PARMENIDE

L'ESSERE E L'APPARENZA

L'OPERA

Secondo Diogene Laerzio (I, 16) Parmenide compose un solo scritto, che possiamo in larga misura leggere attraverso le ampie citazioni che ce ne hanno lasciato gli autori antichi. L'ultimo che ne fece estratti fu Simplicio, ancora nel VI secolo d.C., perché lo riteneva ormai un'opera rara (Commento alla Fisica 144, 25; 28A21 DK). Si tratta di un poemetto in esametri, che già gli antichi consideravano oscuro, proprio per il suo stile poetico (Plutarco, De audiendis poetis 2, 16C; Deaudiendo 13, 45A; Proclo, Commento al Timeo I, 345, 12; Commento al Parmenide I, 665, 17; Simplicio, Commento alla Fisica 36, 25; 28A15-19 DK).

Edizioni e traduzioni

Oltre a DK e DK it, si veda:

M. Untersteiner, Parmenide, Testimonianze e frammenti. La Nuova Italia, Firenze 1958, 1967.

L. Taràn, Parmenides, A Text with Translation, Commentary and Criticai Essays, University Press, Princeton 1965.

Studi critici

K. Reinhardt, Parmenides und die Geschichte der griechischen Philosophie, Cohen, Bonn 1916, rist. Klostermann, Frankfurt a.M. 1959.

G. Calogero, Studi sull'eleatismo. Roma 1932, La Nuova Italia, Firenze 1977.

J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics, University Press, Cambridge 1948, rist. anast. Hak-kert, Amsterdam 1966.

F.M. Cornford, Piato and Parmenides. Parmenides' «Way of Truth» and Plato's «Parmenides», Routiedge & Kegan, London 1939.

J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides, Van Gorcum, Assen 1964. A.P.D. Mourelatos, Thè Route of Parmenides, Yale University Press, New Haven 1970.

LA VITA

La notizia più antica sulla cronologia di Parmenide deriva da Platone, che lo descrive "molto vecchio, molto canuto e di nobile aspetto", in visita ad Atene, dove incontra un Socrate «molto giovane». In quell'occasione il vecchio Parmenide era accompagnato da Zenone, «allora intorno alla quarantina» (Platone, Parmenide 127a). Supponendo che Socrate avesse vent'anni, l'incontro andrebbe collocato intorno al 450 a.C., sicché la data di nascita di Parmenide dovrebbe cadere tra il 520 e il 510 e quella di Zenone intorno al 490. Queste date contrastano con quelle di Diogene Laerzio (IX, 23) che, collocando l'acme di Parmenide nell'Olimpiade 69 (504-500 a.C.), dovrebbe far cadere la sua nascita nel 540 a.C., anno della fondazione di Elea. Gli storici si sono variamente divisi nel conflitto tra l'arbitrarietà delle messe in scena di Platone e delle coincidenze sulle quali si basano le cronologie di Apollodoro.

Al di fuori della narrazione platonica non possediamo alcuna notizia precisa sulla vita di Parmenide. Sozione ne faceva uno scolaro del pitagorico Ameinia, mentre Teofrasto, seguendo Aristotele e Platone, ne faceva uno scolaro di Senofane (DL IX, 21).

Secondo Aristotele, Parmenide «riteneva che oltre l'essere, il non essere non fosse nulla, sicché necessariamente credeva che uno solo esistesse, l'essere, e nient'altro»#. Una teoria dell'essere di questo genere doveva essere attribuita a Parmenide già dai sofisti, che forse, come Gorgia, la consideravano una dottrina paradossale, buona per costruire discorsi inconsueti, adatti a esibire inventiva e acutezza; e Platone la utilizzava per discutere problemi nati all'interno dell'Accademia o tra i socratici. Anche Isocrate e Senofonte ritenevano che Parmenide avesse voluto rispondere alla domanda 'quanti sono gli enti?' dicendo che ce n'è uno solo. L'immagine di Parmenide teorico dell'unità dell'essere passò alla dossografìa attraverso Teofrasto#, e influenzò gran parte della storiografia e della tradizione filosofica, che gli ha attribuito la prima formulazione della teoria dell'essere. E poiché questa pareva il contenuto principale della filosofia o della metafìsica, Parmenide è stato spesso considerato come il vero iniziatore della filosofìa, in luogo di Talete, Anassimandro o Pitagora.

Ma nella dossografìa passò anche un'altra osservazione di Aristotele: «costretto a seguire le cose come appaiono, supponendo che secondo il ragionamento c'è l'uno, ma secondo la sensazione ci sono molte cose» Parmenide «pone due cause e corrispondentemente due princìpi, caldo e freddo, come dire fuoco e terra; e li dispone il caldo secondo l'essere e l'altro secondo il non-essere»#. Questo schema interpretativo sembra riferirsi a una cesura interna del poemetto in cui Parmenide espone la propria dottrina. Dopo una prima parte, che conterrebbe la teoria dell'essere, con le parole «ora pongo fine al discorso degno di fede e al pensiero sulla verità; di qui in poi impara le opinioni dei mortali ascoltando l'ingannevole ordine delle mie parole»#, Parmenide passerebbe all'esposizione delle «opinioni dei mortali», che sono sì false, ma adatte alle cose molteplici, e perciò verosimili. Si è cercato di correggere l'interpretazione di Aristotele, o considerando la seconda parte dello scritto di Parmenide come una fase giovanile del pensiero parmenideo, oppure supponendo che essa contenesse una polemica contro ipotetici pluralisti, probabilmente pitagorici. Si trattava pur sempre di congetture che davano per scontato il primato della teoria dell'essere. Una vera svolta si ebbe solo nel 1916 con Reinhardt, il quale suppose che la teoria dell'opinione o dell'apparenza contenuta nella seconda parte fosse una conseguenza necessaria della stessa teoria dell'essere. L'interpretazione di Reinhardt era formulata in un pesante linguaggio kantiano e accettava parti essenziali delle interpretazioni tradizionali, ma stimolò revisioni importanti della lettura del testo parmenideo.

Nei vv. 53-54 del fr. 8 di Parmenide «i mortali pensarono di dar nome a due forme; di una di esse non è necessario (e in questo si sono sbagliati)» le interpretazioni tradizionali hanno sempre attribuito all'espressione «di esse» un significato partitivo. Per questo Aristotele aveva pensato che Parmenide avesse riconosciuto nel mondo della sensazione due cause, il caldo e il freddo, e aveva fatto corrispondere il caldo all'essere e il freddo al non-essere. Ma il riconoscimento che il freddo, cioè il non-essere, esiste non è compatibile con la teoria parmenidea dell'essere. Perciò quell'espressione non ha un significato partitivo. Quel che Parmenide condanna è il «dar nome a due forme che non devono costituire un'unità». I due termini sono «il fuoco puro della fiamma» e «la notte senza luce». I mortali li hanno considerati «contrari nel corpo e di segno contrario, separati l'uno dall'altro», il fuoco «dolce, leggero, uniformemente identico a se stesso, ma non identico all'altro; ma anche questo sta a sé [...] con un corpo solido e pesante»#. Concepiti come due forme distinte e contrapposte, addirittura due corpi, il caldo e il freddo non possono costituire un'unità e avere una forma unica.

Parmenide vuol liberare gli uomini da questo modo di concepire luce e tenebre per esporre «tutte le cose [...] sotto l'aspetto di un ordine, in modo che nessun pensiero dei mortali potrà superarli»#. Questo quadro è dominato da una divinità che «sta in mezzo, che tutto governa»#. La cosa fece pensare a una struttura sferica dell'universo: al centro la divinità, intorno a essa sfere più strette, riempite di fuoco puro, e altre riempite di notte, nelle quali s'insinuano lingue di fuoco#. Per gli interpreti antichi Parmenide parlava di «corone», alcune rade e alcune dense e altre miste di luce e di tenebre#, corrispondenti alle zone della terra#. In realtà Parmenide parla della «notte» contrapposta al «puro fuoco»: il suo discorso potrebbe riferirsi al giorno e alla notte, e la divinità potrebbe stare proprio dove c'è il discrimine tra l'uno e l'altra. Potrebbe allora trattarsi non di 'sfere' più strette o più larghe, ma dell'ampia zona di tenebre dentro la quale la luce illumina zone ristrette. Il cielo costituiva per Parmenide un limite del mondo garantito dalla necessità, che assicura i confini degli astri, tra i quali il sole doveva avere una posizione speciale, mentre la luna, che non brilla di luce propria, aveva una posizione subordinata. Oltre al sole e alla luna, egli nominava il cielo, gli astri e la Via Lattea#.

A Parmenide si attribuiva la scoperta che la terra ha forma sferica e che la stella del mattino e quella della sera (cioè Venere) sono lo stesso astro. Questo sarebbe il corpo celeste più lontano, dopo il quale vengono il sole e poi le stelle fisse, situate nel cielo che circonda la terra; il sole e la luna si sarebbero distaccati dalla Via Lattea. Al centro dell'universo la terra ha solo sussulti (i terremoti), ma non moti né di traslazione né di rotazione, perché non ci sono cause che la facciano inclinare da una parte più che dall'altra#. Si è suggerito che anche Parmenide, come Anassimandro, avesse costruito una cosmologia di tipo geometrico. La cosa sembrava tanto più credibile se si ammetteva l'esistenza di una complessa astronomia geometrica nel pitagorismo. In realtà certi temi, come quello della Via Lattea, erano legati a credenze religiose sulle anime dei morti, e Parmenide, che viene di solito presentato come un filosofo speculativo agli antipodi del naturalismo ionico, usava temi biologici, presenti anche nella cosmogonia ionica; la dea che sta in mezzo all'universo regola soprattutto la generazione, e la regola attraverso la mescolanza#. Ma nella dossografia questi motivi furono sommersi, per Parmenide come per Anassimandro, dall'immagine dell'universo formatasi tra V e IV secolo nella contrapposizione tutta platonica e aristotelica tra una concezione geometrica e una naturalistica. Dall'idea generica della rotondità dei corpi celesti e della terra Parmenide poteva ricavare conseguenze sui confini variabili di luce e tenebre, intendendo queste ultime come le ombre che mutano con il mutare della posizione degli astri, più che un'immagine precisa della sfericità della terra, dei corpi celesti o dell'universo intero. Forse perfino la nascita del sole e della luna dalla Via Lattea non aveva il significato di una separazione materiale come intesero gli interpreti posteriori. Può darsi che Parmenide intendesse il mondo astronomico essenzialmente come paesaggio, allo stesso modo dei milesi; ma forse in questo paesaggio introduceva l'idea di uno spostamento unico e ordinato del sole e degli astri che danno la luce, facendo della luce e delle tenebre non due princìpi in lotta, come i mortali pensano, ma due aspetti congiunti della stessa realtà, due aspetti complementari che variano continuamente i propri confini.

 

IL VIAGGIO E IL POEMA

La cosmogonia di solito non è considerata importante nella filosofia di Parmenide, anche perché sembra incompatibile con la teoria dell'essere che comunemente gli viene attribuita. La svalutazione della cosmogonia si accompagna alla scarsa considerazione per la natura poetica e religiosa del suo scritto. I versi sono stati considerati un puro rivestimento esterno di un contenuto essenzialmente argomentativo o addirittura la causa dell'oscurità o difficoltà del contenuto. Solo chi aveva una concezione della filosofia come rivelazione ha pensato che la forma poetica dello scritto di Parmenide fosse la più adatta a contenere una teoria dell'essere. In tempi più recenti si è riconosciuto che il quadro mitologico nel quale è inserito costituisce un aspetto essenziale del pensiero di Parmenide. Così come è importante il linguaggio letterario, che è presente in Parmenide come nei poeti greci arcaici; e spesso quelle che sembrano 'argomentazioni' parmenidee sono semplicemente il riflesso di usi linguistici diffusi nella letteratura greca arcaica. Questo dovrebbe porre un freno al tentativo di 'estrarre' dallo scritto di Parmenide una filosofìa più o meno sistematica, isolando i contenuti filosofici dal quadro nel quale essi sono collocati. Parmenide dice di aver fatto un viaggio, portato dalle «cavalle [...] lungo la via [...] delle dee, la via che per ogni città guida l'uomo che sa». Le dee sono le «figlie del Sole», e il viaggio parte dalle «case della Notte» per andare «verso la luce». Le fanciulle, lasciata la casa della Notte, indicano la via verso la luce, e su questa strada Parmenide incontra una porta, attraverso la quale passano «i cammini del Giorno e della Notte» e della quale ha le chiavi Giustizia. Le fanciulle riescono a persuadere Giustizia ad aprire la porta per far passare il carro. Così Parmenide giunge al cospetto di una dea, che lo accoglie benevolmente e lo assicura che non un «cattivo Destino» lo ha condotto fin là, ma Temi e Dike. Ora Parmenide potrà apprendere tutto, la Verità sicura e le opinioni dei mortali, che non hanno verità credibile#.

Alcuni hanno ritenuto che il viaggio sia una semplice metafora della ricerca della verità. Altri hanno invece pensato che Parmenide lo presenti come reale. Se il viaggio deve essere inteso realisticamente, allora esso potrebbe esser stato ispirato da esperienze religiose iniziatiche, di tipo dionisiaco o orfico, oppure potrebbe essere la descrizione di un'esperienza estatica, di separazione dell'anima dal corpo, di tipo sciamanico. Ma l'apparato poetico non è certamente nuovo e ricorda Omero, ma soprattutto Esiodo, che mettono la propria poesia sotto il segno delle Muse. Tuttavia nel caso di Parmenide si tratta di un viaggio verso la luce. La strada che porta alle città potrebbe essere il percorso del sole che illumina tutta la terra. Parmenide avrebbe fatto il cammino a ritroso, verso il sole, verso oriente, e avrebbe trovato il luogo in cui il giorno sorge e si separa dalla notte. Sulla localizzazione del viaggio parmenideo si è molto discusso; ma può darsi che esso non si sia diretto verso un luogo preciso, perché il punto in cui si passa dal giorno alla notte varia continuamente.

Piuttosto il viaggio è il presupposto della metafora della strada e del bivio, che è presente in tutto il poema. Dice la dea che si possono pensare solo due strade lungo le quali cercare: «quella che è, e non si dà che non sia, è il cammino della Persuasione (che accompagna la Verità); quella che non è e occorre che non sia, questa ti dichiaro esser un cammino del tutto inscrutabile: infatti né potresti conoscere il non-essere (ché non è fattibile), né potresti esprimerlo». Dopo averlo costretto a riconoscere che «occorre dire e pensare che essere è, perché si dà che sia, mentre nulla non è», la dea allontana Parmenide dalla «prima via» e poi anche da quella «sulla quale mortali che nulla sanno si perdono, con le doppie teste». L'errore fondamentale compiuto dai mortali ignoranti è di «ritenere che essere e non essere sono la stessa cosa e non lo sono», mentre «questo non si darà mai, che essere non sia»#.

La prima via sancisce un saldo collegamento tra pensiero e essere: «è la stessa cosa pensare e essere»#. Molti interpreti hanno visto qui una filosofia 'idealistica' che proclama l'identità di pensiero e essere, sia pure in una chiave ontologica primitiva. Ma forse Parmenide ha semplicemente sviluppato un tema che gli pareva implicito nelle espressioni che contengono verbi come 'pensare' o 'dire': «è la stessa cosa che si pensa e che è», cioè pensare una cosa è pensare che essa sia. Tanto più che altrove sembra dire «è la stessa cosa pensare e pensare che è, perché senza ciò che è non troveresti il pensiero in quel che è detto»#. Questi verbi si riferiscono sempre a qualcosa, generano sempre contesti del tipo 'pensare che...' o 'dire che...' ; e introducono sempre un'espressione del tipo '...è'.

Si è a lungo discusso se il messaggio della dea contenga la rivelazione di due o di tre vie#. Alla prima via, quella giusta ('l'essere è') è contrapposta quella che compare come seconda nella distinzione delle tre vie, cioè quella che sancisce che nulla è; ma questa è una via sbarrata, perché espressioni come 'non essere non è' non son cose che si dicono o si pensano. Se si dovesse pensare il non-essere, poiché pensare è sempre pensare che è, si dovrebbero mescolare essere e non-essere, cioè si dovrebbe pensare che il non-essere è. Gli uomini fanno una cosa del genere quando usano i nomi#. Con un nome indicano un oggetto di pensiero, al quale dunque attribuiscono essere; ma nello stesso tempo lo distinguono dagli altri con una negazione, perché devono dire che non è gli altri. E come se spezzassero l'essere, staccandolo da se stesso#. L'errore fondamentale consiste nell'introduzione della negazione. Però una pura negazione non può essere neppure pensata e non conduce a nulla. In realtà negare è pensare e dire qualche cosa, ma nello stesso tempo pensare e dire che essa non è; e questo può avvenire solo sotto la copertura di un nome. Questa è la via che si avvolge su se stessa#, lungo la quale s'incamminano i mortali, quella per la quale essere e non essere sono e non sono la stessa cosa, e essere non è. Le vie sono effettivamente solo due, quella che passa per il riconoscimento che essere è, e quella battuta dai mortali che mescolano essere e non essere. Se si ammettono tre vie, la seconda, costituita dal riconoscimento che il non-essere non è, non è sbagliata e anzi è complementare alla prima, proprio perché non collega essere e non-essere. Ma questa non è propriamente una strada perché non porta da nessuna parte: non fa commettere errori, come la seconda via, ma non permette neppure di ricavare qualcosa sull'unità dell'universo e sul cammino che in essa si può percorrere. In questo è diverso dalla prima via.

 

LE VIE E I DIVIETI

Se si segue coerentemente la prima via, si vede che l'oggetto del discorso deve essere una cosa che «essendo ingenerata, sarà anche indistruttibile, intera, omogenea, immobile, che non era e non sarà, perché è ora tutta insieme, una, continua». Non avrà nascita, perché non avrà d'onde nascere, visto che il non-essere non può esser pensato né enunciato. Dovrebbe infatti nascere dal nulla, se esso è e quando nasce non c'era; ma nulla lo spingerebbe a nascere. L'oggetto del discorso non può divenire, cioè non può nascere dal nulla e non può mutarsi in futuro in qualcos'altro#. Per la sua omogeneità l'oggetto del discorso vero non può dividersi in parti, perché non ha un luogo in cui ci sia più essere che in un altro. E un tutto continuo, perché ciò che è è contiguo all'essere. Poiché non può nascere, è immutabile, stretto nei vincoli della necessità. E non manca di nulla, perché se mancasse di qualcosa mancherebbe di non-essere, che non è. Nascere, morire, essere, non essere, cambiare di luogo, cambiare di colore son tutte invenzioni dovute ai nomi dei quali fanno uso gli uomini. Invece l'oggetto del discorso sicuramente veritiero è perfetto, ben rinchiuso entro i propri limiti, una sfera ben rotonda; è del tutto omogeneo in ogni sua parte, sicché non è spinto ad andare qua o là, ne c'è una parte che non possa congiungersi con un'altra#.

Utilizzando questi versi si è detto che Parmenide ha costruito una teoria dell'essere oppure che ha illustrato le connessioni necessarie tra le proprietà dell'essere. Nel primo caso Parmenide diventa il fondatore di una teoria dell'essere, nel secondo caso lo scopritore delle leggi logiche, soprattutto del principio di non contraddizione, sia pure in una versione ontologica. In realtà le celebri formule parmenidee sull'essere non sono molto chiare: soprattutto non è chiaro quale sia il soggetto delle proposizioni che esse contengono#, anche se l'interpretazione corrente tende a identificarlo proprio con l'essere. Ma non è detto che Parmenide si riferisca a un soggetto inteso come un termine preciso. Egli presenta la propria filosofia come una rivelazione ottenuta al termine di un'iniziazione. Forse è imprudente ricondurla a forme estatiche, di tipo sciamanico. Più attendibili sono i suoi rapporti con la cultura letteraria greca e probabilmente con la religiosità di tipo orfico e pitagorico. La tradizione che connetteva Parmenide con il pitagorismo# non è particolarmente attendibile, ma può acquistare un senso se anche la filosofia di Parmenide è inquadrata nella religiosità della purezza: è anch'essa l'accettazione di un divieto, la scelta, di fronte a un bivio, di una strada che isoli dai comuni mortali e renda immuni dall'errore. Anche la filosofia di Parmenide appare cioè come l'imposizione di un tabù; senonché quello parmenideo è un tabù linguistico, e ha carattere generale, perché serve a evitare non forme particolari di impurità, ma l'errore in assoluto. Esso prescrive 1'astensione dalle negazioni e solo questa pratica dà la sicurezza di evitare gli errori.

Dall'esclusione totale della negazione è stata derivata la teoria dell'essere attribuita a Parmenide, una teoria paradossale, che ha contato assai nella cultura greca successiva, e che è sempre stato difficile collegare con una qualsiasi descrizione del mondo. Però il poema parmenideo non espone una teoria filosofica, ma racconta un viaggio verso il luogo in cui nascono il giorno e la notte, un viaggio nel corso del quale Parmenide ha ricevuto la 'rivelazione' che giorno e notte non sono mai del tutto separati, e che in ogni punto del cammino del sole l'uno è connesso all'altra. Sono gli uomini che hanno dovuto 'irrigidire' quelle differenze e farne delle contrapposizioni. Non siamo informati dei particolari della cosmogonia parmenidea. Ma non è escluso che egli presentasse l'universo come una distribuzione di fuoco e di tenebre, una distribuzione che solo i discorsi degli uomini trasformavano in miscela di termini assoluti contrapposti. In questo senso egli pensava di dare anche un'esposizione attendibile del mondo dell'opinione: riteneva di sapere come, 'con quale meccanismo', l'opinione ha generato un mondo di apparenze facendo agire un apparato linguistico errato.

In realtà quel che la filosofia di Parmenide rifiuta è una rappresentazione del mondo costruita con entità contrapposte, ciascuna delle quali nasce e muore. Il mondo doveva apparirgli come un'entità omogenea e unitaria, e forse di questo doveva apparirgli immagine la rotondità, una forma che non conosce salti o bruschi mutamenti, come il continuo spostarsi del confine tra la luce e le tenebre: un elemento nuovo che Parmenide introduceva nella base biologica e meteorologica propria delle cosmogonie religiose greche e mediorientali. Ed è quell'universo rotondo che gli uomini tradiscono con i loro nomi, i quali isolano e separano le singole cose, intrecciando essere e non-essere, affermazioni e negazioni. Essi chiamano luce e notte gli opposti princìpi; ma luce e tenebre sono presenti in ogni cosa e non sono contrapponibili, come se la luce fosse l'essere e le tenebre il non-essere#. Proprio perché hanno inteso i due termini come due cose distinte, contrassegnate ciascuna da un nome, gli uomini hanno dovuto disporle come essere e non-essere, come negazione l'una dell'altra. Si è spesso assegnata una teoria dei contrari alla cultura milesia, che certamente faceva uso di termini contrari, senza elaborarne forse una teoria vera e propria. La stessa tavola sistematica dei contrari, attribuita da Aristotele ai pitagorici, potrebbe essere relativamente tarda. Invece non è escluso che con Parmenide emerga, come elemento dottrinale, l'importanza della relazione di contrarietà: i testi parmenidei 'giocano sui contrari' e li connettono sia alla negazione sia al riferimento delle singole parole. Se l'uso dei contrari consentiva ai milesi di descrivere la generazione del mondo, Parmenide mostrava come quando i contrari sono intesi come termini isolati l'uno dall'altro e contrapposti non è più possibile parlare di un universo essenzialmente unitario e omogeneo. Forse la filosofia di Parmenide era una filosofia del silenzio, che privava di riferimento e di attendibilità i discorsi dei mortali, che prescriveva di astenersi da essi, ma che pretendeva di mostrare qual è l'errore dal quale essi nascono.