un piacere immediato, cioè per ignoranza#. E nell’Ippia minore Socrate suggerisce che, se fosse possibile compiere volontariamente il male, coloro che commettono volontariamente un torto sarebbero migliori di quelli che lo facessero involontariamente#. Ma forse Platone vuol suggerire che i comportamenti malvagi sono dovuti alle credenze false, quelle trasmesse dalle comunità e accolte o addirittura utilizzate dai sofisti, e che dalle credenze bisogna in primo luogo liberarsi.

 

 

L'ANIMA E L'AMORE

La matematica e l'anima

I due sofisti dell'Eutidemo accumulano un sofisma dietro l'altro#; ma un sofisma come 'non si cerca quel che si sa, ma se non si sa, non si sa neppure che cosa cercare'#, che verte sul sapere e l'apprendimento, doveva avere un certo credito, e non è escluso che anche alcuni dei socratici se ne servissero. Con esso si poteva mostrare che ogni nuovo insegnamento riprende quello che la cultura letteraria o perfino il linguaggio quotidiano hanno sempre detto: un modo come un altro per presentare il socratismo come un ritorno alla tradizione. Per evitare quel sofisma Platone ricorre invece alla matematica. Nei primi dialoghi il sapere di astronomi, geometri e calcolatori non appare superiore a quello degli altri artigiani, anche se sui numeri e le grandezze neppure i litigiosi dèi dell'Olimpo dissentono#. Ma nel Menone Platone fa una specie di 'esperimento didattico'. Uno schiavo, opportunamente interrogato, arriva da solo a capire che per ottenere un quadrato doppio di un altro non si può raddoppiarne il lato o comunque accrescerlo di una quantità numerica facilmente determinabile, ma occorre costruire il quadrato che abbia come lato la diagonale del quadrato dato#. Con questo esperimento Platone vuoi mostrare che non dalle cose si impara, perché esse semmai suggeriscono impressioni false (per esempio che raddoppiare un quadrato sia come raddoppiarne il lato). Occorre un esame che fa riaffiorare le nozioni dall'interno dell'intelligenza, come ricordi. Perciò l'apprendimento è rammemorazione (anamnesi).

La questione matematica usata da Platone è simile, anche se molto più semplice, al problema della duplicazione del cubo, la cui soluzione è attribuita ad Archita#. Nella nostra fonte tarda Archita fa uso delle proporzioni, una teoria che ci è giunta negli Elementi di Euclide, anche se il suo nucleo sistematico viene attribuito a Eudosso. Platone aveva ricavato una metafora filosofica da quello che nel Gorgia aveva chiamato il modo di «parlare come i geometri»: come la cosmetica sta alla ginnastica, così la sofistica sta alla legislazione, e come la cucina sta alla medicina così la retorica sta alla giustizia. Ci sono infatti arti effettive che si propongono di giovare al corpo o all'anima, come la ginnastica, la medicina e la politica, e arti apparenti, che sono forme di adulazione, si basano non sulla conoscenza, ma sulla capacità di indovinare, e si propongono come fine il piacere#. Molti storici ritengono che nel Gorgia Platone abbia adottato il gergo matematico dopo aver incontrato Archita e il pitagorismo nei suoi viaggi in Italia e in Sicilia. La dimestichezza di Platone con Archita è testimoniata dalla VII Lettera#. Ma è difficile farsi un'idea di quel che Archita potrebbe aver insegnato a Platone, a meno di ammettere che esistesse una matematica pitagorica, eventualmente accompagnata da un'interpretazione filosofica. Del resto la presenza del pitagorismo in Platone è molto evanescente. Pitagora e i pitagorici sono citati una volta sola, e non in stretta relazione con la matematica. Neppure la VII Lettera non dice nulla sulle teorie matematiche di Archita, al quale attribuisce vagamente una filosofia, e Platone sembra più vicino ai pitagorici quando parla dell'anima e delle sue vicende posteriori alla morte, sebbene neppure in questo caso li citi esplicitamente#. Nel Menone Socrate parla della rammemorazione in relazione a un discorso di sacerdoti e sacerdotesse che volevano dar ragione, per quanto possibile, di quello di cui si occupavano; e anche di poeti come Pindaro#. Secondo costoro l'anima è immortale. Con la morte si separa da un corpo, ma poi torna in un altro. Perciò l'anima nasce più volte e ha già tutto visto, le cose di qui e dell'Ade, e non ha più nulla da imparare. L'anamnesi è pertanto collegata primariamente con i miti della colpa e dell'espiazione, che appartengono tanto alla religiosità orfica e dionisiaca quanto a quella pitagorica. Sono questi miti che permettono di dar senso alla concezione socratica della giustizia, e da essi Platone, usando metafore matematiche, ricava la dottrina dell'anima.

Con l'anamnesi Platone intende non costruire una teoria della conoscenza, ma suggerire che la vita corporea è un breve interludio della vita totale dell'anima, della quale parlano i miti iniziatici della colpa e dell'espiazione. Nel Fedro immagina che le anime, come cocchi tirati da una coppia di cavalli alati guidati da un auriga, seguano il corteo degli dèi che si nutrono di ciò che è bello, sapiente, buono e così via. Quelle che non riescono a tener dietro agli dèi e perdono le ali s'incarnano, la prima volta, non in un animale, ma in un uomo. Se l'anima ha visto molto darà vita a un filosofo o a un amante del bello o della musica, poi via via a un re rispettoso delle leggi o buon condottiero, a un politico o un amministratore o un uomo di affari, a un atleta amante delle fatiche o un medico, a un indovino o un iniziato, a un poeta o un cultore di arti imitative, a un operaio o un contadino, a un sofista o un demagogo e infine a un tiranno#. Già nel Gorgia Platone aveva descritto il giudizio al quale le anime si sottopongono alla fine di ogni vita: quelle che hanno demeritato sono inviate ai castighi, le altre in qualche luogo celeste di attesa. Allo scadere di mille anni le une e le altre scelgono la vita che vogliono trascorrere#. Spesso le anime scelgono con precipitazione, facendosi abbagliare dagli aspetti più appariscenti e dalle preferenze e abitudini contratte nella vita precedente. Solo la coltivazione della filosofia permette di fare la scelta migliore. Scegliendo per tre volte di séguito la vita filosofica l'anima potrà tornare alla vita celeste dopo tremila anni. Altrimenti occorreranno diecimila anni per riacquistare le ali e tornare nel corteo di un dio#.

Se si guarda alla vita dell'anima nella sua totalità le gerarchie correnti si rovesciano: il tiranno va all'ultimo posto, appena preceduto da chi fa lavori manuali, da sofisti e da demagoghi, mentre ai primi posti s'incontrano gli amanti del bello e i politici saggi, capaci e rispettosi delle leggi. In cima a questa gerarchia autentica si trova però la filosofia, che sta lassù perché è capace di salvare gli uomini dalle pene cosmiche e dalle reincarnazioni. Essa non è perciò in primo luogo sapere, non dà competenze e successo: la sua stessa connessione originaria con la matematica è dovuta al fatto che proprio la matematica aiuta a riconoscere che l'anima preesiste al corpo. Del resto nella gerarchia autentica delle funzioni psicologiche e sociali subito dopo il filosofo si trova l'amante del bello o della musica, e la ricerca della bellezza evoca l'amore.

L'amore

Eschine aveva fatto dell'amore il tratto dominante della personalità di Socrate, e forse la letteratura antisocratica si impadronì di questo motivo, per gettare sospetti sull'amore omosessuale dei socratici; i quali a loro volta accettarono di costruire la loro apologia proprio su questo tema. Del resto di amore si doveva parlare nelle conversazioni colte e mondane, magari nelle maniere diventate di moda con i sofisti. Spesso si trattava di amore omosessuale, perché esso solo, sfuggendo al quadro istituzionale della famiglia, sembrava capace di generare legami vari, dalla passione all'amicizia, e di suggerire problemi significativi: se l'amore dovesse essere reciproco oppure no, quale parte dovesse avervi il trasporto dei sensi e così via. Questioni del genere erano presenti nel Liside, e nel Fedro Platone attribuisce a Lisia, un oratore di successo, un discorso nel quale sostiene che è meglio amare senza essere amati, perché l'innamorato è egoista e incostante#. Socrate consente, e aggiunge un tocco edificante osservando che l'innamorato compiace al proprio desiderio e mira solo al piacere#.

Ma per Platone questo non era il vero pensiero di Socrate. Nel Simposio egli compariva tra i personaggi che dopo un convito pronunciano un elogio dell'amore. Fedro esalta l'amore che produce pudore, Pausania distingue tra l'amore celeste e quello volgare, Eurissimaco fa dell'amore una forza cosmica che non coinvolge solo gli esseri animati, Aristofane vi vede la ricerca di un'unione fisica tra due esseri che originariamente costituivano un'unità, Agatone gli attribuisce l'origine di ogni bene. Per Socrate non si tratta di trovare delle qualità 'belle' dell'amore, che è sempre amore di qualche cosa, che si desidera e non si ha: perciò se quella che si ama è la bellezza, il dio Amore non è bello#. Diotima# gli aveva insegnato a interpretare questa osservazione sconcertante. Amore, concepito il giorno della nascita di Afrodite, figlio di Espediente, figlio a sua volta di Metis (intelligenza astuta), e di Povertà, non ha nulla: in uno stato intermedio tra il bello e il brutto e tra il buono e il cattivo, non possiede beni, ma desidera averli. Intermedio anche tra il mortale e l'immortale, deve procurarsi l'immortalità per via indiretta attraverso la generazione. L'amore perciò non è propriamente amore del bello, ma della generazione nel bello e del conseguimento dell'immortalità. La dimenticanza è per il sapere quel che è la morte per gli esseri naturali, e la gloria, la poesia, la costituzione delle città e delle case sono tutti modi per sfuggire alla morte per dimenticanza. L'amore perciò è una vittoria sulla morte che si consegue non soltanto nella procreazione sessuale, perché in una comunità tra anime, molto più intima di quella prodotta dai figli, «la procreazione nel bello» può avvenire «secondo l'anima»#.

Nel Fedro Platone immagina che Socrate si penta di aver consentito alla diffidenza di Lista nei confronti del desiderio amoroso. E’ vero che l'amore può essere pazzia, ma la pazzia non sempre è un male, perché anzi i beni più grandi ci derivano dalla pazzia divina. Questa si manifesta nella profezia, nei riti, nella poesia e appunto nell'amore#. L'amore è la più divina delle pazzie, e si spiega solo con l'anamnesi, come reminiscenza delle cose viste in cielo. A differenza della giustizia o della temperanza, la bellezza si può trovare tra le cose ed è l'unica delle visioni celesti apprezzabile con i sensi#. L'amore per la bellezza è perciò solo la prima tappa di un possibile itinerario dell'anima. Si incomincia dall'amore di un corpo solo, si passa all'amore per i ragionamenti, poi alla bellezza di tutti i corpi belli, alla bellezza delle anime e infine a quella dei ragionamenti e delle scienze#. Platone costruisce così lo schema di un processo di ascesa, che parte dalla sessualità, se ne libera e giunge a realtà che appartengono solo all'anima, come la bellezza e le opere intellettuali.

Interpretando l'amore come mancanza Platone riprendeva il tema dell'ignoranza socratica che forse già Eschine aveva connesso all'amore. Ma facendone una forma di pazzia religiosa egli trasformava il cammino verso il sapere in una vera e propria iniziazione, affine alle forme di religiosità che avevano ispirato i miti dell'anima ed erano servite per interpretare la concezione socratica della giustizia. Il sapere filosofico al quale il delirio amoroso mette capo poteva così pretendere di essere superiore alle forme normali di competenza, al sapere artigianale, che non coinvolge l'anima.

Il processo di ascesa attraverso l'amore, delineato da Platone, stabiliva anche la superiorità dell'amore omosessuale, affrancato dalla riproduzione, rispetto a quello tra uomo e donna. Alla riproduzione fisica dell'amore eterosessuale si sostituisce una generazione puramente intellettuale, che fa dell'amore un'esperienza assolutamente non corporea. Questa esaltazione dell'amore omosessuale sarebbe diventata nella nostra tradizione il modello per gran parte delle interpretazioni filosofiche e letterarie dell'amore tra uomo e donna, che tentano di separare anche l'amore eterosessuale dalla generazione e di trasporre anche in esso l'esclusione della sessualità o la sua attenuazione.

 

 

IL FILOSOFO E LO STATO

I filosofi e il potere

La filosofia era una faccenda pericolosa: poteva garantire la salvezza individuale nella grande vicenda dei premi e delle pene, tenendo lontano dalla vita pubblica e dagli affari pratici#; ma poteva apparire una minaccia per la città, come il caso di Socrate aveva mostrato. Nelle città reali, nelle quali domina la massa e prevale l'apprezzamento per le ricchezze, chi ha le rare; doti naturali richieste dalla filosofia diventa facilmente stravagante o addirittura disonesto e comunque inutile, pronto a servire i potenti o prigioniero di sogni politici irrealizzabili e corruttori#. Come mostra la biografìa platonica della VII Lettera, Platone stesso aveva vissuto la dilacerazione tra isolamento e partecipazione ad avventure politiche, sia direttamente, alla corte di Siracusa#, sia nella propria famiglia, coinvolta nel regime dei Trenta. Nella Repubblica sono appunto i fratelli di Platone, Glaucone e Adunante, a sostenere che chi è ingiusto sta meglio dei giusti e perciò nessuno si propone davvero di essere giusto#. Nessuna delle massime della saggezza tradizionale e letteraria potrebbe rispondere a quella sfida e Platone non esita a proporre un paradosso di puro stile socratico: se non vuole vivere nell'isolamento ne’ essere corrotto dal potere, il filosofo deve esercitarlo. Solo così è possibile essere contemporaneamente giusti e felici. Non nelle città reali certamente. Per questo nella Repubblica egli rappresenta Socrate che una sera al Pireo, dopo una festa di paese e una cena, espone a una cerchia di amici il progetto di una città nella quale giustizia e felicità vadano insieme. La Repubblica è la prima ampia opera non solo di Platone ma della storia della filosofia, ed è anche la prima di quelle che la tradizione chiamerà 'utopie'#, alla quale tutte le opere successive di questo genere si sono rifatte. Anche la connessione di giustizia e felicità resterà una questione classica della scolastica morale, e quasi tutte le utopie tenteranno di mostrare che le due cose sono possibili insieme.

Giustizia e felicità si separano quando nelle comunità originarie, fatte solo da produttori di cose (cibo e vestiti o strumenti tecnici), prima arrivano i commercianti che, fisicamente deboli, non producono nulla e si limitano allo scambio, e i salariati, che hanno solo la robustezza fisica, poi artisti, cuochi, attori, imitatori, medici ecc., attirati dalla domanda di una vita agiata o addirittura lussuosa. Sarà il lusso, una specie di «infiammazione», a far nascere l’ingiustizia: cresceranno la popolazione e il bisogno di territorio, e comparirà la guerra. Ci vorranno i soldati, i «guardiani» (come li chiama Platone), che devono saper applicare la forza solo sempre contro i nemici e non contro gli amici. E solo la filosofia può dirigere e controllare la forza e il coraggio dei quali devono essere dotati#. Essi perciò dovranno non solo essere addestrati alla ginnastica#, ma ricevere anche un'educazione intellettuale che dissipi la paura della morte, ispiri compostezza e rispetto per la verità#. Servirà una poesia austera senza le favole sconvenienti che i poeti, come le nutrici, hanno sempre raccontato sugli dèi#. I soldati dovranno praticare soltanto la letteratura narrativa di tipo epico, intercalata da dialoghi#, e dalla musica andranno esclusi gli strumenti a fiato e tutte le forme che inducono a bassezza#. I guardiani vivranno austeramente in caserme, nelle quali consumeranno in comune i pasti. Non avranno proprietà privata e non potranno maneggiare oro e argento#. I produttori potranno invece possedere le risorse necessarie per il loro lavoro, anche se dovranno limitarsi a una ricchezza modesta, per non essere indotti ad abbandonare il loro mestiere#.

La contrapposizione tra ricchi e poveri era spesso considerata come il problema centrale delle città greche, e la paura della formazione di gruppi ristretti con proprietà estese e di una massa cittadina priva di terra e incapace di sostentamento autonomo generava discorsi politici, miti, leggi. Aristotele ascriveva a personaggi come Falea di Calcedone e Ippodamo di Mileto progetti organici in proposito. Anche Platone diceva che le città reali sono costituite da «più città», cioè da gruppi rivali, ma soprattutto da due, i ricchi e i poveri. E anche la sua 'utopia' era un tentativo di garantire la distribuzione della terra vietandone in certi casi la proprietà privata. Non era un'idea nuova, se il 'miraggio spartano’ di una città di soldati dediti solo alla comunità aveva qualche séguito. Ma il progetto platonico si affidava all'educazione, confidando in soldati che, addestrati dalla filosofia, avrebbero rinunciato a usare la forza contro i concittadini per impossessarsi di tutte le ricchezze.

Non basta l'educazione per fare di un individuo un guardiano, un artigiano o un contadino, e del resto la comunità non è il frutto di un patto, nè la giustizia consiste in un compromesso: idee non nuove ai tempi di Platone, alle quali alludono i primi due libri della Repubblica e che avrebbero avuto molto séguito nella nostra tradizione filosofica. Secondo Platone era stato Crizia#, uno dei suoi parenti dalla biografia politica tormentata, a indicare nella massima «ciascuno faccia le cose proprie» la formula della saggezza#. Ognuno deve fare una cosa sola, perché esistono differenze naturali tra gli uomini e una città giusta deve rispettarle, addestrando solo i migliori all'esercizio corretto della forza, dopo averli selezionati con prove di tutti i generi#. Gli individui vanno liberamente spostati da una classe all'altra# facendo credere che tutti i cittadini sono figli della terra, e perciò fratelli, anche se la terra ha messo oro in quelli destinati a comandare, argento nei loro assistenti, ferro e bronzo in quelli adatti a fare i contadini e gli artigiani. Poiché può accadere che da un uomo aureo nasca un figlio venato di argento, bisogna osservare attentamente i giovani e assegnarli alle diverse funzioni secondo la loro natura#. Così soltanto i migliori diventeranno guardiani e addirittura ameranno la città, perché riterranno il proprio utile identico con quello della comunità#.

Anche per Platone la Repubblica conteneva proposte 'irrealistiche' che avrebbero potuto suscitare ironie#. Non solo i filosofi avrebbero dovuto diventare re o i re filosofi#, ma si sarebbe dovuta proclamare l'uguaglianza di uomini e donne e la dissoluzione della famiglia. L'unità delle virtù era un principio socratico che conduceva ad assegnare gli stessi compiti agli uni e alle altre. Non era la 'parità' nel senso moderno del termine, perché non di diritti si trattava, ma di doveri e prestazioni: ma era una di quelle idee radicali, come il rifiuto della vita civilizzata, che Isocrate imputava ai socratici. Può darsi che idee del genere non fossero originariamente socratiche: Aristofane nelle Ecclesiazuse metteva in ridicolo il comunismo di donne e beni, e non sappiamo con certezza a che cosa egli si riferisse. Ma forse i socratici utilizzarono quei temi per interpretare la figura di Socrate e per dare un contenuto alla loro opposizione radicale alla città. La Repubblica potrebbe essere stato il primo tentativo di ricavare un''utopia' da temi socratici. Poiché le donne, che pure hanno minore forza fisica, ricevono la stessa educazione militare dei maschi#, non possono essere nè mogli nè madri. Ciò conduce all’abolizione della famiglia e alla comunanza dei figli. I magistrati prima concedono ai migliori la possibilità di accoppiamenti più numerosi, come si fa con gli animali, e poi allevano a cura della città solo i migliori; gli altri sono eliminati o passati nelle classi inferiori. Così anche il numero degli abitanti può essere controllato. Inoltre essendo impossibile assegnare i figli a coppie distinte, si potrà dire che tutti sono figli di tutti e tutti sono fratelli. Una bugia utile, che va coperta con celebrazioni poetiche e religiose, perché rende definitivamente impossibile la formazione di solidarietà ristrette, di legami di parentela e di proprietà esclusive; i guardiani useranno «concordemente le espressioni 'il mio' e 'il non mio'»#. Così coloro che detengono forza e autorità non verranno più reclutati per via familiare e l'unità cittadina sarà garantita#.

Utopia e analisi

La Repubblica contiene un rifiuto radicale della democrazia, e per questo è stata considerata come la prima formulazione di un'ideologia totalitaria#. E vero che è stata il modello dei molti progetti di società costruiti da filosofi, nei quali tutti devono essere educati a pensare e agire nello stesso modo, ma essa ha attinto ampiamente dalla critica della democrazia, diffusa nella cultura del V e IV secolo. Ben documentata nella Costituzione degli Ateniesi, falsamente attribuita a Senofonte, quella critica fu probabilmente condivisa da molti socratici, che vedevano nella democrazia una dissacrazione della vita, uno sviluppo sfrenato della ricchezza privata e la soddisfazione di desideri sempre più inutili. Platone infatti non colloca il suo progetto di città alternativa alla democrazia in un futuro prevedibile o in un tempo storico, come fanno gli autori di ideologie ottocentesche e novecentesche fondate su filosofie della storia. Più che il tempo della sua realizzazione ne enuncia le condizioni di possibilità: che i filosofi abbiano il potere per vietare la proprietà privata, per controllare la riproduzione degli uomini, per sorvegliare la cultura che si trasmette, per sostituire al disordine delle tradizioni religiose una religione unitaria.

La città ideale della Repubblica può essere un regno o un'aristocrazia#, ma non è una realtà del passato cui ritornare. Platone non amava il 'primitivismo'# né i 'ritorni all'antico', e interpretava le città reali come decadimenti, più che come una decadenza, rispetto alla situazione perfetta descritta nella Repubblica. La città ideale è uno stato di equilibrio perfetto ma precario, perché il calcolo del momento più opportuno per gli accoppiamenti è complesso e di fatto, per l'errore dei magistrati o per l'intrinseca imperfezione dei comportamenti umani, qualcosa si rompe#. Allora nasce la timocrazia#, nella quale governanti e guerrieri si astengono ancora dall'agricoltura, dal lavoro manuale e dagli affari, mantengono un'organizzazione militare e apprezzano gli onori#. Ecco però apparire il gusto per la ricchezza e la vita privata#: è il germe dell'oligarchia nella quale il censo è condizione per l'esercizio del potere e i ricchi si contrappongono ai poveri. Ma i ricchi si dedicano ad attività che procurano ricchezza, e utilizzano i poveri per fare le guerre#. Questi si ribellano e fondano la democrazia#, nella quale dominano parassiti che inducono i ricchi a sciupare le ricchezze e a opprimere ancora di più il popolo. Gli oppressi cercano un protettore, che poi finirà anche lui con l'opprimerli, trasformandosi in tiranno#.

Lo schema di decadimento elaborato da Platone faceva delle città democratiche e delle tirannidi del suo tempo il punto più lontano dalle condizioni di equilibrio perfetto. Del resto oltre a proporre una riforma filosofica, politica e religiosa, Platone dice esplicitamente di voler anche costruire un metro di giudizio delle città reali#. E nel tracciare il processo di decadimento delle forme cittadine, elabora uno strumento analitico rimasto in uso nella storia del pensiero politico: la classificazione delle costituzioni. La parola politeia che, resa di solito con 'costituzione', richiama soprattutto l'idea di una legge fondamentale, eventualmente scritta, aveva originariamente un significato assai meno preciso, che andava dall'appartenenza alla cittadinanza alle istituzioni di una città, intese in senso non formale, in modo da comprendervi cose vaghe come tradizioni e valori condivisi, ma anche organi di governo. L'idea delle costituzioni rimase più o meno questa nella discussione politica e nella cultura ateniese da Erodoto a Isocrate e Demostene, conservando lo statuto incerto di insieme di tradizioni e norme scritte. In contrasto con questa cultura Platone cercò di inserire le costituzioni in un ordine naturale superiore alle leggi scritte.

Platone riteneva che la città, fosse una specie di 'grande individuo'#, nel quale si potesse vedere che cosa fossero la giustizia e la virtù per gli individui, perché l'anima degli individui corrisponde alla struttura della città#. Si poteva applicare anche agli individui la regola per cui ognuno deve fare le cose per le quali è più adatto. L'elemento razionale dell'anima, che possiede la sapienza, deve esercitare il comando, l'elemento animoso, capace di coraggio, deve obbedire ed essergli alleato, e insieme questi elementi devono tener a freno i desideri, che sono la parte prevalente dell'anima, imponendo la temperanza all'elemento concupiscente#. Platone sapeva che, anche se si era proposto di dimostrare la convergenza di giustizia e felicità, aveva progettato una città magari giusta, ma non attraente. Si difendeva dicendo che bisognava considerare non la felicità di un gruppo solo di cittadini e neppure farla consistere nella soddisfazione di piaceri qualsiasi. L’ordine insomma finiva con il prevalere nella concezione platonica della giustizia e della felicità. E anche per gli individui la sua austera giustizia è sempre vantaggiosa, perché realizza la condizione naturale e sana dell'anima, mentre gli atti ingiusti sono qualcosa di simile alla malattia per il corpo. Così la vita in una città guidata dai filosofi permetterà non soltanto di esercitare all'esterno le funzioni alle quali ciascuno è più adatto, ma anche di realizzare all'interno «l'amicizia con se stessi», che consiste nell'armonia tra gli aspetti diversi dell'anima, secondo il loro ordine naturale#.

Non sappiamo quanto fosse presente nelle altre componenti del socratismo la preoccupazione per l'armonia interna dell'anima e per la costruzione di un rapporto amichevole con se stessi, un tema che avrebbe generato nella nostra tradizione il culto dell'io e della personalità armoniosa. Ma la corrispondenza tra anima individuale e città e il culto dell'armonia interna dell'anima sono due temi connessi, e discendono dall'interpretazione del socratismo come una vicenda dell'anima. Passando liberamente dalla città all'individuo e viceversa, Platone poteva applicare la tesi socratica dell’unità delle virtù alla città nel suo complesso: questa potrà essere perfettamente buona e avere contemporaneamente tutte le virtù, e cioè sapienza, coraggio, temperanza e giustizia, senza che ciascun cittadino o ciascun gruppo di cittadini le abbia tutte. Basta che i custodi posseggano la sapienza perché tutta la città sia sapiente. Così come è sufficiente che siano coraggiosi quelli che fanno la guerra. La temperanza coinvolge tutta la città, ma non allo stesso modo, perché in nome di essa la parte peggiore accetta l'autorità della parte migliore. La giustizia risulta dall'esercizio dei compiti ai quali ciascuno è adatto, cioè dalla corretta distribuzione delle altre virtù#.

Servendosi del principio per cui a ciascun tipo di città corrisponde un tipo di uomo, con un proprio carattere#, Platone descrisse le costituzioni in un linguaggio filosofico nel quale le forme politiche potevano essere ricondotte a termini naturali, componenti della struttura dell'anima, e la costituzione migliore poteva essere presentata come trionfo della parte superiore dell'anima, la ragione, sulla parte inferiore, i desideri. Egli poteva così riprendere la propria diagnosi della democrazia come effetto dello sviluppo di un'intelligenza parassitaria in comunità dominate dalla ricchezza e della separazione tra intelligenza e potere, e riportarla a una trasgressione della gerarchia naturale dell'anima, una gerarchia che poteva costituire anche il fondamento per disegnare la costituzione migliore.

 

 

LA DOTTRINA DELLE IDEE

Il mito della caverna e l'ascesa alle idee

Per fare i soldati basta la disciplina indotta dalla ginnastica e da una buona letteratura edificante, ma per esercitare il potere politico bisogna andare oltre. S'incomincia a vent'anni con la matematica, e i migliori, a trent'anni, potranno passare alla dialettica, che va studiata per cinque anni, sotto sorveglianza, perché non se ne abusi. Poi, dai trentacinque ai cinquant'anni, dovranno dedicarsi ai comandi militari e alle cariche minori. Infine dopo i cinquant'anni i migliori potranno cercare il bene e alternare lo studio della filosofia all'esercizio del potere, perché nelle città ben governate i filosofi non possono dedicarsi ai loro studi solitari, ma devono tradurre in pratica il bene#.

Platone illustra il curriculum dei filosofi-governanti con il mito della caverna. Gli uomini sono come prigionieri incatenati in una caverna: possono vedere sulla parete di fondo le ombre di oggetti illuminati da un fuoco, che si muovono alle loro spalle. Alcuni riescono a liberarsi e si rendono conto che vedevano ombre di cose, che le ombre erano generate da una sorgente di luce molto modesta, molto più modesta del sole che illumina gli oggetti reali e li fa esistere. Un cammino simile a questo devono percorrere coloro che vengono avviati al governo#. Lo si può rappresentare con una linea divisa in due segmenti diseguali (A C e CE), che raffigurano il mondo intelligibile e quello visibile; la loro lunghezza sarà proporzionale alla chiarezza che è propria delle realtà cui corrispondono. Ciascuno dei due segmenti può essere diviso in altri due segmenti (AC in AB e BC, CE in CD e DE) conservando la proporzione (AB : BC = CD : DE = AC : CE).

Le cose sensibili, rappresentate da CE, comprendono le immagini, come le ombre e i riflessi negli specchi o sulla superficie dell'acqua (la porzione DE), e i loro originali, come gli animali, i vegetali e gli oggetti artificiali (la porzione CD). Le immagini stanno agli originali come il sensibile sta all'intelligibile e le partizioni del segmento intelligibile corrispondono a quelle del segmento sensibile#. Nel tratto BC l'anima si serve delle cose, che nel primo tratto erano gli originali delle ombre, come di immagini. E questo lo spazio, tra mondo intelligibile e visibile, in cui si muove la matematica.

Tuttavia i matematici suppongono soltanto di sapere ciò di cui trattano, ma non ne danno ragione, perché lo «assumono per ipotesi», e da queste partono per procedere verso le conclusioni e non verso il principio. Quella che esercitano i matematici è dianoia, pensiero indiretto, che passa da un termine all'altro. Essa è intermedia tra la credenza e il nous, intelligenza diretta che si esercita nell'ultimo tratto (AB) della linea della conoscenza#: qui l'anima usa le ipotesi non come principi, ma «realmente come ipotesi, come punti di appoggio per prendere lo slancio allo scopo di giungere fino a ciò che non è ipotetico, il principio di tutto e, dopo averlo toccato, ridiscendere alle cose che ne derivano fino ad arrivare alla fine, senza mai servirsi di nulla di sensibile, ma con le idee stesse, attraverso di esse giungere alle idee e terminare con esse»#.

All'ultimo grado della conoscenza Platone dà per oggetto le idee, e la teoria delle idee è quasi sempre stata considerata il contenuto principale della sua filosofia. Qualcuno ha pensato che Platone l'abbia ricevuta da Socrate, al quale in molti dialoghi la fa esporre#; ma altri (e sono i più) ritengono che proprio essa lo distingua da quest'ultimo e dagli altri suoi scolari, perché sarebbe assente dai dialoghi che appaiono più vicini alla pratica socratica originaria, anche se Platone la mette, come gran parte di quello che ha scritto, sulle labbra di Socrate. Ma la considerazione delle idee come oggetti di una teoria ha prodotto non poche difficoltà. Quello di 'teoria' è un concetto sofisticato, che sarebbe arduo applicare alle idee. La prima vera e propria teoria dell'antichità ci è nota dagli Elementi di Euclide, e probabilmente si è incominciato a costruirla nell'età di Platone o poco prima, ed è Aristotele il primo che, nelle opere logiche, abbia descritto una teoria vera e propria.

Inoltre la linea della conoscenza della Repubblica ha suggerito che la teoria delle idee nasca dall'interesse platonico per la matematica. Invece le idee compaiono all'interno dei miti escatologici nei quali sono oggetti della visione celeste dell'anima. Del resto Platone incomincia a usare metafore matematiche nel Gorgia, insieme con il primo nucleo dei miti escatologici, e poi nel Menone per introdurre l'anamnesi, che fa parte del discorso sull'anima. Assenti dalla versione del Menone, le idee compaiono nel Fedone dove l'anamnesi serve per dimostrare la preesistenza dell'anima al corpo: rammemorare vuoi dire richiamare alla mente una cosa che si conosceva già, a partire da un'altra cosa simile o dissimile#. Ma due cose, per quanto uguali, non lo sono mai in modo perfetto, e pertanto non sono perfettamente simili all'eguale in sé». Non si potrà perciò dire che quest'ultimo è ricavato dalle cose uguali, che semmai da esso l'anima deve partire per riconoscere l'uguaglianza tra le cose: deve cioè averlo conosciuto prima di unirsi al corpo e richiamarlo attraverso la reminiscenza. E ciò vale non solo per oggetti matematici o di tipo matematico, ma anche per «il bello in sé e il buono in sé e il giusto e il santo»#.

Già nei dialoghi socratici Platone usava termini come 'il santo', 'il giusto', 'il bello' per indicare una configurazione (idea, eidos), che rimane identica a se stessa, una specie di 'modello' o 'campione' (paràdeigma) con cui confrontare un comportamento o una cosa, per stabilire se siano effettivamente giusti, belli, santi ecc.#. La versione tradizionale, almeno da Aristotele# in poi, riteneva che si trattasse di una ricerca di definizioni, alle quali la teoria delle idee assegnerebbe in séguito oggetti speciali, separati dalle cose. In realtà Platone interpreta l’esame socratico come ricerca non tanto di definizioni quanto di campioni: per questo può argomentare che, come un campione possiede nel grado massimo la proprietà di cui è campione#, anche le cose uguali non sono così uguali come l’uguale in sé, e solo quest'ultimo potrà dirsi uguale in modo adeguato, cioè si predicherà a pieno titolo di se stesso. E la medesima cosa potrebbe valere per il bello, il buono o il vero. Si tratta dell’autopredicazione, una dottrina spesso attribuita a Platone insieme con quella dei gradi nell'essere. Se l'uguale in sé e più uguale delle cose uguali, esso è più di quanto siano le cose, immagini difettose delle idee. Perciò le idee esistono prima delle cose, ma sono anche superiori a esse, hanno cioè il massimo di essere o, meglio, esse sole realmente sono#.

Nel Fedone si narrava come Socrate fosse giunto alla teoria delle idee dopo essere stato deluso dalle spiegazioni naturalistiche che facevano intervenire solo caldo, freddo, aria e fuoco, e dallo stesso Anassagora, che pure proclamava l'intelligenza la vera causa di tutto. Neppure Anassagora era stato capace di spiegare perché la terra avesse forma sferica e occupasse il centro dell'universo o quali fossero i rapporti tra distanze e velocità degli astri#, perché come i «ricercatori della natura» non aveva capito che le cose accadono per realizzare quello che è meglio per loro#. Infatti una cosa è bella non perché abbia un certo colore o una certa figura o altre proprietà di questo genere, ma perché partecipa del bello in sé, che è in qualche modo presente nelle cose belle, le quali hanno una comunanza con esso#. Già nei dialoghi socratici le configurazioni e i campioni vengono indicati talvolta come cause presenti nelle cose#, ma nel Fedone le idee sono cause delle cose in quanto le cose partecipano e aspirano a esse#. Sono le idee, e non le entità materiali usate dai naturalisti, che permettono di dar ragione di ciò che una cosa è, di rivelarne la causa#. Perciò le spiegazioni causali non sono collegamenti tra cose, ma nessi che si stabiliscono con ragionamenti, e possono essere saggiate provando a confutare le ipotesi che le enunciano#.

Perché ci sono le idee si può dire che i filosofi della Repubblica arrivano a cogliere «di ciascuna cosa ciò che essa è» e a «rendersi conto della ragione dell'essere di ciascuna cosa». Ma sembra che vadano perfino oltre le idee se «senza fare nessun uso delle sensazioni, con il ragionamento» si spingono «verso ciò che ciascuna cosa è» e non desistono «prima di aver colto con il pensiero ciò che è il bene stesso»#. Le idee derivano da qualcosa che sta al di là delle idee stesse#: è l’idea del bene, in virtù della quale le cose sono utili e vantaggiose. Il bene come causa finale ultima compariva già nei dialoghi socratici, al di là dei fini limitati delle tecniche, che conoscono non ciò che è bene o male#, ma semmai quel che è mezzo a un fine che sta oltre il mezzo#. I fini particolari sono solo beni parziali, «immagini» di un bene primo, al quale bisogna fermarsi#. Neppure le idee permettono di conoscere il bene se non da quello che ne deriva#. Infatti è «l'idea del bene, che è la causa di scienza e verità», proprio come la luce permette alle cose di essere viste e agli occhi di vedere; e luce e vista sono simili al sole, che tuttavia è più bello di loro, come l'idea di bene è superiore al sapere dell'uomo e alla verità delle idee#. Come il sole fa sì che le cose non solo siano viste, ma addirittura esistano, assicurando il loro nutrimento e la loro crescita, così alle cose che si conoscono il bene da l'essere e la sussistenza. Tuttavia non si può dire che il bene sia, perché esso è al di là dell'essere e superiore a esso per anzianità e potenza#.

Rappresentando la conoscenza come un'ascesa Platone metteva anche le diverse forme di sapere in un preciso ordine di valore. La filosofia è il culmine di quel cammino e le scienze matematiche sono dei validi aiuti. Ma esse vanno utilizzate per liberarsi dalle cose, senza poi farsi catturare da esse. Qualcosa del genere avviene con la letteratura e con l'arte. Platone ritiene che la musica e la poesia siano strumenti importanti per l'educazione; ma devono essere attentamente controllate. La poesia trasmette insegnamenti religiosi inadeguati, nei quali agli dèi vengono attribuite azioni non degne di loro. La filosofia deve dare istruzioni precise sul modo di praticare la musica e la letteratura e i re filosofi useranno tutto il potere disponibile per vietare ogni forma di arte che si discosti da quei canoni. Prima di Platone molti letterati, a cominciare almeno da Senofane, se non addirittura da Esiodo, si erano proposti di purificare le credenze religiose tradizionali. Ma Platone innestava quel tema sulla diffidenza verso la cultura letteraria che i sofisti avevano posto al centro dei loro programmi pedagogici e culturali, lo inseriva in una sistematica enciclopedia del sapere e ne faceva un programma non solo educativo, ma anche politico.

Inoltre Platone inventava un'argomentazione assai complessa per giustificare la svalutazione delle arti. Esse sono una forma di imitazione, ma un'imitazione di secondo grado. Già le cose in generale sono imitazioni delle idee, e per questo sono inferiori alle idee. Ma l'arte imita le cose, cioè imita delle imitazioni. Platone aveva un concetto assai complesso di 'imitazione'. Riteneva che gli artigiani, i quali fabbricano oggetti materiali si rifacessero a modelli ideali, forse a delle idee. La faccenda poteva essere non del tutto chiara e tra i platonici se ne dovette discutere. Questo comunque è un modo diverso di imitare da quello di chi riproduce comportamenti e cose senza conoscerle effettivamente, come fanno appunto poeti e pittori. In questa mancanza di conoscenza c'è una dose ineliminabile di finzione e di deformazione#. Questo non basta a impressionare Platone, il quale ritiene che per costruire una città retta da filosofi si possano ampiamente raccontare bugie ai cittadini. Ma appunto perché c'è inganno, l'arte va controllata e subordinata a fini educativi buoni.

L'arte ha a che fare anche con le emozioni#, soprattutto la musica. Questa ha nell'enciclopedia platonica un posto speciale, perché è una disciplina matematica. Ma Platone distingue accuratamente tra l'aspetto sensibile e quello matematico della musica, e al primo collega la capacità di eccitare le emozioni. La musica greca del V e IV secolo era una cosa importante, legata anche alle rappresentazioni teatrali e alla poesia. Nelle discussioni sulla musica Platone intervenne, probabilmente con atteggiamenti di rifiuto nei confronti delle forme più recenti, che riteneva pericolose e scomposte, in particolare contro la musica flautistica#. Anche per la musica perciò Platone riuscì a formulare un programma di controllo che permettesse di trasformarla in uno strumento per indurre e padroneggiare comportamenti.

La critica alle idee

Platone si era servito delle idee, entità eterne comparse nei miti dell'aldilà, per dimostrare che l'anima, affine a esse, è immortale. Inoltre le idee si erano rivelate oggetti adatti a interpretare la procedura che Platone attribuiva a Socrate, la dialettica, come la tecnica per produrre, attraverso un particolare trattamento delle ipotesi, una conoscenza capace di occupare il primo posto nell'enciclopedia del sapere. Ma qualcuno formulò critiche alle idee#, e Platone nel Parmenide riprese la faccenda, immaginando che la cosa risalisse a Zenone di Elea e a un suo incontro con Socrate. «Di quali cose ci sono idee?» domanda Zenone a Socrate. Senza dubbio idee del giusto, del bello, del bene e di altre cose del genere, risponde Socrate, al quale però riesce difficile stabilire se esistano idee di uomo, fuoco, acqua ecc., mentre esclude che ci siano idee per cose come capello, fango, sudiciume#. Ma è la stessa relazione di partecipazione delle cose alle idee che crea difficoltà. Infatti se ogni idea è in ciascuna delle cose che vi partecipano, l'idea si separa da se stessa. Se invece l'idea fosse come un velo che ricopre le cose, ognuna avrebbe solo una parte dell'idea. Ma allora le cose uguali avrebbero solo una parte dell'idea di uguale, e dunque sarebbero uguali in virtù di ciò che è minore, cioè disuguale#. Se poi le cose grandi costituiscono un gruppo di cose simili perché partecipano dell'idea di grandezza, le cose grandi più l'idea di grandezza formano un altro gruppo di cose simili, al quale corrisponderà un 'altra idea di grandezza e così via all'infinito#.

Per evitare che si sommino alle cose, Socrate suppone che le idee siano pensieri. Ma Zenone osserva che in questo caso le cose parteciperebbero delle idee attraverso il pensiero e il loro essere sarebbe costituito da pensieri. Ma, se non possono esserci pensieri senza qualcuno che li pensi, le cose dovrebbero pensare#. Se però le idee fossero modelli o esemplari si potrebbe evitare di sommarle alle cose senza trasformarle in pensieri. Senonché cose e modello devono essere simili, cioè partecipare della stessa idea, che a sua volta sarà simile ai termini che vi partecipano: sarà così di nuovo possibile sommare cose e idee#.

Si possono infine eliminare le difficoltà della partecipazione dicendo che le idee sono di per sé, e il loro essere dipende eventualmente dalle relazioni che hanno l'una con l'altra, ma non con le cose che sono in relazione con noi:

perciò il sistema di relazioni delle idee e quello delle cose possono anche essere simili, ma non hanno alcun punto di contatto tra loro. La vera scienza avrà per oggetto le idee e non le cose, e la stessa divinità conoscerà le idee e non le cose#.

Dopo le critiche di Zenone interviene Parmenide in persona ad ammonire Socrate che si è precipitato a definire che cosa sia bello, giusto, buono e l'unità di ciascuna idea, senza aver prima esaminato termini come molti, uno e in generale tutto ciò che può essere o subire qualcosa. Egli stesso darà un esempio di buon metodo, mettendo alla prova la propria filosofia: supporrà con l'uno, come si dovrebbe fare con ciascun termine, prima che sia poi che non sia, per vedere quali conseguenze derivino sia in relazione a quel termine sia in relazione agli altri#.

Se si suppone che «uno è» (prima ipotesi) si ricava che l'uno non è i molti e tutta una serie di conclusioni negative: l'uno non ha parti, non è un intero, non ha principio né fine né metà, non ha figura, non è in nessun luogo, non si muove né sta in quiete, non è identico ne diverso, né rispetto a sé né rispetto ad altro, e non è neppure simile o uguale né rispetto a sé né rispetto ad altri, e non accetta determinazioni temporali. Se non riceve determinazioni temporali, l'uno non può neppure partecipare dell'essere, perché l'essere si esprime sempre con una determinazione temporale, in quanto il predicato 'è' ha sempre un tempo. Esso sarà allora un «una cosa che non è» e «di esso non ci sarà nome, né discorso, né scienza, né sensazione, opinione»#.

Dalla seconda ipotesi, «uno se è», si ricava che l'uno partecipa dell'essere, perché nell'espressione 'l'uno è uno' ci sono due termini distinti, 'uno' ed 'è'. Ciascuno di essi sarà poi a sua volta qualcosa che è e che è uno, all'infinito. L'uno sarà così connesso originariamente con la molteplicità e avrà tutte le proprietà che non aveva nella prima ipotesi, e perciò potrà ricevere nome, scienza, sensazione e opinione#.

Se si adotta la seconda ipotesi si potrà supporre, con una terza ipotesi#, che le cose diverse dall'uno parteciperanno di tutte le determinazioni che dall'uno sono state ricavate#, perché l'uno non esclude la molteplicità e ognuna delle cose è una. Se invece, come nella prima ipotesi, i termini diversi dall'uno si separano nettamente dall'uno, si otterrà una quarta ipotesi: quei termini non parteciperanno di nessuna delle determinazioni che la seconda ipotesi ha assegnato all'uno#.

Nella quinta ipotesi Parmenide suppone che «uno non è». Se si intende questa espressione nel senso di 'è non uno', allora si deve ammettere che qualcosa possa esistere senza essere uno, e ciò che è potrà avere tutte le determinazioni in modo ordinato; ma perfino l'uno che non coincide con l'essere potrà avere tutte le determinazioni in modo ordinato#. Se invece, con una sesta ipotesi, intendiamo il 'non è' della formulazione 'uno se non è' in senso assoluto, allora l'uno che non è non avrà alcuna determinazione#.

Dalla quinta ipotesi deriva la settima: gli altri non possono partecipare dell'uno, che non è, ma possono avere l'essere, anche se si avrà una molteplicità infinita di proprietà e di relazioni#. Se poi l'uno non è in senso assoluto, allora gli altri non potranno avere alcuna determinazione (ottava ipotesi) e non saranno nulla, neppure molti, in quanto nei molti c'è una molteplicità di unità#.

Le idee e i principi

Aristotele ora parlava delle idee in modi assai vicini a quelli del Fedone e della Repubblica#, ora invece le presentava come entità complesse che, al pari dei numeri, derivano dall'uno e dalla diade di grande-e-piccolo#. Era possibile liberarsi della seconda versione aristotelica della teoria delle idee riferendola non a Platone, ma ai suoi scolari, o imputandola a un fraintendimento da parte di Aristotele. Ma questi, pur non indicando con chiarezza quale rapporto ci fosse tra le idee e i numeri#, suggeriva una possibile distinzione tra due fasi della teoria#. Si poteva perciò dare un posto alla seconda versione aristotelica: bastava farne l'ultima fase della filosofia platonica, cercando le affinità tra il resoconto aristotelico e i dialoghi successivi al Parmenide, specialmente il Filebo e il Timeo. Si poteva addirittura invertire il rapporto e interpretare questi dialoghi alla luce di quel resoconto, considerandoli un riflesso di «dottrine non scritte», menzionate da Aristotele#. Questi del resto osservava che le idee si mettono in contrasto con i principi, contro le intenzioni degli stessi sostenitori delle idee#. Di quei principi avrebbe trattato Platone nell'insegnamento orale, e Aristotele vi avrebbe attinto per comporre opere come De ideis (Sulle idee) e De bono (Sul bene), oggi perdute, ma ampiamente riferite dai suoi commentatori.

L'insegnamento orale di Platone fu confinato alla fase finale della sua attività anche perché aveva avuto ampio successo la polemica di Schleiermacher contro ogni tentativo di attribuire a Platone una dottrina segreta o esoterica, assai più sistematica della filosofia dei dialoghi: questi erano gli unici testi platonici disponibili ed erano opere essenzialmente esortative e non mascheramenti di un sapere occulto, che non esisteva. Lo stesso Platone aveva messo in guardia nel Fedro contro le esposizioni scritte delle dottrine filosofiche e la VII Lettera dichiarava che non c'era alcun manuale di filosofia platonica#. Queste dichiarazioni non furono normalmente intese come sconfessioni di ogni scritto filosofico da parte di Platone: i dialoghi non erano in pericolo, perché Platone rifiutava soltanto gli scritti non dialogici. Questo motivo fu ripreso da una vasta letteratura storiografica che fece molta retorica sul dialogo platonico e sul carattere problematico e non dogmatico della filosofia che esso esprimerebbe. Di contro gli studi sulla presunta fase tarda dell'attività di Platone ispirarono la fiducia di poter ricostruire, specialmente attraverso i commentatori di Aristotele, una teoria dei principi fortemente sistematica. A partire di qui, nel 1959# si ripropose la tesi che esistesse una filosofia esoterica di Platone, non confinata all'ultimo periodo della sua attività e il cui contenuto principale doveva essere appunto una teoria dei principi. I dialoghi, pur ricchi di digressioni e di temi collaterali, avrebbero avuto sì una funzione essenzialmente esortativa e letteraria, ma non avrebbero contenuto il patrimonio dottrinale più importante, che non poteva essere trasmesso con uno strumento scritto e che sempre, non solo alla fine, costituì il loro sfondo. Questa interpretazione stabilisce un nesso continuo tra il platonismo originario e il neoplatonismo, quel nesso che le interpretazioni classicistiche avevano troncato, e si presenta essa stessa come una rilettura neoplatonica della filosofia di Platone#.

Le ricerche sulla teoria dei principi hanno prodotto molte discussioni, nelle quali è importante l'interpretazione della seconda parte del Parmenide. Fin dal secolo scorso si è sostenuto che essa contiene un esercizio, importante non per il contenuto, ma solo per il modo in cui è condotto, che potrebbe perfino avere un intento scherzoso e ironico nei confronti della tradizione eleatica. Del resto quelli che hanno 'preso sul serio' la seconda parte del Parmenide non sempre sono riusciti a inserirla nella teoria delle idee e stabilire se, quando parla dell’‘uno’ e degli 'altri', Platone si riferisca alle idee dì 'uno' e di 'altri', se l'uno rappresenti le idee e gli altri le cose e così via. E’ stato facile perciò supporre che nella seconda parte del Parmenide le idee non ci fossero più e che esse fossero assenti anche dal Sofista e dal Filebo#. I sostenitori della teoria dei principi preferiscono da parte loro interpretare la seconda parte del Parmenide come facevano i neoplatonici che, ordinando le sue ipotesi come stadi successivi dello sviluppo dell'uno, avevano ottenuto una teoria considerata come uno sviluppo della dottrina del bene-principio della Repubblica.

 

 

L'UNO E I MOLTI

La molteplicità dell'essere e il movimento

L'importanza data dai neoplatonici alla teoria dell'uno si è spesso trasformata in un'affermazione storiografica: nelle interpretazioni tradizionali della filosofia platonica si dice di solito che essa, e in particolare la teoria delle idee, deriva dall'eleatismo. In realtà Platone fa intervenire gli eleati solo quando si occupa delle critiche alla teoria delle idee. Può darsi che già dopo la Repubblica qualcuno, formulando quelle critiche, sostenesse che Platone avrebbe dovuto riconoscere l'uno come principio delle idee#. Per rispondere a questa inferenza Platone fece intervenire Parmenide e suggerì che la critica alle idee derivava dalla filosofia eleatica dell'unità, incompatibile con l'esistenza di «un'idea per ciascuno degli esseri che rimane sempre la stessa»#. Nulla del resto fa pensare che Platone intenda abbandonare la propria filosofia, nella quale le entità intellettuali sono irriducibilmente molteplici, per elaborare una teoria dell'uno. Nella seconda parte del Parmenide le ipotesi che, come la prima, contengono una teoria rigorosa dell'uno giungono a conclusioni paradossali e finiscono con il negare la stessa esistenza dell'uno, mentre le ipotesi che ammettono la negazione dell'uno permettono di fare asserzioni sensate. Inoltre si direbbe che Platone abbandoni del tutto i princìpi. Lo stesso termine 'principio' scompare dopo la Repubblica, per essere sostituito dalle ipotesi, e non c'è più cenno al principio non ipotetico cui secondo la Repubblica la dialettica dovrebbe metter capo.

Secondo Platone era stata un'ossessione eleatica la ricerca sul numero degli enti, per stabilire se essi fossero uno solo, due o tre, una discussione di moda, come testimoniano Isocrate e Senofonte#. Le cose erano cambiate quando lui stesso aveva incominciato a discutere non più sul numero, ma sulla natura dell'essere e a sostenere che il vero essere, quello delle idee, è immutabile, mentre le cose sono soggette al divenire. I contrasti più interessanti erano nati da quella dottrina. Quelli che Platone chiama «amici delle forme» riconoscevano l'essere solo a «certe forme pensabili e incorporee»#, con le quali comunichiamo «con l'anima, per mezzo del ragionamento»#, mentre tutto il resto è «mobile divenire»#, e si raggiunge con il corpo e le sue sensazioni. A essi si opponevano coloro per i quali esistono solo cose come rocce e querce, che possono essere afferrate con le mani o toccate, insomma solo corpi#.

Platone cerca un punto di incontro tra gli uni e gli altri nella riconsiderazione del movimento, che anche la Repubblica e il Fedone sembravano aver escluso dall'essere. Poteva essere difficile far riconoscere qualcosa di non corporeo agli amici dei corpi: essi avrebbero sostenuto che anche l'anima è corpo, e sarebbero stati tutt'al più imbarazzati a negare l'esistenza di una cosa come la giustizia o a dire che è corporea#. Ma anche i più ostinati amici dei corpi avrebbero dovuto ammettere che realmente è anche ciò che possiede semplicemente una potenza di fare una cosa o di subirla#, mentre non è detto che gli amici delle forme da parte loro avrebbero anch'essi riconosciuto che l'essere è potenza. Tuttavia anche questi avrebbero dovuto ammettere che l'anima conosce l'essere e, se il conoscere è un fare, a esso dovrà corrispondere un subire da parte dell'essere, e perciò anche nell'essere si dovrebbe riscontrare movimento#.

Per Platone le posizioni degli amici dei corpi e degli amici delle forme si possono perciò ricondurre a modi diversi di intendere la mescolanza di essere, quiete e movimento: i primi ammettono solo la mescolanza di essere e movimento e vietano quella tra essere e quiete; gli altri fanno il contrario#. L'intelletto esige sì che ci sia costanza e quiete e «se noi ammettiamo che tutte le cose [...] si muovano [...] verremo a escludere [...] l'intelletto» stesso. Ma l'intelletto non potrà cogliere le cose immobili se queste lo sono a tal punto da escludere anche il processo in cui consiste la loro comprensione. Bisognerà allora ammettere che «il moto, la vita, l'anima, l'intelligenza [...] ineriscono a ciò che assolutamente è», ed è impossibile che ciò che assolutamente è, «avendo intelletto, vita, anima, stia assolutamente immobile»#. Non è facile intendere questa osservazione platonica: forse per Platone le idee subiscono un movimento passivo, pur senza trasformarsi, quando diventano oggetto di conoscenza.

Dopo il Parmenide per Platone essere e movimento sono non soltanto termini contrapposti ma hanno anche relazioni che occorre considerare. Se si riesce a far riconoscere agli amici delle idee e a quelli dei corpi che sia il moto sia la quiete sono, poiché essi sono tra loro contrari nel grado massimo, l'essere dovrebbe essere un terzo termine#, non identico alla quiete o al moto, ma capace di mescolarsi con entrambi. I tre termini potranno pertanto mescolarsi, non ognuno con ogni altro, perché la quiete non sarà mai moto e viceversa, ma alcuni sì ed altri no#. Poiché ciascuno dei tre generi già considerati è diverso dagli altri due e identico a sé, bisognerà aggiungere identità e differenza a moto, quiete ed essere: si otterranno così cinque generi, «grandissimi», irriducibili gli uni agli altri#. Alcuni di essi non si mescoleranno, altri si mescoleranno a pochi, altri a molti e altri a tutti. Ciascuno di questi generi è, perché partecipa dell'essere, è diverso da ciascun altro, perché partecipa della differenza ed è identico a sé perché partecipa dell'identità. Pur essendo, perché partecipano dell'essere, i generi diversi dall'essere non sono l'essere, ma l'essere stesso non è gli altri generi. Due generi diversi non sono l'un l'altro: in questo senso anche l'essere non è, e il non-essere è essenzialmente differenza. La differenza è quella che spezza l'essere in una molteplicità#.

Il legame tra essere e movimento potrebbe aver richiesto a Platone un sacrificio, forse però non maggiore di quello che egli fa consumare all'interlocutore del Sofista e del Politico, «lo straniero eleate», che è costretto ad ammettere che anche il non-essere è e a commettere quello che egli stesso chiama «un parricidio»#. Le idee erano infatti entrate nella filosofia platonica insieme con l'anima, originariamente collegata con la vita e la morte. Nella prima prova del Fedone# l'anima è immortale perché, al momento della morte del corpo, essa incomincia una nuova vita e così assicura che a ogni morte segua una nascita e il ciclo della vita non si interrompa. E dopo che nella seconda prova# le idee, oggetto dell'anamnesi, consentono di argomentare la preesistenza dell'anima al corpo, nella terza prova# l'anima risulta immune dalla morte perché è semplice e immutabile. Approfondendo questo punto Platone fa dell'anima il veicolo indispensabile della vita, dalla quale perciò è inseparabile#. Un altro modo di esprimere quest'ultima tesi è l'interpretazione dell'anima come entità capace di muoversi da sé e principio del proprio movimento. Ciò che si muove ha un principio del proprio movimento. Se questo principio risiede in qualche altra cosa, il suo movimento può smettere, perché dipende da quel principio e non da ciò che si muove. Invece ciò che si muove da sé non smette mai di muoversi, perché altrimenti non sarebbe più quello che è. Perché non ha principio e neppure fine l'anima è immortale ed è principio delle altre cose#.

La dialettica e la struttura delle idee

La connessione di anima, vita e movimento è centrale nella filosofia platonica, e la teoria delle idee è in un certo senso subordinata a essa. Ma l'anima produce anche conoscenze che, come dice il Sofista, introducono movimento passivo tra le idee. Detto in altro modo: le conoscenze devono riferirsi alle idee. A prima vista le conoscenze sono opinioni. Nella Repubblica Platone aveva fatto dell'opinione la forma di conoscenza appropriata alle sole cose, che sono intermedie tra l'essere e il non-essere#. Dunque non pareva che l'opinione potesse mettere l'anima in contatto con le idee. Del resto non è possibile distinguere le opinioni corrette da quelle errate limitandosi a confrontare soltanto opinioni tra loro#. E vero che le opinioni si esprimono in proposizioni con le quali, collegando verbi e nomi#, l'anima può parlare con se stessa#; ma neppure nel caso delle proposizioni si possono distinguere quelle vere da quelle false, se le si prendono come semplici espressioni di opinioni. Per fare efficacemente quella distinzione occorre che al nesso proposizionale corrisponda qualcosa e che ai termini della proposizione corrispondano termini reali.

Era possibile negare che esistesse un corrispettivo reale della proposizione interpretandola come un modo per «dire la medesima cosa con molti nomi»#. La copula 'è' non indicherebbe un termine distinto o non metterebbe in relazione termini distinti, ma sarebbe soltanto il segno dell'identità tra i riferimenti delle parole: 'Socrate è bianco' non enuncerebbe la relazione tra Socrate e il bianco ma direbbe che 'Socrate' e 'bianco' si riferiscono, almeno parzialmente, alla medesima cosa. Le proposizioni sarebbero soltanto lo sviluppo dei nomi che i parlanti danno alle cose ed esprimerebbero semplicemente il pensiero di chi le condivide#. Ma per Platone le proposizioni dicono qualcosa e sono diverse dalle parole, che denominano. Le proposizioni 'Teeteto siede' e 'Teeteto vola' si riferiscono entrambe a Teeteto, ma una dice una cosa vera e l'altra falsa, perché è falso un discorso che di una cosa dice qualcosa di diverso da quello che è, cioè dice le cose che non sono, come se fossero#. Per illustrare i cinque generi del Sofista Platone aveva usato un'analogia con le lettere e i suoni: nè le une nè gli altri si possono mescolare a caso, e sono appunto grammatica e musica che dicono come si possono mescolare#. Anche le proposizioni ammettono solo alcuni collegamenti tra parole: per questo riproducono, imitandoli, i legami tra i termini. Sono imitazioni anche le proposizioni false, che però hanno soltanto la medesima struttura dei termini reali, mentre i loro contenuti corrispondono a connessioni che non sono, cioè sono diverse da quelle che esistono tra i termini reali. Del resto non tutte le imitazioni sono uguali, perché si può imitare rispettando le proporzioni reali, oppure rendendo soltanto l'immagine o l'apparenza della cosa, come si fa con un disegno, che rappresenta sul piano una cosa solida#.

Sarà il dialettico a conoscere quali generi si mescolino tra loro e quali no ma, poiché i nessi ammissibili tra le parole sono più numerosi dei nessi ammissibili tra i termini reali, per evitare le proposizioni false, il dialettico dovrà servirsi di uno strumento apposito. Si tratta della divisione, un procedimento introdotto nel Fedro come metodo per trovare definizioni. Esso ha due momenti:

prima bisogna «abbracciare in uno sguardo d'insieme e ricondurre a un'unica forma ciò che è molteplice e disseminato»; poi si deve «smembrare l'oggetto in specie, seguendo le nervature naturali»#. La divisione evita che si stabiliscano somiglianze e dissomiglianze affrettate e arbitrarie, riconducendo subito all'identità le cose più diverse o trascurando un elemento importante, che pure si scorge in alcune cose, ma non in tutte#. La divisione raccoglie prima le somiglianze che determinano un genere e poi stabilisce le differenze tra i generi#. Questi possono poi essere ricondotti a un genere continuo che li attraversa tutti, stabilendo relazioni tra loro, mentre altri generi stabiliscono le differenze all'interno del primo#. Il dialettico sa tanto riportare molte idee a un'unica idea, quanto risolvere un'idea in molte idee, e considerare un'idea tanto un'entità diffusa tra molte altre, quanto come un termine distinto#.

In realtà non tutti gli interpreti sono disposti ad ammettere che dopo il Parmenide Platone si occupi ancora di idee; gli storici che si ispirano alla filosofia analitica contemporanea ritengono che Platone esplori piuttosto le relazioni che intercorrono tra termini come 'essere', 'moto', 'identico', 'uno', 'molti' ecc., senza farne delle idee#. Effettivamente nel Teeteto Platone non si riferisce alle idee, ma si direbbe che lo faccia apposta, per mostrare che non si può dire che cosa sia una conoscenza sicura, una scienza, senza introdurre le idee. Neppure nella seconda parte del Parmenide la teoria delle idee compare in modo esplicito, perché Platone discute la filosofia di Parmenide. Ma nel Sofista e nel Politico Platone usa i termini 'forma', 'idea', che di solito si riferiscono alle idee, e 'genere' come equivalenti#. In questi dialoghi perciò, oltre che come modelli o campioni, le idee compaiono anche come termini delle divisioni, cioè come delle specie di 'contenitori', quello che noi chiameremmo 'classi'. Quando parla delle 'parti' di un genere, non sempre Platone distingue accuratamente tra sottoclassi di una classe e mèmbri di una classe, nè discute quali proprietà di un'idea come termine si possano trasferire alle sue 'parti'. Se nel Sofista, dove dice che il movimento non può essere in quiete, Platone si riferisse all’idea di 'movimento', si avrebbe un'idea che si muove, una cosa impossibile per la teoria delle idee. Ma Platone potrebbe intendere un'altra cosa: ciò che si muove, perché gli si applica l'idea di moto, non può in quanto tale ricevere l'idea di quiete#. Questo modo di presentare le cose poteva suscitare perplessità e su problemi come questi dovevano discutere i platonici.

Fin dal Sofista la diversità, intesa come termine, fa parte di una molteplicità finita, quella dei 'generi sommi', ma intesa come il genere di 'tutto ciò che non è' comprende una molteplicità infinita#. La molteplicità tuttavia ha gradi diversi di organizzazione: può presentare partizioni che corrispondono alle arti e alle scienze e può apparire come una semplice raccolta di individui#. E’ la divisione che permette di inserire questi ultimi in un sistema ordinato e numerabile, perché è possibile riportare ogni cosa sotto una o più idee e ogni idea sotto altre idee#. Si ha così accesso a un sistema fatto di unità molteplici, ma di numero determinato, non riducibili ne all'uno ne alla molteplicità indefinita#, unità, come 'uomo', 'bue', 'il bello', 'il bene', che non sono «una delle cose che nascono e muoiono» e costituiscono i termini delle divisioni#. In questo modo per esempio le idee di 'uomo' e di 'bue' permettono di trascurare le somiglianze insignificanti tra un individuo umano e uno bovino, mentre trasmettono a quegli individui le differenze significative#. Riprendendo la metafora dell'alfabeto e della musica, usata più volte per illustrare la dialettica, Platone considera il sistema delle idee una molteplicità discontinua e determinata, costituita da termini che hanno tra loro relazioni esprimibili in un numero#, come in musica i suoni separati da intervalli misurabili e nel linguaggio le lettere dell'alfabeto generate da precise combinazioni di suoni sonori, semisonori e muti#. Si tratta di una molteplicità con un limite, perché i suoi termini si possono contare e misurare.

Ma c'è un'altra molteplicità, continua e indeterminata, simile al flusso sonoro che sta alla base delle lettere e nei suoni. In essa c'è un numero indefinito di punti ciascuno dei quali distingue un 'più' da un 'meno' (un 'più caldo' da un 'più freddo', un 'più acuto' da un 'più grave' e così via): non c'è un limite e il punto di discriminazione può scorrere a piacere sulla retta dell'acuto-grave, del caldo-freddo ecc.#. Si tratterà pertanto di una molteplicità illimitata. Quando la misura si mescola all'illimitato e rende compatibili e commensurabili termini contrapposti, si hanno processi di generazione. Questo vale per «tutte le cose che sono nel tutto»: salute, stagioni, forza, bellezza ecc.#, tutte prodotte dalla mescolanza del limite e dell'illimitato, che fa nascere le cose all'essere#. La diade di grande-e-piccolo di cui, secondo Aristotele, si parlava a proposito delle idee, corrisponde perfettamente alla molteplicità indeterminata del Filebo, rispetto alla quale il sistema delle idee si comporta come il termine che da ordine e misura mettendo capo alla generazione delle cose.

 

 

LA NATURA

L'enciclopedia della natura

I dialoghi successivi al Parmenide dedicano alle idee più spazio dei dialoghi precedenti: si direbbe quasi che Platone sia costretto a occuparsi di teoria delle idee, dopo le critiche che gli sono state rivolte, e a renderne espliciti regole e presupposti. Lo fa sia componendo dialoghi di tipo nuovo, nei quali Socrate non è più il protagonista, come il Sofista, il Politico, il Timeo, sia riprendendo dialoghi socratici, come il Teeteto e il Filebo, quasi a voler 'tornare alle origini' e presentare le critiche come deviazioni dal socratismo originario. Dopo il Parmenide progetta anche alcuni grandi cicli di opere, che non completa. Di una trilogia composta dal Sofista, il Politico e il Filosofo, compone solo i primi due dialoghi. Immagina di far proseguire la Repubblica con un'opera naturalistica come il Timeo# e con un'opera sull'educazione politica degli ateniesi; ma forse neppure questa è stata scritta#. Tuttavia, anche tra le ultime opere di Platone, quelle più estese sono in gran parte dedicate a temi diversi dalla teoria delle idee, nonostante che sia aumentata 1'attenzione per questo tema. Il Timeo è una specie di grande enciclopedia naturalistica nella quale Platone si cimenta con l'astronomia, ma tratta anche di animali e piante, di malattie e dei fenomeni naturali più diversi. Rimasto fino al Rinascimento uno dei dialoghi platonici più conosciuti, il Timeo ha trasmesso alla cultura posteriore molte nozioni e pregiudizi sulla natura, in parte correnti al tempo di Platone, in parte dovuti a lui,

L'impostazione di fondo di questa enciclopedia richiama però il Filebo. Questo dialogo menziona, oltre il limite, l'illimitato e la mescolanza di entrambi, un quarto genere, che è la causa della mescolanza#. Nel Timeo la causa è un 'artigiano' divino, chiamato da Platone «demiurgo» o anche «padre», che ha plasmato l'universo sensibile e mobile guardando a un modello immutabile, del quale perciò il mondo è un''immagine#. Il demiurgo agisce appunto come fa un artigiano, che mette ordine in un materiale preesistente:

perciò non produce il mondo, ma si limita a dargli ordine. Il corpo dell'universo è fatto di fuoco, terra, acqua e aria#; ma questi elementi sono preceduti da una massa magmatica scossa da un movimento disordinato simile a quello di un setaccio, che separa le parti simili e dissimili, pesanti e leggere preparando l'avvento dei quattro elementi. Questi nascono quando la divinità, imponendo un ordine geometrico fatto di numero e misura, assegna il tetraedro al fuoco, l'ottaedro all'aria, l'icosaedro all'acqua e il cubo alla terra#. La struttura geometrica degli elementi non annulla però il movimento originario e disordinato dell'universo. Gli elementi sono costituiti da triangoli rettangoli: isosceli, nei quali si risolve la forma cubica della terra, e scaleni, nei quali si risolvono tutti gli altri elementi#. La forma triangolare è perciò la struttura fondamentale che il demiurgo impone all'universo, ma i triangoli elementari possono avere le dimensioni più diverse. Queste diseguaglianze producono diversità di tutti i tipi e trasformazioni disordinate che coinvolgono le singole cose e le loro parti#.

Per mettere ordine in questo movimento il demiurgo conferisce all'universo intelligenza e anima#. Questa può agire sui corpi e dar loro un ordine perché è un'entità intermedia tra l'essere costante, quello del modello, e l'essere mutevole, quello dei corpi#. Inoltre l'anima è costituita «della natura dell'identico e del diverso e dell'essere»#. Nei costituenti corporei elementari la diversità è indiscriminata per l'estrema disparità di dimensioni dei triangoli che li compongono, e dà luogo a un movimento molto disordinato. Nell'anima invece la diversità è sottomessa all'identità secondo un sistema di rapporti matematici#. Le Leggi classificano dieci tipi di movimento, il più importante dei quali è quello che dà origine a se stesso, proprio dell'anima#: è il movimento rotatorio, il più vicino all'identità e alla quiete. Imprimendolo agli astri e ai cieli, l'anima del mondo governa tutti i moti dell'universo, cioè distribuisce il movimento nel modo migliore#.

Sul movimento rotatorio Platone aveva anche costruito la propria immagine dell'universo astronomico. Non si trattava di una cosa recente. Già per il Gorgia, l'astronomia tratta «il movimento degli astri, del sole e della luna e le loro velocità relative»#: problemi di calendario. La sfasatura del calendario lunare, che distribuiva i giorni in mesi, rispetto al calendario solare, che determinava le stagioni in base alla durata dei giorni e delle notti#, aveva reso già i babilonesi consapevoli del fatto che sole e luna si muovono in modi diversi. La tradizione greca faceva derivare dall'Egitto molte conoscenze e strumenti astronomici, come lo gnomone. In realtà l'antico calendario egizio# aveva perso, per la precessione degli equinozi, il riferimento originario alle piene del Nilo e aveva conservato un significato soltanto rituale. E probabile che l'Egitto avesse adottato un calendario babilonese e che i greci, anche per la sempre maggiore difficoltà di comunicare con l'interno dell'impero persiano, avessero trovato in Egitto le osservazioni accumulate dai babilonesi. Questi, misurando la lunghezza delle ombre proiettate su un piano da una semplice asta verticale (la probabile forma semplice e originaria dello gnomone), si erano fatta un'idea del movimento annuale del sole, avevano determinato solstizi ed equinozi e, con osservazioni che potevano risalire al 1800-1500 a.C.#, avevano collegato la comparsa all'orizzonte e la loro scomparsa da esso delle costellazioni con le fasi lunari e con le variazioni annuali delle ombre. Forse avevano fatto qualche semplice conto supponendo che le ombre si allungassero e si accorciassero in progressione aritmetica, cioè per addizione o sottrazione di un intervallo costante. Ma i greci avevano risolto il problema del calendario con uno strumento numerico più complesso. Verso il 430 a.C. gli ateniesi Metone ed Euctemone avevano stabilito un rapporto preciso tra cicli mensili lunari e ciclo annuale solare, trovando un numero che potesse essere multiplo di un numero definito di giorni e di un numero definito di mesi lunari#.

E quello che presuppone Platone nella Repubblica quando dice che i rapporti tra giorno e notte, tra giorno e mese, tra mese e anno si determinano non con osservazioni, ma ponendo problemi: tecnicamente è un problema cercare un numero che abbia rapporti determinati con altri numeri. Del resto così procedono la geometria, che non tiene conto delle misure reali delle figure, e la musica, che non si fida delle orecchie#. Secondo Platone sono i pitagorici che stabiliscono un'affinità tra astronomia e musica#. Questo è l'unico accenno, per altro generico, a quella scuola filosofica. Invece era Archita che, per risolvere problemi come quello della duplicazione del cubo, ricavava dalla rotazione di figure numeri con rapporti significativi e in musica studiava rapporti numerici non realizzabili su strumenti musicali. Nella biografia platonica della VII Lettera Archita occupa un posto importante, e Diogene Laerzio# ne faceva un maestro di Eudosso, il primo sicuro assertore di un'astronomia rigorosamente sferica.

Soltanto nel Fedone Platone dice di aver imparato da poco# a considerare la terra un corpo solido rotondo, e non un disco piatto, posto al centro dell'universo#. E difficile attribuire un'astronomia sferica ai babilonesi, nonostante i tentativi di far risalire a essi le 'ruote' di Anassimandro, dalle quali sarebbe derivata l'immagine sferica dell'universo dovuta a Parmenide. In realtà molti particolari dell’‘astronomia' di Anassimandro sono riferiti da fonti post-aristoteliche, non sappiamo quanto attendibili, e non sappiamo che cosa Parmenide esattamente intendesse quando parlava di sfericità. Del resto Platone non menziona mai Anassimandro né cita Parmenide a questo proposito. Per questo si considerano i pitagorici come veri inventori di un'astronomia sferica trasmessa a Platone, eventualmente attraverso Filolao, che assegnava forma sferica e orbite circolari ai corpi celesti. Ma come per la teoria delle idee anche per l'astronomia la leggenda pitagorica è molto sospetta. Il 'sistema astronomico' di Filolao è probabilmente esso stesso un'invenzione storiografica, e comunque Filolao supponeva che la terra ruotasse intorno a un fuoco centrale.

Presentando la propria immagine della terra Platone respingeva le posizioni di naturalisti come Empedocle, Anassagora e Democrito che consideravano i corpi celesti masse corporee scagliate in giro per il cielo da un mulinello centrale, come pezzi di creta che si staccano dal tornio del vasaio, rendendo l'universo un prodotto casuale e accessorio. Invece per Platone la terra occupa il centro dell'universo non perché intervenga qualcosa a tenerla su, ma semplicemente per la situazione di equilibrio in cui si trova e perché ha intorno un universo omogeneo#. L'idea che i movimenti astronomici fossero fondamentalmente rotatori non era perciò estranea neppure ai 'naturalisti' che Platone intendeva confutare, ma Platone dava un'interpretazione geometrica della rotazione. Dovettero essere i metodi di Archita a suggerire il passaggio dalla costruzione del calendario a un'immagine sferica dell'universo. Da tempo, almeno dall'età di Talete, si sapeva utilizzare la lunghezza delle ombre per calcolare l'altezza delle cose e forse traguardare oggetti noti per determinarne la distanza: probabilmente la cosa avveniva per mezzo di tavole associate a regoli mobili generati dal perfezionamento dello gnomone. La stessa matematica di Archita poteva derivare da queste pratiche che collegavano la rotazione di un segmento con numeri che rappresentavano intervalli e distanze. E un procedimento del genere poteva condurre a suggerire che la terra avesse forma sferica. Infatti l'aspetto che più distingueva l'immagine platonica dell'universo era la figura sferica della terra. Gli interpreti moderni hanno ritenuto che Platone collocasse la terra in equilibrio al centro dell'universo applicando audaci concezioni matematiche, qualcosa come l'isotropia dello spazio. Non bisogna esagerare. Può darsi che il cerchio e la sfera avessero un posto nella simbologia religiosa dei pitagorici, e inoltre i testi platonici sono molto scarni e contengono allusioni più che spiegazioni matematiche. Ne Platone elabora un'immagine rigorosa della sfericità terrestre. La terra è per lui una specie di palla fatta di dodici superfici nelle quali ci sono affossamenti abitati dagli uomini. Questi hanno sul capo spessi strati di aria densa che velano i nostri occhi e impediscono di vedere il cielo puro, gli astri e tutto ciò che è più bello. Le considerazioni astronomiche di Platone, come la stessa teoria delle idee, sono intrise di significati mitici: gli astri che si sottraggono alla nostra vista sensibile sono oggetti adeguati o quasi adeguati della nostra conoscenza intellettuale#. Del resto nella Repubblica il sole è il simbolo del bene e l'astronomia deve introdurre alla conoscenza intellettuale vera e propria. Inoltre alla fine della Repubblica, nel mito di Er, c'è sì un'immagine mitica dell'universo costruita con cilindri, ma ogni idea rigorosa di sfericità è assente. In quell'immagine l'universo è come fasciato da legami di luce, in mezzo ai quali ruota il fuso della Necessità. Questo ha un volano costituito da cilindri infilati l'uno nell'altro, con i bordi rovesciati all'infuori. I cilindri ruotano tutti trascinati da quello più esterno e più grande; ma tutti quelli interni hanno un moto contrario a quello del cilindro esterno#. Platone non attribuisce esplicitamente i cilindri agli astri, ma sembra che il cilindro esterno sia il cielo delle stelle fisse, mentre gli altri, che sono via via più piccoli e hanno movimenti contrari rispetto al primo, segnano le orbite dei pianeti, del sole e della luna. La costruzione platonica sembra più vicina al vortice dei naturalisti che all'immagine geometrica della sfera, anche se sostituisce al materiale fluido del vortice cilindri rigidi, nei quali riproduce le traiettorie degli astri suggerite dalla costruzione del calendario e dall’uso, che faceva Archita, del movimento combinato di corpi geometrici rigidi per ottenere moti composti e figure composte.

Nel Timeo Platone sostituisce i cilindri rigidi della Repubblica con 'materiale psicologico'. Immagina l'anima come un nastro costituito da due componenti, l'identico e il diverso. Uno non sarebbe divisibile, l'altro sarebbe indefinitamente divisibile: mescolandosi, essi danno luogo a una divisione ordinata, sicché sul nastro sono individuabili delle parti, che stanno tra loro come i numeri 1, 2, 3, 4, 9, 8, 27. Questi numeri costituiscono due progressioni geometriche (1, 2, 4, 8 e 1, 3, 9, 27) con ragione rispettivamente 2 e 3 e possono generare altre serie di numeri costituiti da medie aritmetiche o medie armoniche e altre ancora#. Tagliando il nastro in due per lungo si ottengono due strisce perfettamente corrispondenti. Si dispongono le due strisce a X e si congiungono i due bracci della X, in modo da comporre due circonferenze che si tagliano secondo un angolo, che rappresenta l'inclinazione dell'eclittica sull'equatore#. I due cerchi passano in realtà l'uno dentro l'altro e ruotano anche l'uno in senso contrario all'altro. Quello esterno ruota verso destra, e Platone lo chiama il cerchio dell'identico. L'altro, che ha la natura del diverso, ruota verso sinistra, ma è dominato dal moto esterno dell'identico. La striscia interna è divisa in sette cerchi che stanno fra loro come la serie originaria dei numeri 1, 2, 3, 4, 9, 8, 27. Dei sette cerchi tre hanno la medesima velocità, diversa da quella degli altri quattro, che hanno anche velocità diverse tra loro#. Nel Timeo Platone assegna le orbite ai corpi celesti, indicatori del tempo che è «una immagine mobile dell'eternità»#. Il ciclo è una specie di macchina del tempo costruita in un materiale psichico, simboleggiato dal nastro. L'ordine dei cieli passa, ma in gradi decrescenti, alle cose e fa sì che le trasformazioni tra gli elementi delle cose avvenga sempre entro forme costanti, che sono le forme degli esseri animati, dei quali il demiurgo ha popolato il mondo, copiando il modello eterno nel quale erano contenute. C'è un motivo fondamentale che va dal Sofista al Timeo e che consiste nel tentativo di sottoporre a ordine il movimento. Nel Sofista le idee di movimento e quiete, identico e diverso costituiscono una molteplicità ordinata, e la possibilità di un ordine del movimento si annuncia come possibilità di disciplinare l'estrema varietà del diverso sottoponendolo alla disciplina dell'identico. Nel Filebo le idee compaiono come sistemi disparati di molteplicità ordinate, che imprimono ordine a vari tipi di diversità, come i suoni, le articolazioni linguistiche, le stagioni, le forme degli animali. Nel Timeo l'anima realizza gradi diversi di ordine nell'universo attraverso tipi diversi di movimento, che presentano gradi differenti di inquadramento del diverso nell'identico. Nel Timeo i diversi tipi di molteplicità distinti fin dal Sofista diventano anche uno schema per disporre le conoscenze disponibili secondo un ordine di valore. Solo il modello dell'universo, nel quale è contenuta tutta la varietà del mondo, ma in modo ordinato, è oggetto di conoscenza intellettuale certa, mentre i discorsi sul mondo, sua immagine, sono semplicemente verisimili#. Anche del ricettacolo, nel quale si svolge il movimento disordinato che precede la costituzione degli elementi, si può parlare in modo puramente verisimile#, ma poiché non ha nessuna forma, non può essere raggiunto con i sensi e solo un ragionamento «bastardo» lo può rivelare#.

Ma soprattutto Platone intende sostenere il primato dell'anima sulla natura e sulle cose, riprendendo uno dei temi principali della sua filosofia. Molto di quello che accade nella natura è necessario, cioè può essere spiegato indipendentemente dai fini; ma solo perché le cose avvengono nel ricettacolo che condiziona il loro divenire con il suo movimento originariamente disordinato. Tuttavia la necessità spiega soltanto un aspetto delle cose, il modo in cui avvengono, non la causa vera per la quale avvengono, perché nell'universo la necessità è subordinata all'azione ordinatrice dell'anima, che esercita su di essa un'azione paragonabile alla persuasione con la quale si possono orientare i desideri degli uomini. E per Platone l'intelligenza viene prima della sensibilità e dei desideri così come gli atti dell'anima vengono prima delle cose.

 

 

LE LEGGI

La storia e la città delle "Leggi"

Nell'ultimo periodo di attività Platone si occupa soprattutto della natura e della storia. Il primo interesse è per lui una novità, mentre il secondo s'inserisce nella sua filosofia politica e forse era legato al progetto di un'opera sull'educazione politica degli ateniesi promessa nel Timeo. Platone incomincia dalla 'preistoria', che ricostruisce in modo immaginoso nel Crizia, frammento di un dialogo mai compiuto, e nel Timeo. Solone avrebbe appreso dai sacerdoti egizi che l'antica Atene aveva buoni ordinamenti, simili a quelli egiziani, con una casta sacerdotale separata dal resto della popolazione. Per questo aveva potuto resistere ad Atlantide, una grande isola che giaceva oltre le Colonne d'Ercole, ricca e potente, ma minata dall'opulenza e dall'avidità. Poi, novemila anni prima di Solone, Atlantide era stata distrutta da una calamità naturale#, perché, quando le comunità umane sono diventate troppo opulente, grandi catastrofi naturali le cancellano e costringono gli uomini a ricominciare da capo. Sono questi rivolgimenti che collegano la storia alla natura e introducono una concezione ciclica della storia: essi distruggono periodicamente le comunità, quando sono diventate troppo ricche e si sono allontanate dalle condizioni naturali originarie#.

Tutta la storia greca si può interpretare in questo modo. La fondazione delle grandi città di pianura, come Troia, è avvenuta dopo che gli uomini sopravvissuti sui monti hanno dato inizio a un nuovo ciclo. Ma la crescita smodata di potenza, soprattutto militare, e di ricchezza, ostacolarono la formazione di una comunità dorica tra Sparta, Argo e Messene, costrinsero Sparta all'alleanza con Atene per contrastare i persiani e impedirono lo sviluppo di una costituzione moderata, come era quella spartana originaria#. Per questo la guerra tra la Persia e Atene fu lo scontro tra due degenerazioni estreme, rispettivamente della monarchici e della democrazia, e per questo il periodo presente è segnato dalla lotta tra costituzioni degenerate.

Nel Politico Platone aveva ripreso il mito di Crono#, che narra il passaggio dall'età dell'oro e dell'abbondanza, in cui gli uomini vivevano sotto la guida diretta degli dèi, alla nostra, in cui la divinità ha abbandonato la guida del cosmo. In un periodo come il nostro, segnato dal distacco dagli dèi, i governanti non possono riprodurre i prodigi dell'età di Crono perché, essendo uomini, non padroneggiano le cose: è inutile perciò cercare politici i quali promettano ai cittadini un benessere che non possono procurare, come farebbe un pastore con il suo gregge. Platone riprende il tema fondamentale della sua politica, nella quale l'ordine è più importante del benessere e della felicità. La politica migliore è perciò quella che esercita l'autorità fondata sulla conoscenza della gerarchia dei beni senza tener conto degli interessi particolari dei cittadini. Il riguardo indebito per questi interessi da luogo alle differenze fra le forme costituzionali#, che sono soltanto «imitazioni» di una città retta dalla «scienza politica»# e intervengono quando una città del genere non è possibile: e solo in questo caso il rispetto della legge è importante#.

Le Leggi presuppongono l'interpretazione della storia greca, costruita da Platone utilizzando la concezione ciclica della storia in generale: su questo sfondo costruiscono il progetto di una città che realizzi una giusta contemperanza dei princìpi costituzionali rappresentati dalla Persia e da Atene, riprendendo lo spirito della misura che animava originariamente le costituzioni di Creta e di Sparta#. Tuttavia queste avevano puntato troppo sulla preparazione alia. guerra e, se giustamente avevano favorito le virtù militari, non avevano tenuto conto che quella più importante è la guerra interna all'anima, per il primato dell'intelligenza sui piaceri#. L'uomo è una macchina mossa da piaceri e dolori che l'educazione deve saper manovrare utilizzando tutto, istituzioni militari, musica, danza, banchetti e vino#. Solo così si può imporre una precisa gerarchia di beni#, che sono, in ordine di pregio, quelli dell'anima, quelli del corpo e infine le ricchezze#; ma tutto deve culminare nella divinità#, che è misura, come mostra l'ordine astronomico dell'universo, ampiamente illustrato nel Timeo. Nel mondo umano la giusta misura è il termine intermedio tra eccesso e difetto#. Spetta alle leggi realizzare un ordine di questo genere. Nel Politico Platone aveva detto che solo un regime inferiore a quello perfetto è tenuto a rispettare le leggi: e infatti l'ultima opera# di Platone delinea una seconda scelta politica rispetto alla Repubblica e al Politico. Ma essa stabilisce anche che le leggi non vanno interpretate come 1'«ordine di un tiranno», cioè come comandi bruti imposti solo con il timore delle sanzioni; al contrario devono anche insegnare e persuadere, perché il vizio è ignoranza#, come continua a sostenere Platone. E lo possono fare con un «proemio», che preceda le vere e proprie disposizioni e ne faccia strumenti di educazione#.

Per essere una comunità educativa# la città deve essere chiusa, con scarsi e sorvegliati contatti con l'esterno, con pochi rapporti commerciali, soprattutto per mare#, con una moneta convenzionale a solo corso interno#. Se non è possibile abolire del tutto la proprietà privata#, la terra va divisa in lotti da assegnare a 5040 famiglie, che non potranno mutare il proprio lotto, ma dovranno lasciarlo a un unico figlio#. Ci saranno differenze tra i cittadini, ma bisogna evitare che ci siano dislivelli di ricchezza troppo ampi, istituendo quattro classi censuarie e stabilendo che il patrimonio previsto per la classe più elevata sia al massimo quattro volte quello previsto per la classe minima#. La città delle Leggi non è militarizzata come quella della Repubblica, ma in essa la vita privata è pur sempre sottoposta a un rigido controllo pubblico. Tutto il territorio è continuamente pattugliato e i magistrati devono controllare che anche nelle campagne gli abitanti trascorrano la notte nel proprio letto#. In città e in campagna uomini e donne sono tenuti a consumare pasti in comune#. Non è ammesso il celibato, il matrimonio va contratto nell'interesse esclusivo della città# e devono essere vietati l'amore omosessuale e gli accoppiamenti sterili, anche nel matrimonio, perché tutto deve essere orientato alla procreazione#. Le donne sposate sono periodicamente convocate in un tempio per essere interrogate da altre donne sugli aspetti più intimi della vita familiare: così si potranno esporre a infamia coloro che non orientano la loro vita privata alla generazione di figli a favore della città#. Esercizi militari, anche molto realistici, dovranno impegnare continuamente i cittadini#, che si dedicheranno all'agricoltura#, ma non potranno praticare le altre arti ne farle praticare ai propri schiavi; in questo campo dovranno affidarsi agli stranieri, ma neppure loro dovranno esercitare più di un'arte ciascuno e ne potranno limitarsi a dirigere il lavoro di altri artigiani, senza lavorare essi stessi#.

 

 

LA RELIGIONE ASTRALE

Anche le Leggi come la Repubblica ritengono che debba essere assicurata soprattutto la conservazione dei buoni ordinamenti. Nelle Leggi a questo deve provvedere un Consiglio supremo, detto «notturno» perché si riunisce all'alba, quando i suoi mèmbri sono più liberi dalle occupazioni, ed è costituito dai dieci magistrati più anziani incaricati di vigilare sulle leggi e da altri mèmbri insigni per virtù#. Il Consiglio tra l'altro deve impedire la formazione di una sfera privata, che anche nella Repubblica era stata considerata un pericolo mortale per la città. Là era stata combattuta con una rigida disciplina della famiglia e della proprietà, oltre che con una sospettosa attività inquisitiva, che continua nelle Leggi. Queste però vedono una delle principali fonti di pericolo nella miscredenza. Da sempre i miti dei poeti hanno indotto alla miscredenza, ma è recente la dissacrazione del cielo, che riduce gli astri a pietre e che fa dell'universo intero l'opera della natura e del caso#, e non dell'arte e di un'anima che precede il corpo#. Tutto ciò induce a negare l'esistenza degli dèi. Ma c'è chi semplicemente ne nega l'esistenza, chi non crede che si curino degli uomini, chi ritiene che su di loro si possa agire con offerte o preghiere#. Inoltre è possibile unire l'ateismo con la probità oppure con cattivi costumi. L'ateismo più pericoloso è quello di coloro che non si limitano a negare gli dèi, ma criticano la religione e la irridono, oppure praticano la magia e fondano religioni private#. Atei di questo tipo vanno puniti, anche con la morte, per impedire che facciano proseliti. Se tuttavia gli atei sono vittime della propria ignoranza e non rivelano animosità, vanno convertiti: per questo saranno collocati in un istituto vicino al Consiglio, che si occuperà di loro#.

Per convertire gli atei i mèmbri del Consiglio devono possedere istruzione adeguata. Prima di tutto la capacità di vedere l'unità nella molteplicità, soprattutto l'unità delle virtù attraverso la molteplicità dei loro nomi#. E questa l'eredità della dialettica platonica come, dopo la Repubblica, si è trasformata adottando il metodo della divisione. Un tema 'socratico', come lo è il secondo punto delle credenze che i mèmbri del Consiglio devono condividere e inculcare negli atei: il primato dell'anima sul corpo. Ma questo tema ora si collega con il riconoscimento del carattere divino degli astri#. E l'ordine dell'universo, che si rivela nel corso degli astri e delle stagioni#, l'argomento più forte in favore dell'esistenza degli dèi, al di là delle credenze religiose, che sono comuni a greci e barbari.

Già nel Timeo Platone aveva detto che stabilendo con l'osservazione e il calcolo i percorsi, le congiuzioni, i ritardi, le anticipazioni, le eclissi e le riapparizioni degli astri, era anche possibile liberarsi dalla paura che in generale i fenomeni astronomici producono#. Ma nelle Leggi sembra riconoscere di aver imparato da poco, quando era ormai vecchio, a spiegare queste cose#, supponendo che ogni astro segua un solo cammino circolare, anche se pare che ne segua molti. Qualcuno ha sostenuto che nella Repubblica#, dove riteneva che un'astronomia esatta non potesse riferirsi a corpi, e nel Timeo#, dove parlava ancora dei pianeti come «vaganti», Platone non potesse presupporre l'astronomia di Eudosso. Questi secondo Eudemo sarebbe stato il primo a formulare ipotesi astronomiche di tipo matematico e a costruire una vera astronomia sferica; probabilmente in séguito si formò la leggenda, che risale almeno a Sosigene, secondo la quale sarebbe stato Platone a porre il problema della spiegazione dei movimenti irregolari dei pianeti con movimenti regolari#. Qualcuno ha addirittura supposto che Platone nelle Leggi polemizzasse con Eudosso, sostenendo che gli astri seguono sempre lo stesso cammino circolare. La Repubblica, anche per la sua data presumibile, non presuppone la conoscenza di Eudosso; ma non è detto che il modo in cui il Timeo parla dei pianeti sia in contrasto con l'astronomia eudossiana, così come le osservazioni delle Leggi non sono necessariamente rivolte contro Eudosso, perché potrebbero non escludere orbite composte. Anzi forse proprio l'astronomia eudossiana permetteva di vedere negli astri delle divinità, che seguono dei cammini costanti e non dei corpi «vaganti» a caso nel cielo»#. Già nel Fedone Platone aveva presentato la sfericità della terra come un'acquisizione recente e la stessa cosa fa nelle Leggi con la nuova astronomia. Si direbbe che la vera e propria astronomia sferica sia qualcosa che egli ha sempre apprezzato e quasi sfiorato, ma che si è sempre sottratta al suo possesso, perché egli ha costantemente cercato di tradurla in metafore religiose, dominate dalla circolarità e dal tentativo di catturare l'immagine dell'universo in formule numeriche.

Nelle Leggi il significato religioso che ha sempre assegnato all'astronomia è del tutto esplicito: quello che interessa a Platone è la religione astrale che si può ricavare dall'astronomia, alla quale anche la dialettica sembra subordinata. Per Platone la costituzione di una casta di sacerdoti specializzati era un antico pregio di Atene, andato smarrito e conservato in Egitto. In un certo senso i governanti delle Leggi devono supplire a questa mancanza e la filosofia platonica, nella sua versione astrale, si presenta come la religione adatta per loro. Presa tra due vicende, come la storia di Socrate e la costruzione dell'astronomia di Eudosso, delle quali conosciamo assai poco, passata attraverso un'altra vicenda come l'avventura siciliana, che in gran parte ci sfugge, la filosofia platonica appare come un itinerario dal socratismo alla fondazione di una religione astrale, nella quale temi iniziatici sono collegati con la visione geometrica dell'universo. Non è detto che solo Platone tra i socratici si fosse mosso in questo modo, perché altri potrebbero aver preso la strada di un ricupero di temi religiosi e di una specie di 'riconsacrazione' della natura. Ma forse Platone tenne conto più di altri della visione geometrica dell'universo che stava emergendo, si fece impressionare dagli strumenti matematici usati per costruirla e cercò di innestarli sulla tradizione sofistica e socratica.

I sofisti avevano codificato la 'cultura generale', quella che poteva essere chiamata «filosofia», che comprendeva le nozioni e le memorie degne di essere conservate, tra le quali anche le opinioni di chi aveva scritto sugli dèi o sui fenomeni meteorologici o era stato un 'personaggio' sul quale erano fiorite leggende culturali o che era perfino finito in rappresentazioni teatrali. I loro scolari studiavano quelle opinioni, le discutevano e imparavano la tecnica di formularne essi stessi. Dopo l'età di Socrate quelli che si richiamarono a lui pretesero di essere, essi soli, dei 'filosofi' in nome di un programma di vita in contrasto con quello della comunità. Sappiamo troppo poco sul pitagorismo antico e su movimenti analoghi, sui gruppi che poterono essersi formati intorno a Parmenide o Empedocle, per stabilire analogie dei socratici con loro. Ma i socratici erano anche gli eredi della cultura sofistica, si erano formati sul suo patrimonio letterario, sulle sue raccolte di opinioni, sui modi in cui quelle opinioni venivano trattate, sulle tecniche per produrne di nuove. E fecero degli strumenti codificati dai sofisti, la declamazione e l'argomentazione per domande e risposte, dei mezzi di aggressione culturale a quelli che consideravano i modi di pensare e di agire diffusi nelle città del loro tempo. I contemporanei percepirono la novità costituita dal fatto che la filosofia si presentava come una forma di opposizione alla città e passava a designare un programma di vita e un insieme di credenze paradossali e marginali. I filosofi furono considerati personaggi strani, ai quali si attribuirono modi di vita particolari. Si dice spesso che la filosofia antica (ma si ha in mente soprattutto quella di Socrate, Platone e Aristotele) è un frutto della città greca e dello spirito greco. I cittadini greci dovettero invece sentire i filosofi come estranei, che giudicavano piuttosto male le città delle quali secondo molti storici avrebbero dovuto essere il frutto più prezioso. Il che non impedì che avessero successo, che la gente andasse anche ad ascoltarli e che qualcuno mandasse a scuola da loro i propri figli.

Platone si formò in questa mentalità. Ma evitò gli atteggiamenti marginali. Progettò un rigoroso controllo della poesia e della letteratura, che dovevano diventare molto castigate, condannò ogni forma privata e minore di religiosità, diffidando di ogni tentativo di agire direttamente sulla divinità, distinse accuratamente la polemica contro le ricchezze e il lusso dal pauperismo e fece dell'austerità filosofica una tecnica raffinata per la ricerca di piaceri connessi alle attività intellettuali superiori, dalla matematica alla musica#: i suoi scolari vestivano bene, semmai in modo un po' antiquato e lezioso. Partendo dall'ignoranza socratica Platone pretese di fare della filosofia una forma di sapere, anzi la forma più alta di sapere. Non che avesse contenuti precisi: aveva introdotto le idee, ma senza specificarle troppo, e solo le critiche alle quali erano state sottoposte lo avevano costretto a entrare nei particolari. Allora riprendendo i modi del socratismo, aveva cercato di contrapporre la dialettica ai metodi che i matematici stavano elaborando, aveva puntato sul dialogo contro il manuale, cioè contro la sistemazione che i matematici stavano dando alle proprie scoperte. Ma fin dall'inizio Platone aveva dato un significato religioso al socratismo: tenendo fede a questo motivo egli tentò di dare un contenuto all'ignoranza socratica, mettendo capo alla consacrazione dei cieli e alla religione astrale.