INTRODUZIONE
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Possiamo
dire di possedere sostanzialmente tutte le opere platoniche perché
non conosciamo titoli di scritti che non ci siano giunti. Forse
la loro conservazione e perfino il loro culto incominciò già nell'Accademia,
nella quale dovettero essere considerati testi canonici, da studiare
e commentare. I dialoghi di Platone furono classificati in tipi
diversi (DL III, 49-50), ricevettero titolo (quasi sempre il nome
di un personaggio, per esempio Fedone) e sottotitolo (per
esempio Sull'anima per il Fedone in DL III, 57),
e furono sottoposti a esegesi diverse e allo studio critico del
testo (DL III, 65-66).
In
età alessandrina si dovette ritenere che nei dialoghi di Platone
la filosofia avesse raggiunto la forma perfetta, come era avvenuto
nel teatro con Eschilo e Sofocle (DL III, 56). E infatti nel III
secolo a.C. Aristofane, il bibliotecario di Alessandria, ne curò
un'edizione raggruppandoli in trilogie (DL III, 61-62). In séguito
essi furono organizzati in tetralogie e così furono editi da Trasillo
(DL III, 56). Non è chiaro chi fosse Trasillo, che spesso viene
collocato nell'età di Tiberio; però già Varrone doveva conoscere
l'ordinamento in tetralogie. La distribuzione degli scritti platonici
in tetralogie era la seguente:
I
tetralogia: Eutifrone, Apologia, Critone, Fedone.
II
tetralogia: Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico.
III
tetralogia: Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro.
IV
tetralogia: Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti.
V
tetralogia: Teage, Carmide, Lachete, Liside.
VI
tetralogia: Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone.
VII
tetralogia: Ippia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno.
VIII
tetralogia: clitofonte, Repubblica, Timeo, Crizia.
IX
tetralogia: Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere.
Già
gli antichi mettevano in dubbio l'autenticità di alcune opere
attribuite a Platone: Midone o L'allevatore di cavalli, Erissia
o Erasistrato, Alcioni, Acefali, Sisifo, Assioco, Feaci, Demodoco,
Chelidone, II settimo giorno, Epimenide (DL III, 62). Questi
dialoghi non appartenevano a nessuna tetralogia, e di essi ci
sono arrivati Demodoco, Sisifo, Erissia e Assioco, oltre
a Sul giusto, Sulla virtù e Definizioni, neppur
essi compresi nelle tetralogie.
Ma
l'antichità dubitava anche di alcuni dialoghi compresi nelle tetralogie:
Alcibiade secondo, Epinomide, Amanti e Ipparco,
che in generale anche la critica moderna ha ritenuto spuri. In
particolare V Epinomide viene attribuito a Filippo di Opunte,
che avrebbe anche trascritto le Leggi (DL III, 37). Oggi
non si considerano autentici neppure Alcibiade primo, Minosse
e Teage, mentre dubbi sono formulati su Clitofonte,
Ione, Menesseno e Ippia maggiore. Comunque quelli discussi
sono dialoghi minori, che non aggiungono elementi nuovi o importanti
al pensiero platonico. Anche se tra gli antichi Panezio escludeva
il Fedone e Proclo la Repubblica e le Leggi
e nel secolo scorso non ci fu quasi dialogo, anche tra i maggiori,
che non fosse espunto dal corpus platonico, oggi non si
dubita più dei grandi dialoghi trasmessi dalla tradizione. Molti
di essi sono attribuiti a Platone da Aristotele, direttamente
o indirettamente, e l'attendibilità del corpus è garantita
dall'azione di un gruppo di platonici che risale a Platone stesso.
Un
discorso a parte va fatto per l'autenticità delle Lettere,
perché in generale le lettere attribuite a personaggi antichi
sono false, e alcune delle lettere platoniche sono evidentemente
fittizie. Quelle alle quali molti studiosi hanno dato credito
sono la II, III, IV, VI, VII e VIII, che riguardano le vicende
siciliane. Tra esse la più importante è la VII, che ci dà notizie
sulla biografia intellettuale di Platone e sui suoi rapporti con
Siracusa. La sua autenticità è stata valutata in modi diversi:
in certi momenti è stata considerata un cardine dell'interpretazione
di Platone, in altri un mito da sfatare. I più recenti studi stilo-metrici
hanno tuttavia gettato di nuovo dubbi sulla sua autenticità e
in generale su tutta la corrispondenza platonica, perché dalla
valutazione della VII Lettera dipende quella delle altre.
A)
Criteri letterari. Fin dall'antichità si è cercato di dare
un ordine cronologico ai dialoghi platonici, tenendo conto del
fatto che Platone visse a lungo e scrisse le Leggi poco
prima di morire. Secondo Diogene Laerzio (III, 37-38) si riteneva
che il Fedro fosse la sua prima opera perché «il problema
ivi trattato ha un certo che di giovanile». Considerazioni del
genere, ripetute a volte anche per altri dialoghi, sono però soggettive
e arbitrarie. Qualcosa di più preciso si è ricavato dalla tecnica
letteraria usata da Platone per costruire i propri dialoghi.
Il Teeteto incomincia come un dialogo tra Euclide e Terpsione.
Euclide si accinge a riferire una conversazione che molto tempo
prima Socrate aveva avuto con Teeteto.
Subito
dopo quella conversazione Euclide aveva preso degli appunti (hypomnèmaTA),
che poi aveva corretto e completato sentendo Socrate: ne era nato
così un discorso continuo (logos), che ora Euclide e Terpsione
ascolteranno, letto da uno schiavo. Euclide avverte di aver omesso
nel suo scritto la parte narrativa e aver usato la forma dialogica
diretta. La forma dialogica indiretta era usata da Platone in
parecchi dialoghi molto importanti, come il Protagora,
il Fedone, la Repubblica, il Fedro, il Simposio,
nei quali un dialogo iniziale è la cornice in cui è inserita la
narrazione del dialogo più importante in cui interviene Socrate.
Invece la forma diretta era presente in dialoghi come 1'Eutifrone,
il Critone, il Cratilo, il Lachete, il Gorgia,
il Menone; ma non mancano forme che si potrebbero dire
miste. Si è di solito inteso il proemio del Teeteto come
una rinuncia allo stile narrativo e al dialogo indiretto. Ci sarebbe
un momento in cui Platone si mostrerebbe a disagio con lo stile
narrativo: nel Parmenide esso è usato all'inizio, ma poi
(dopo 137c) è abbandonato.
Si
potrebbe pensare che tutti i dialoghi in forma diretta siano successivi
al Teeteto. Ma è risultato difficile pensare che dialoghi
come l’Eutifrone, il Critone, il Cratilo,
il Lachete, il Gorgia, il Menone siano vicini
al Parmenide, al Sofista, al Politico o addirittura
al Timeo e alle Leggi e lontani dal Carmide,
dal Liside, dal Protagora, dal Fedone, dal
Fedro, dal Simposio. Si è allora supposto che il
Teeteto rappresenti sì un abbandono della forma narrativa,
che aveva raggiunto il suo massimo sviluppo in dialoghi come il
Fedone, la Repubblica, il Fedro, il Simposio,
ma che prima aveva convissuto con la forma diretta. Questo criterio
perciò non permette, da solo, di ordinare cronologicamente i dialoghi.
Esso potrebbe avere un'applicazione negativa: se un dialogo ha
forma narrativa non può essere collocato dopo il Teeteto.
B)
La stilometria. A partire dal 1867, con le ricerche di
Lewis Campbell, si cercò un criterio oggettivo per stabilire la
successione dei dialoghi. Se si può assumere che opere cronologicamente
vicine presentino affinità di stile, è possibile ricostruire un
ordine cronologico tra opere letterarie misurando il loro grado
di affinità stilistica. Per 'stile' si intende non tanto un
modo premeditato di scrivere, quanto l'uso ricorrente di parole,
formule di assenso, costrutti grammaticali, giri di frase, ritmi
del periodo, accettazione o esclusione dello iato ecc. Attraverso
il conteggio degli elementi stilistici significativi e la loro
densità relativa è possibile stabilire indici di affinità tra
dialoghi, e di conseguenza la loro distanza cronologica. Secondo
Diogene Laerzio le Leggi erano l'ultima opera di Platone,
e al momento della sua morte non avevano ancora ricevuto la revisione
definitiva. Inoltre Aristotele aveva detto che le Leggi
erano state composte dopo la Repubblica. Era così possibile
assumere queste opere come termini di riferimento e stabilire
la distanza cronologica degli altri dialoghi da esse in base al
grado di affinità stilistica.
Le
ricerche stilometriche suscitarono entusiasmi e riserve. Un'applicazione
di verifica alle opere di Goethe, delle quali era nota la successione,
diede buoni risultati. La loro ripresa con l'uso dei computer
ne ha dimostrato l'attendibilità, ma anche i limiti. La stilometria
è sensibile alle scelte degli elementi stilistici e delle opere
considerate. Inoltre, come si era visto anche prima dell'uso di
tecniche computazionali, non sempre è possibile stabilire la
successione fine delle opere. Si può cioè delineare a grandi
linee la successione tra gruppi di opere, ma non è
detto che si possa stabilire l'ordine all'interno di ciascun
gruppo. Inoltre non è detto che ogni dialogo possa essere
attribuito a un gruppo cronologico. Infine i risultati stilometrici
potrebbero essere perturbati dal fatto che le opere potrebbero
essere state riviste in tempi anche lontani da quello della composizione.
C)
La successione. Tenendo conto della forma dialogica e degli
indici stilometrici i dialoghi platonici sono stati divisi in
gruppi, che vengono ammessi da molti studiosi.
1°
gruppo: Apologia, Critone, Lachete, Liside, Carmide, Eutifrone,
Ippia minore, Ippia maggiore (?), Protagora, Gorgia, Ione.
2°
gruppo: Menone, Fedone, Repubblica, Simposio, Fedro, Eutidemo,
Menesseno, Cratilo.
3°
gruppo: Parmenide, Teeteto, Sofista, Politico, Timeo, Crizia,
Filebo, Leggi.
La
posizione di alcuni dialoghi, come il Cratilo e il Timeo,
sembra più incerta di quella di altri. Il Teeteto e il
Parmenide sembrano in realtà collocarsi tra il 2° e il
3° gruppo, tanto più che in essi avviene il mutamento della forma
dialogica.
D)
La datazione. Una volta stabilita la successione
dei dialoghi restava pur sempre il problema della loro datazione,
cioè della correlazione con i momenti della vita di Platone e
con eventi esterni, la cui data fosse nota. Platone non menziona
mai se stesso in modo significativo nei propri scritti, che in
massima parte si riferiscono alla vita di Socrate. E scarsissimi
sono anche i riferimenti ad avvenimenti esterni. Le Leggi
(638b) si riferiscono alla presa di Locri da parte di Dionisio
II di Siracusa nel 356 a.C. E questo si accorda con la collocazione
dell'opera verso la fine della vita di Platone. Il Teeteto
descrive il trasporto di Teeteto morente, dopo che aveva preso
parte a una battaglia combattuta presso Corinto; senonché ci sono
due battaglie di Corinto, una del 394 e l'altra del 369. Molti
accettano la seconda data e collocano il dialogo subito dopo di
essa, poco prima del secondo viaggio di Platone a Siracusa. Tuttavia
la prima data è difesa soprattutto da coloro che ritengono il
Teeteto un dialogo antico, di tipo socratico.
A
volte però i riferimenti aiutano poco per via degli anacronismi:
il Menesseno e il Simposio accostano liberamente
fatti e personaggi del V secolo (Aspasia, l'amante di Pericle,
o la festa per la vittoria di Agatone, che è del 416) a fatti
del IV secolo. Si potrebbe sperare di ricavare qualcosa dai rapporti
tra Platone e Socrate, che sono stati così importanti almeno per
Platone. Ma in primo luogo sappiamo poco anche di Socrate. Poi
non sappiamo se Platone abbia incominciato a scrivere i propri
dialoghi prima della morte di Socrate. Infine è vero che Socrate
non è più la figura dominante nei dialoghi presumibilmente contemporanei
o successivi al Teeteto, ma questo non vale per il Teeteto
stesso ne per il Filebo.
Anche
i rimandi da un dialogo all'altro fanno parte della scenografia
e non possono essere presi come indici indipendenti dal contesto
narrativo: il fatto che il Timeo si presenti come una continuazione
immediata della Repubblica non vuoi dire che quei dialoghi
siano vicini. Tutte congetturali le proposte di collegamento tra
i singoli dialoghi e la vicenda siracusana di Platone. Ne è più
facile stabilire un rapporto tra le opere platoniche e l'attività
dell'Accademia, sulla quale del resto sappiamo ben poco.
LA VITA
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Platone
nacque ad Atene o a Egina nel 427 a.C. e morì ottantenne ad Atene
nel 347 (DL III, 2-3). La maggior parte delle notizie sulla sua
giovinezza derivano da scritti elogiativi, oppure furono ricavate
dai dialoghi a lui attribuiti, da accostamenti con personaggi
noti del suo tempo o da analogie con la vita di Socrate narrata
dai socratici. Apollo comparve in sogno a suo padre al momento
della sua nascita (DL III, 2) e prima di incontrarlo Socrate sognò
di tenere sulle ginocchia un meraviglioso cigno (DL III, 5). Studiò
grammatica con Dionisio e ginnastica con Aristone, partecipò ai
giochi ginnici dell'Istmo, scrisse poesie e tragedie e prese parte
a campagne militari (DL III, 4, 5, 8). Altre notizie potrebbero
essere speculazioni dei suoi biografi: si chiamava Aristocle,
ma fu soprannominato 'Platone' per la sua possanza fisica o per
la larghezza della sua fronte o per l'ampiezza del suo stile (DL
III, 4).
In
realtà della giovinezza di Platone non sappiamo quasi nulla, se
non che incontrò Socrate, si diceva a vent'anni. Ma anche questo
fatto è stato inglobato entro schemi filosofici. Secondo una versione
Platone avrebbe seguito Socrate dopo aver abbandonato la poesia
in modo drammatico, bruciando la tragedia che aveva scritto (DL
III, 5). La VII Lettera, che contiene una biografia (o
un'autobiografia) di Platone, ricostruisce la sua giovinezza in
analogia con la biografia di Socrate contenuta nell'‘Apologia’.
Platone, sollecitato da familiari e amici, che avevano posti importanti
nel regime dei Trenta, avrebbe desiderato fare politica, ma fu
ben presto deluso da quel regime, tanto più che i Trenta cercarono
di coinvolgere Socrate nell'uccisione illegale di un cittadino.
In séguito furono il processo a Socrate, l'impossibilità di fare
politica senza l'appoggio di amici e consociati e il generale
decadimento delle leggi e dei costumi a tenerlo lontano dalla
politica e a fargli pensare che solo la congiunzione di politica
e filosofia avrebbe potuto garantire un buon governo alle città
{VII Lettera 324b).
La
biografia di Platone, come in generale quella degli
autori antichi, è spesso modellata su dati o anche soltanto
supposizioni sulla sua formazione intellettuale: attribuirgli
un maestro o una frequentazione è un modo per rilevare un'affinità
culturale o supporre l'influsso di un autore o una scuola. Se
si trova una traccia di eraclitismo nella sua filosofia, gli si
attribuisce lo studio della filosofia di Eraclito prima dell'incontro
con Socrate (DL III, 5) e Aristotele (Metafisica I, 6,
987a32) dice addirittura che «da giovane» Platone era stato scolaro
di Cratilo. Ma poiché Platone si riferisce nei dialoghi anche
all'eleatismo, a Cratilo, maestro di eraclitismo, si affianca
Ermogene, maestro di eleatismo. Senonché Platone nomina Eraclito
e Parmenide dopo Socrate: allora avrebbe frequentato Cratilo ed
Ermogene dopo la morte di Socrate (DL III, 6).
Influssi
culturali e circolazioni di opere vengono anche spiegati come
'plagi', e il capitolo dei plagi di Platone (DL III, 9) è assai
nutrito. Un terzo modo per spiegare la formazione intellettuale
di un filosofo greco classico consiste nel supporre che abbia
fatto viaggi. Un viaggio e un soggiorno a Megara, presso Euclide,
con gli altri socratici, dopo la morte di Socrate, riferito da
Ermodoro (DL III, 6), è collegabile con la vicenda socratica e
sarebbe dovuto al fatto che gli amici di Socrate non si sentivano
più sicuri ad Atene (DL II, 106). Ma i viaggi culturalmente importanti,
che si potevano inferire da accenni dei suoi dialoghi, erano quelli
in Egitto, in Italia e in Sicilia, che vengono attribuiti a Platone
già al tempo di Cicerone (De republica I, 10, 16; De
finibus V, 29, 87). Si diceva che fosse andato in Italia presso
i pitagorici Filolao ed Eurito e in Egitto presso «i profeti»,
a Cirene presso il matematico Teodoro, mentre le guerre lo avrebbero
tenuto lontano dall'Asia e dai Magi (DL III, 6).
Il
primo viaggio in Sicilia e l'Accademia
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I
soli viaggi sicuri, sui quali abbiamo notizie dettagliate, sono
quelli in Sicilia. Secondo la VII Lettera (324a) Platone
vi andò la prima volta verso il 387 a.C., quando la città era
governata dal tiranno Dionisio I e Platone era sulla quarantina.
La VII Lettera non nomina quasi Dionisio, si dilunga sul
disgusto di Platone per la molle vita degli italioti e dei sicelioti
e descrive l'intensa amicizia che lega il giovane Dione a Platone
{VII Lettera 326b). Una sorella di Dione, Aristomache,
aveva sposato Dionisio I, e Dione a sua volta aveva preso in moglie
la loro figlia. Ma quando deve dire perché Platone andò a Siracusa,
la VII Lettera è sfuggente: forse vi andò per caso o per
volere divino. I biografi antichi colmarono questo vuoto supponendo
che Platone fosse stato spinto dalla curiosità: sarebbe andato
in Sicilia per visitare l'isola e i suoi vulcani, e Dionisio I
lo avrebbe costretto ad avvicinarsi alla corte (DL III, 18). Ma
si poteva pur sempre invocare quel viaggio per spiegare il pitagorismo
che si scorgeva nella filosofia platonica: tutto era incominciato
quando Platone aveva scritto a Dione di comperargli le opere del
pitagorico Filolao (DL III, 9).
Nella
versione confluita in Diogene Laerzio, Platone subisce i rapporti
con Dionisio I, che mal sopporta il filosofo. La faccenda finisce
male. Probabilmente nello stesso anno del suo arrivo Dionisio
consegna Platone all'ambasciatore spartano che lo vende come schiavo.
Gli amici ateniesi trovarono i soldi per il riscatto, oppure li
mandò Dione. Ma non furono accettati, perché Platone fu liberato
per la stima di cui godeva. Con quella somma comperò «il piccolo
giardino che è nell'Accademia» (DL III, 19-20), un luogo che aveva
preso a frequentare già al ritorno dai primi viaggi, un «ginnasio
suburbano ricco di alberi, così chiamato dall'eroe Ecademo» (DL
III, 7).
Dopo
una ventina d'anni Platone tornò a Siracusa quando nel 367, morto
Dionisio I, la tirannide passò al figlio, Dionisio il Giovane.
Dione si era appassionato alla filosofia di Platone e aveva cercato
di convertirvi anche il nuovo signore: si proponeva di mutare
tutta la vita delle città greche in Sicilia e in una gran parte
dell'Italia meridionale, e per questo chiese l'aiuto di Platone,
facendolo invitare a Siracusa da Dionisio ( VII Lettera 327a).
Ci dovette essere un certo imbarazzo per la decisione di Platone
di stabilirsi presso la corte di un tiranno, dopo che già una
volta le cose erano finite male. E si dovettero fare supposizioni
non benevole sulle sue vere motivazioni (VII Lettera 328c,
329a). Nella VII Lettera Platone si difende appassionatamente:
gli era parso di poter unificare filosofia e potere politico in
grandi città e di attuare le proprie teorie sulle leggi e il governo;
inoltre aveva obblighi verso Dione, che chiedeva il suo aiuto
(VII Lettera 328a).
Al
suo arrivo Platone trovò una situazione difficile. Il tentativo
di Dione di controllare Dionisio era già fallito e alla corte
c'era una forte ostilità contro di lui. Platone cercò di aiutarlo,
ma dopo tre o quattro mesi Dione venne esiliato (329b), mentre
Platone, pur trattato benissimo, era tenuto praticamente prigioniero
in una casa sull'acropoli (VII Lettera 329d). In realtà
Dionisio voleva soppiantare Dione nell'affetto e nella stima di
Platone, ma non era disposto a studiare seriamente la sua filosofia
(VII Lettera 330a). Platone ebbe molta paura, ma alla fine
Dionisio lo lasciò partire con la promessa che sarebbe ritornato;
da parte sua il tiranno si impegnò a far tornare anche Dione (VII
Lettera 338a). Intorno al 365 Platone era di nuovo ad Atene.
Dione
non tornò, ma nel 361 Platone andò per la terza volta in Sicilia.
La biografia della VII Lettera è molto imbarazzata e si
dilunga in giustificazioni. Platone aveva ricevuto molte pressioni,
da Dionisio, ma anche da Dione, dagli amici in Sicilia, in Italia
e ad Atene, e provava degli scrupoli nel non mettere alla prova
la passione di Dionisio per la filosofia, della quale in tanti
gli parlavano. Inoltre prima di lasciare Siracusa Platone aveva
promosso l'amicizia tra Dionisio e Archita di Taranto e i capi
della città. Ora Archita era andato a Siracusa, e anche lui di
là premeva su Platone. Del resto Dionisio si era circondato di
filosofi, che erano anche interessati al pensiero platonico e
di fronte ai quali il tiranno avrebbe fatto una cattiva figura
se non fosse riuscito ad attirare Platone alla sua corte (VII
Lettera 33Sb).
Dionisio
mandò una nave ad Atene a prendere Platone. Ma anche questa volta
la delusione venne subito. Dionisio non aveva nessuna idea di
che cosa fosse la filosofia e, per evitare il lungo apprendimento
che essa richiede, cercava di ridurla a poche formule da mettere
per iscritto. E c'era tanta diffidenza politica. Non solo Dionisio
non richiamava Dione in esilio nel Peloponneso, ma voleva interrompere
l'invio delle rendite dei suoi beni e venderli. Alla richiesta
di Platone di partire, Dionisio gli promise di rispettare i diritti
di Dione e lo pregò di esserne il garante. Ma non appena la stagione
propizia per la traversata finì Dionisio venne di nuovo meno ai
patti, e i suoi rapporti con Platone diventarono tempestosi. A
Siracusa scoppiarono torbidi politici nei quali Platone rischiò
di essere coinvolto. Finalmente, per l'intervento di Archita,
Dionisio gli consentì di lasciare la città. Sulla via del ritorno
a Olimpia avvenne l'ultimo incontro con Dione (VII Lettera
345c). Non abbiamo notizie sugli ultimi anni di Platone. Si diceva
che morendo, ottantenne nel 347 a.C., avesse lasciato le Leggi
sulle tavolette cerate (DL III, 37). Fu sepolto nell'Accademia
(DL III, 40).
LA
POLEMICA CONTRO I SOFISTI
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La
giustizia di Socrate e la virtù dei Sofisti
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Dopo
la condanna di Socrate anche Platone dovette, come gli altri socratici,
farne accogliere il lascito alla città che lo aveva respinto.
Cercò di mostrare che Socrate si era sempre considerato ateniese:
aveva accettato la condanna e respinto la proposta di fuga fattagli
da Critone, perché andandosene avrebbe infranto il patto implicito
che aveva stipulato con la città#.
Platone sapeva che questo non era un modo ovvio d'intendere i
rapporti con la comunità; del resto non c'è nulla di ovvio neppure
tra gli dèi quando si tratta di giusto e ingiusto, bello e brutto,
buono e cattivo. Una regola minima di giustizia, che tutti, uomini
e dèi, riconoscono, stabilisce che chi ha commesso ingiustizia
deve essere punito#.
Ma Socrate, che non aveva commesso ingiustizie, non si era
fermato qui, e aveva seguito un principio che poteva sembrare
paradossale: è meglio subire un danno che infliggerlo#.
Ma questo non era bastato a Socrate per delineare una teoria
completa del buon comportamento. In dialoghi come il Lachete,
il Liside, il Carmide, appartenenti al primo periodo
della sua attività, Platone rappresenta un Socrate nel fiore degli
anni che discute con ateniesi importanti, generali come Nicia
e Lachete, o giovani colti e raffinati, come Liside e Carmide.
Sono tutti convinti che ci sia un sapere che sta al di sopra delle
competenze tecniche, ma nessuno sa esprimerne il contenuto. Per
dire che cosa siano il coraggio, la saggezza, l'amicizia, cose
ovviamente buone, bisognerebbe possedere la scienza del bene
e del male, sconosciuta a Socrate come ai suoi interlocutori.
I
sofisti, che la storiografìa di solito considera gli interlocutori
originari di Socrate, compaiono solo in dialoghi come Ippia
maggiore, Ippia minore, Protagora, Gorgia, Eutidemo, probabilmente
successivi a Eutifrone, Carmide, Lachete, Liside. In questi
dialoghi Platone può confrontare la concezione sofistica della
virtù, intesa come un insieme di prestazioni di gran
pregio alle quali i sofisti pretendono di avviare i loro scolari,
con la concezione socratica della giustizia e mostrare che esse
non sono compatibili. Come Socrate neppure i sofisti hanno competenze
specifiche. Essi insegnano soltanto a parlare di tutto
senza sapere nulla di preciso e la capacità di influire sugli
altri, di cui tanto si vantano, si riduce all'arte di produrre
persuasione nei tribunali e nel consiglio. Ma questo dimostra
soltanto che la retorica ha qualcosa in meno rispetto alle
discipline tecniche, perché non è regolata neppure dal vincolo
delle competenze specifiche#.
Per questo i sofisti più giovani e aggressivi, come Polo e Callicle,
affermano spavaldamente che la vera virtù consiste nell'affermazione
di sé, ed è giusto che il più forte domini sul più debole. Già
il Lachete lamentava che i grandi politici della generazione
di Tucidide e Aristide avessero allevato da signori i propri figli
ma, troppo presi dagli interessi pubblici, non li avessero educati#.
Allora Platone aveva cercato di spiegare la condanna di Socrate
con la decadenza di Atene, colpa dei suoi capi aristocratici.
Nel Protagora, nel Gorgia e nel Menone aveva
inserito i sofisti in quel processo di decadenza: essi si erano
presentati come maestri di un sapere politico nel quale tutta
la città avrebbe dovuto riconoscersi e che avrebbe dovuto formarne
i capi. In realtà era un sapere inesistente, visto che i politici
di successo avevano fatto peggiorare i propri concittadini#
e ne avevano compiaciuto i peggiori desideri.
C'era
chi, come Isocrate, scolaro di Protagora e Gorgia, considerava
l'antica sofistica un aspetto importante della grande tradizione
greca e la distingueva dall'eristica, una degenerazione
recente che distoglieva i giovani dalle cose utili e vere. Isocrate
poneva tra gli eristi anche i socratici, ai quali attribuiva tesi
paradossali sull'unità delle virtù e sul sapere#.
Nell'Eutidemo Platone non nasconde che c'è chi accosta
l'eristica a quella che egli considera 'filosofia', per accomunarle
nella condanna#.
Ma anche se quella è una novità#,
non si può separare la retorica buona dei sofisti tradizionali
dall'eristica cattiva dei sofisti più giovani, perché questa
è il prodotto più vistoso dell'albagia dei vecchi sofisti, i quali
non si rendono conto che la cosiddetta scienza dei discorsi,
come tutte le tecniche, comprese quelle produttive e perfino la
matematica, ha bisogno di un sapere filosofico superiore, che
ne diriga l'uso, un sapere filosofico che è ben diverso dalla
degenerazione eristica della sofistica#.
Per questo bisogna convincere i giovani «che è necessario filosofare».
L’Eutidemo è stato considerato il manifesto di una
nuova scuola, forse dell'Accademia. Sappiamo troppo poco dell'insegnamento
platonico per poter dirne qualcosa di preciso, ma l’Eutidemo
cerca di evitare il pericolo che il socratismo venga presentato
come una degenerazione della sofistica. Accuse del genere circolavano
fuori della cultura socratica, come testimonia Isocrate, ma certe
tendenze interne del socratismo potevano autorizzare quelle
interpretazioni, o a Platone sembrava che potessero farlo.
Isocrate
aveva l'impressione che i socratici intendessero con 'filosofia'
non più la cultura generale, fatta soprattutto di storia e letteratura,
ma un sapere chiuso, ora professionale, ora paradossale secondo
il gusto dell'eristica. Al socratismo un paradosso si poteva attribuire:
l’unità delle virtù. Con questa formula probabilmente i
socratici intendevano sostenere che chi ha veramente la
virtù le ha tutte, e che le funzioni della vita cittadina ordinaria
e i pregi connessi, che possono essere separati, non sono vere
virtù. Poi i socratici ricavavano dall'interpretazione che davano
di Socrate il contenuto da attribuire alla virtù unitaria. Platone
riduceva tutte le virtù al sapere. La scienza dei beni
e dei mali era stata presente nei primi dialoghi, anche se come
un ideale irraggiungibile. E tale resta nel Protagora dove
però Platone raffigura un Socrate che con ogni mezzo e qualche
difficoltà tiene testa a Protagora il quale sostiene che le virtù,
distinte l'una dall'altra come le parti del viso, sono sì simili,
ma ognuna ha una funzione specifica; che l'utile e il bene sono
vari perché ciò che giova in un caso non giova in un altro; infine
che chi possiede il coraggio, con le doti fisiche e naturali necessarie,
può non possedere le altre virtù e viceversa. Platone cerca invece
di dimostrare che le singole virtù sono soltanto nomi diversi
di un'unica realtà e, se si tratta di vera virtù, chi ne possiede
una le possiede tutte#.
Ma
il più noto dei paradossi attribuiti a Socrate da Platone è che
nessuno fa il male volontariamente. Esso è formulato in
modi diversi. Nel Protagora Platone fa sostenere a Socrate
che non c'è contrasto tra bene e piacere: quando si fanno cose
piacevoli ma non buone, e ciò accade perché non si conoscono le
conseguenze spiacevoli di un piacere immediato, cioè per ignoranza#.
E nell’Ippia minore Socrate suggerisce che, se fosse possibile
compiere volontariamente il male, coloro che commettono volontariamente
un torto sarebbero migliori di quelli che lo facessero involontariamente#.
Ma forse Platone vuol suggerire che i comportamenti malvagi sono
dovuti alle credenze false, quelle trasmesse dalle comunità e
accolte o addirittura utilizzate dai sofisti, e che dalle credenze
bisogna in primo luogo liberarsi.
L'ANIMA
E L'AMORE
|
|
I
due sofisti dell'Eutidemo accumulano un sofisma dietro
l'altro#;
ma un sofisma come 'non si cerca quel che si sa, ma se non si
sa, non si sa neppure che cosa cercare'#,
che verte sul sapere e l'apprendimento, doveva avere un certo
credito, e non è escluso che anche alcuni dei socratici se ne
servissero. Con esso si poteva mostrare che ogni nuovo insegnamento
riprende quello che la cultura letteraria o perfino il linguaggio
quotidiano hanno sempre detto: un modo come un altro per presentare
il socratismo come un ritorno alla tradizione. Per evitare quel
sofisma Platone ricorre invece alla matematica. Nei primi dialoghi
il sapere di astronomi, geometri e calcolatori non appare superiore
a quello degli altri artigiani, anche se sui numeri e le grandezze
neppure i litigiosi dèi dell'Olimpo dissentono#.
Ma nel Menone Platone fa una specie di 'esperimento didattico'.
Uno schiavo, opportunamente interrogato, arriva da solo
a capire che per ottenere un quadrato doppio di un
altro non si può raddoppiarne il lato o comunque accrescerlo di
una quantità numerica facilmente determinabile, ma occorre costruire
il quadrato che abbia come lato la diagonale del quadrato dato#.
Con questo esperimento Platone vuoi mostrare che non dalle cose
si impara, perché esse semmai suggeriscono impressioni false (per
esempio che raddoppiare un quadrato sia come raddoppiarne il lato).
Occorre un esame che fa riaffiorare le nozioni dall'interno
dell'intelligenza, come ricordi. Perciò l'apprendimento
è rammemorazione (anamnesi).
La
questione matematica usata da Platone è simile, anche se molto
più semplice, al problema della duplicazione del cubo, la cui
soluzione è attribuita ad Archita#.
Nella nostra fonte tarda Archita fa uso delle proporzioni, una
teoria che ci è giunta negli Elementi di Euclide, anche
se il suo nucleo sistematico viene attribuito a Eudosso. Platone
aveva ricavato una metafora filosofica da quello che nel Gorgia
aveva chiamato il modo di «parlare come i geometri»: come la cosmetica
sta alla ginnastica, così la sofistica sta alla legislazione,
e come la cucina sta alla medicina così la retorica sta alla giustizia.
Ci sono infatti arti effettive che si propongono di giovare
al corpo o all'anima, come la ginnastica, la medicina e la politica,
e arti apparenti, che sono forme di adulazione,
si basano non sulla conoscenza, ma sulla capacità di indovinare,
e si propongono come fine il piacere#.
Molti storici ritengono che nel Gorgia Platone abbia adottato
il gergo matematico dopo aver incontrato Archita e il pitagorismo
nei suoi viaggi in Italia e in Sicilia. La dimestichezza di Platone
con Archita è testimoniata dalla VII Lettera#.
Ma è difficile farsi un'idea di quel che Archita potrebbe aver
insegnato a Platone, a meno di ammettere che esistesse una matematica
pitagorica, eventualmente accompagnata da un'interpretazione
filosofica. Del resto la presenza del pitagorismo in Platone
è molto evanescente. Pitagora e i pitagorici sono citati una volta
sola, e non in stretta relazione con la matematica. Neppure la
VII Lettera non dice nulla sulle teorie matematiche di
Archita, al quale attribuisce vagamente una filosofia, e Platone
sembra più vicino ai pitagorici quando parla dell'anima e delle
sue vicende posteriori alla morte, sebbene neppure in questo caso
li citi esplicitamente#.
Nel Menone Socrate parla della rammemorazione in relazione
a un discorso di sacerdoti e sacerdotesse che volevano dar ragione,
per quanto possibile, di quello di cui si occupavano; e anche
di poeti come Pindaro#.
Secondo costoro l'anima è immortale. Con la morte si separa da
un corpo, ma poi torna in un altro. Perciò l'anima nasce più volte
e ha già tutto visto, le cose di qui e dell'Ade, e non ha più
nulla da imparare. L'anamnesi è pertanto collegata primariamente
con i miti della colpa e dell'espiazione, che appartengono tanto
alla religiosità orfica e dionisiaca quanto a quella pitagorica.
Sono questi miti che permettono di dar senso alla concezione socratica
della giustizia, e da essi Platone, usando metafore matematiche,
ricava la dottrina dell'anima.
Con
l'anamnesi Platone intende non costruire una teoria della conoscenza,
ma suggerire che la vita corporea è un breve interludio della
vita totale dell'anima, della quale parlano i miti iniziatici
della colpa e dell'espiazione. Nel Fedro immagina che le
anime, come cocchi tirati da una coppia di cavalli alati guidati
da un auriga, seguano il corteo degli dèi che si nutrono di ciò
che è bello, sapiente, buono e così via. Quelle che non riescono
a tener dietro agli dèi e perdono le ali s'incarnano, la prima
volta, non in un animale, ma in un uomo. Se l'anima ha visto molto
darà vita a un filosofo o a un amante del bello o della musica,
poi via via a un re rispettoso delle leggi o buon condottiero,
a un politico o un amministratore o un uomo di affari, a un atleta
amante delle fatiche o un medico, a un indovino o un iniziato,
a un poeta o un cultore di arti imitative, a un operaio o un contadino,
a un sofista o un demagogo e infine a un tiranno#.
Già nel Gorgia Platone aveva descritto il giudizio al quale
le anime si sottopongono alla fine di ogni vita: quelle che hanno
demeritato sono inviate ai castighi, le altre in qualche luogo
celeste di attesa. Allo scadere di mille anni le une e le altre
scelgono la vita che vogliono trascorrere#.
Spesso le anime scelgono con precipitazione, facendosi abbagliare
dagli aspetti più appariscenti e dalle preferenze e abitudini
contratte nella vita precedente. Solo la coltivazione della filosofia
permette di fare la scelta migliore. Scegliendo per tre volte
di séguito la vita filosofica l'anima potrà tornare alla vita
celeste dopo tremila anni. Altrimenti occorreranno diecimila anni
per riacquistare le ali e tornare nel corteo di un dio#.
Se
si guarda alla vita dell'anima nella sua totalità le gerarchie
correnti si rovesciano: il tiranno va all'ultimo posto, appena
preceduto da chi fa lavori manuali, da sofisti e da demagoghi,
mentre ai primi posti s'incontrano gli amanti del bello e i politici
saggi, capaci e rispettosi delle leggi. In cima a questa gerarchia
autentica si trova però la filosofia, che sta lassù perché è capace
di salvare gli uomini dalle pene cosmiche e dalle reincarnazioni.
Essa non è perciò in primo luogo sapere, non dà competenze e successo:
la sua stessa connessione originaria con la matematica è dovuta
al fatto che proprio la matematica aiuta a riconoscere che l'anima
preesiste al corpo. Del resto nella gerarchia autentica delle
funzioni psicologiche e sociali subito dopo il filosofo si trova
l'amante del bello o della musica, e la ricerca della bellezza
evoca l'amore.
Eschine
aveva fatto dell'amore il tratto dominante della personalità di
Socrate, e forse la letteratura antisocratica si impadronì di
questo motivo, per gettare sospetti sull'amore omosessuale dei
socratici; i quali a loro volta accettarono di costruire la loro
apologia proprio su questo tema. Del resto di amore si doveva
parlare nelle conversazioni colte e mondane, magari nelle maniere
diventate di moda con i sofisti. Spesso si trattava di amore omosessuale,
perché esso solo, sfuggendo al quadro istituzionale della famiglia,
sembrava capace di generare legami vari, dalla passione all'amicizia,
e di suggerire problemi significativi: se l'amore dovesse essere
reciproco oppure no, quale parte dovesse avervi il trasporto dei
sensi e così via. Questioni del genere erano presenti nel Liside,
e nel Fedro Platone attribuisce a Lisia, un oratore di
successo, un discorso nel quale sostiene che è meglio amare senza
essere amati, perché l'innamorato è egoista e incostante#.
Socrate consente, e aggiunge un tocco edificante osservando che
l'innamorato compiace al proprio desiderio e mira solo al piacere#.
Ma
per Platone questo non era il vero pensiero di Socrate. Nel Simposio
egli compariva tra i personaggi che dopo un convito pronunciano
un elogio dell'amore. Fedro esalta l'amore che produce pudore,
Pausania distingue tra l'amore celeste e quello volgare, Eurissimaco
fa dell'amore una forza cosmica che non coinvolge solo gli esseri
animati, Aristofane vi vede la ricerca di un'unione fisica tra
due esseri che originariamente costituivano un'unità, Agatone
gli attribuisce l'origine di ogni bene. Per Socrate non si tratta
di trovare delle qualità 'belle' dell'amore, che è sempre amore
di qualche cosa, che si desidera e non si ha: perciò se
quella che si ama è la bellezza, il dio Amore non è bello#.
Diotima#
gli aveva insegnato a interpretare questa osservazione sconcertante.
Amore, concepito il giorno della nascita di Afrodite, figlio di
Espediente, figlio a sua volta di Metis (intelligenza astuta),
e di Povertà, non ha nulla: in uno stato intermedio tra il bello
e il brutto e tra il buono e il cattivo, non possiede beni, ma
desidera averli. Intermedio anche tra il mortale e l'immortale,
deve procurarsi l'immortalità per via indiretta attraverso la
generazione. L'amore perciò non è propriamente amore del bello,
ma della generazione nel bello e del conseguimento dell'immortalità.
La dimenticanza è per il sapere quel che è la morte per gli esseri
naturali, e la gloria, la poesia, la costituzione delle città
e delle case sono tutti modi per sfuggire alla morte per dimenticanza.
L'amore perciò è una vittoria sulla morte che si consegue non
soltanto nella procreazione sessuale, perché in una comunità tra
anime, molto più intima di quella prodotta dai figli, «la procreazione
nel bello» può avvenire «secondo l'anima»#.
Nel
Fedro Platone immagina che Socrate si penta di aver consentito
alla diffidenza di Lista nei confronti del desiderio amoroso.
E’ vero che l'amore può essere pazzia, ma la pazzia non sempre
è un male, perché anzi i beni più grandi ci derivano dalla pazzia
divina. Questa si manifesta nella profezia, nei riti, nella poesia
e appunto nell'amore#.
L'amore è la più divina delle pazzie, e si spiega solo con l'anamnesi,
come reminiscenza delle cose viste in cielo. A differenza della
giustizia o della temperanza, la bellezza si può trovare tra le
cose ed è l'unica delle visioni celesti apprezzabile con i sensi#.
L'amore per la bellezza è perciò solo la prima tappa di un possibile
itinerario dell'anima. Si incomincia dall'amore di un corpo solo,
si passa all'amore per i ragionamenti, poi alla bellezza di tutti
i corpi belli, alla bellezza delle anime e infine a quella dei
ragionamenti e delle scienze#.
Platone costruisce così lo schema di un processo di ascesa, che
parte dalla sessualità, se ne libera e giunge a realtà che appartengono
solo all'anima, come la bellezza e le opere intellettuali.
Interpretando
l'amore come mancanza Platone riprendeva il tema dell'ignoranza
socratica che forse già Eschine aveva connesso all'amore. Ma facendone
una forma di pazzia religiosa egli trasformava il cammino verso
il sapere in una vera e propria iniziazione, affine alle
forme di religiosità che avevano ispirato i miti dell'anima ed
erano servite per interpretare la concezione socratica della giustizia.
Il sapere filosofico al quale il delirio amoroso mette capo poteva
così pretendere di essere superiore alle forme normali di competenza,
al sapere artigianale, che non coinvolge l'anima.
Il
processo di ascesa attraverso l'amore, delineato da Platone, stabiliva
anche la superiorità dell'amore omosessuale, affrancato dalla
riproduzione, rispetto a quello tra uomo e donna. Alla riproduzione
fisica dell'amore eterosessuale si sostituisce una generazione
puramente intellettuale, che fa dell'amore un'esperienza assolutamente
non corporea. Questa esaltazione dell'amore omosessuale sarebbe
diventata nella nostra tradizione il modello per gran parte delle
interpretazioni filosofiche e letterarie dell'amore tra uomo e
donna, che tentano di separare anche l'amore eterosessuale dalla
generazione e di trasporre anche in esso l'esclusione della sessualità
o la sua attenuazione.
IL
FILOSOFO E LO STATO
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La
filosofia era una faccenda pericolosa: poteva garantire la salvezza
individuale nella grande vicenda dei premi e delle pene, tenendo
lontano dalla vita pubblica e dagli affari pratici#;
ma poteva apparire una minaccia per la città, come il caso
di Socrate aveva mostrato. Nelle città reali, nelle quali domina
la massa e prevale l'apprezzamento per le ricchezze, chi ha le
rare; doti naturali richieste dalla filosofia diventa facilmente
stravagante o addirittura disonesto e comunque inutile, pronto
a servire i potenti o prigioniero di sogni politici irrealizzabili
e corruttori#.
Come mostra la biografìa platonica della VII Lettera, Platone
stesso aveva vissuto la dilacerazione tra isolamento e partecipazione
ad avventure politiche, sia direttamente, alla corte di Siracusa#,
sia nella propria famiglia, coinvolta nel regime dei Trenta. Nella
Repubblica sono appunto i fratelli di Platone, Glaucone
e Adunante, a sostenere che chi è ingiusto sta meglio dei giusti
e perciò nessuno si propone davvero di essere giusto#.
Nessuna delle massime della saggezza tradizionale e letteraria
potrebbe rispondere a quella sfida e Platone non esita a proporre
un paradosso di puro stile socratico: se non vuole vivere nell'isolamento
ne’ essere corrotto dal potere, il filosofo deve esercitarlo.
Solo così è possibile essere contemporaneamente giusti e felici.
Non nelle città reali certamente. Per questo nella Repubblica
egli rappresenta Socrate che una sera al Pireo, dopo una festa
di paese e una cena, espone a una cerchia di amici il progetto
di una città nella quale giustizia e felicità vadano insieme.
La Repubblica è la prima ampia opera non solo di Platone
ma della storia della filosofia, ed è anche la prima di quelle
che la tradizione chiamerà 'utopie'#,
alla quale tutte le opere successive di questo genere si sono
rifatte. Anche la connessione di giustizia e felicità resterà
una questione classica della scolastica morale, e quasi tutte
le utopie tenteranno di mostrare che le due cose sono possibili
insieme.
Giustizia
e felicità si separano quando nelle comunità originarie, fatte
solo da produttori di cose (cibo e vestiti o strumenti
tecnici), prima arrivano i commercianti che, fisicamente
deboli, non producono nulla e si limitano allo scambio, e i salariati,
che hanno solo la robustezza fisica, poi artisti, cuochi, attori,
imitatori, medici ecc., attirati dalla domanda di una vita
agiata o addirittura lussuosa. Sarà il lusso, una specie
di «infiammazione», a far nascere l’ingiustizia: cresceranno
la popolazione e il bisogno di territorio, e comparirà
la guerra. Ci vorranno i soldati, i «guardiani» (come li
chiama Platone), che devono saper applicare la forza solo sempre
contro i nemici e non contro gli amici. E solo la filosofia può
dirigere e controllare la forza e il coraggio dei quali devono
essere dotati#.
Essi perciò dovranno non solo essere addestrati alla ginnastica#,
ma ricevere anche un'educazione intellettuale che dissipi la paura
della morte, ispiri compostezza e rispetto per la verità#.
Servirà una poesia austera senza le favole sconvenienti che i
poeti, come le nutrici, hanno sempre raccontato sugli dèi#.
I soldati dovranno praticare soltanto la letteratura narrativa
di tipo epico, intercalata da dialoghi#,
e dalla musica andranno esclusi gli strumenti a fiato e tutte
le forme che inducono a bassezza#.
I guardiani vivranno austeramente in caserme, nelle quali consumeranno
in comune i pasti. Non avranno proprietà privata e non potranno
maneggiare oro e argento#.
I produttori potranno invece possedere le risorse necessarie per
il loro lavoro, anche se dovranno limitarsi a una ricchezza modesta,
per non essere indotti ad abbandonare il loro mestiere#.
La
contrapposizione tra ricchi e poveri era spesso considerata come
il problema centrale delle città greche, e la paura della formazione
di gruppi ristretti con proprietà estese e di una massa cittadina
priva di terra e incapace di sostentamento autonomo generava discorsi
politici, miti, leggi. Aristotele ascriveva a personaggi come
Falea di Calcedone e Ippodamo di Mileto progetti organici in proposito.
Anche Platone diceva che le città reali sono costituite da «più
città», cioè da gruppi rivali, ma soprattutto da due, i ricchi
e i poveri. E anche la sua 'utopia' era un tentativo di
garantire la distribuzione della terra vietandone in certi casi
la proprietà privata. Non era un'idea nuova, se il 'miraggio spartano’
di una città di soldati dediti solo alla comunità aveva qualche
séguito. Ma il progetto platonico si affidava all'educazione,
confidando in soldati che, addestrati dalla filosofia, avrebbero
rinunciato a usare la forza contro i concittadini per impossessarsi
di tutte le ricchezze.
Non
basta l'educazione per fare di un individuo un guardiano, un artigiano
o un contadino, e del resto la comunità non è il frutto di un
patto, nè la giustizia consiste in un compromesso: idee
non nuove ai tempi di Platone, alle quali alludono i primi due
libri della Repubblica e che avrebbero avuto molto séguito
nella nostra tradizione filosofica. Secondo Platone era stato
Crizia#,
uno dei suoi parenti dalla biografia politica tormentata, a indicare
nella massima «ciascuno faccia le cose proprie» la formula della
saggezza#.
Ognuno deve fare una cosa sola, perché esistono differenze
naturali tra gli uomini e una città giusta deve rispettarle,
addestrando solo i migliori all'esercizio corretto della forza,
dopo averli selezionati con prove di tutti i generi#.
Gli individui vanno liberamente spostati da una classe all'altra#
facendo credere che tutti i cittadini sono figli della terra,
e perciò fratelli, anche se la terra ha messo oro in quelli destinati
a comandare, argento nei loro assistenti, ferro e bronzo in quelli
adatti a fare i contadini e gli artigiani. Poiché può accadere
che da un uomo aureo nasca un figlio venato di argento, bisogna
osservare attentamente i giovani e assegnarli alle diverse funzioni
secondo la loro natura#.
Così soltanto i migliori diventeranno guardiani e addirittura
ameranno la città, perché riterranno il proprio utile identico
con quello della comunità#.
Anche
per Platone la Repubblica conteneva proposte 'irrealistiche'
che avrebbero potuto suscitare ironie#.
Non solo i filosofi avrebbero dovuto diventare re o i re filosofi#,
ma si sarebbe dovuta proclamare l'uguaglianza di uomini e donne
e la dissoluzione della famiglia. L'unità delle virtù era
un principio socratico che conduceva ad assegnare gli stessi compiti
agli uni e alle altre. Non era la 'parità' nel senso moderno del
termine, perché non di diritti si trattava, ma di doveri
e prestazioni: ma era una di quelle idee radicali,
come il rifiuto della vita civilizzata, che Isocrate imputava
ai socratici. Può darsi che idee del genere non fossero originariamente
socratiche: Aristofane nelle Ecclesiazuse metteva in ridicolo
il comunismo di donne e beni, e non sappiamo con certezza a che
cosa egli si riferisse. Ma forse i socratici utilizzarono quei
temi per interpretare la figura di Socrate e per dare un contenuto
alla loro opposizione radicale alla città. La Repubblica
potrebbe essere stato il primo tentativo di ricavare un''utopia'
da temi socratici. Poiché le donne, che pure hanno minore forza
fisica, ricevono la stessa educazione militare dei maschi#,
non possono essere nè mogli nè madri. Ciò conduce all’abolizione
della famiglia e alla comunanza dei figli. I magistrati
prima concedono ai migliori la possibilità di accoppiamenti più
numerosi, come si fa con gli animali, e poi allevano a cura
della città solo i migliori; gli altri sono eliminati o passati
nelle classi inferiori. Così anche il numero degli abitanti può
essere controllato. Inoltre essendo impossibile assegnare i figli
a coppie distinte, si potrà dire che tutti sono figli di tutti
e tutti sono fratelli. Una bugia utile, che va coperta con celebrazioni
poetiche e religiose, perché rende definitivamente impossibile
la formazione di solidarietà ristrette, di legami di parentela
e di proprietà esclusive; i guardiani useranno «concordemente
le espressioni 'il mio' e 'il non mio'»#.
Così coloro che detengono forza e autorità non verranno più reclutati
per via familiare e l'unità cittadina sarà garantita#.
La
Repubblica contiene un rifiuto radicale della democrazia,
e per questo è stata considerata come la prima formulazione di
un'ideologia totalitaria#.
E vero che è stata il modello dei molti progetti di società costruiti
da filosofi, nei quali tutti devono essere educati a pensare e
agire nello stesso modo, ma essa ha attinto ampiamente dalla critica
della democrazia, diffusa nella cultura del V e IV secolo. Ben
documentata nella Costituzione degli Ateniesi, falsamente
attribuita a Senofonte, quella critica fu probabilmente condivisa
da molti socratici, che vedevano nella democrazia una dissacrazione
della vita, uno sviluppo sfrenato della ricchezza privata e la
soddisfazione di desideri sempre più inutili. Platone infatti
non colloca il suo progetto di città alternativa alla democrazia
in un futuro prevedibile o in un tempo storico, come fanno gli
autori di ideologie ottocentesche e novecentesche fondate su filosofie
della storia. Più che il tempo della sua realizzazione ne enuncia
le condizioni di possibilità: che i filosofi abbiano il
potere per vietare la proprietà privata, per controllare la riproduzione
degli uomini, per sorvegliare la cultura che si trasmette, per
sostituire al disordine delle tradizioni religiose una religione
unitaria.
La
città ideale della Repubblica può essere un regno o
un'aristocrazia#,
ma non è una realtà del passato cui ritornare. Platone
non amava il 'primitivismo'#
né i 'ritorni all'antico', e interpretava le città reali come
decadimenti, più che come una decadenza, rispetto alla
situazione perfetta descritta nella Repubblica. La città
ideale è uno stato di equilibrio perfetto ma precario,
perché il calcolo del momento più opportuno per gli accoppiamenti
è complesso e di fatto, per l'errore dei magistrati o per l'intrinseca
imperfezione dei comportamenti umani, qualcosa si rompe#.
Allora nasce la timocrazia#,
nella quale governanti e guerrieri si astengono ancora dall'agricoltura,
dal lavoro manuale e dagli affari, mantengono un'organizzazione
militare e apprezzano gli onori#.
Ecco però apparire il gusto per la ricchezza e la vita privata#:
è il germe dell'oligarchia nella quale il censo è condizione
per l'esercizio del potere e i ricchi si contrappongono ai poveri.
Ma i ricchi si dedicano ad attività che procurano ricchezza, e
utilizzano i poveri per fare le guerre#.
Questi si ribellano e fondano la democrazia#,
nella quale dominano parassiti che inducono i ricchi a sciupare
le ricchezze e a opprimere ancora di più il popolo. Gli oppressi
cercano un protettore, che poi finirà anche lui con l'opprimerli,
trasformandosi in tiranno#.
Lo
schema di decadimento elaborato da Platone faceva delle città
democratiche e delle tirannidi del suo tempo il punto più lontano
dalle condizioni di equilibrio perfetto. Del resto oltre a proporre
una riforma filosofica, politica e religiosa, Platone dice esplicitamente
di voler anche costruire un metro di giudizio delle città reali#.
E nel tracciare il processo di decadimento delle forme cittadine,
elabora uno strumento analitico rimasto in uso nella storia
del pensiero politico: la classificazione delle costituzioni.
La parola politeia che, resa di solito con 'costituzione',
richiama soprattutto l'idea di una legge fondamentale, eventualmente
scritta, aveva originariamente un significato assai meno preciso,
che andava dall'appartenenza alla cittadinanza alle istituzioni
di una città, intese in senso non formale, in modo da comprendervi
cose vaghe come tradizioni e valori condivisi, ma anche organi
di governo. L'idea delle costituzioni rimase più o meno questa
nella discussione politica e nella cultura ateniese da Erodoto
a Isocrate e Demostene, conservando lo statuto incerto di insieme
di tradizioni e norme scritte. In contrasto con questa cultura
Platone cercò di inserire le costituzioni in un ordine naturale
superiore alle leggi scritte.
Platone
riteneva che la città, fosse una specie di 'grande individuo'#,
nel quale si potesse vedere che cosa fossero la giustizia e la
virtù per gli individui, perché l'anima degli
individui corrisponde alla struttura della città#.
Si poteva applicare anche agli individui la regola per cui ognuno
deve fare le cose per le quali è più adatto. L'elemento razionale
dell'anima, che possiede la sapienza, deve esercitare il
comando, l'elemento animoso, capace di coraggio,
deve obbedire ed essergli alleato, e insieme questi elementi devono
tener a freno i desideri, che sono la parte prevalente
dell'anima, imponendo la temperanza all'elemento concupiscente#.
Platone sapeva che, anche se si era proposto di dimostrare la
convergenza di giustizia e felicità, aveva progettato una città
magari giusta, ma non attraente. Si difendeva dicendo che bisognava
considerare non la felicità di un gruppo solo di cittadini e neppure
farla consistere nella soddisfazione di piaceri qualsiasi. L’ordine
insomma finiva con il prevalere nella concezione platonica della
giustizia e della felicità. E anche per gli individui la sua austera
giustizia è sempre vantaggiosa, perché realizza la condizione
naturale e sana dell'anima, mentre gli atti ingiusti sono
qualcosa di simile alla malattia per il corpo. Così la vita in
una città guidata dai filosofi permetterà non soltanto di esercitare
all'esterno le funzioni alle quali ciascuno è più adatto,
ma anche di realizzare all'interno «l'amicizia con se stessi»,
che consiste nell'armonia tra gli aspetti diversi dell'anima,
secondo il loro ordine naturale#.
Non
sappiamo quanto fosse presente nelle altre componenti del socratismo
la preoccupazione per l'armonia interna dell'anima e per la costruzione
di un rapporto amichevole con se stessi, un tema che avrebbe generato
nella nostra tradizione il culto dell'io e della personalità armoniosa.
Ma la corrispondenza tra anima individuale e città e il culto
dell'armonia interna dell'anima sono due temi connessi, e discendono
dall'interpretazione del socratismo come una vicenda dell'anima.
Passando liberamente dalla città all'individuo e viceversa, Platone
poteva applicare la tesi socratica dell’unità delle virtù
alla città nel suo complesso: questa potrà essere perfettamente
buona e avere contemporaneamente tutte le virtù, e cioè
sapienza, coraggio, temperanza e giustizia, senza che ciascun
cittadino o ciascun gruppo di cittadini le abbia tutte. Basta
che i custodi posseggano la sapienza perché tutta la città sia
sapiente. Così come è sufficiente che siano coraggiosi quelli
che fanno la guerra. La temperanza coinvolge tutta la città, ma
non allo stesso modo, perché in nome di essa la parte peggiore
accetta l'autorità della parte migliore. La giustizia risulta
dall'esercizio dei compiti ai quali ciascuno è adatto, cioè dalla
corretta distribuzione delle altre virtù#.
Servendosi
del principio per cui a ciascun tipo di città corrisponde un tipo
di uomo, con un proprio carattere#,
Platone descrisse le costituzioni in un linguaggio filosofico
nel quale le forme politiche potevano essere ricondotte a termini
naturali, componenti della struttura dell'anima, e la costituzione
migliore poteva essere presentata come trionfo della parte superiore
dell'anima, la ragione, sulla parte inferiore, i desideri.
Egli poteva così riprendere la propria diagnosi della democrazia
come effetto dello sviluppo di un'intelligenza parassitaria in
comunità dominate dalla ricchezza e della separazione tra intelligenza
e potere, e riportarla a una trasgressione della gerarchia naturale
dell'anima, una gerarchia che poteva costituire anche il fondamento
per disegnare la costituzione migliore.
LA
DOTTRINA DELLE IDEE
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Il
mito della caverna e l'ascesa alle idee
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Per
fare i soldati basta la disciplina indotta dalla ginnastica e
da una buona letteratura edificante, ma per esercitare il potere
politico bisogna andare oltre. S'incomincia a vent'anni con la
matematica, e i migliori, a trent'anni, potranno passare alla
dialettica, che va studiata per cinque anni, sotto sorveglianza,
perché non se ne abusi. Poi, dai trentacinque ai cinquant'anni,
dovranno dedicarsi ai comandi militari e alle cariche minori.
Infine dopo i cinquant'anni i migliori potranno cercare il bene
e alternare lo studio della filosofia all'esercizio del potere,
perché nelle città ben governate i filosofi non possono dedicarsi
ai loro studi solitari, ma devono tradurre in pratica il bene#.
Platone
illustra il curriculum dei filosofi-governanti con il mito
della caverna. Gli uomini sono come prigionieri incatenati
in una caverna: possono vedere sulla parete di fondo le ombre
di oggetti illuminati da un fuoco, che si muovono alle loro spalle.
Alcuni riescono a liberarsi e si rendono conto che vedevano ombre
di cose, che le ombre erano generate da una sorgente di luce molto
modesta, molto più modesta del sole che illumina gli oggetti reali
e li fa esistere. Un cammino simile a questo devono percorrere
coloro che vengono avviati al governo#.
Lo si può rappresentare con una linea divisa in due segmenti diseguali
(A C e CE), che raffigurano il mondo intelligibile
e quello visibile; la loro lunghezza sarà proporzionale alla chiarezza
che è propria delle realtà cui corrispondono. Ciascuno dei due
segmenti può essere diviso in altri due segmenti (AC in
AB e BC, CE in CD e DE) conservando la
proporzione (AB : BC = CD : DE = AC : CE).
Le
cose sensibili, rappresentate da CE, comprendono le immagini,
come le ombre e i riflessi negli specchi o sulla superficie dell'acqua
(la porzione DE), e i loro originali, come gli animali,
i vegetali e gli oggetti artificiali (la porzione CD).
Le immagini stanno agli originali come il sensibile sta all'intelligibile
e le partizioni del segmento intelligibile corrispondono a quelle
del segmento sensibile#.
Nel tratto BC l'anima si serve delle cose, che nel primo
tratto erano gli originali delle ombre, come di immagini. E questo
lo spazio, tra mondo intelligibile e visibile, in cui si muove
la matematica.
Tuttavia
i matematici suppongono soltanto di sapere ciò di cui trattano,
ma non ne danno ragione, perché lo «assumono per ipotesi», e da
queste partono per procedere verso le conclusioni e non verso
il principio. Quella che esercitano i matematici è dianoia,
pensiero indiretto, che passa da un termine all'altro. Essa è
intermedia tra la credenza e il nous, intelligenza
diretta che si esercita nell'ultimo tratto (AB) della linea
della conoscenza#:
qui l'anima usa le ipotesi non come principi, ma «realmente come
ipotesi, come punti di appoggio per prendere lo slancio allo scopo
di giungere fino a ciò che non è ipotetico, il principio di tutto
e, dopo averlo toccato, ridiscendere alle cose che ne derivano
fino ad arrivare alla fine, senza mai servirsi di nulla di sensibile,
ma con le idee stesse, attraverso di esse giungere alle idee e
terminare con esse»#.
All'ultimo
grado della conoscenza Platone dà per oggetto le idee,
e la teoria delle idee è quasi sempre stata considerata
il contenuto principale della sua filosofia. Qualcuno ha pensato
che Platone l'abbia ricevuta da Socrate, al quale in molti dialoghi
la fa esporre#;
ma altri (e sono i più) ritengono che proprio essa lo distingua
da quest'ultimo e dagli altri suoi scolari, perché sarebbe assente
dai dialoghi che appaiono più vicini alla pratica socratica originaria,
anche se Platone la mette, come gran parte di quello che ha scritto,
sulle labbra di Socrate. Ma la considerazione delle idee come
oggetti di una teoria ha prodotto non poche difficoltà.
Quello di 'teoria' è un concetto sofisticato, che sarebbe arduo
applicare alle idee. La prima vera e propria teoria dell'antichità
ci è nota dagli Elementi di Euclide, e probabilmente si
è incominciato a costruirla nell'età di Platone o poco prima,
ed è Aristotele il primo che, nelle opere logiche, abbia descritto
una teoria vera e propria.
Inoltre
la linea della conoscenza della Repubblica ha suggerito
che la teoria delle idee nasca dall'interesse platonico per la
matematica. Invece le idee compaiono all'interno dei miti escatologici
nei quali sono oggetti della visione celeste dell'anima. Del resto
Platone incomincia a usare metafore matematiche nel Gorgia,
insieme con il primo nucleo dei miti escatologici, e poi nel Menone
per introdurre l'anamnesi, che fa parte del discorso sull'anima.
Assenti dalla versione del Menone, le idee compaiono nel
Fedone dove l'anamnesi serve per dimostrare la preesistenza
dell'anima al corpo: rammemorare vuoi dire richiamare alla mente
una cosa che si conosceva già, a partire da un'altra cosa simile
o dissimile#.
Ma due cose, per quanto uguali, non lo sono mai in modo
perfetto, e pertanto non sono perfettamente simili all'eguale
in sé». Non si potrà perciò dire che quest'ultimo è ricavato dalle
cose uguali, che semmai da esso l'anima deve partire per riconoscere
l'uguaglianza tra le cose: deve cioè averlo conosciuto prima di
unirsi al corpo e richiamarlo attraverso la reminiscenza. E ciò
vale non solo per oggetti matematici o di tipo matematico, ma
anche per «il bello in sé e il buono in sé e il giusto e il santo»#.
Già
nei dialoghi socratici Platone usava termini come 'il santo',
'il giusto', 'il bello' per indicare una configurazione (idea,
eidos), che rimane identica a se stessa, una specie
di 'modello' o 'campione' (paràdeigma) con cui confrontare
un comportamento o una cosa, per stabilire se siano effettivamente
giusti, belli, santi ecc.#.
La versione tradizionale, almeno da Aristotele#
in poi, riteneva che si trattasse di una ricerca di definizioni,
alle quali la teoria delle idee assegnerebbe in séguito oggetti
speciali, separati dalle cose. In realtà Platone interpreta
l’esame socratico come ricerca non tanto di definizioni quanto
di campioni: per questo può argomentare che, come un campione
possiede nel grado massimo la proprietà di cui è campione#,
anche le cose uguali non sono così uguali come l’uguale
in sé, e solo quest'ultimo potrà dirsi uguale in modo adeguato,
cioè si predicherà a pieno titolo di se stesso. E la medesima
cosa potrebbe valere per il bello, il buono o il vero. Si tratta
dell’autopredicazione, una dottrina spesso attribuita a
Platone insieme con quella dei gradi nell'essere. Se l'uguale
in sé e più uguale delle cose uguali, esso è più
di quanto siano le cose, immagini difettose delle idee.
Perciò le idee esistono prima delle cose, ma sono anche
superiori a esse, hanno cioè il massimo di essere
o, meglio, esse sole realmente sono#.
Nel
Fedone si narrava come Socrate fosse giunto alla teoria
delle idee dopo essere stato deluso dalle spiegazioni naturalistiche
che facevano intervenire solo caldo, freddo, aria e fuoco, e dallo
stesso Anassagora, che pure proclamava l'intelligenza la vera
causa di tutto. Neppure Anassagora era stato capace di spiegare
perché la terra avesse forma sferica e occupasse il centro dell'universo
o quali fossero i rapporti tra distanze e velocità degli astri#,
perché come i «ricercatori della natura» non aveva capito che
le cose accadono per realizzare quello che è meglio per loro#.
Infatti una cosa è bella non perché abbia un certo colore o una
certa figura o altre proprietà di questo genere, ma perché partecipa
del bello in sé, che è in qualche modo presente nelle cose
belle, le quali hanno una comunanza con esso#.
Già nei dialoghi socratici le configurazioni e i campioni vengono
indicati talvolta come cause presenti nelle cose#,
ma nel Fedone le idee sono cause delle cose in quanto
le cose partecipano e aspirano a esse#.
Sono le idee, e non le entità materiali usate dai naturalisti,
che permettono di dar ragione di ciò che una cosa è, di
rivelarne la causa#.
Perciò le spiegazioni causali non sono collegamenti
tra cose, ma nessi che si stabiliscono con ragionamenti,
e possono essere saggiate provando a confutare le ipotesi che
le enunciano#.
Perché
ci sono le idee si può dire che i filosofi della Repubblica
arrivano a cogliere «di ciascuna cosa ciò che essa è» e a «rendersi
conto della ragione dell'essere di ciascuna cosa». Ma sembra che
vadano perfino oltre le idee se «senza fare nessun uso delle sensazioni,
con il ragionamento» si spingono «verso ciò che ciascuna cosa
è» e non desistono «prima di aver colto con il pensiero ciò che
è il bene stesso»#.
Le idee derivano da qualcosa che sta al di là delle idee
stesse#:
è l’idea del bene, in virtù della quale le cose sono utili
e vantaggiose. Il bene come causa finale ultima compariva già
nei dialoghi socratici, al di là dei fini limitati delle tecniche,
che conoscono non ciò che è bene o male#,
ma semmai quel che è mezzo a un fine che sta oltre il mezzo#.
I fini particolari sono solo beni parziali, «immagini» di un bene
primo, al quale bisogna fermarsi#.
Neppure le idee permettono di conoscere il bene se non da quello
che ne deriva#.
Infatti è «l'idea del bene, che è la causa di scienza e verità»,
proprio come la luce permette alle cose di essere viste e agli
occhi di vedere; e luce e vista sono simili al sole, che tuttavia
è più bello di loro, come l'idea di bene è superiore al sapere
dell'uomo e alla verità delle idee#.
Come il sole fa sì che le cose non solo siano viste, ma addirittura
esistano, assicurando il loro nutrimento e la loro crescita, così
alle cose che si conoscono il bene da l'essere e la sussistenza.
Tuttavia non si può dire che il bene sia, perché esso è al di
là dell'essere e superiore a esso per anzianità e potenza#.
Rappresentando
la conoscenza come un'ascesa Platone metteva anche le diverse
forme di sapere in un preciso ordine di valore. La filosofia è
il culmine di quel cammino e le scienze matematiche sono dei validi
aiuti. Ma esse vanno utilizzate per liberarsi dalle cose, senza
poi farsi catturare da esse. Qualcosa del genere avviene con la
letteratura e con l'arte. Platone ritiene che la musica e la poesia
siano strumenti importanti per l'educazione; ma devono essere
attentamente controllate. La poesia trasmette insegnamenti religiosi
inadeguati, nei quali agli dèi vengono attribuite azioni non degne
di loro. La filosofia deve dare istruzioni precise sul modo di
praticare la musica e la letteratura e i re filosofi useranno
tutto il potere disponibile per vietare ogni forma di arte che
si discosti da quei canoni. Prima di Platone molti letterati,
a cominciare almeno da Senofane, se non addirittura da Esiodo,
si erano proposti di purificare le credenze religiose tradizionali.
Ma Platone innestava quel tema sulla diffidenza verso la cultura
letteraria che i sofisti avevano posto al centro dei loro programmi
pedagogici e culturali, lo inseriva in una sistematica enciclopedia
del sapere e ne faceva un programma non solo educativo, ma anche
politico.
Inoltre
Platone inventava un'argomentazione assai complessa per giustificare
la svalutazione delle arti. Esse sono una forma di imitazione,
ma un'imitazione di secondo grado. Già le cose in generale
sono imitazioni delle idee, e per questo sono inferiori alle idee.
Ma l'arte imita le cose, cioè imita delle imitazioni. Platone
aveva un concetto assai complesso di 'imitazione'. Riteneva che
gli artigiani, i quali fabbricano oggetti materiali si rifacessero
a modelli ideali, forse a delle idee. La faccenda poteva essere
non del tutto chiara e tra i platonici se ne dovette discutere.
Questo comunque è un modo diverso di imitare da quello di chi
riproduce comportamenti e cose senza conoscerle effettivamente,
come fanno appunto poeti e pittori. In questa mancanza di conoscenza
c'è una dose ineliminabile di finzione e di deformazione#.
Questo non basta a impressionare Platone, il quale ritiene che
per costruire una città retta da filosofi si possano ampiamente
raccontare bugie ai cittadini. Ma appunto perché c'è inganno,
l'arte va controllata e subordinata a fini educativi buoni.
L'arte
ha a che fare anche con le emozioni#,
soprattutto la musica. Questa ha nell'enciclopedia platonica un
posto speciale, perché è una disciplina matematica. Ma Platone
distingue accuratamente tra l'aspetto sensibile e quello matematico
della musica, e al primo collega la capacità di eccitare le emozioni.
La musica greca del V e IV secolo era una cosa importante, legata
anche alle rappresentazioni teatrali e alla poesia. Nelle discussioni
sulla musica Platone intervenne, probabilmente con atteggiamenti
di rifiuto nei confronti delle forme più recenti, che riteneva
pericolose e scomposte, in particolare contro la musica flautistica#.
Anche per la musica perciò Platone riuscì a formulare un programma
di controllo che permettesse di trasformarla in uno strumento
per indurre e padroneggiare comportamenti.
Platone
si era servito delle idee, entità eterne comparse nei miti dell'aldilà,
per dimostrare che l'anima, affine a esse, è immortale. Inoltre
le idee si erano rivelate oggetti adatti a interpretare la procedura
che Platone attribuiva a Socrate, la dialettica, come la
tecnica per produrre, attraverso un particolare trattamento delle
ipotesi, una conoscenza capace di occupare il primo posto nell'enciclopedia
del sapere. Ma qualcuno formulò critiche alle idee#,
e Platone nel Parmenide riprese la faccenda, immaginando
che la cosa risalisse a Zenone di Elea e a un suo incontro con
Socrate. «Di quali cose ci sono idee?» domanda Zenone a Socrate.
Senza dubbio idee del giusto, del bello, del bene e di altre cose
del genere, risponde Socrate, al quale però riesce difficile stabilire
se esistano idee di uomo, fuoco, acqua ecc., mentre esclude che
ci siano idee per cose come capello, fango, sudiciume#.
Ma è la stessa relazione di partecipazione delle cose alle
idee che crea difficoltà. Infatti se ogni idea è in ciascuna delle
cose che vi partecipano, l'idea si separa da se stessa. Se invece
l'idea fosse come un velo che ricopre le cose, ognuna avrebbe
solo una parte dell'idea. Ma allora le cose uguali avrebbero solo
una parte dell'idea di uguale, e dunque sarebbero uguali in virtù
di ciò che è minore, cioè disuguale#.
Se poi le cose grandi costituiscono un gruppo di cose simili perché
partecipano dell'idea di grandezza, le cose grandi più
l'idea di grandezza formano un altro gruppo di cose simili,
al quale corrisponderà un 'altra idea di grandezza e così
via all'infinito#.
Per
evitare che si sommino alle cose, Socrate suppone che le idee
siano pensieri. Ma Zenone osserva che in questo caso le cose
parteciperebbero delle idee attraverso il pensiero e il loro essere
sarebbe costituito da pensieri. Ma, se non possono
esserci pensieri senza qualcuno che li pensi, le cose dovrebbero
pensare#.
Se però le idee fossero modelli o esemplari si potrebbe
evitare di sommarle alle cose senza trasformarle in pensieri.
Senonché cose e modello devono essere simili, cioè partecipare
della stessa idea, che a sua volta sarà simile ai termini che
vi partecipano: sarà così di nuovo possibile sommare cose e idee#.
Si
possono infine eliminare le difficoltà della partecipazione dicendo
che le idee sono di per sé, e il loro essere dipende eventualmente
dalle relazioni che hanno l'una con l'altra, ma non con le cose
che sono in relazione con noi:
perciò
il sistema di relazioni delle idee e quello delle cose possono
anche essere simili, ma non hanno alcun punto di contatto tra
loro. La vera scienza avrà per oggetto le idee e non le cose,
e la stessa divinità conoscerà le idee e non le cose#.
Dopo
le critiche di Zenone interviene Parmenide in persona ad ammonire
Socrate che si è precipitato a definire che cosa sia bello,
giusto, buono e l'unità di ciascuna idea, senza aver prima esaminato
termini come molti, uno e in generale tutto ciò che può essere
o subire qualcosa. Egli stesso darà un esempio di buon metodo,
mettendo alla prova la propria filosofia: supporrà con l'uno,
come si dovrebbe fare con ciascun termine, prima che sia poi che
non sia, per vedere quali conseguenze derivino sia in relazione
a quel termine sia in relazione agli altri#.
Se
si suppone che «uno è» (prima ipotesi) si ricava che l'uno
non è i molti e tutta una serie di conclusioni negative:
l'uno non ha parti, non è un intero, non ha principio né fine
né metà, non ha figura, non è in nessun luogo, non si muove né
sta in quiete, non è identico ne diverso, né rispetto a sé né
rispetto ad altro, e non è neppure simile o uguale né rispetto
a sé né rispetto ad altri, e non accetta determinazioni temporali.
Se non riceve determinazioni temporali, l'uno non può neppure
partecipare dell'essere, perché l'essere si esprime sempre con
una determinazione temporale, in quanto il predicato 'è' ha sempre
un tempo. Esso sarà allora un «una cosa che non è» e «di esso
non ci sarà nome, né discorso, né scienza, né sensazione, opinione»#.
Dalla
seconda ipotesi, «uno se è», si ricava che l'uno partecipa
dell'essere, perché nell'espressione 'l'uno è uno' ci sono due
termini distinti, 'uno' ed 'è'. Ciascuno di essi sarà poi a sua
volta qualcosa che è e che è uno, all'infinito. L'uno sarà così
connesso originariamente con la molteplicità e avrà tutte le proprietà
che non aveva nella prima ipotesi, e perciò potrà ricevere nome,
scienza, sensazione e opinione#.
Se
si adotta la seconda ipotesi si potrà supporre, con una terza
ipotesi#,
che le cose diverse dall'uno parteciperanno di tutte le determinazioni
che dall'uno sono state ricavate#,
perché l'uno non esclude la molteplicità e ognuna delle cose è
una. Se invece, come nella prima ipotesi, i termini diversi dall'uno
si separano nettamente dall'uno, si otterrà una quarta ipotesi:
quei termini non parteciperanno di nessuna delle determinazioni
che la seconda ipotesi ha assegnato all'uno#.
Nella
quinta ipotesi Parmenide suppone che «uno non è». Se si
intende questa espressione nel senso di 'è non uno', allora si
deve ammettere che qualcosa possa esistere senza essere uno, e
ciò che è potrà avere tutte le determinazioni in modo ordinato;
ma perfino l'uno che non coincide con l'essere potrà avere tutte
le determinazioni in modo ordinato#.
Se invece, con una sesta ipotesi, intendiamo il 'non è'
della formulazione 'uno se non è' in senso assoluto, allora l'uno
che non è non avrà alcuna determinazione#.
Dalla
quinta ipotesi deriva la settima: gli altri non possono
partecipare dell'uno, che non è, ma possono avere l'essere, anche
se si avrà una molteplicità infinita di proprietà e di relazioni#.
Se poi l'uno non è in senso assoluto, allora gli altri non potranno
avere alcuna determinazione (ottava ipotesi) e non saranno
nulla, neppure molti, in quanto nei molti c'è una molteplicità
di unità#.
Aristotele
ora parlava delle idee in modi assai vicini a quelli del Fedone
e della Repubblica#,
ora invece le presentava come entità complesse che, al pari dei
numeri, derivano dall'uno e dalla diade di grande-e-piccolo#.
Era possibile liberarsi della seconda versione aristotelica della
teoria delle idee riferendola non a Platone, ma ai suoi scolari,
o imputandola a un fraintendimento da parte di Aristotele. Ma
questi, pur non indicando con chiarezza quale rapporto ci fosse
tra le idee e i numeri#,
suggeriva una possibile distinzione tra due fasi della
teoria#.
Si poteva perciò dare un posto alla seconda versione aristotelica:
bastava farne l'ultima fase della filosofia platonica, cercando
le affinità tra il resoconto aristotelico e i dialoghi successivi
al Parmenide, specialmente il Filebo e il Timeo.
Si poteva addirittura invertire il rapporto e interpretare questi
dialoghi alla luce di quel resoconto, considerandoli un riflesso
di «dottrine non scritte», menzionate da Aristotele#.
Questi del resto osservava che le idee si mettono in contrasto
con i principi, contro le intenzioni degli stessi sostenitori
delle idee#.
Di quei principi avrebbe trattato Platone nell'insegnamento orale,
e Aristotele vi avrebbe attinto per comporre opere come De
ideis (Sulle idee) e De bono (Sul bene), oggi perdute,
ma ampiamente riferite dai suoi commentatori.
L'insegnamento
orale di Platone fu confinato alla fase finale della sua attività
anche perché aveva avuto ampio successo la polemica di Schleiermacher
contro ogni tentativo di attribuire a Platone una dottrina segreta
o esoterica, assai più sistematica della filosofia dei dialoghi:
questi erano gli unici testi platonici disponibili ed erano opere
essenzialmente esortative e non mascheramenti di un sapere occulto,
che non esisteva. Lo stesso Platone aveva messo in guardia nel
Fedro contro le esposizioni scritte delle dottrine filosofiche
e la VII Lettera dichiarava che non c'era alcun manuale
di filosofia platonica#.
Queste dichiarazioni non furono normalmente intese come sconfessioni
di ogni scritto filosofico da parte di Platone: i dialoghi
non erano in pericolo, perché Platone rifiutava soltanto gli scritti
non dialogici. Questo motivo fu ripreso da una vasta letteratura
storiografica che fece molta retorica sul dialogo platonico e
sul carattere problematico e non dogmatico della filosofia che
esso esprimerebbe. Di contro gli studi sulla presunta fase
tarda dell'attività di Platone ispirarono la fiducia di
poter ricostruire, specialmente attraverso i commentatori di Aristotele,
una teoria dei principi fortemente sistematica. A partire di qui,
nel 1959#
si ripropose la tesi che esistesse una filosofia esoterica di
Platone, non confinata all'ultimo periodo della sua attività e
il cui contenuto principale doveva essere appunto una teoria dei
principi. I dialoghi, pur ricchi di digressioni e di temi collaterali,
avrebbero avuto sì una funzione essenzialmente esortativa e letteraria,
ma non avrebbero contenuto il patrimonio dottrinale più importante,
che non poteva essere trasmesso con uno strumento scritto e che
sempre, non solo alla fine, costituì il loro sfondo. Questa
interpretazione stabilisce un nesso continuo tra il platonismo
originario e il neoplatonismo, quel nesso che le interpretazioni
classicistiche avevano troncato, e si presenta essa stessa come
una rilettura neoplatonica della filosofia di Platone#.
Le
ricerche sulla teoria dei principi hanno prodotto molte discussioni,
nelle quali è importante l'interpretazione della seconda parte
del Parmenide. Fin dal secolo scorso si è sostenuto che
essa contiene un esercizio, importante non per il contenuto,
ma solo per il modo in cui è condotto, che potrebbe perfino avere
un intento scherzoso e ironico nei confronti della tradizione
eleatica. Del resto quelli che hanno 'preso sul serio' la seconda
parte del Parmenide non sempre sono riusciti a inserirla
nella teoria delle idee e stabilire se, quando parla dell’‘uno’
e degli 'altri', Platone si riferisca alle idee dì 'uno'
e di 'altri', se l'uno rappresenti le idee e gli altri le cose
e così via. E’ stato facile perciò supporre che nella seconda
parte del Parmenide le idee non ci fossero più e che esse
fossero assenti anche dal Sofista e dal Filebo#.
I sostenitori della teoria dei principi preferiscono da parte
loro interpretare la seconda parte del Parmenide come facevano
i neoplatonici che, ordinando le sue ipotesi come stadi successivi
dello sviluppo dell'uno, avevano ottenuto una teoria considerata
come uno sviluppo della dottrina del bene-principio della Repubblica.
L'UNO E I MOLTI
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La molteplicità dell'essere e il movimento
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L'importanza
data dai neoplatonici alla teoria dell'uno si è spesso trasformata
in un'affermazione storiografica: nelle interpretazioni tradizionali
della filosofia platonica si dice di solito che essa, e in particolare
la teoria delle idee, deriva dall'eleatismo. In realtà Platone
fa intervenire gli eleati solo quando si occupa delle critiche
alla teoria delle idee. Può darsi che già dopo la Repubblica
qualcuno, formulando quelle critiche, sostenesse che Platone
avrebbe dovuto riconoscere l'uno come principio delle idee#.
Per rispondere a questa inferenza Platone fece intervenire Parmenide
e suggerì che la critica alle idee derivava dalla filosofia eleatica
dell'unità, incompatibile con l'esistenza di «un'idea per ciascuno
degli esseri che rimane sempre la stessa»#.
Nulla del resto fa pensare che Platone intenda abbandonare la
propria filosofia, nella quale le entità intellettuali sono irriducibilmente
molteplici, per elaborare una teoria dell'uno. Nella seconda parte
del Parmenide le ipotesi che, come la prima, contengono
una teoria rigorosa dell'uno giungono a conclusioni paradossali
e finiscono con il negare la stessa esistenza dell'uno, mentre
le ipotesi che ammettono la negazione dell'uno permettono di fare
asserzioni sensate. Inoltre si direbbe che Platone abbandoni del
tutto i princìpi. Lo stesso termine 'principio' scompare dopo
la Repubblica, per essere sostituito dalle ipotesi, e non
c'è più cenno al principio non ipotetico cui secondo la
Repubblica la dialettica dovrebbe metter capo.
Secondo
Platone era stata un'ossessione eleatica la ricerca sul numero
degli enti, per stabilire se essi fossero uno solo, due o
tre, una discussione di moda, come testimoniano Isocrate e Senofonte#.
Le cose erano cambiate quando lui stesso aveva incominciato a
discutere non più sul numero, ma sulla natura dell'essere
e a sostenere che il vero essere, quello delle idee, è immutabile,
mentre le cose sono soggette al divenire. I contrasti più interessanti
erano nati da quella dottrina. Quelli che Platone chiama «amici
delle forme» riconoscevano l'essere solo a «certe forme pensabili
e incorporee»#,
con le quali comunichiamo «con l'anima, per mezzo del ragionamento»#,
mentre tutto il resto è «mobile divenire»#,
e si raggiunge con il corpo e le sue sensazioni. A essi si opponevano
coloro per i quali esistono solo cose come rocce e querce, che
possono essere afferrate con le mani o toccate, insomma solo corpi#.
Platone
cerca un punto di incontro tra gli uni e gli altri nella riconsiderazione
del movimento, che anche la Repubblica e il Fedone
sembravano aver escluso dall'essere. Poteva essere difficile far
riconoscere qualcosa di non corporeo agli amici dei corpi: essi
avrebbero sostenuto che anche l'anima è corpo, e sarebbero stati
tutt'al più imbarazzati a negare l'esistenza di una cosa come
la giustizia o a dire che è corporea#.
Ma anche i più ostinati amici dei corpi avrebbero dovuto ammettere
che realmente è anche ciò che possiede semplicemente una
potenza di fare una cosa o di subirla#,
mentre non è detto che gli amici delle forme da parte loro avrebbero
anch'essi riconosciuto che l'essere è potenza. Tuttavia anche
questi avrebbero dovuto ammettere che l'anima conosce l'essere
e, se il conoscere è un fare, a esso dovrà corrispondere un subire
da parte dell'essere, e perciò anche nell'essere si dovrebbe riscontrare
movimento#.
Per
Platone le posizioni degli amici dei corpi e degli amici delle
forme si possono perciò ricondurre a modi diversi di intendere
la mescolanza di essere, quiete e movimento: i primi ammettono
solo la mescolanza di essere e movimento e vietano quella tra
essere e quiete; gli altri fanno il contrario#.
L'intelletto esige sì che ci sia costanza e quiete e «se noi ammettiamo
che tutte le cose [...] si muovano [...] verremo a escludere [...]
l'intelletto» stesso. Ma l'intelletto non potrà cogliere le cose
immobili se queste lo sono a tal punto da escludere anche il processo
in cui consiste la loro comprensione. Bisognerà allora ammettere
che «il moto, la vita, l'anima, l'intelligenza [...] ineriscono
a ciò che assolutamente è», ed è impossibile che ciò che assolutamente
è, «avendo intelletto, vita, anima, stia assolutamente immobile»#.
Non è facile intendere questa osservazione platonica: forse per
Platone le idee subiscono un movimento passivo, pur senza trasformarsi,
quando diventano oggetto di conoscenza.
Dopo
il Parmenide per Platone essere e movimento sono non soltanto
termini contrapposti ma hanno anche relazioni che occorre considerare.
Se si riesce a far riconoscere agli amici delle idee e a quelli
dei corpi che sia il moto sia la quiete sono, poiché essi
sono tra loro contrari nel grado massimo, l'essere dovrebbe essere
un terzo termine#,
non identico alla quiete o al moto, ma capace di mescolarsi con
entrambi. I tre termini potranno pertanto mescolarsi, non ognuno
con ogni altro, perché la quiete non sarà mai moto e viceversa,
ma alcuni sì ed altri no#.
Poiché ciascuno dei tre generi già considerati è diverso dagli
altri due e identico a sé, bisognerà aggiungere identità e differenza
a moto, quiete ed essere: si otterranno così cinque generi, «grandissimi»,
irriducibili gli uni agli altri#.
Alcuni di essi non si mescoleranno, altri si mescoleranno a pochi,
altri a molti e altri a tutti. Ciascuno di questi generi è,
perché partecipa dell'essere, è diverso da ciascun altro,
perché partecipa della differenza ed è identico a sé perché
partecipa dell'identità. Pur essendo, perché partecipano dell'essere,
i generi diversi dall'essere non sono l'essere, ma l'essere
stesso non è gli altri generi. Due generi diversi non sono
l'un l'altro: in questo senso anche l'essere non è, e il non-essere
è essenzialmente differenza. La differenza è quella che spezza
l'essere in una molteplicità#.
Il
legame tra essere e movimento potrebbe aver richiesto a Platone
un sacrificio, forse però non maggiore di quello che egli fa consumare
all'interlocutore del Sofista e del Politico, «lo
straniero eleate», che è costretto ad ammettere che anche il non-essere
è e a commettere quello che egli stesso chiama «un parricidio»#.
Le idee erano infatti entrate nella filosofia platonica insieme
con l'anima, originariamente collegata con la vita e la morte.
Nella prima prova del Fedone#
l'anima è immortale perché, al momento della morte del corpo,
essa incomincia una nuova vita e così assicura che a ogni morte
segua una nascita e il ciclo della vita non si interrompa. E dopo
che nella seconda prova#
le idee, oggetto dell'anamnesi, consentono di argomentare la preesistenza
dell'anima al corpo, nella terza prova#
l'anima risulta immune dalla morte perché è semplice e immutabile.
Approfondendo questo punto Platone fa dell'anima il veicolo indispensabile
della vita, dalla quale perciò è inseparabile#.
Un altro modo di esprimere quest'ultima tesi è l'interpretazione
dell'anima come entità capace di muoversi da sé e principio del
proprio movimento. Ciò che si muove ha un principio del proprio
movimento. Se questo principio risiede in qualche altra cosa,
il suo movimento può smettere, perché dipende da quel principio
e non da ciò che si muove. Invece ciò che si muove da sé non smette
mai di muoversi, perché altrimenti non sarebbe più quello che
è. Perché non ha principio e neppure fine l'anima è immortale
ed è principio delle altre cose#.
La dialettica e la struttura delle idee
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La
connessione di anima, vita e movimento è centrale nella filosofia
platonica, e la teoria delle idee è in un certo senso subordinata
a essa. Ma l'anima produce anche conoscenze che, come dice il
Sofista, introducono movimento passivo tra le idee.
Detto in altro modo: le conoscenze devono riferirsi alle idee.
A prima vista le conoscenze sono opinioni. Nella Repubblica
Platone aveva fatto dell'opinione la forma di conoscenza appropriata
alle sole cose, che sono intermedie tra l'essere e il non-essere#.
Dunque non pareva che l'opinione potesse mettere l'anima in contatto
con le idee. Del resto non è possibile distinguere le opinioni
corrette da quelle errate limitandosi a confrontare soltanto opinioni
tra loro#.
E vero che le opinioni si esprimono in proposizioni con le quali,
collegando verbi e nomi#,
l'anima può parlare con se stessa#;
ma neppure nel caso delle proposizioni si possono distinguere
quelle vere da quelle false, se le si prendono come semplici espressioni
di opinioni. Per fare efficacemente quella distinzione occorre
che al nesso proposizionale corrisponda qualcosa e che ai termini
della proposizione corrispondano termini reali.
Era
possibile negare che esistesse un corrispettivo reale della proposizione
interpretandola come un modo per «dire la medesima cosa con molti
nomi»#.
La copula 'è' non indicherebbe un termine distinto o non metterebbe
in relazione termini distinti, ma sarebbe soltanto il segno dell'identità
tra i riferimenti delle parole: 'Socrate è bianco' non enuncerebbe
la relazione tra Socrate e il bianco ma direbbe che 'Socrate'
e 'bianco' si riferiscono, almeno parzialmente, alla medesima
cosa. Le proposizioni sarebbero soltanto lo sviluppo dei nomi
che i parlanti danno alle cose ed esprimerebbero semplicemente
il pensiero di chi le condivide#.
Ma per Platone le proposizioni dicono qualcosa e sono diverse
dalle parole, che denominano. Le proposizioni 'Teeteto
siede' e 'Teeteto vola' si riferiscono entrambe a Teeteto,
ma una dice una cosa vera e l'altra falsa, perché è falso
un discorso che di una cosa dice qualcosa di diverso da quello
che è, cioè dice le cose che non sono, come se fossero#.
Per illustrare i cinque generi del Sofista Platone aveva
usato un'analogia con le lettere e i suoni: nè le une nè gli altri
si possono mescolare a caso, e sono appunto grammatica e musica
che dicono come si possono mescolare#.
Anche le proposizioni ammettono solo alcuni collegamenti tra parole:
per questo riproducono, imitandoli, i legami tra i termini.
Sono imitazioni anche le proposizioni false, che però hanno soltanto
la medesima struttura dei termini reali, mentre i loro
contenuti corrispondono a connessioni che non sono,
cioè sono diverse da quelle che esistono tra i termini
reali. Del resto non tutte le imitazioni sono uguali, perché si
può imitare rispettando le proporzioni reali, oppure rendendo
soltanto l'immagine o l'apparenza della cosa, come si fa con un
disegno, che rappresenta sul piano una cosa solida#.
Sarà
il dialettico a conoscere quali generi si mescolino tra
loro e quali no ma, poiché i nessi ammissibili tra le parole sono
più numerosi dei nessi ammissibili tra i termini reali, per evitare
le proposizioni false, il dialettico dovrà servirsi di uno strumento
apposito. Si tratta della divisione, un procedimento introdotto
nel Fedro come metodo per trovare definizioni. Esso
ha due momenti:
prima
bisogna «abbracciare in uno sguardo d'insieme e ricondurre a un'unica
forma ciò che è molteplice e disseminato»; poi si deve «smembrare
l'oggetto in specie, seguendo le nervature naturali»#.
La divisione evita che si stabiliscano somiglianze e dissomiglianze
affrettate e arbitrarie, riconducendo subito all'identità le cose
più diverse o trascurando un elemento importante, che pure si
scorge in alcune cose, ma non in tutte#.
La divisione raccoglie prima le somiglianze che determinano un
genere e poi stabilisce le differenze tra i generi#.
Questi possono poi essere ricondotti a un genere continuo che
li attraversa tutti, stabilendo relazioni tra loro, mentre altri
generi stabiliscono le differenze all'interno del primo#.
Il dialettico sa tanto riportare molte idee a un'unica idea, quanto
risolvere un'idea in molte idee, e considerare un'idea tanto un'entità
diffusa tra molte altre, quanto come un termine distinto#.
In
realtà non tutti gli interpreti sono disposti ad ammettere che
dopo il Parmenide Platone si occupi ancora di idee; gli
storici che si ispirano alla filosofia analitica contemporanea
ritengono che Platone esplori piuttosto le relazioni che intercorrono
tra termini come 'essere', 'moto', 'identico', 'uno', 'molti'
ecc., senza farne delle idee#.
Effettivamente nel Teeteto Platone non si riferisce alle
idee, ma si direbbe che lo faccia apposta, per mostrare che non
si può dire che cosa sia una conoscenza sicura, una scienza,
senza introdurre le idee. Neppure nella seconda parte del Parmenide
la teoria delle idee compare in modo esplicito, perché Platone
discute la filosofia di Parmenide. Ma nel Sofista e nel
Politico Platone usa i termini 'forma', 'idea', che di
solito si riferiscono alle idee, e 'genere' come equivalenti#.
In questi dialoghi perciò, oltre che come modelli o campioni,
le idee compaiono anche come termini delle divisioni, cioè come
delle specie di 'contenitori', quello che noi chiameremmo 'classi'.
Quando parla delle 'parti' di un genere, non sempre Platone distingue
accuratamente tra sottoclassi di una classe e mèmbri di una classe,
nè discute quali proprietà di un'idea come termine si possano
trasferire alle sue 'parti'. Se nel Sofista, dove dice
che il movimento non può essere in quiete, Platone si riferisse
all’idea di 'movimento', si avrebbe un'idea che si muove,
una cosa impossibile per la teoria delle idee. Ma Platone potrebbe
intendere un'altra cosa: ciò che si muove, perché gli si applica
l'idea di moto, non può in quanto tale ricevere l'idea
di quiete#.
Questo modo di presentare le cose poteva suscitare perplessità
e su problemi come questi dovevano discutere i platonici.
Fin
dal Sofista la diversità, intesa come termine, fa
parte di una molteplicità finita, quella dei 'generi sommi', ma
intesa come il genere di 'tutto ciò che non è' comprende
una molteplicità infinita#.
La molteplicità tuttavia ha gradi diversi di organizzazione: può
presentare partizioni che corrispondono alle arti e alle scienze
e può apparire come una semplice raccolta di individui#.
E’ la divisione che permette di inserire questi ultimi in un sistema
ordinato e numerabile, perché è possibile riportare ogni cosa
sotto una o più idee e ogni idea sotto altre idee#.
Si ha così accesso a un sistema fatto di unità molteplici, ma
di numero determinato, non riducibili ne all'uno ne alla molteplicità
indefinita#,
unità, come 'uomo', 'bue', 'il bello', 'il bene', che non sono
«una delle cose che nascono e muoiono» e costituiscono i termini
delle divisioni#.
In questo modo per esempio le idee di 'uomo' e di 'bue' permettono
di trascurare le somiglianze insignificanti tra un individuo umano
e uno bovino, mentre trasmettono a quegli individui le differenze
significative#.
Riprendendo la metafora dell'alfabeto e della musica, usata più
volte per illustrare la dialettica, Platone considera il sistema
delle idee una molteplicità discontinua e determinata,
costituita da termini che hanno tra loro relazioni esprimibili
in un numero#,
come in musica i suoni separati da intervalli misurabili e nel
linguaggio le lettere dell'alfabeto generate da precise combinazioni
di suoni sonori, semisonori e muti#.
Si tratta di una molteplicità con un limite, perché i suoi
termini si possono contare e misurare.
Ma
c'è un'altra molteplicità, continua e indeterminata, simile
al flusso sonoro che sta alla base delle lettere e nei suoni.
In essa c'è un numero indefinito di punti ciascuno dei quali distingue
un 'più' da un 'meno' (un 'più caldo' da un 'più freddo', un 'più
acuto' da un 'più grave' e così via): non c'è un limite e il punto
di discriminazione può scorrere a piacere sulla retta dell'acuto-grave,
del caldo-freddo ecc.#.
Si tratterà pertanto di una molteplicità illimitata. Quando
la misura si mescola all'illimitato e rende compatibili e commensurabili
termini contrapposti, si hanno processi di generazione. Questo
vale per «tutte le cose che sono nel tutto»: salute, stagioni,
forza, bellezza ecc.#,
tutte prodotte dalla mescolanza del limite e dell'illimitato,
che fa nascere le cose all'essere#.
La diade di grande-e-piccolo di cui, secondo Aristotele, si parlava
a proposito delle idee, corrisponde perfettamente alla molteplicità
indeterminata del Filebo, rispetto alla quale il sistema
delle idee si comporta come il termine che da ordine e misura
mettendo capo alla generazione delle cose.
LA
NATURA
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L'enciclopedia della natura
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I
dialoghi successivi al Parmenide dedicano alle idee più
spazio dei dialoghi precedenti: si direbbe quasi che Platone sia
costretto a occuparsi di teoria delle idee, dopo le critiche
che gli sono state rivolte, e a renderne espliciti regole e presupposti.
Lo fa sia componendo dialoghi di tipo nuovo, nei quali Socrate
non è più il protagonista, come il Sofista, il Politico,
il Timeo, sia riprendendo dialoghi socratici, come il Teeteto
e il Filebo, quasi a voler 'tornare alle origini' e presentare
le critiche come deviazioni dal socratismo originario. Dopo il
Parmenide progetta anche alcuni grandi cicli di opere,
che non completa. Di una trilogia composta dal Sofista,
il Politico e il Filosofo, compone solo i primi
due dialoghi. Immagina di far proseguire la Repubblica
con un'opera naturalistica come il Timeo#
e con un'opera sull'educazione politica degli ateniesi; ma
forse neppure questa è stata scritta#.
Tuttavia, anche tra le ultime opere di Platone, quelle più estese
sono in gran parte dedicate a temi diversi dalla teoria delle
idee, nonostante che sia aumentata 1'attenzione per questo tema.
Il Timeo è una specie di grande enciclopedia naturalistica
nella quale Platone si cimenta con l'astronomia, ma tratta anche
di animali e piante, di malattie e dei fenomeni naturali più diversi.
Rimasto fino al Rinascimento uno dei dialoghi platonici più conosciuti,
il Timeo ha trasmesso alla cultura posteriore molte nozioni
e pregiudizi sulla natura, in parte correnti al tempo di Platone,
in parte dovuti a lui,
L'impostazione
di fondo di questa enciclopedia richiama però il Filebo. Questo
dialogo menziona, oltre il limite, l'illimitato e la mescolanza
di entrambi, un quarto genere, che è la causa della mescolanza#.
Nel Timeo la causa è un 'artigiano' divino, chiamato da
Platone «demiurgo» o anche «padre», che ha plasmato l'universo
sensibile e mobile guardando a un modello immutabile, del quale
perciò il mondo è un''immagine#.
Il demiurgo agisce appunto come fa un artigiano, che mette ordine
in un materiale preesistente:
perciò
non produce il mondo, ma si limita a dargli ordine. Il
corpo dell'universo è fatto di fuoco, terra, acqua e aria#;
ma questi elementi sono preceduti da una massa magmatica scossa
da un movimento disordinato simile a quello di un setaccio, che
separa le parti simili e dissimili, pesanti e leggere preparando
l'avvento dei quattro elementi. Questi nascono quando la divinità,
imponendo un ordine geometrico fatto di numero e misura, assegna
il tetraedro al fuoco, l'ottaedro all'aria, l'icosaedro
all'acqua e il cubo alla terra#.
La struttura geometrica degli elementi non annulla però il movimento
originario e disordinato dell'universo. Gli elementi sono costituiti
da triangoli rettangoli: isosceli, nei quali si risolve
la forma cubica della terra, e scaleni, nei quali si risolvono
tutti gli altri elementi#.
La forma triangolare è perciò la struttura fondamentale che il
demiurgo impone all'universo, ma i triangoli elementari possono
avere le dimensioni più diverse. Queste diseguaglianze producono
diversità di tutti i tipi e trasformazioni disordinate che coinvolgono
le singole cose e le loro parti#.
Per
mettere ordine in questo movimento il demiurgo conferisce all'universo
intelligenza e anima#.
Questa può agire sui corpi e dar loro un ordine perché è un'entità
intermedia tra l'essere costante, quello del modello, e l'essere
mutevole, quello dei corpi#.
Inoltre l'anima è costituita «della natura dell'identico e del
diverso e dell'essere»#.
Nei costituenti corporei elementari la diversità è indiscriminata
per l'estrema disparità di dimensioni dei triangoli che li compongono,
e dà luogo a un movimento molto disordinato. Nell'anima invece
la diversità è sottomessa all'identità secondo un sistema di rapporti
matematici#.
Le Leggi classificano dieci tipi di movimento, il
più importante dei quali è quello che dà origine a se stesso,
proprio dell'anima#:
è il movimento rotatorio, il più vicino all'identità e
alla quiete. Imprimendolo agli astri e ai cieli, l'anima del mondo
governa tutti i moti dell'universo, cioè distribuisce il movimento
nel modo migliore#.
Sul
movimento rotatorio Platone aveva anche costruito la propria immagine
dell'universo astronomico. Non si trattava di una cosa recente.
Già per il Gorgia, l'astronomia tratta «il movimento degli
astri, del sole e della luna e le loro velocità relative»#:
problemi di calendario. La sfasatura del calendario lunare, che
distribuiva i giorni in mesi, rispetto al calendario solare, che
determinava le stagioni in base alla durata dei giorni e delle
notti#,
aveva reso già i babilonesi consapevoli del fatto che sole e luna
si muovono in modi diversi. La tradizione greca faceva derivare
dall'Egitto molte conoscenze e strumenti astronomici, come lo
gnomone. In realtà l'antico calendario egizio#
aveva perso, per la precessione degli equinozi, il riferimento
originario alle piene del Nilo e aveva conservato un significato
soltanto rituale. E probabile che l'Egitto avesse adottato un
calendario babilonese e che i greci, anche per la sempre maggiore
difficoltà di comunicare con l'interno dell'impero persiano, avessero
trovato in Egitto le osservazioni accumulate dai babilonesi. Questi,
misurando la lunghezza delle ombre proiettate su un piano da una
semplice asta verticale (la probabile forma semplice e originaria
dello gnomone), si erano fatta un'idea del movimento annuale del
sole, avevano determinato solstizi ed equinozi e, con osservazioni
che potevano risalire al 1800-1500 a.C.#,
avevano collegato la comparsa all'orizzonte e la loro scomparsa
da esso delle costellazioni con le fasi lunari e con le variazioni
annuali delle ombre. Forse avevano fatto qualche semplice conto
supponendo che le ombre si allungassero e si accorciassero in
progressione aritmetica, cioè per addizione o sottrazione di un
intervallo costante. Ma i greci avevano risolto il problema del
calendario con uno strumento numerico più complesso. Verso il
430 a.C. gli ateniesi Metone ed Euctemone avevano stabilito un
rapporto preciso tra cicli mensili lunari e ciclo annuale solare,
trovando un numero che potesse essere multiplo di un numero definito
di giorni e di un numero definito di mesi lunari#.
E
quello che presuppone Platone nella Repubblica quando dice
che i rapporti tra giorno e notte, tra giorno e mese, tra mese
e anno si determinano non con osservazioni, ma ponendo problemi:
tecnicamente è un problema cercare un numero che abbia rapporti
determinati con altri numeri. Del resto così procedono la geometria,
che non tiene conto delle misure reali delle figure, e la musica,
che non si fida delle orecchie#.
Secondo Platone sono i pitagorici che stabiliscono un'affinità
tra astronomia e musica#.
Questo è l'unico accenno, per altro generico, a quella scuola
filosofica. Invece era Archita che, per risolvere problemi come
quello della duplicazione del cubo, ricavava dalla rotazione di
figure numeri con rapporti significativi e in musica studiava
rapporti numerici non realizzabili su strumenti musicali. Nella
biografia platonica della VII Lettera Archita occupa un
posto importante, e Diogene Laerzio#
ne faceva un maestro di Eudosso, il primo sicuro assertore di
un'astronomia rigorosamente sferica.
Soltanto
nel Fedone Platone dice di aver imparato da poco#
a considerare la terra un corpo solido rotondo, e non un disco
piatto, posto al centro dell'universo#.
E difficile attribuire un'astronomia sferica ai babilonesi, nonostante
i tentativi di far risalire a essi le 'ruote' di Anassimandro,
dalle quali sarebbe derivata l'immagine sferica dell'universo
dovuta a Parmenide. In realtà molti particolari dell’‘astronomia'
di Anassimandro sono riferiti da fonti post-aristoteliche, non
sappiamo quanto attendibili, e non sappiamo che cosa Parmenide
esattamente intendesse quando parlava di sfericità. Del resto
Platone non menziona mai Anassimandro né cita Parmenide a questo
proposito. Per questo si considerano i pitagorici come veri inventori
di un'astronomia sferica trasmessa a Platone, eventualmente attraverso
Filolao, che assegnava forma sferica e orbite circolari ai corpi
celesti. Ma come per la teoria delle idee anche per l'astronomia
la leggenda pitagorica è molto sospetta. Il 'sistema astronomico'
di Filolao è probabilmente esso stesso un'invenzione storiografica,
e comunque Filolao supponeva che la terra ruotasse intorno a un
fuoco centrale.
Presentando
la propria immagine della terra Platone respingeva le posizioni
di naturalisti come Empedocle, Anassagora e Democrito che consideravano
i corpi celesti masse corporee scagliate in giro per il cielo
da un mulinello centrale, come pezzi di creta che si staccano
dal tornio del vasaio, rendendo l'universo un prodotto casuale
e accessorio. Invece per Platone la terra occupa il centro dell'universo
non perché intervenga qualcosa a tenerla su, ma semplicemente
per la situazione di equilibrio in cui si trova e perché ha intorno
un universo omogeneo#.
L'idea che i movimenti astronomici fossero fondamentalmente rotatori
non era perciò estranea neppure ai 'naturalisti' che Platone intendeva
confutare, ma Platone dava un'interpretazione geometrica
della rotazione. Dovettero essere i metodi di Archita a suggerire
il passaggio dalla costruzione del calendario a un'immagine sferica
dell'universo. Da tempo, almeno dall'età di Talete, si sapeva
utilizzare la lunghezza delle ombre per calcolare l'altezza delle
cose e forse traguardare oggetti noti per determinarne la distanza:
probabilmente la cosa avveniva per mezzo di tavole associate a
regoli mobili generati dal perfezionamento dello gnomone. La stessa
matematica di Archita poteva derivare da queste pratiche che collegavano
la rotazione di un segmento con numeri che rappresentavano intervalli
e distanze. E un procedimento del genere poteva condurre a suggerire
che la terra avesse forma sferica. Infatti l'aspetto che più distingueva
l'immagine platonica dell'universo era la figura sferica della
terra. Gli interpreti moderni hanno ritenuto che Platone collocasse
la terra in equilibrio al centro dell'universo applicando audaci
concezioni matematiche, qualcosa come l'isotropia dello spazio.
Non bisogna esagerare. Può darsi che il cerchio e la sfera avessero
un posto nella simbologia religiosa dei pitagorici, e inoltre
i testi platonici sono molto scarni e contengono allusioni più
che spiegazioni matematiche. Ne Platone elabora un'immagine rigorosa
della sfericità terrestre. La terra è per lui una specie di palla
fatta di dodici superfici nelle quali ci sono affossamenti abitati
dagli uomini. Questi hanno sul capo spessi strati di aria densa
che velano i nostri occhi e impediscono di vedere il cielo puro,
gli astri e tutto ciò che è più bello. Le considerazioni astronomiche
di Platone, come la stessa teoria delle idee, sono intrise di
significati mitici: gli astri che si sottraggono alla nostra vista
sensibile sono oggetti adeguati o quasi adeguati della nostra
conoscenza intellettuale#.
Del resto nella Repubblica il sole è il simbolo del bene
e l'astronomia deve introdurre alla conoscenza intellettuale vera
e propria. Inoltre alla fine della Repubblica, nel mito
di Er, c'è sì un'immagine mitica dell'universo costruita con cilindri,
ma ogni idea rigorosa di sfericità è assente. In quell'immagine
l'universo è come fasciato da legami di luce, in mezzo ai quali
ruota il fuso della Necessità. Questo ha un volano costituito
da cilindri infilati l'uno nell'altro, con i bordi rovesciati
all'infuori. I cilindri ruotano tutti trascinati da quello più
esterno e più grande; ma tutti quelli interni hanno un moto contrario
a quello del cilindro esterno#.
Platone non attribuisce esplicitamente i cilindri agli astri,
ma sembra che il cilindro esterno sia il cielo delle stelle fisse,
mentre gli altri, che sono via via più piccoli e hanno movimenti
contrari rispetto al primo, segnano le orbite dei pianeti, del
sole e della luna. La costruzione platonica sembra più vicina
al vortice dei naturalisti che all'immagine geometrica della sfera,
anche se sostituisce al materiale fluido del vortice cilindri
rigidi, nei quali riproduce le traiettorie degli astri suggerite
dalla costruzione del calendario e dall’uso, che faceva Archita,
del movimento combinato di corpi geometrici rigidi per ottenere
moti composti e figure composte.
Nel
Timeo Platone sostituisce i cilindri rigidi della Repubblica
con 'materiale psicologico'. Immagina l'anima come un nastro costituito
da due componenti, l'identico e il diverso. Uno non sarebbe divisibile,
l'altro sarebbe indefinitamente divisibile: mescolandosi, essi
danno luogo a una divisione ordinata, sicché sul nastro sono individuabili
delle parti, che stanno tra loro come i numeri 1, 2, 3, 4, 9,
8, 27. Questi numeri costituiscono due progressioni geometriche
(1, 2, 4, 8 e 1, 3, 9, 27) con ragione rispettivamente 2 e 3 e
possono generare altre serie di numeri costituiti da medie aritmetiche
o medie armoniche e altre ancora#.
Tagliando il nastro in due per lungo si ottengono due strisce
perfettamente corrispondenti. Si dispongono le due strisce a X
e si congiungono i due bracci della X, in modo da comporre
due circonferenze che si tagliano secondo un angolo, che rappresenta
l'inclinazione dell'eclittica sull'equatore#.
I due cerchi passano in realtà l'uno dentro l'altro e ruotano
anche l'uno in senso contrario all'altro. Quello esterno ruota
verso destra, e Platone lo chiama il cerchio dell'identico. L'altro,
che ha la natura del diverso, ruota verso sinistra, ma è dominato
dal moto esterno dell'identico. La striscia interna è divisa in
sette cerchi che stanno fra loro come la serie originaria dei
numeri 1, 2, 3, 4, 9, 8, 27. Dei sette cerchi tre hanno la medesima
velocità, diversa da quella degli altri quattro, che hanno anche
velocità diverse tra loro#.
Nel Timeo Platone assegna le orbite ai corpi celesti, indicatori
del tempo che è «una immagine mobile dell'eternità»#.
Il ciclo è una specie di macchina del tempo costruita in un materiale
psichico, simboleggiato dal nastro. L'ordine dei cieli passa,
ma in gradi decrescenti, alle cose e fa sì che le trasformazioni
tra gli elementi delle cose avvenga sempre entro forme costanti,
che sono le forme degli esseri animati, dei quali il demiurgo
ha popolato il mondo, copiando il modello eterno nel quale erano
contenute. C'è un motivo fondamentale che va dal Sofista
al Timeo e che consiste nel tentativo di sottoporre
a ordine il movimento. Nel Sofista le idee di movimento
e quiete, identico e diverso costituiscono una molteplicità ordinata,
e la possibilità di un ordine del movimento si annuncia come possibilità
di disciplinare l'estrema varietà del diverso sottoponendolo alla
disciplina dell'identico. Nel Filebo le idee compaiono
come sistemi disparati di molteplicità ordinate, che imprimono
ordine a vari tipi di diversità, come i suoni, le articolazioni
linguistiche, le stagioni, le forme degli animali. Nel Timeo
l'anima realizza gradi diversi di ordine nell'universo attraverso
tipi diversi di movimento, che presentano gradi differenti di
inquadramento del diverso nell'identico. Nel Timeo i diversi
tipi di molteplicità distinti fin dal Sofista diventano
anche uno schema per disporre le conoscenze disponibili secondo
un ordine di valore. Solo il modello dell'universo, nel quale
è contenuta tutta la varietà del mondo, ma in modo ordinato, è
oggetto di conoscenza intellettuale certa, mentre i discorsi sul
mondo, sua immagine, sono semplicemente verisimili#.
Anche del ricettacolo, nel quale si svolge il movimento disordinato
che precede la costituzione degli elementi, si può parlare in
modo puramente verisimile#,
ma poiché non ha nessuna forma, non può essere raggiunto con i
sensi e solo un ragionamento «bastardo» lo può rivelare#.
Ma
soprattutto Platone intende sostenere il primato dell'anima sulla
natura e sulle cose, riprendendo uno dei temi principali della
sua filosofia. Molto di quello che accade nella natura è necessario,
cioè può essere spiegato indipendentemente dai fini; ma solo perché
le cose avvengono nel ricettacolo che condiziona il loro divenire
con il suo movimento originariamente disordinato. Tuttavia la
necessità spiega soltanto un aspetto delle cose, il modo
in cui avvengono, non la causa vera per la quale avvengono,
perché nell'universo la necessità è subordinata all'azione ordinatrice
dell'anima, che esercita su di essa un'azione paragonabile alla
persuasione con la quale si possono orientare i desideri degli
uomini. E per Platone l'intelligenza viene prima della sensibilità
e dei desideri così come gli atti dell'anima vengono prima delle
cose.
LE
LEGGI
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La storia e la città delle "Leggi"
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Nell'ultimo
periodo di attività Platone si occupa soprattutto della natura
e della storia. Il primo interesse è per lui una novità,
mentre il secondo s'inserisce nella sua filosofia politica e forse
era legato al progetto di un'opera sull'educazione politica degli
ateniesi promessa nel Timeo. Platone incomincia dalla 'preistoria',
che ricostruisce in modo immaginoso nel Crizia, frammento
di un dialogo mai compiuto, e nel Timeo. Solone avrebbe
appreso dai sacerdoti egizi che l'antica Atene aveva buoni ordinamenti,
simili a quelli egiziani, con una casta sacerdotale separata dal
resto della popolazione. Per questo aveva potuto resistere ad
Atlantide, una grande isola che giaceva oltre le Colonne d'Ercole,
ricca e potente, ma minata dall'opulenza e dall'avidità. Poi,
novemila anni prima di Solone, Atlantide era stata distrutta da
una calamità naturale#,
perché, quando le comunità umane sono diventate troppo opulente,
grandi catastrofi naturali le cancellano e costringono gli uomini
a ricominciare da capo. Sono questi rivolgimenti che collegano
la storia alla natura e introducono una concezione ciclica
della storia: essi distruggono periodicamente le comunità,
quando sono diventate troppo ricche e si sono allontanate dalle
condizioni naturali originarie#.
Tutta
la storia greca si può interpretare in questo modo. La fondazione
delle grandi città di pianura, come Troia, è avvenuta dopo che
gli uomini sopravvissuti sui monti hanno dato inizio a un nuovo
ciclo. Ma la crescita smodata di potenza, soprattutto militare,
e di ricchezza, ostacolarono la formazione di una comunità dorica
tra Sparta, Argo e Messene, costrinsero Sparta all'alleanza con
Atene per contrastare i persiani e impedirono lo sviluppo di una
costituzione moderata, come era quella spartana originaria#.
Per questo la guerra tra la Persia e Atene fu lo scontro tra due
degenerazioni estreme, rispettivamente della monarchici
e della democrazia, e per questo il periodo presente è
segnato dalla lotta tra costituzioni degenerate.
Nel
Politico Platone aveva ripreso il mito di Crono#,
che narra il passaggio dall'età dell'oro e dell'abbondanza, in
cui gli uomini vivevano sotto la guida diretta degli dèi, alla
nostra, in cui la divinità ha abbandonato la guida del cosmo.
In un periodo come il nostro, segnato dal distacco dagli dèi,
i governanti non possono riprodurre i prodigi dell'età di Crono
perché, essendo uomini, non padroneggiano le cose: è inutile perciò
cercare politici i quali promettano ai cittadini un benessere
che non possono procurare, come farebbe un pastore con il suo
gregge. Platone riprende il tema fondamentale della sua politica,
nella quale l'ordine è più importante del benessere e della
felicità. La politica migliore è perciò quella che esercita l'autorità
fondata sulla conoscenza della gerarchia dei beni senza
tener conto degli interessi particolari dei cittadini. Il riguardo
indebito per questi interessi da luogo alle differenze fra le
forme costituzionali#,
che sono soltanto «imitazioni» di una città retta dalla «scienza
politica»#
e intervengono quando una città del genere non è possibile: e
solo in questo caso il rispetto della legge è importante#.
Le
Leggi presuppongono l'interpretazione della storia greca,
costruita da Platone utilizzando la concezione ciclica della storia
in generale: su questo sfondo costruiscono il progetto di una
città che realizzi una giusta contemperanza dei princìpi costituzionali
rappresentati dalla Persia e da Atene, riprendendo lo spirito
della misura che animava originariamente le costituzioni di
Creta e di Sparta#.
Tuttavia queste avevano puntato troppo sulla preparazione alia.
guerra e, se giustamente avevano favorito le virtù militari,
non avevano tenuto conto che quella più importante è la guerra
interna all'anima, per il primato dell'intelligenza sui piaceri#.
L'uomo è una macchina mossa da piaceri e dolori che l'educazione
deve saper manovrare utilizzando tutto, istituzioni militari,
musica, danza, banchetti e vino#.
Solo così si può imporre una precisa gerarchia di beni#,
che sono, in ordine di pregio, quelli dell'anima, quelli del corpo
e infine le ricchezze#;
ma tutto deve culminare nella divinità#,
che è misura, come mostra l'ordine astronomico dell'universo,
ampiamente illustrato nel Timeo. Nel mondo umano la giusta
misura è il termine intermedio tra eccesso e difetto#.
Spetta alle leggi realizzare un ordine di questo genere.
Nel Politico Platone aveva detto che solo un regime inferiore
a quello perfetto è tenuto a rispettare le leggi: e infatti l'ultima
opera#
di Platone delinea una seconda scelta politica rispetto
alla Repubblica e al Politico. Ma essa stabilisce
anche che le leggi non vanno interpretate come 1'«ordine di un
tiranno», cioè come comandi bruti imposti solo con il timore delle
sanzioni; al contrario devono anche insegnare e persuadere,
perché il vizio è ignoranza#,
come continua a sostenere Platone. E lo possono fare con un «proemio»,
che preceda le vere e proprie disposizioni e ne faccia strumenti
di educazione#.
Per
essere una comunità educativa#
la città deve essere chiusa, con scarsi e sorvegliati contatti
con l'esterno, con pochi rapporti commerciali, soprattutto per
mare#,
con una moneta convenzionale a solo corso interno#.
Se non è possibile abolire del tutto la proprietà privata#,
la terra va divisa in lotti da assegnare a 5040 famiglie, che
non potranno mutare il proprio lotto, ma dovranno lasciarlo a
un unico figlio#.
Ci saranno differenze tra i cittadini, ma bisogna evitare che
ci siano dislivelli di ricchezza troppo ampi, istituendo quattro
classi censuarie e stabilendo che il patrimonio previsto per la
classe più elevata sia al massimo quattro volte quello previsto
per la classe minima#.
La città delle Leggi non è militarizzata come quella della
Repubblica, ma in essa la vita privata è pur sempre sottoposta
a un rigido controllo pubblico. Tutto il territorio è continuamente
pattugliato e i magistrati devono controllare che anche nelle
campagne gli abitanti trascorrano la notte nel proprio letto#.
In città e in campagna uomini e donne sono tenuti a consumare
pasti in comune#.
Non è ammesso il celibato, il matrimonio va contratto nell'interesse
esclusivo della città#
e devono essere vietati l'amore omosessuale e gli accoppiamenti
sterili, anche nel matrimonio, perché tutto deve essere orientato
alla procreazione#.
Le donne sposate sono periodicamente convocate in un tempio per
essere interrogate da altre donne sugli aspetti più intimi della
vita familiare: così si potranno esporre a infamia coloro che
non orientano la loro vita privata alla generazione di figli a
favore della città#.
Esercizi militari, anche molto realistici, dovranno impegnare
continuamente i cittadini#,
che si dedicheranno all'agricoltura#,
ma non potranno praticare le altre arti ne farle praticare ai
propri schiavi; in questo campo dovranno affidarsi agli stranieri,
ma neppure loro dovranno esercitare più di un'arte ciascuno e
ne potranno limitarsi a dirigere il lavoro di altri artigiani,
senza lavorare essi stessi#.
LA
RELIGIONE ASTRALE
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Anche
le Leggi come la Repubblica ritengono che debba
essere assicurata soprattutto la conservazione dei buoni
ordinamenti. Nelle Leggi a questo deve provvedere un Consiglio
supremo, detto «notturno» perché si riunisce all'alba, quando
i suoi mèmbri sono più liberi dalle occupazioni, ed è costituito
dai dieci magistrati più anziani incaricati di vigilare sulle
leggi e da altri mèmbri insigni per virtù#.
Il Consiglio tra l'altro deve impedire la formazione di una sfera
privata, che anche nella Repubblica era stata considerata
un pericolo mortale per la città. Là era stata combattuta con
una rigida disciplina della famiglia e della proprietà, oltre
che con una sospettosa attività inquisitiva, che continua nelle
Leggi. Queste però vedono una delle principali fonti di
pericolo nella miscredenza. Da sempre i miti dei poeti
hanno indotto alla miscredenza, ma è recente la dissacrazione
del cielo, che riduce gli astri a pietre e che fa dell'universo
intero l'opera della natura e del caso#,
e non dell'arte e di un'anima che precede il corpo#.
Tutto ciò induce a negare l'esistenza degli dèi. Ma c'è chi semplicemente
ne nega l'esistenza, chi non crede che si curino degli uomini,
chi ritiene che su di loro si possa agire con offerte o preghiere#.
Inoltre è possibile unire l'ateismo con la probità oppure con
cattivi costumi. L'ateismo più pericoloso è quello di coloro che
non si limitano a negare gli dèi, ma criticano la religione e
la irridono, oppure praticano la magia e fondano religioni private#.
Atei di questo tipo vanno puniti, anche con la morte, per impedire
che facciano proseliti. Se tuttavia gli atei sono vittime della
propria ignoranza e non rivelano animosità, vanno convertiti:
per questo saranno collocati in un istituto vicino al Consiglio,
che si occuperà di loro#.
Per
convertire gli atei i mèmbri del Consiglio devono possedere istruzione
adeguata. Prima di tutto la capacità di vedere l'unità nella
molteplicità, soprattutto l'unità delle virtù attraverso la
molteplicità dei loro nomi#.
E questa l'eredità della dialettica platonica come, dopo
la Repubblica, si è trasformata adottando il metodo della
divisione. Un tema 'socratico', come lo è il secondo punto
delle credenze che i mèmbri del Consiglio devono condividere e
inculcare negli atei: il primato dell'anima sul corpo.
Ma questo tema ora si collega con il riconoscimento del carattere
divino degli astri#.
E l'ordine dell'universo, che si rivela nel corso degli astri
e delle stagioni#,
l'argomento più forte in favore dell'esistenza degli dèi, al di
là delle credenze religiose, che sono comuni a greci e barbari.
Già
nel Timeo Platone aveva detto che stabilendo con l'osservazione
e il calcolo i percorsi, le congiuzioni, i ritardi, le anticipazioni,
le eclissi e le riapparizioni degli astri, era anche possibile
liberarsi dalla paura che in generale i fenomeni astronomici producono#.
Ma nelle Leggi sembra riconoscere di aver imparato da poco,
quando era ormai vecchio, a spiegare queste cose#,
supponendo che ogni astro segua un solo cammino circolare, anche
se pare che ne segua molti. Qualcuno ha sostenuto che nella Repubblica#,
dove riteneva che un'astronomia esatta non potesse riferirsi a
corpi, e nel Timeo#,
dove parlava ancora dei pianeti come «vaganti», Platone non
potesse presupporre l'astronomia di Eudosso. Questi secondo Eudemo
sarebbe stato il primo a formulare ipotesi astronomiche di tipo
matematico e a costruire una vera astronomia sferica; probabilmente
in séguito si formò la leggenda, che risale almeno a Sosigene,
secondo la quale sarebbe stato Platone a porre il problema della
spiegazione dei movimenti irregolari dei pianeti con movimenti
regolari#.
Qualcuno ha addirittura supposto che Platone nelle Leggi polemizzasse
con Eudosso, sostenendo che gli astri seguono sempre lo stesso
cammino circolare. La Repubblica, anche per la sua data
presumibile, non presuppone la conoscenza di Eudosso; ma non è
detto che il modo in cui il Timeo parla dei pianeti sia
in contrasto con l'astronomia eudossiana, così come le osservazioni
delle Leggi non sono necessariamente rivolte contro Eudosso,
perché potrebbero non escludere orbite composte. Anzi forse proprio
l'astronomia eudossiana permetteva di vedere negli astri delle
divinità, che seguono dei cammini costanti e non dei corpi «vaganti»
a caso nel cielo»#.
Già nel Fedone Platone aveva presentato la sfericità della
terra come un'acquisizione recente e la stessa cosa fa nelle Leggi
con la nuova astronomia. Si direbbe che la vera e propria astronomia
sferica sia qualcosa che egli ha sempre apprezzato e quasi sfiorato,
ma che si è sempre sottratta al suo possesso, perché egli ha costantemente
cercato di tradurla in metafore religiose, dominate dalla circolarità
e dal tentativo di catturare l'immagine dell'universo in formule
numeriche.
Nelle
Leggi il significato religioso che ha sempre assegnato
all'astronomia è del tutto esplicito: quello che interessa a Platone
è la religione astrale che si può ricavare dall'astronomia,
alla quale anche la dialettica sembra subordinata. Per Platone
la costituzione di una casta di sacerdoti specializzati era un
antico pregio di Atene, andato smarrito e conservato in Egitto.
In un certo senso i governanti delle Leggi devono supplire
a questa mancanza e la filosofia platonica, nella sua versione
astrale, si presenta come la religione adatta per loro. Presa
tra due vicende, come la storia di Socrate e la costruzione dell'astronomia
di Eudosso, delle quali conosciamo assai poco, passata attraverso
un'altra vicenda come l'avventura siciliana, che in gran parte
ci sfugge, la filosofia platonica appare come un itinerario
dal socratismo alla fondazione di una religione astrale, nella
quale temi iniziatici sono collegati con la visione geometrica
dell'universo. Non è detto che solo Platone tra i socratici si
fosse mosso in questo modo, perché altri potrebbero aver preso
la strada di un ricupero di temi religiosi e di una specie di
'riconsacrazione' della natura. Ma forse Platone tenne conto più
di altri della visione geometrica dell'universo che stava emergendo,
si fece impressionare dagli strumenti matematici usati per costruirla
e cercò di innestarli sulla tradizione sofistica e socratica.
I
sofisti avevano codificato la 'cultura generale', quella che poteva
essere chiamata «filosofia», che comprendeva le nozioni e le memorie
degne di essere conservate, tra le quali anche le opinioni di
chi aveva scritto sugli dèi o sui fenomeni meteorologici o era
stato un 'personaggio' sul quale erano fiorite leggende culturali
o che era perfino finito in rappresentazioni teatrali. I loro
scolari studiavano quelle opinioni, le discutevano e imparavano
la tecnica di formularne essi stessi. Dopo l'età di Socrate quelli
che si richiamarono a lui pretesero di essere, essi soli, dei
'filosofi' in nome di un programma di vita in contrasto con quello
della comunità. Sappiamo troppo poco sul pitagorismo antico e
su movimenti analoghi, sui gruppi che poterono essersi formati
intorno a Parmenide o Empedocle, per stabilire analogie dei socratici
con loro. Ma i socratici erano anche gli eredi della cultura sofistica,
si erano formati sul suo patrimonio letterario, sulle sue raccolte
di opinioni, sui modi in cui quelle opinioni venivano trattate,
sulle tecniche per produrne di nuove. E fecero degli strumenti
codificati dai sofisti, la declamazione e l'argomentazione per
domande e risposte, dei mezzi di aggressione culturale a quelli
che consideravano i modi di pensare e di agire diffusi nelle città
del loro tempo. I contemporanei percepirono la novità costituita
dal fatto che la filosofia si presentava come una forma di opposizione
alla città e passava a designare un programma di vita e un insieme
di credenze paradossali e marginali. I filosofi furono considerati
personaggi strani, ai quali si attribuirono modi di vita particolari.
Si dice spesso che la filosofia antica (ma si ha in mente soprattutto
quella di Socrate, Platone e Aristotele) è un frutto della città
greca e dello spirito greco. I cittadini greci dovettero invece
sentire i filosofi come estranei, che giudicavano piuttosto male
le città delle quali secondo molti storici avrebbero dovuto essere
il frutto più prezioso. Il che non impedì che avessero successo,
che la gente andasse anche ad ascoltarli e che qualcuno mandasse
a scuola da loro i propri figli.
Platone
si formò in questa mentalità. Ma evitò gli atteggiamenti marginali.
Progettò un rigoroso controllo della poesia e della letteratura,
che dovevano diventare molto castigate, condannò ogni forma privata
e minore di religiosità, diffidando di ogni tentativo di agire
direttamente sulla divinità, distinse accuratamente la polemica
contro le ricchezze e il lusso dal pauperismo e fece dell'austerità
filosofica una tecnica raffinata per la ricerca di piaceri connessi
alle attività intellettuali superiori, dalla matematica alla musica#:
i suoi scolari vestivano bene, semmai in modo un po' antiquato
e lezioso. Partendo dall'ignoranza socratica Platone pretese di
fare della filosofia una forma di sapere, anzi la forma
più alta di sapere. Non che avesse contenuti precisi: aveva
introdotto le idee, ma senza specificarle troppo, e solo le critiche
alle quali erano state sottoposte lo avevano costretto a entrare
nei particolari. Allora riprendendo i modi del socratismo, aveva
cercato di contrapporre la dialettica ai metodi che i matematici
stavano elaborando, aveva puntato sul dialogo contro il manuale,
cioè contro la sistemazione che i matematici stavano dando alle
proprie scoperte. Ma fin dall'inizio Platone aveva dato un significato
religioso al socratismo: tenendo fede a questo motivo egli tentò
di dare un contenuto all'ignoranza socratica, mettendo capo alla
consacrazione dei cieli e alla religione astrale.
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